BOLLETTINO COMPLETO 1993/a - Società Tarquiniese Arte e Storia

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BOLLETTINO COMPLETO 1993/a - Società Tarquiniese Arte e Storia
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Un capitolo della paletnologia italiana: 120 anni di ricerche sulla prima età del
ferro in Etruria
Nell’ambito della complessa vicenda degli studi di preistoria in Italia, il capitolo
riguardante la prima età del Ferro dell’Etruria tirrenica assume una particolare
importanza, non tanto e non solo per la ricchezza della documentazione che lo caratterizza,
quanto piuttosto per lo stretto legame con tematiche di ampio respiro, come il problema
delle origini dell’ethnos etrusco, o quello più attuale dell’origine del fenomeno urbano in
Italia: da ciò nasce probabilmente l’interesse mostrato per questa materia, peraltro a fasi
alterne, da parte di ricercatori appartenenti a diversi indirizzi di studio, e le frequenti
contrapposizioni polemiche che ne hanno punteggiato la storia. E’ inoltre noto che tale
vicenda si identifica sostanzialmente, per gran parte del suo svolgimento, con la storia
delle ricerche nei vastissimi sepolcreti italici, e pertanto con indagini a carattere
strettamente funerario, mentre solo in epoca molto recente si è avuto un parziale
spostamento dell’interesse verso problematiche insediamentali; ciò costituisce il limite, ma
in un certo senso anche il motivo d’interesse, della documentazione disponibile, in quanto
essa offre notevoli opportunità per l’analisi delle forme ideologiche delle comunità
protosto-riche italiane. D’altra parte, una trattazione a sè stante di questa materia è
ampiamente giustificata dall’esistenza di un complesso di manifestazioni culturali
estremamente compatto, e diffuso in un territorio vastissimo, compreso grosso modo fra
l’Arno a nord, il Tevere a sud e il Tirreno ad Ovest; complesso che si tende a definire
riduttivamente, identificandolo con la sola facies villanoviana, ma che certamente presenta
un’ampia gamma di situazioni archeologiche e storiche, comprese, tanto per fare un
esempio, fra le austere cremazioni del IX secolo iniziale, e le sontuose deposizioni “protoorientalizzanti” degli ultimi decenni dell’VIII secolo (v. considerazioni in PALLOTTINO
1982, p.70).
Il discorso che seguirà è un tentativo di individuare, nelle linee generali, le
tematiche principali attorno a cui si è addensata la storia delle ricerche, ponendo l’accento
su ciò che, di questa vasta produzione scientifica, può conservare nel tempo una certa
validità; particolare rilievo verrà dato al momento delle indagini sul terreno e delle
scoperte, che costituisce il vero tessuto connettivo di questa storia. In ogni caso, data la
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considerevole mole della bibliografia esistente, non si pretende certo di aver esaurito
l’argomento 1) .
1. I pionieri
Com’è ampiamente noto, le origini degli studi sull’aspetto culturale villanoviano
sono da collocarsi in Italia settentrionale intorno alla metà del XIX secolo: è del 1853 la
scoperta, da parte di Giovanni Gozzadini, del sepolcreto eponimo di Villanova, presso
Bologna, seguita dalla prima definizione della “Civiltà di Villanova” (cfr. ZUFFA 1976, pp.
205 ss.). L’ambiente culturale positivista cui il Gozzadini appartiene, quello emiliano di
Scarabelli, Chierici, Pigorini e Strobel, mostra già in questi anni uno spiccato interesse per
le problematiche preistoriche e protostoriche, e dà inizio ad una tradizione di scavi e di
studi all’avanguardia in Italia, confluita nel famoso Congresso Internazionale di
Antropologia e Archeologia preistorica, tenuto a Bologna nel 1871. Alla figura pionieristica
del Gozzadini si affianca, a partire dal 1869, quella di A. Zannoni, che intraprende gli scavi
nelle necropoli e nell’abitato protostorico di Bologna, offrendo alla scienza di allora una
inusitata massa di dati sull’età del Ferro emiliana (MORIGI GOVI 1988, pp. 5 ss.).
A un clima culturale più ortodosso, fortemente antievoluzionista, dominante negli
anni intorno al 1860, si deve al contrario una certa arretratezza degli studi preistorici in
Italia centrale; nonostante l’interesse per le reliquie preistoriche mostrato, già nella prima
metà del secolo, da alcuni eruditi laziali, come A. Visconti e L. Ceselli (GUIDI 1988, pp. 25
ss.), bisognerà attendere i risultati della riorganizzazione accademica operata dal nascente
Stato italiano per avere le prime ricerche di una certa rilevanza sulla prima età del Ferro.
In Etruria, il primo rinvenimento dell’antica età del Ferro ad attirare l’attenzione
degli studiosi è quello della cosiddetta “Tomba del Guerriero”, scavata a Corneto-Tarquinia
nel 1869 dai fratelli Marzi sul colle dei Monterozzi, e pubblicata in seguito dall’archeologo
tedesco W. Helbig. Colpito dalla singolarità del corredo, che ancora oggi ci appare di
sbalorditiva ricchezza, Helbig (1869) osserva l’assenza di vasellame prettamente greco, e
rileva il carattere sostanzialmente arcaico dei manufatti, ipotizzando l’appartenenza della
tomba ad un orizzonte archeologico fortemente impregnato di influssi orientali, ma
anteriore al periodo ellenizzante della civiltà etrusca; i confronti che egli individua sono
comunque tutti della successiva età orientalizzante, e in particolare dalla tomba RegoliniGalassi di Caere , dalla tomba di Iside di Vulci, e dai reperti delle tombe di Praeneste.
1)
Una bibliografia aggiornata della prima età del Ferro etrusca in: BARTOLONI 1989 e PACCIARELLI c.s. Una
raccolta completa della letteratura di argomento funerario fino ai primi decenni del secolo in: VON DUHN 1924. Per la
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Peraltro, lo studioso tedesco non sembra ravvisare nella sepoltura - in parte a ragione alcun legame con la “civiltà di Villanova” del Gozzadini, anticipando l’interpretazione più
diffusa ancora oggi di essa, come una sorta di prototipo delle tombe principesche del VII
secolo.
La prima individuazione di un vasto sepolcreto villanoviano nell’Etruria marittima
avviene comunque solo nel 1881 a Tarquinia, in località Arcatelle 2) , nel corso degli scavi
condotti dal Comune di Corneto; la supervisione scientifica è affidata inizialmente al
giovane archeologo Giovanni Ghirardini (1854-1920), che nel secondo rapporto di scavo
pubblicato nel 1882 opera una pregevole sintesi dei dati allora disponibili sull’età del Ferro
etrusca. Egli suggerisce la possibilità dell’esistenza di una serie di stadi cronologici
successivi, nell’ambito della pur omogenea documentazione offerta dalla necropoli
tarquiniese: (I) uno stadio più antico, non documentato a Tarquinia, ma nelle necropoli dei
monti della Tolfa che il Klitsche de la Grange viene allora scoprendo, e che verrà molto più
tardi definito “protovillanoviano”; (II) uno stadio corrispondente a quello più arcaico
documentato a Bologna, e ora anche a Tarquinia, caratterizzato da semplici sepolture a
incinerazione contenenti vasi d’impasto fatti a mano, con rozzi ornati geometrici, e pochi
oggetti in metallo rilevanti una perizia tecnica ancora modesta; (III) infine uno stadio
particolarmente avanzato, di cui è significativa testimonianza la “Tomba del Guerriero” ed
altre sepolture della necropoli dei Monterozzi, caratterizzato dalla diffusione del rito
inumatorio e da elementi di una “civiltà nuova”, di origine orientale. Ghirardini è
comunque cauto sulla possibilità di definire una rigida sequenza temporale - compito
peraltro estremamente arduo per l’archeologia del tempo - e mette l’accento su spiegazioni
alternative a quelle di tipo meramente cronologico: la presenza, nell’ambito di uno stesso
nucleo sepolcrale delle Arcatelle, di sepolture differenziate per rituale, struttura tombale,
tipologia e materiale degli oggetti di corredo, viene ad esempio spiegata in base a
considerazioni sociologiche, come l’appartenenza a diversi strati sociali, o a diversi gruppi
all’interno della comunità. Molto interessanti, a tal proposito, sono alcune considerazioni
circa le strutture tombali a custodia cilindrica e quadrangolare, di cui il Ghirardini
sottolinea il legame con corredi più ricchi della norma, anticipando una problematica oggi
particolarmente sentita.
Nonostante la presenza di un valido studioso come Ghirardini, gli scavi alle
Arcatelle, sostanzialmente nelle mani del sindaco di Corneto L. Dasti, procedono fin
discussione di alcune problematiche molto specialistiche, fra cui ad esempio quella riguardante gli studi di cronologia,
si rimanda al lavoro, peraltro da aggiornare, dello Zuffa (1976).
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dall’inizio in maniera alquanto disordinata e convulsa; solo fino al 1882 vengono scavate
non meno di 300 tombe, prevalentemente ad incinerazione, che risultano comunque in
gran parte già violate (GHIRARDINI 1882, p. 136). Negli anni successivi, rallentatisi i ritmi
di scavo, vengono alla luce decine di tombe a fossa, ed un numero limitato di pozzo con
“ziro”. Complessivamente le tombe scavate alle Arcatelle superano dunque certamente le
350: il modo febbrile con cui vengono condotti gli scavi in un arco di quindici anni, e la
grande estensione dell’aerea esplorata, suggeriscono infatti di non considerare del tutto
attendibili le stime divulgate nei rapporti di scavo. La documentazione risultante da questi
recuperi ottocenteschi è estremamente frammentaria, ma comunque non priva di
interesse; nonostante la continua alternanza di approssimazione e rigore che caratterizza i
rapporti (dovuta in buona parte) alla non continuativa presenza degli archeologi sul luogo
dello scavo), un lavoro di collazione e confronto degli scritti di G. Ghirardini, A. Pasqui e
W. Helbig (bibliografia in HENCKEN 1968) consente di raccogliere numerose
informazioni sul rito funerario di Tarquinia villanoviana, altrimenti irrecuperabili.
Alla esegesi degli scavi del Ghirardini, e ad un’ampia e ben documentata sintesi sul
problema cronologico dell’aspetto Villanova è dedicato un lavoro di I. Undset (1885),
rappresentante, assieme al più celebre O. Montelius, della scuola scandinava di preistoria.
L’autore tenta una prima organizzazione in termini di cronologia assoluta dei dati della
protostoria italiana, collocandolo nell’VIII secolo a.C. le più antiche tombe a pozzo
tarquiniesi, e nel VII secolo le tombe a pozzo più recenti e quelli che venivano allora
definiti “depositi egizi”, ovverosia le tombe a fossa della prima età del Ferro avanzata e
dell’orientalizzante.
Fra la fine degli anni ’70 e il corso degli anni ‘80 del secolo scorso la paletnologia
italiana è quasi assorbita dalle polemiche, inizialmente moderate poi via via al più violente,
sulle origini dei popoli italici 3) . Si creano così due schieramenti contrapposti; il più nutrito,
capeggiato dall’Helbig con il fondamentale appoggio di L. Pigorini, propugna la tesi della
provenienza transalpina degli Italici e degli Etruschi, collocando agli inizi dell’età del Ferro
il definitivo stabilirsi di questi ultimi nelle loro sedi storiche, e identificando le
manifestazioni culturali “villanoviane” come sostanzialmente etrusche; l’altro, facente per
lo più capo a E. Brizio, pur ammettendo la provenienza dal nord degli Italici Umbri
2)
Per una sintesi sulla storia degli scavi alle Arcatelle, con una riconsiderazione dei dati d’archivio, v. D’ATRI 1977 e
DELPINO 1991.
3)
Una esauriente sintesi sulla complessa vicenda della diatriba fra auctonisti e assertori della provenienza settentrionale
da una parte, e assertori della provenienza orientale dall’altra, con particolare riferimento al problema “villanoviano”, è
in ZUFFA 1976, pp. 224-241; più in generale, con riferimento anche agli studi linguistici, v. PALLOTTINO 1984, pp.
85-110.
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incineratori, identificati con i portatori della “civiltà di Villanova”, rivaluta la tesi erodotea
della provenienza dall’oriente degli Etruschi, fondandosi inoltre sulle evidenze di influssi
orientalizzanti presenti nelle più antiche manifestazioni culturali propriamente etrusche.
Entrambe queste posizioni, nonostante il frequente uso dei sottili strumenti della filologia
germanica, sono il frutto di un atteggiamento estremamente disinvolto, che non esita a
sovrapporre astratte ricostruzione storiche al tessuto, ancora piuttosto esile, delle
conoscenze archeologiche.
Questi anni sono comunque estremamente fruttuosi per l’archeologia protostorica
dell’Etruria: uno dei migliori giovani archeologi italiani, Angelo Pasqui (1857-1915),
conduce scavi nelle necropoli di Vetulonia, in Toscana centromeridionale, e Bisenzio, nel
Lazio settentrionale, scoprendo numerose sepolture della prima età del Ferro, e aprendo
nuove prospettive d’indagine. A Vetulonia gli scavi sono promossi da I. Falchi, studioso il
cui nome, come vedremo, resterà indissolubilmente legato a quello dell’importante città
etrusca. I primi scavi estensivi nelle necropoli vetuloniesi, diretti dal Falchi ma condotti
materialmente dal Pasqui nel 1884 in località Poggio alla Guardia (FALCHI 1885), portano
alla luce un vastissimo sepolcreto di tombe a pozzetto le cui caratteristiche rituali e
materiali sono impressionantemente simili a quelle della necropoli delle Arcatelle a
Corneto-Tarquinia, con la differenza che i corredi sono tutti ad incinerazione, e nel
complesso più poveri.
La relazione di scavo redatta dal Pasqui, anche se non corredata di un’apparato
consistente di illustrazioni, è estremamente ricca di dettagli descrittivi sui caratteri delle
strutture tombali, sulle modalità di deposizione degli oggetti di corredo e sul loro grado di
conservazione, mostrando un approccio molto rigoroso allo scavo di contesti funerari; da
segnalare è anche la presenza di una planimetria dell’intera area scavata, uno fra i pochi
esempi del periodo.
Altrettanto fine osservatore delle particolarità rituali presenti nelle sepolture ad
incinerazione si mostra il Pasqui nella relazione sugli scavi condotti nelle necropoli di S.
Bernardino e Polledrara a Bisenzio (PASQUI 1886), tanto che, dopo la perdita di gran
parte delle associazioni tombali, la sua pubblicazione costituisce a tutt’oggi la più viva
testimonianza delle pratiche funerarie di questo centro. In località S. Bernardino il Pasqui
individua i precisi limiti dell’area sepolcrale, e rinviene un probabile ustrinum ed una fossa
contenente abbondanti residui di roghi funebri: quest’ultimo elemento viene collegato, con
notevole acume, all’assenza di terra di rogo all’interno dei pozzetti, differentemente da
quanto si riscontra costantemente a Tarquinia, Vetulonia e in altre necropoli villanoviane
minori. Al termine della ricca relazione il Pasqui rinuncia ad operare una sintesi dei
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numerosi elementi emersi dagli scavi, rivelando un atteggiamento meno paludato dei suoi
colleghi, anche di poco più anziani (si pensi al Ghilardini): tutta la sua attività iniziale
appare in effetti dominata da una visione fortemente pragmatica, che lo conduce a
privilegiare l’analisi topografica sul terreno, rispetto alle grandi trattazioni accademiche. In
questi anni egli è infatti impegnato, assieme ad A. Cozza e sotto l’illuminata guida di G.F.
Gamurrini, nella pionieristica impresa della Carta Archeologica d’Italia, ovvero nel primo
tentativo di elaborazione di una dettagliata carta topografica dell’Italia antica. Si tratta di
un progetto ambiziosissimo, ma nato decisamente sotto una cattiva stella, tanto che, dopo i
primi anni di intensa attività di ricognizione e scavo in Etruria meridionale e Sabina 4) ,
grosso modo fra il 1881 e il 1890, l’impresa si arenerà tra il disinteresse generale delle
autorità dello Stato, e solo una piccola parte della eccezionale documentazione raccolta
verrà data alle stampe. Su questo straordinario episodio della ricerca archeologica italiana,
altrettanto rilevante per la antichità protostoriche che per quelle classiche, torneremo
comunque fra breve.
Di tutt’altra natura è il ponderoso compendio degli scavi nelle necropoli vetuloniesi
che Isidoro Falchi pubblica nel 1891. L’opera è importante per il suo apparato
documentario, sebbene per lo più di tipo descrittivo; Falchi non è certamente uno
scavatore attento come il Pasqui, ma si sforza di essere il più possibile oggettivo nelle
descrizioni: tuttavia, quando il contesto scavato sfugge alla sua comprensione - ed è
soprattutto il caso delle tombe a cremazione di VIII-VII secolo - le annotazioni diventano
alquanto confuse.
Pur non entrando approfonditamente nel merito della cronologia, Falchi opera
inoltre un’utile classificazione delle sepolture vetuloniesi dell’età del Ferro, in base alla
tipologia tombale e alle caratteristiche dei corredi:
(I) pozzetti con cinerari tipici, cioè sepolture del “tipo Villanova” classico, le cui
caratteristiche sono così sintetizzate (1891, p. 33); “uniformità e semplicità nella
costruzione dei pozzetti; uso esclusivo della cremazione; gran frequenza di cinerari a
capanna della medesima forma; mancanza di difesa laterale al deposito sepolcrale (cioè
assenza di custodia litica; n.d.r.); miseria costante in tutte le tombe senza segno alcuno di
distinzione”. (II) ripostigli stranieri: ovvero fosse irregolari contenenti terra di rogo ed
oggetti di corredo, per lo più vaghi di collana ed altri ornamenti, collocati generalmente
all’interno di una tazza intorno a dei denti umani. Il Falchi, sorpreso dal complesso rituale
4)
Una ricostruzione della tormentata vicenda della Carta Archeologica d’Italia è in COZZA 1972. Agli scavi privati
controllati da Cozza e Pasqui nell’Agro Falisco seguì, nel 1890, l’inaugurazione del Museo di Villa Giulia in Roma,
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di queste deposizioni e dalla raffinatezza dei manufatti, e non rinvenendo tracce di ossa
bruciate, avanza timidamente l’ipotesi che si tratti di sepolture simboliche di individui
stranieri inseriti, ma non integrati, nella comunità degli italici incineratori di rituale
villanoviano; riaffiora qui la tendenza, mai del tutto sopita, a dare un valore etnico alle
differenze culturali. (III) circoli interrotti di pietre rozze con pozzetti e cinerari tipici: sul
Poggio alla Guardia il Falchi scava alcuni recinti circolari di pietre appena sbozzate e
disposte con ampi intervalli, all’interno dei quali sono in genere numerosi pozzetti di tipo
villanoviano canonico, con biconici o urne a capanna. (IV) circoli interrotti di pietre rozze
con buca centrale, senza cinerari e con suppellettile d’importazione: si tratta di recinti
analoghi ai precedenti ma con un’unica deposizione al centro; nonostante il rituale sia
ancora di tipo crematorio, l’assenza del cinerario tipico di Villanova, e i caratteri evoluti
degli oggetti corredo (per lo più del tardo VIII secolo a.C.), fra cui non mancano elementi
di provenienza orientale, inducono Falchi a considerarli deposizioni di stranieri di età
villanoviana. (V) circoli continui di pietre bianche: in quest’ampia categoria lo studioso
inserisce tutti i recinti circolari continui della tarda fase recente del primo Ferro e
dell’orientalizzante, caratterizzati per lo più dall’unica deposizione entro fossa centrale, e
dalla particolare sontuosità dei corredi; essi sarebbero comunque, secondo lui, una forma
più evoluta dei cosiddetti circoli “stranieri”.
Anche se il valore di quest’opera è a tutt’oggi notevole laddove costituisce
testimonianza pressochè unica di una civiltà rituale di grande complessità 5) , i limiti del suo
autore appaiono in tutta evidenza quando egli tenta di inquadrare storicamente i dati di cui
dispone; l’interpretazione in chiave etnica delle differenze di rituale e di tipologia dei
materiali che viene così esposta, sia pure con malcelato imbarazzo, sembra vanificare in un
certo senso tutti gli sforzi fatti in quegli anni da studiosi come Undset, Ghirardini, Helbig,
nel definire uno schema di cronologia relativa ed assoluta dell’età del Ferro etrusca.
Nello stesso anno, il 1891, viene pubblicata un’altra monografia di grande impegno
dedicata dal francese Stephane Gsell agli scavi da lui stesso condotti nelle necropoli di
Vulci, importantissima città etrusca della Maremma laziale. Le sepolture della prima età
con l’allestimento di una sala dedicata in gran parte ai corredi di Narce, che dette origine a violente polemiche e ad una
nota inchiesta giudiziaria: v. BAGLIONE-DE LUCIA BROLLI 1990, pp. 63 ss.
5)
Per dare un’idea della vastità degli interventi operati a Vetulonia in quegli anni è sufficiente forse ricordare che solo
nella necropoli di Poggio alla Guardia il numero di tombe scavate ammonta, a detta dello stesso scavatore, a circa 800,
cifra destinata ad aumentare in seguito; nella necropoli di colle Baroncio, dove gli scavi furono eseguiti da privati, le
sepolture della prima età del Ferro portate alla luce sembra fossero state circa 700; numerose sono anche le sepolture a
circolo e a tumulo indagate, della seconda metà dell’VIII e del VII secolo a.C. Ci resta comunque una grande massa di
reperti, sparsi per numerosi musei d’Italia, che attende una sistematica edizione. Una preliminare presentazione dei dati
è stata offerta da M. Cygielman nel convegno “La presenza etrusca in Campania meridionale” (Pontecagnano-Salerno
1990). Una bibliografia completa sui vecchi scavi di Vetulonia in DELPINO 1981, nota 1.
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del Ferro hanno qui un certo rilievo, anche se sono complessivamente scarse (poco più di
40), soprattutto in confronto ai numeri a due zeri degli scavi di Vetulonia. L’approccio di
Gsell è comunque decidamente improntato alla sistematicità e ad una certa chiarezza tutta
francese: i contesti tombali vengono presentati attraverso schede complete, comprendenti
un’esauriente descrizione della tomba e della disposizione degli oggetti, il catalogo dei
materiali, e spesso piante d’insieme e di dettaglio. Data l’elevata qualità di questa edizione,
è da rammaricarsi che gli scavi del francese abbiano riguardato settori alquanto limitati
delle necropoli villanoviane di Vulci: in questo senso, il quadro che emerge da essi
costituisce appena un prezioso spiraglio di luce sulle pratiche funerarie di questo centro
nella prima età del Ferro.
Nel 1894 viene edito dall’Accademia dei Lincei un volume interamente dedicato alle
ricerche condotte da Gamurrini, Cozza e Pasqui nell’Agro Falisco, con l’ausilio di tecniciarcheologi poi divenuti celebri come R. Mengarelli ed E. Stefani (BARNABEI et alii 1894).
Si tratta dell’unica pubblicazione ufficiale del gruppo di ricerca della Carta Archeologica
d’Italia, a cui si affiancherà, solo nel 1972 e 1981, l’edizione dei documenti d’archivio
inediti, per certi versi ancora più significativi. Particolarmente importanti per gli studi
sulla prima età del Ferro etrusca, oltre che per l’orientalizzante, sono gli scavi condotti a
Monte S. Angelo, Narce e Civita Castellana-Falerii. Nel primo sito Cozza e Pasqui
individuano, forse per la prima volta nell’Etruria propria, un complesso abitativo
villanoviano (con precedenti del Bronzo finale), di cui mettono in luce la doppia cinta
fortificata ed alcuni fondi di capanna, peraltro di dubbia datazione; ad esso sono attribuiti
inoltre alcuni piccoli nuclei di tombe ad incinerazione posti sulle colline antistanti. Il
Barnabei, nel capitolo introduttivo, sottolinea la particolare antichità di questo centro,
attribuendolo, con una sorprendente anticipazione delle ricerche future, ai tempi
immediatamente anteriori all’VIII secolo a.C. A Narce i recuperi sono condotti per lo più
da privati e controllati per conto dell oStato da Cozza e Pasqui, che redigono un’esemplare
rapporto di scavo, con precise descrizioni delle singole tombe e numerose piante e sezioni:
vengono documentate svariate piccole necropoli “primitive” di tombe a pozzo e a fossa,
attribuibili ad un centro fino ad allora sconosciuto, ma che i ricercatori riconoscono di
notevolissima importanza. A Falerii, oltre alla necropoli protovillanoviana di Montarano
sud, viene scavato nelle vicinanze un piccolo sepolcreto di VIII-VII secolo in tutto analogo
a quelli di Narce: gli appunti manoscritti da questo scavo lasciati dagli autori, editi solo in
anni recenti (COZZA-PASQUI 1981), appaiono corredati di un apparato grafico che,
nonostante l’incompiutezza, ha scarsi confronti in quest’epoca.
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Le ipotesi di tipo storico avanzate su questo complesso di rinvenimenti dal Barnabei
(BARNABEI et alii col. 5-32), grazie anche alla possibilità di disporre di una
documentazione del tutto inusuale, sono nelle grandi linee ancora oggi valide.
Lo
studioso sottolinea giustamente che le più antiche tombe a pozzo di Narce e Falerii, per il
loro carattere sostanzialmente non villanoviano (assenza di cinerari biconici), e per contro
la raffinatezza dei manufatti che contengono, non possono risalire all’età delle più antiche
sepolture di Tarquinia e Vetulonia, ma si datano piuttosto ad un’epoca immediatamente
anteriore a quella del pieno influsso ellenico. La nascita di questi due centri sarebbe
dunque avvenuta dopo l’abbandono dell’arcaico sito di Monte S. Angelo, di cui avrebbero
raccolto la popolazione, come quella di altri piccoli abitati fortificati analoghi (fra cui i
“castellieri” di Turona e monte Cimino, allora individuati da Cozza e Pasqui), attraverso un
fenomeno di tipo sinecistico. Infine, tra VIII e VII secolo a.C., dai primitivi villaggi di
capanne ubicati rispettivamente sul colle di Narce e su quello di Montarano (in realtà su
quello del Vignale), si sarebbe passati, per accrescimento progressivo, ai veri e propri
centri urbani di Falerii e Narce Fescennium.
2. La prima metà del XIX secolo
Gli anni a cavallo fra ‘800 e ‘900, come esemplarmente testimoniato dalla vicenda
della Carta Archeologica, vedono l’inasprirsi del centralismo statale nelle attività di ricerca
archeologica; ciò è particolarmente evidente in campo preistorico con lo strapotere
intollerante di L. Pigorini, ormai capo incontrastato della paletnologia italiana (GUIDI
1988, pp. 52 ss.). Gli studi sulla protostoria etrusca subiscono dunque un certo
decadimento, che si farà particolarmente sentire nei primi decenni del nuovo secolo: ciò è
forse in parte da imputare ad una perdita d’interesse per problematiche, come quella
sull’origine degli Etruschi, che avevano esaurito gran parte della loro attualità, dopo le
accese polemiche degli anni ‘70 e ‘80.
D’altra parte, è anche da rilevare in questo periodo
l’assenza di archeologi di forte personalità operanti nell’Etruria propria, differentemente
da quanto avviene a Roma con Giacomo Boni, in Italia meridionale con Paolo Orsi, e in
Sardegna con Antonio Taramelli.
Non mancano, comunque, nel campo delle attività di scavo, eventi di notevole
importanza. Tra il 1904 e il 1906 vengono condotti scavi sistematici nell’ambito delle
necropoli dei cosiddetti “poggi orientali” di Tarquinia, che ci restituiscono la più completa
raccolta di contesti funerari delle fasi iniziali della prima età del Ferro etrusca (PERNIER
1907; HENCKEN 1968). Nella logica e negli intenti di questi scavi si evidenzia una
sensibile maturazione dell’archeologia funeraria italiana, con una notevole attenzione
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prestata alla composizione dei singoli corredi tombali e una certa sistematicità nel
procedere sul terreno, ma d’altra parte uno scarso interesse per la problematica
complessiva della “civiltà di Villanova”; il rapporto di scavo pubblicato dal Pernier nel
190’7, basato prevalentemente sulle annotazioni del custode agli scavi e su rare
osservazioni proprie, benchè preziosissimo come documento, è un arido inventario di 369
tombe, accompagnato da scarne osservazioni sulle strutture tombali, e raramente sulle
modalità di deposizione dei corredi.
Il 1908 è l’anno d’inizio degli scavi sistematici nelle necropoli protostoriche di
Populonia, il cui principale promotore sarà nei decenni successivi Antonio Minto; è
tuttavia soprattutto negli anni 1914-1921 che si ha la scoperta dei primi consistenti nuclei
di sepolture villanoviane di questo centro, nelle necropoli di S. Cerbone e Piano delle
Granate. Già nella monografia del 1922 il Minto è in grado di prospettare un quadro
estremamente chiaro della facies funeraria populoniese del primo Ferro, sottolineandone
la peculiare complessità: in particolare, la coesistenza, da epoca piuttosto remota, del
rituale della cremazione in urna biconica di classica foggia villanoviana, e dell’inumazione
in fossa, o addirittura in tomba a camera a pseudo-cupola. Tale classificazione
dell’evidenza, condotta con grande onestà, sarà la base per la più completa versione del
libro, edita nel 1943, in cui è da segnalare, accanto alla tradizionale rassegna delle classi di
materiali e delle tipologie tombali, un capitolo dedicato al problema delle coltivazioni
minerarie etrusche della Toscana marittima, che il Minto fa risalire già ad età villanoviana.
Gli anni ‘20 e ‘30 costituiscono un periodo di grande fioritura degli studi cronotipologici di matrice nordica sulla protostoria italiana. Dedicata in gran parte al primo
Ferro dell’Etruria è l’opera dello scandinavo Sundwall, che si occupa ampiamente (in
particolare SUNDWALL 1928) del problema delle decorazioni geometriche degli ossuari
villanoviani, e pubblica in seguito un’imponente classificazione delle fibule italiane (1943),
a tutt’oggi strumento prezioso per gli specialisti; N. Aoberg (1930) dal canto suo,
rifacendosi principalmente a O. Montelius, inserisce le facies protostoriche dell’Etruria in
un ampio quadro europeo di correlazioni cronologiche relative ed assolute.
Diverso è tuttavia il clima che si respira in questi anni fra gli archeologi italiani che
si occupano di problemi paletnologici (cfr. GUIDI 1988, pp. 78 ss.): di pari passo con la
reazione anti-positivista dell’idealismo crociano, si sviluppa un rifiuto dell’atteggiamento
empirico e sistematico diffuso presso una parte dei paletnologi italiani a partire dalla
seconda metà del XIX secolo; soggetto a forti critiche è il concetto di evoluzione dei tipi
archeologici, propugnato in particolar modo dalla scuola scandinava di Montelius, a cui
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viene contrapposto uno sviluppo multilineare delle facies archeologiche, con un forte
accento sulla diffusione geografica sincronica dei tratti culturali.
Il rappresentante più equilibrato e coerente di questo indirizzo di pensiero è M.
Pallottino, giovane cultore di antichità etrusche, i cui interessi spaziano dalla linguistica
storica all’archeologia. Nel 1939 viene pubblicato il più importante contributo di questo
autore alla protostoria etrusca, in cui egli si richiama esplicitamente alla scuola etnologica
storico-culturale tedesca per motivare un rifiuto degli “artificiosi sistemi di classificazione
cronologica” di Montelius e Aoberg.
Nell’ambito dell’Etruria arcaica il Pallottino distingue quattro facies, o aspetti
culturali, la cui successione cronologica si verificherebbe quasi esclusivamente nell’area di
prima elaborazione delle stesse, ovvero per lo più nell’Etruria meridionale marittima,
mentre nelle aree periferiche ed interne, grazie a fenomeni di stagnazione economica e
sociale, esse tenderebbero a coesistere.
Particolarmente rilevante, in questo scritto, è la lucida definizione del-le singole
facies operata anche attraverso l’ausilio di carte di distribuzione dei tratti culturali. Le
cosiddette facies “sub-énee” (o protovillanoviane), documentate dai sepolcreti di Tolfa e
Allumiere, vengono considerate come manifestazioni culturali attardate dell’Italia interna,
sostanzialmente contemporanee delle facies del Ferro. La I facies, o “periodo villanoviano”
in senso stretto (l’attuale fase antica del primo Ferro), è definita invece in base al ricorrere,
in un’area molto ristretta corrispondente per lo più alla zona costiera, di elementi tipici
come gli elmi-coperchio, mentre nelle aree periferiche si assiste ad un progressivo
decrescere di questi elementi via via che ci si allontana dal centro d’innovazione;
nell’Etruria interna e in Emilia, in centri come Chiusi, Volterra, Firenze e Bologna, la I
facies, con caratteri parzialmente diversi dall’area costiera (ad es. assenza di elmicoperchio), presenta invece una durata più lunga, coesistendo in parte con la II facies
marittima. Di quest’ultima, o “periodo di transizione fra il villanoviano e l’orientalizzante”
(coincidente con l’VIII secolo avanzato), Pallottino sottolinea giustamente la sostanziale
diversità rispetto alla I facies, e ne localizza l’origine in un’area ancora più ristretta della
precedente, corrispondente con l’Etruria meridionale costiera e sub-costiera; anche per
questa facies egli individua delle aree di persistenza nell’Etruria interna in particolare a
Veio, Capena, Narce, Bisenzo, Chiusi. Segue poi una ricca delineazione delle facies III
(grosso modo l’attuale orientalizzante antico-medio) e IV (orientalizzante recente), con cui
l’autore completa il quadro delle fasi formative della civiltà etrusca.
Anche se alcune delle affermazioni fatte in questo articolo, dettate da una certa foga
polemica, sono apparse infondate nel procedere delle ricerche (in particolare l’idea di una
12
coesistenza di aspetti sub-énei e del Ferro), molti spunti sono ancora oggi validi e
stimolanti: in particolare, sul piano metodologico generale, la precisa distinzione, fra il
concetto di facies e quello di fase, resta basilare negli studi di protostoria. Per quanto
riguarda invece lo specifico argomento che qui ci interessa, va segnalato l’accento posto dal
Pallottino sugli aspetti locali delle facies protostoriche dell’Etruria, che fanno di questa
regione nell’età del Ferro una realtà ben più variegata e complessa di quanto non sembri a
prima vista; lo stesso concetto di “persistenza”, non inteso in maniera rigida, può essere
ancora utile per illuminare alcuni aspetti delle aree più conservatrici sul piano culturale e
socio-economico, e segnatamente di quelle interne.
3. Il dopoguerra e gli sviluppi recenti
I due decenni compresi fra l’inizio del secondo conflitto mondiale e la fine degli anni
‘50 costituiscono un periodo di grande rinnovamento di alcuni settori della paletnologia
italiana interessati alla preistoria e alla protostoria più antica: basterà ricordare, in questo
ambito, l’eccezionale attività di scavo e sintesi di L. Bernabò Brea. E’ comunque solo a
partire dalla fine degli anni ‘50 che si ha un ritorno alla ribalta delle problematiche della
prima età del Ferro italiana, soprattutto grazie all’interessamento di singoli studiosi e
gruppi di ricerca stranieri.
Un nuovo corso degli studi di cronologia sulla tarda età del Bronzo e la prima età del
Ferro italiana è inaugurato nel 1959 dall’opera imponente dell’archeologo tedesco H.
Mueller-Karpe, che raccoglie, tra l’altro, una vastissima documentazione grafica sui
contesti funerari villanoviani di Bologna, e, in misura minore, dell’Etruria propria. Lo
schema cronologico elaborato dall’autore per l’Etruria, articolato nelle fasi Tarquinia I (IX
secolo a.C.) e Tarquinia II (VIII secolo a.C.), nonostante l’incompletezza della
documentazione, appare fondato su basi metodologiche estremamente solide, nel cui
ambito assume particolare rilevanza la correlazione con altre sequenze italiane, come
quelle di Bologna, Terni, Cuma e Roma-Colli Albani. Torna dunque a ripresentarsi, con
l’attività di Mueller-Karpe, ma in una forma di gran lunga più perfezionata, l’impostazione
ampia e sistematica di Montelius e Aoberg, già fortemente criticata dall’archeologia di
ispirazione storico-culturale.
Su un versante differente, e affatto nuovo per l’Etruria, si collocano le ricerche di
superficie e i saggi di scavo condotti dalla British School di Roma, sotto la direzione di J.B.
Ward Perkins, nell’area della città etrusca di Veio (WARD PERKINS 1961), nell’ambito dei
quali viene evidenziata per la prima volta l’esistenza, sull’ampio pianoro veiente, di alcune
aree di affioramento di materiali della prima età del Ferro. Basandosi sulla distribuzione
13
estremamente rada di tali aree di frammenti, e sulla apparente distribuzione dei sepolcreti
villanoviani in corrispondenza di esse, il Ward Perkins avanza un’ipotesi che avrà molto
fortuna fra gli studiosi italiani: il pianoro di Veio sarebbe interessato, in età villanoviana,
dalla presenza di alcuni piccoli villaggi dotati di sepolcreto proprio, e intervallati da ampie
aree libere. Alla diffusione di questo modello contribuirà probabilmente la suggestione
storica della Roma del Septimontium (cfr. PALLOTTINO 1993, pp. 146 ss.) in cui la città
primitiva appare articolata in più nuclei abitativi, forse originariamente pertinenti ad
altrettante comunità autonome, ma in cui comunque esiste un certo condizionamento della
accidentata morfologia locale, a differenza di quanto sui vasti rilievi tabulari dei centri sudetruschi.
Nello stesso periodo, ad opera della British School e dell’Istituto di Studi Etruschi e
Italici di Roma, si ha l’inizio degli scavi sistematici nella necropoli dei Quattro Fontanili a
Veio, che continueranno quasi ininterrottamente fino agli inizi degli anni ‘70. La
pubblicazione di questi scavi, avvenuta a più riprese (bibl. in TOMS 1986), costituisce un
evento fondamentale nell’ambito degli studi di protostoria italiana: l’edizione,
particolarmente valida per il suo ricco apparato grafico, fornisce agli studiosi un repertorio
ineguagliato di materiali della fase recente della prima età del Ferro (VIII secolo a.C.), e
soprattutto una documentazione completa dei vari aspetti del rito funerario, fondata su
diverse centinaia di sepolture.
Sulla base di un discreto campione di corredi veienti, J.
Close Brooks (1965) costruisce una sequenza cronologica che avrà una certa fortuna negli
anni successivi, utilizzando metodi propri della scuola centro-europea, come le tabelle di
associazione e la stratigrafia orizzontale, già applicati a contesti italiani dal Peroni e dal
Mueller-Karpe.
Altrettanto importante, ma di gran lunga meno “moderna” sul piano metodologico,
è la monografia dedicata allo studioso americano H. Hencken alla Tarquinia villanoviana e
orientalizzante (1968). L’opera è divisa in due parti, nettamente distinte per impostazione
e qualità. Il primo volume è costituito dall’edizione di una gran parte dei corredi degli scavi
Pernier nelle necropoli orientali di Tarquinia, a cui si aggiunge la collazione di tutti i dati
disponibili sugli scavi comunali alle Arcatelle, altrimenti dispersi in una miriade di piccole
pubblicazioni ottocentesche; il lavoro è condotto con un certo scrupolo filologico, ed è di
per sè sufficiente a collocare il libro fra i più importanti riguardanti il primo Ferro
dell’Etruria. Nel secondo volume Hencken si lancia in un discutibile tentativo di
elaborazione di una sequenza cronologica delle sepolture tarquiniesi, in cui mescola con
spregiudicatezza metodi desunti dalla “statistica combinatoria” di Mueller-Karpe, come le
tabelle d’associazione, ad elementi di cronologia assoluta, come le datazioni incrociate con
14
l’Egeo o con altri contesti in rapporto con l’Egeo (in particolare Pantalica, in Sicilia): il
risultato finale, del tutto privo di fondamento, è una espansione cronologica della fase
antica del primo Ferro, da lui definita “Villanoviano I”, tra il X e la metà dell’VIII secolo
a.C. e una contrazione della fase recente, o “Villanoviano II”, nell’arco della seconda metà
dell’VIII secolo. Imbarazzanti sono poi le conclusioni di ordine storico, in cui l’autore,
fondandosi su una serie di generici confronti tipologici con altre aree europee, ipotizza
l’origine dei presunti “Villanoviani” da un innesto di gruppi centro-europei portatori della
cultura dei “campi d’Urne” in un substrato locale “appenninico”.
Gli studiosi che si occupano della prima età del Ferro etrusca nel corso degli anni ‘70
si trovano ora nella stimolante situazione di dover interpretare l’enorme massa di dati
raccolta nel libro di Hencken e nell’edizione degli scavi veienti, oltre che in altre
pubblicazioni relativamente minori, qui non citate per motivi di spazio.
La protostoria è una disciplina ancora relativamente giovane in Italia, e sta
faticosamente affidando i propri metodi d’indagine, con il tentativo, da parte degli studiosi
più avvertiti, di affrancarsi da approcci tradizionali: in tal senso, questi anni sono
caratterizzati da un ampio dibattito sulle metodologie, e da un confronto molto costruttivo
fra studiosi di varia estrazione.
Ad archeologi classici italiani e stranieri si deve un notevole impulso allo studio
delle produzioni ceramiche di tipo greco-geometrico, sia d’importazione che d’imitazione,
abbondantemente presenti nei contesti etrusco-meridionali delle fasi avanzate dell’VIII
secolo, con forti ripercussioni sulle problematiche della circolazione dei beni e delle prime
forme di acculturazione.
A tale tematica è dedicato nel 1969 un importante incontro di studi (AA.VV. 1969),
nel corso del quale si svolge una vivace discussione fra esperti di ceramica geometrica da
una parte e di protostoria italiana dall’altra (fra gli altri G. Vallet, D. Rydgway, W.
Johannowsky, B. d’Agostino, R. Peroni), incentrata sullo spinoso problema del
rinvenimento di tazze euboico-cicladiche, o presunte tali, in alcune sepolture veienti e
campane della prima metà dell’VIII secolo, e dunque della possibilità dell’esistenza di
contatti commerciali fra indigeni e Greci antecedenti alla fondazione delle prime colonie
d’occidente.
Sull’onda di questi approfondimenti, non mancano contributi ad una migliore
definizione culturale e cronologica dell’età del Ferro tirrenica: fra questi si ricordano alcuni
articoli dedicati ad aspetti culturali locali dell’età del Ferro, dovuti a specialisti di
15
protostoria etrusca, fra cui in particolare F. Delpino e G. Bartoloni 6) , in cui si osserva una
prudenza estrema nell’uso dei sistemi statistico-combinatori di seriazione, in accordo con
le forti perplessità ripetutamente espresse da M. Pallottino su queste metodologie (da
ultimo PALLOTTINO 1993, pp. 52 ss.).
Maggiormente legato ad indirizzi di studio mitteleuropei è invece lo studio in cui R.
Peroni (1979), basandosi in particolare sulle associazioni di fibule e rasoi, elabora una
proposta di articolazione in sottofasi delllo schema cronologico di Mueller-Karpe per
l’Etruria, agganciata ad altre importanti sequenze dell’Italia continentale 7) .
Mario Torelli, in un ampio articolo dedicato ad aspetti della storia etrusca (19741975), dedica alcuni cenni all’inquadramento socio-economico e politico delle comunità
villanoviane. Per la prima fase villanoviana (IX secolo a.C.), l’autore, facendo riferimento
alle ricerche del Ward Perkins sullo sviluppo topografico di Veio, osserva che
l’accoglimento o meno dell’ipotesi dell’esistenza di una pluralità di villaggi sull’unitario
pianoro della città etrusca non esclude che si debba pensare a una sostanziale integrazione
di tali comunità in un organismo politico unitario: “In questo senso la ‘città’ già esiste fin
dal primo manifestarsi della presenza villanoviana, esiste nella sua realtà di struttura fitta
di interrelazioni economiche, anche se non può dirsi risolto il problema della sua unità in
termini politici”.
In una monografia apparsa alcuni anni dopo (TORELLI 1981), il Torelli riprende ed
articola alcune osservazioni del lavoro precedente, definendo con chiarezza la gradualità
del processo di formazione delle aristocrazie etrusche, come appare nel corso dell’VIII
secolo a.C. in base ai dati della necropoli dei Quattro Fontanili a Veio (p.55): “Subito dopo,
però: attorno alla metà del secolo, l’opposizione povertà-ricchezza non si configura più
come realtà polare (alcuni - patresfamilias - connotati come ricchi, gli altri come uguali),
ma come realtà stratificata, in cui esiste una articolazione dei livelli di ricchezza e dunque
una complessa situazione di classe”. Secondo lo studioso i primi indizi di questo processo
sarebbero presenti già nei primi decenni dell’VIII secolo, e comunque in un momento
immediatamente precedente all’esplosione dei rapporti di scambio con il mondo greco (cfr.
intervento alla discussione in VULCI 1977, p. 281).
6)
Vedi in particolare: BARTOLONI-DELPINO 1970, in cui si propone una revisione della cronologia dell’Hencken
per il “Villanoviano I”, peraltro fondata su un numero assai ristretto di corredi; in DELPINO 1977 viene data per la
prima volta una corretta definizione culturale del complesso ideologico di Bisenzio, elaborandone una proposta di
seriazione; in DELPINO 1981 lo stesso autore fa una rassegna dei caratteri culturali dell’Etruria settentrionale
marittima nel primo Ferro, con particolare riferimento ad aspetti della metallurgia.
7)
In liena con lo studio del Peroni, ma con terminologia differente, si colloca, alcuni anni dopo, la revisione della
sequenza cronologica della necropoli dei Quattro Fontanili a Veio di J. Toms (1986), ottimo punto di riferimento per la
problematica della cronologia relativa etrusca dell’VIII secolo.
16
Nell’ambito di un convegno tenutosi nel 1975, G. Colonna (1977)analizza il problema
della nascita della città di Vulci, e della sua affermazione politica nel territorio circostante:
il centro si formerebbe agli inizi del IX secolo a.C., in seguito ad un fenomeno di tipo
sinecistico, comportante l’abbandono dei numerosi villaggi fiorenti nel corso della tarda
età del Bronzo nelle valli del Fiora e dell’Albegna; agli inizi, tale centro appare
caratterizzato da un tessuto abitativo “pseudo-urbano”, con il coesistere sullo stesso
pianoro di più nuclei abitativi separati, e da un’organizzazione sociale ancora di tipo
egualitario, mentre in epoca immediatamente successiva, nell’avanzato VIII secolo a.C., si
assiste all’affermazione di un’aristocrazia dedita ad attività di scambio e predatorie, che
promuove la fondazione di centri-satellite nel territorio. E’ in questo periodo che si ha
secondo il Colonna, la maturazione di un organismo politico di tipo protourbano, e dunque
la prima affermazione della “città”.
Verso la fine degli anni ‘70, l’età del Ferro dell’Italia centrale tirrenica, ed in
particolare del Latium Vetus, è al centro di un notevole dibattito scientifico, che vede una
stretta collaborazione fra studiosi di varia formazione, come storici, archeologi classici e
paletnologi. I risultati più interessanti di questo approccio interdisciplinare sono costituiti
dalla grande mostra sul Lazio primitivo tenuta a Roma nel 1976, e dal seminario sulla
formazione della città del 1977 (AA.VV. 1980). Sebbene per l’Etruria propria non si possa
parlare di un’analoga fioritura di studi, questi due eventi avranno un influsso decisivo sulle
ricerche successive di argomento protostorico anche di questa regione, orientando
l’interesse degli studiosi verso problematiche in gran parte nuove per l’archeologia italiana,
come l’analisi dei contesti funerari e l’interpretazione complessiva delle società.
Un bilancio degli sviluppi più recenti della ricerca in questo campo è probabilmente
ancora prematuro, e comporterebbe una discussione lunga e noiosa, fuori luogo in questa
sede: ci si limiterà pertanto a citare alcuni studi che hanno introdotto, a nostro avviso,
elementi di una certa novità.
Una novità è costituita certamente dall’intensificarsi delle ricerche di superficie, e in
misura minore degli scavi, sui pianori delle città etrusche e nel territorio circostante, con
un ritorno d’interesse per le problematiche insediamentali. Le indagini si concentrano in
Etruria meridionale e sono dovute sia a gruppi di studio che a singoli ricercatori.
Ricerche sistematiche condotte dall’Istituto di Topografia antica dell’Università di
Roma sull’ampio pianoro della città di Veio (GUAITOLI 1981) consentono di registrare una
distribuzione relativamente densa delle aree di frammenti fittili di età villanoviana, in
contrasto con quanto rilevato nel 1961 dal Ward Perkins: inizia dunque a farsi strada l’idea,
certo non nuova in assoluto, ma finora non dimostrabile, di un’occupazione pressochè
17
continua, già nel corso della prima età del Ferro, dei pianori delle grandi città sudetrusche, in alternativa all’ipotesi dei villaggi posti ai margini del rilievo.
In un articolo del 1982 F. di Gennaro fa un primo consuntivo dei dati riguardanti gli
insediamenti del Bronzo finale e della fase antica del primo Ferro (XII-IX secolo a.C.) in
Etruria meridionale; per gli insediamenti villanoviani ubicati sul luogo delle maggiori città
di età storica (Vulci, Tarquinia, Cerveteri, Veio, ecc.) l’autore individua un modello
orografico ricorrente, costituito da pianori con netta difesa perimetrale, e ampi in media
intorno ai 150 ettari. Un metodo grafico mutuato dalla geografia, e ampiamente diffuso
negli studi di preistoria anglo-americani, quello dei poligoni di Thiessen, viene applicato a
tali insediamenti per ricostruire l’ipotetica estensione del loro territorio: si configura così
in termini teorici, secondo di Gennaro, un dominio territoriale embrionalmente analogo a
quello dei centri urbani dell’età successiva, con siti minori subordinati politicamente
all’insediamento più grande.
La problematica delle origini del fenomeno urbano in Etruria è stata riconsiderata e
ulteriormente articolata, alla luce sia dei dati insediamentali che di quelli funerari, in
alcuni contributi apparsi di recente ad opera di M. Pacciarelli (1991 e c.s.). Il punto di
partenza è costituito dalle ricerche di superficie sistematiche condotte dall’autore stesso sul
pianoro della città di Vulci e nelle aree sepolcrali circostanti, che mostrano l’esistenza,
almeno a partire dal IX secolo a.C., di un vasto insediamento unitario, sostanzialmente
analogo a quello di Veio; il tessuto interno di questo abitato non andrebbe comunque
immaginato come un blocco compatto, ma piuttosto come un aggregato relativamente
rado, in cui a ciascun nucleo di abitazioni corrisponde uno spazio libero adibito alle
coltivazioni, secondo un modello di pianificazione riconoscibile in una delle più antiche
colonie greche d’occidente, Megara Hyblaea. Tale modello può sostanzialmente valere,
secondo l’autore, per tutti i maggiori centri villanoviani dell’Etruria meridionale.
Un elemento che può modificare notevolmente il quadro dell’origine di questi
aggregati, è inoltre lapresenza, in vari punti del pianoro vulcente, di frammenti fittili del
Bronzo finale, che farebbe pensare ad una qualche rada occupazione dell’area già in questa
fase; il dato ben si accorda con il frequente rinvenimento, avvenuto in passato nell’ambito
dei sepolcreti “urbani” di tutte le maggiori città etrusche, di sepolture del tardo Bronzo
finale. Pacciarelli avanza dunque l’ipotesi che il noto fenomeno dell’abbandono dei villaggi
d’altura del Bronzo finale, verosimilmente avvenuto nel corso del X secolo, sia da
interpretare come un effetto, piuttosto che come una causa, della nascita delle grandi
aggregazioni costiere: in altri termini, l’abbandono delle sedi tradizionali sarebbe avvenuto
per lo più dopo la nascita di questi nuovi centri “protourbani”, capaci evidentemente di
18
operare qualche tipo di pressione sulle comunità circostanti. Sullo sfondo di questa
vicenda l’autore, sviluppando alcune proposte fatte a suo tempo da Peroni, pone alcune
premesse storiche fondamentali, come la crescita dell’importanza delle attività belliche
adombrata dalla composizione dei corredi maschili, già a partire dal Bronzo finale, e il
definitivo superamento, almeno dal IX secolo a.C., della vecchia struttura socio-economica
fondata sui legami di parentela e sulla proprietà collettiva della terra. L’VIII secolo vede
infine l’affermazione di una società pienamente stratificata, documentata nelle necropoli
veienti da una netta articolazione delle sepolture in due livelli sociali differenziati, e
dall’apparizione di ampi gruppi di deposizioni, forse già corrispondenti a gruppi familiari
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BREVI CONSIDERAZIONI SULLE PRESENZE COSTIERE DELLA PRIMA ETA’ DEL
FERRO
23
La stretta correlazione esistente e universalmente riconosciuta, tra le manifestazioni
della prima età del ferro e la splendida fioritura dell’orientalizzante, che segna l’affermarsi
della “nazionalità” etrusca, con una lenta ma determinante partecipazione degli
insediamenti villanoviani alla formazione degli agglomerati urbani di epoca storica,
mediante un processo di concentrazione demografica coagulato dalla organizzazione di
interessi politico-religiosi e socio-economici, rende utile una riconsiderazione storica delle
presenze archeologiche della prima età del ferro, disseminate sulla costiera tirrenica tra
Rio Fiume e Mignone, nella prospettiva di fare maggiore chiarezza sul ruolo svolto dagli
insediamenti costieri nel processo di urbanizzazione e sul rapporto tra questi abitati e
quelli dell’interno, che a mio giudizio non ha trovato ancora una esauriente interpretazione
che tenga conto delle emergenze urbane di Tarquinia e di Caere, nonché dell’influenza
esercitata dalle risorse economiche locali, nei secoli che preparano questo processo di
concentrazione demografica e lo portano a compimento. In questa fascia dei Monti della
Tolfa furono individuati per la prima volta da Fernando Barbaranelli 1) ben dodici siti
interessati da stratificazioni riferibili ad occupazioni dell’età del ferro villanoviana, alcuni
dei quali sovrapposti ad insediamenti dell’età del bronzo medio e recente ed alcuni anche
con testimonianze del bronzo finale 2) . La localizzazione di questi abitati costieri, seppure
lascia supporre una dipendenza della loro economia dalle possibilità offerte dal mare,
relativamente ai prodotti da destinare alla alimentazione e dalla vivacità degli scambi
commerciali e dei rapporti intersocietari e interregionali che la via d’acqua permetteva,
nonché dal controllo “politico-militare” delle rotte marittime, deve essere integrata da una
riconsiderazione quanto più possibile rispondente alla realtà della antica linea costiera e
degli approdi che questa poteva offrire, per tentare una spiegazione della loro presenza e
della scelta dei siti, che non sia una semplice affermazione di principio o una asidentica
elencazione.
Il Barbaranelli nel rendere noti i risultati delle sue ricerche, che segnano l’avvio di
un diffuso interesse per la protostoria della fascia costiera civitavecchiese, non si discostò
tuttavia dalla semplice affermazione che questi abitati dovevano trattare dal mare fonti di
sostentamento che alimentavano una economia molto articolata completata dai prodotti
della terra e della caccia.
1)
F. Barbaranelli, B.P.I., n.s., IX, vol. 64, 1954-55; idem., X, vol. 65, fasc. 2°, 1956; idem., XIII, vol. 69, 1960; idem,
Atti VI Congr. Intern. Sc. Pr. e Prot., III, sez. V-VIII, Roma, 1962.
2)
Malpasso, Torre Valdaliga, La Mattonara, Torre Chiaruccia. Per il quadro complessivo delle presenze protostoriche
nella fascia costiera del territorio, v. O. TOTI, La civiltà protovillanoviana dei Monti della Tolfa, 1986, distr. da
L’Erma di Bretschneider, Roma.
24
Nel 1971 Antonio Maffei nel pubblicare gli scavi da me diretti nell’abitato di Torre
Valdaliga, partendo dalla considerazione che l’ubicazione costiera in prossimità di approdi
naturali postula una preminenza politico-commerciale sul mare, ripropone l’ipotesi della
identificazione dei “villanoviani” con i pirati etruschi delle fonti 3) .
Ora si tratta di riveder il problema alla luce di altre acquisizioni, di una
riconsiderazione dei dati offerti dagli scavi, taluni dei quali non esaurientemente
analizzati, altri non ancora pubblicati (Torre Valdaliga 1968 e la Frasca 1965) o poco
conosciuti e di una più attenta considerazione del rapporto tra abitati e tra abitati e linea
costiera.
Ciò che colpisce a prima vista è la maggiore potenza dei riempimenti antropici nei
quattro siti ove la linea costiera mette in evidenza ampie insenature con eccezionali
possibilità di approdo: Torre Chiaruccia (da 30 a 130 cm.), Foce del Marangone (60 cm.);
Torre Valdaliga-La Mattonara (da 60 a 130 cm.); La Frasca (160 cm.). Tutte le stratigrafie
risultano fortemente erose dal moto ondoso e in molti siti i fondi di capanna ed i pozzetti
d’uso domestico giacciono sommersi. L’uso di pozzetti scavati nella roccia di intonacati di
argilla è stato posto chiaramente in evidenza alla Mattonara e a Torre Valdaliga: ritengo
tuttora che si tratti della diffusione di un sistema per la conservazione di derrate e per la
cottura sotto cenere (come nell’esemplare lenticolare, di Torre Valdaliga) che va ben oltre
l’occasionalità per configurarsi come una componente costante delle capanne 4) .
A questo proposito va ricordato il biconico di impasto con motivi geometrici dipinti
in rosso su ingubbiatura biancastra rinvenuto dal Barbaranelli in un pozzetto assai
prossimo ai tre da me pubblicati 5) , che pertanto deve essere considerato come proveniente
da area abitativa piuttosto che da area sepolcrale come il Barbaranelli sostenne, senza però
che ciò possa escludere che sia stato fabbricato per essere destinato a cinerario (il
rinvenimento di forme cinerarie in aree abitate è una conferma delle attività artigianali,
diversificate, “in loco” 6) .
Uno studio dell’aumento del livello marino 7) calcolato alla luce dei dati altimetrici
offerti dalle peschiere romane, indica che dalla fine del I secolo a.C. ad oggi è aumentato di
cm. 63 alla Mattonara-Torre Valdaliga, di cm. 72 al Fosso delle Guardiole, di cm. 65 alla
Punta della Vipera.
3)
A. Maffei, Boll. A.A. Centumcellae, Civitavecchia, 1981.
O. Toti, N.S., s. VIII, vol. XVI, fasc. 7-12, 1962.
5)
F. Barbaranelli, B.P.I., X, vcl. 65; O. Toti, cit.
6)
O. Toti, cit. alla nota 2.
7)
G. Schimiedt, Il Livello antico del mare Tirreno, Testimonianze dei resti archeologici, Firenze, 1972.
4)
25
Da tale studio si ricava pure che l’aumento medio dal 600 a.C. al 100 a.C. è stato di
mm. 1,7 annui e che la tendenza al valore dell’innalzamento eustatico è di circa 1,5 mm.
negli ultimi 100 anni.
Se per il periodo che va dal 900 a.C. alla fine del I sec. a.C. abbiamo un
innalzamento medio di mm. 1,7 dobbiamo aggiungere ai valori citati 1530 mm. (990x1,7)
per cui avremo alla Mattonara-Torre Valdaliga un aumento da epoca Villanoviana ad oggi
di mm. 2160, per le Guardiole di mm. 2280 e per Punta della Vipera di mm. 2180.
Considerando viceversa un aumento medio di mm. 1,5 per anno, allora avremo mm. 1980
alla Mattonara-Torre Valdaliga, mm. 2080 al Fosso delle Guardiole, mm. 2000 a Punta
della Vipera. In complesso dobbiamo perciò ipotizzare un aumento del livello marino di
circa due metri dal 900 a.C. ad oggi. Ora se osserviamo le linee batimetriche più vicine alla
costa possiamo constatare che proprio in corrispondenza dei principali insediamenti
villanoviani, se teorizziamo un livello marino più basso di due metri rispetto all’attuale, ci
si offre un quadro assai più evidente delle possibilità che l’antica linea costiera offriva alla
navigazione di cabotaggio (tav. 1 e 2) e al riparo delle imbarcazioni.
A Torre Valdaliga-La Mattonara la linea batimetrica segue un andamento che pone
in risalto una accentuazione delle insenature che fornivano specchi d’acqua assai più
riparati di quelli attuali.
In epoca tardo romana la località viene ricordata nell’Itinerarium Maritimum con il
nome di Algae. Situazione del tutto analoga è quella al fosso Guardiola. In corrispondenza
dell’abitato di La Frasca la linea batimetrica evidenzia una insenatura che doveva
penetrare per buon tratto nell’entroterra formando una sorte di “porto canale”, se
consideriamo un avanzamento medio di 100 metri della linea costiera deducibile
dall’aumento del livello marino e dallo stato attuale dei fondali. Nel medioevo tale approdo
era chiamato “Columna”: negli Acta Sanctorum si dice: “il beato Sanzio su piccola barca
approdò in parvulo portu qui appellatur Columna in finibus Centumcellae”: il nome
deriva dalla presenza di una colonna eretta ad directionem nautarum” 8) .
Il sito potrebbe corrispondere al porto di Rapinium citato nell’Itinerarium
Maritimum. L’attuale nome di La Frasca deriverebbe dall’uso recente di porre un ramo
(frasca) a segnacolo per indicare ai pescatori il punto ove dirigere la prora della propria
barca evitando di arenare sui bassi fondali 9) .
Nell’aprile del 1965 per incarico della Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria
Meridionale effettuai con la collaborazione assai preziosa di Franco Capuani e Gianni
8)
Acta Sanctorum, VI, p. 72.
26
Taurchini un saggio stratigrafico nell’area della pineta sita in quella località. La scelta di
quel preciso punto fu dettata dalla constatazione che a breve distanza dai residui stratarelli
archeologici in prossimità della battigia, a poche decine di metri verso l’interno, il livello
del terreno si innalza notevolmente rispetto al livello marino e al piccolo fosso che scorre
poco più a settentrione.
La scelta fu felicemente ripagata, poichè nell’area esplorata, di m. 4 per 2, si è
raggiunta una profondità di metri 1,60 ponendo in luce, mediante tagli perfettamente
orizzontali, di circa 10 cm. ciascuno, un riempimento antropico senza soluzione di
continuità, partendo da un piano di livellamento praticato asportando 22 cm. di humus
nell’angolo est e 12 cm. nell’angolo nord. Sotto il XVI taglio è stato posto in evidenza un
banco sabbioso ricco di ceneri dello spessore di cm.60, nel quale furono infissi i pali del
primitivo impianto capannicolo, che poggia su uno stratarello di circa 5 cm. di argilla
giallognola, sotto il quale insiste il terreno vergine ricco di roccia frammentata.
A distanza di tre decenni dalla effettuazione del saggio di scavo è esclusa oggi la
possibilità di una precisa edizione dei materiali giacchè nei magazzini del Museo Nazionale
di Civitavecchia ove gli stessi furono raccolti non è stata curata con le dovute cautele la
conservazione, talchè i materiali di alcuni tagli non sono più distinguibili tra loro. Di alcuni
frammenti che presento debbo dare genericamente e sommariamente la indicazione come
provenienti dal complesso dei tagli 5-9.
Qui interessa riconoscere che ci troviamo di fronte ad una serie di pochi ma
significativi frammenti con ornamentazione tipica dell’età del ferro villanoviana ed è
quanto basta per portare avanti il discorso di ordine generale che desideravo affrontare.
La presenza dell’ansa a nastro con attacco inferiore a pistra che ricorda il
plasticismo dell’età del bronzo e l’orlo rientrante di citola ornato da “denti di lupo” e “falsa
cordicella”, di sapore arcaico, provenienti rispettivamente dai tagli più antichi (14o e 15o),
puntualizzano forse il lungo periodo di occupazione del sito; un ulteriore studio delle
forme vascolari e delle associazioni potrebbe essere realizzato soltanto tenendo conto di
quanto ho sopra precisato (Tav. B, n. 6; Tav. 7, n. 4).
Tra le forme sono frequenti olle, dolii e vasi con orlo svasato, non mancano
recipienti con orlo rientrante; tra le anse vanno annoverate quelle a maniglia, a bastoncello
verticale, a nastro concavo e quella citata a largo nastro con attacco inferiore che si
espande un poco a piastra; tra le prese quelle semilunate o semplicemente ricurve; quelle
impervie ad orecchietta sull’orlo, nonchè quelle a bugna.
9)
A. Maffei, cit.
27
Tra i motivi prevalgono quelli genericamente metopali e tra quelli stampigliati, le
bande a zig-zag e la punzonatura a croce raggiata; è presente la croce uncinata, nonché il
motivo dei “denti di lupo” con il vertice rivolto in basso su orlo rientrante di ciotola.
Il motivo della banda a zig-zag stampigliati (tav. 3, n.5,7; tav.6, n.3) si ritrova a
Torre Valdaliga 10) ma anche a Tarquinia 11) e al Sorbo 12) ; quello delle punzonature a croca
raggiata, a Torre Valdaliga 13) , ed è frequente a Bologna S. Vitale 14) (Tav. 4 n.3).
L’uso di tagli profondi su vasellame grossolano lo ritroviamo alla Mattonara 15) , ove
pure ritroviamo la presa semilunata 16) . (Tav. 3 n. 2; Tav. 4 n. 1; Tav. 4, n. 2).
Il motivo del rettangolino di linee incise contornato da cuppelle riempito al centro
da barrett oblique di linee MM a falsa cordicella viene richiamato alla Mattonara 17) , a Torre
Valdaliga 18) ma anche al Sorbo 19) (Tav. 5, n.4).
Una suggestiva novità è rappresentata dalla presenza, nei tagli 3-8-9-10-11-14 e 15
pezzi di gesso alabastrino che recano tracce di estrazione e che risultano chiaramente
essere stati sottoposti a cottura e manipolazione.
L’analisi chimica del gesso alabastrino reperibile in grande quantità nella zona ha
dato la seguente composizione media:
H2O di cristallizzazione 16, 52
parte scelta H2O 20, 49
SiO2
7, 16
SiO2
1, 32
Al 20 3
2, 01
Al 20 3 0, 14
Fe 20 3
1,07
Fe 20 3 0, 14
CaO
30, 58
CaO 32, 45
MgO
0, 97
MgO tracce
SO 3
35, 63
SO 3 45, 59
Ca SO4.2H20 76, 52
10)
Argilla
23,48
Argilla 2, 00
CaCO 3
23,48
Ca CO 3 2,00
A. Maffei, cit., fig. 15/9 e 18/4 (dal 7° taglio).
H. Müller-Karpe, Beitrage zur Cronologie der Urnenfelderzeit, Taf. 28.
12)
I. Pohl, The Iron Age Necropolis of Sorbo at Cerveteri, p. 303, n. 33.
13)
A. Maffei, cit., fig. 16/16-17 (dal taglio 7).
14)
H. Müller-Karpe, cit., Taf. 60/P; 72/368; 74/F.
15)
F. Barbaranelli, B.P.I., 1956, p. 478.
16)
Idem., B.P.I., 1956, p. 477 e 479: è pure presente a Torre Valdaliga, B.P.I., cit., p. 485.
17)
F. Barbaranelli, B.P.I., 1956, p. 471.
18)
A. Maffei, cit., fig. 15/4 (dal 7° taglio).
19)
I. Pohl, cit., p. 302, n. 6.
11)
28
Trattasi dunque di un solfato di calcio biidrato che per cottura a 200o C perde
l’acqua di cristallizzazione. Quale ne fosse l’uso presso le comunità villanoviane non è dato
di sapere con certezza, personalmente ritengo che potesse essere utilizzato, ridotto in
polvere anidra, come colorante, per tingere di bianco, utensili, stoffe, pelle, in pratiche
rituali; possibile anche un uso medico per via esterna ma anche per la via interna. Resta il
fatto, per la prima volta documentato, della raccolta e della manipolazione di un minerale
non metallico. La scoperta è di grande interesse anche perché richiama alla memoria i
misteriosi “tumuliartificiali” costituiti da tonnellate di frantumi e scaglie di gesso
alabastrino concentrati a poca distanza dalla Frasca nelle località di Pantano e Sterpeto, tra
i fossi delle Cave di Gesso e della Vite.
Oggi questi tumuli artificiali che un tempo si elevavano dal piano di campagna
talvolta di parecchi metri non emergono quasi più perché spianati o addirittura asportati a
seguito di ripetuti lavori agricoli o dall’Italcementi che li ha utilizzati per la produzione del
cemento bianco. La loro prima segnalazione si deve a Fernando Cordelli nell’anno 1924.
Successivamente il Mengarelli praticò in alcuni di essi scavi al fine di comprenderne la
natura e l’origine, pensando ad una assimilazione con i tumuli di Halstatt 20) .
Le indagini risultarono assolutamente negative, come negativi furono i ripetuti
sopralluoghi che vi feci tra il 1960 e il 1964, quando per lavori di bonifica fondiaria si
procedette alla demolizione di alcuni di essi.
L’evidenza è che si tratti di accumuli connessi con una intensa attività di cava dei
banchi naturali presenti nella zona, in epoca che non possiamo determinare. I
rinvenimenti de La Frasca inducono quanto meno a ipotizzare con questi banchi fossero
noti, senza escludere che i tumuli possano essere il risultato di estrazioni più antiche e che
alcune proprietà del solfato di calcio fossero conosciute e sfruttate in tempi assai più
antichi. La presenza di gesso alabastrino è assai diffusa in altre regioni della penisola,
tuttavia prende vigore l’ipotesi della diversificazione di un commercio, mediato dagli
approdi protostorici, vivificato dalla esportazione delle più disparate varietà di risorse
naturali offerte dalle singolari condizioni geo-minerarie del territorio, che potrebbe
esaltare la concentrazione degli insediamenti in questa fascia costiera tra Tarquinia e
Caere. A focalizzare il legame con il mare, come fonte di risorse alimentari sovviene il
rinvenimento nel livello XI di un osso di seppia: se si esclude una raccolta occasionale, la
utilizzazione per scopi alimentari di tale cefalopode presuppone una pratica della pesca
20)
R. Mengarelli, N.S., serie VII, vol. II, fasc. 10-11-12, 1941.
29
ben sviluppata, non limitata alla raccolta dei molluschi che pure è testimoniata da valve di
patelle.
L’economia alimentare era integrata dalla caccia e dall’allevamento come è
documentato dal rinvenimento di resti faunistici nei vari abitati noti. L’ubicazione costiera
delle presenza villanoviane, correlata alla complementarietà dell’economia e all’interesse
per le risorse naturali, delinea una vivacità culturale che non ha eguali per estensione
geografica e densità abitativa.
Tutto ciò bene si inquadra nella antichità della presenza sul mare dei “Tirreni” che
la stradizione storica greca con fantastiche esagerazioni descrive come predoni feroci, a
cominciare dagli Inni Omerici ove il dio Dionisio, rapito da questi “uomini predoni” li
punisce trasformandoli in delfini. Eforo, citato da Strabone (Strabone VI, 410), Palefato
(Epist. XX), Filocoro (5), Eustasio (Connrenti, 83-581), Diodoro di Sicilia (V, 204-9, 3),
Plutarco (Aetia Greca, 21); Stefano di Bisanzio (Kyzikos), pongono in evidenza il dominio
dei mari da parte dei “Tirreni”, esagerando l’attività predatoria e piratesca che pure deve
aver rappresentato una componente della talassocrazia etrusca che la tradizione storica
greca fa risalire ad epoca alquanto antica. Tutto lascia supporre che sin dai primi contatti
tra colonizzatori greci e popolazioni dell’Etruria storica, cioè almeno dall’IX secolo, si
debbono far risalire le origini di queste mitiche e leggendarie descrizioni, sebbene non si
possano escludere origini più remote e qui vorrei appena ricordare i rapporti nell’età del
bronzo recente e finale instaurati dai bronzisti-girovaghi e dai prospettori minari e che
potrebbero non essersi mai del tutto interrotti in un avvicendarsi di incontri amichevoli e
di sospettose attese.
Un tipo di imbarcazione con la quale i “villanoviani” potevano esercitare il controllo
delle vie marittime è possibile ricostruire verosimilmente da alcuni frammenti di un
modellino fittile, inedito, giunto fortunosamente in possesso della A.A. Centumcellae,
raccolto mi si è detto, nell’area della necropoli dell’Impiccato a Tarquinia.
Si tratta di una imbarcazione con prora rostrata, poppa con accenno di ponte,
alloggiamento al centro dello scafo per l’alberatura veliera e posti remieri, indicati con fori
sulle fiancate.
E’ un documento che attesta una ottima conoscenza della imbarcazione riprodotta;
sulla base della ricostruzione estemporanea del modellino è presumibile dedurre che
l’originale potesse avere una lunghezza di 15-20 metri con dieci-quindici posti remieri per
fiancata.
Imbarcazioni di tali dimensioni potevano arenare mediante la parte prodiera
rostrata, ma per riparare dalle forti mareggiate dovevano trovare rifugio in insenature
30
incuneate nella linea costiera o in acque interne. Esaminando la carta delle linee
batimetriche del litorale compreso tra la torre di S. Agostino e Capo Linaro notiamo che
più siti potevano offrire queste favorevoli condizioni e che in corrispondenza di questi,
come ho già ricordato, più rimarchevole è la testimonianza di impianti abitativi di epoca
preetrusca.
In questo ipotetico panorama assume interesse speculativo l’evidenza che la
stratigrafia de La Frasca è la più consistente tra quelle note.
A Torre Valdaliga purtroppo si è perduta l’opportunità di una edizione dei reperti
suddivisi per ciascuna delle quattro aree abitative esplorate, nonostante che sia stato
possibile evidenziare la loro successione cronologica.
Il caotico immagazzinamento nel Museo Nazionale di Civitavecchia difficilmente
permetterà una rivisitazione dei dati di scavo per una indagine statistica.
Tuttavia in questo abitato lo spessore antropica supera di poco il metro nonostante
che la successione citata attesti una occupazione del luogo assai vivace. In questo sito
infine, nonostante che fosse possibile, non è stato elaborato un quadro esplicativo della
intensità della occupazione per ciascuno degli strati elaborati e per ogni area abitativa
individutata, cosicchè soltanto sulla falsariga del materiale pubblicato è possibile sostenere
che lo strato più antico è quello che ha fornito un numero più elevato di frammenti e se è
vero che questo con la capanna IV, dalla quale provengono pochi frammenti di stili
“protovillanoviano” e villanoviano di impronta arcaica, è il più ricco di frammenti, la
circostanza contrasterebbe con la densa sovrapposizione di aree abitate. Probabilmente
l’area esplorata è marginale rispetto all’insediamento nel suo complesso.
Viceversa per la La Frasca il livello più antico è singolarmente povero di reperti.
Tutto ciò indica che sarebbe opportuno un riesame dei vecchi dati di scavo per poter
comparare, ove possibile, tra loro, statisticamente i vari siti.
Sarebbe infatti estremamente interessante comprendere la dinamica della
formazione delle stratificazioni archeologici degli abitati dell’età del ferro della costa
civitavecchiese, non solo ai fini di più precise definizioni cronologiche bensì anche per
valutare la densità della occupazione e quindi la valenza topografico-ambientale.
Nel caso dell’abitato de La Frasca, la potenza del riempimento, la pendenza degli
strati, il livello dell’impianto primitivo, possono essere assunti a testimoni della relativa
distanza dalla linea di costa: in questo caso l’incunearsi della linea batimetrica sull’asse
dell’odierno modesto corso d’acqua offre lo spunto a considerare l’eventualità di un
approdo incuneato ben oltre la linea costiera, verso l’interno, nel cuore dello stesso abitato.
31
Manca poi uno studio comparato degli abitati costieri per affrontare il problema
della loro successione cronologica e della loro contemporaneità. Per il nostro modo di
riflettere sui muti avanzi di questo lontano passato, siamo indotti a ritenere che in
presenza di esigue stratificazioni ci si possa trovare di fronte ad occupazioni stagionali o
temporanee o di breve durata, viceversa che in presenza di potenti riempimenti antropici,
come a La Frasca, ci si debba trovare di fronte ad una occupazione o quanto meno ad un
interesse per il sito, rinnovato e durevole. La Mattonara, la Frasca e Torre Valdaliga non
smentiscono un quadro delle influenze di Tarquinia sul litorale a nord della odierna
Civitavecchia, ma soltanto uno studio comparato al quale abbiamo fatto cenno e più
fortunata ricerche potrebbero rafforzare questo ulteriore motivo di grande interesse. Si
può aggiungere che secondo le nostre attuali conoscenze o richiami stilistici, significativi,
tra Torre Valdaliga, La Mattonara e la Frasca, confortano un qualche legame tra questi
stanziamenti, d’altronde geograficamente contigui, probabilmente pallida testimonianza di
una valenza areale con peculiarità politico-economiche, verosimilmente al servizio del
considerevole processo di urbanizzazione di Tarquinia ove si accumulavano le ricchezze
mediate dagli approdi costieri nei quali soltanto sparuti frammenti di vasellame dipinto di
argilla figulina 21) , ancora non accuratamente studiati, ne segnalano il transito.
Sulla costa rocciosa del distretto Tolfetano, compresa tra la foce del Mignone e la
foce di rio Fiume, il fatto che gli insediamenti “villanoviani”, rispetto a quelli dell’età del
bronzo proliferano in numero sorprendente, consente di ipotizzare sia una politica di
appropriazione territoriale fondata su una accresciuta attenzione al controllo della via di
transito degli approvvigionamenti minerari, (sia che fossero di origine toscana, come
sembra più probabile, sia che fossero tolfetani), ma autorizza anche a prendere in
considerazione, tenendo presente quanto si è evidenziato nell’abitato de La Frasca, lo
sfruttamento delle risorse naturali del distretto Tolfetano nel loro insieme.
Un elemento nuovo, che ora mi accingo a rendere noto, è il rinvenimento da me
effettuato, sulla battigia, nell’area di Castrum Novum, a contatto della stratigrafia dell’età
del ferro delle Guardiole, di un grosso nucleo di magnetite. Anche in questo caso le analisi
ben difficilmente potrebbero chiarire la provenienza del minerale, per i motivi che ho
sopra esposto.
Nel caso specifico poi la presenza delle strutture portuali del periodo etrusco ivi
identificate 22) potrebbe spostare l’interesse di questa presenza ad epoca più tarda, cioè ad
21)
A. Maffei, cit.; altri frammenti tuttora inediti, provengono dall’insediamento dell’età del ferro in località Acqua
fresca, bucata a nord di Torre Valdaliga.
22)
B. Frau, in Caere e il suo teritorio, cit.
32
un momento in cui Caere tramite l’avamposto de La Castellina prende il predominio di
questo tratto di costa e del distretto meridionale del territorio tolfetano, come è dimostrato
dagli innumerevoli richiami con Cere, offerti dai corredi e delle tecniche costruttive
tombali di questa area 23) , per controllare le rotte commerciali con le risorse minerarie
Ellene.
Per la verità seppure possa sembrare irrilevante, la mole del campione citato,
autorizza più una provenienza dal distretto toscano, piuttosto che da quello tolfetano: ma
restiamo nel campo della supposizione.
Saremmo autorizzati allora a proporre che l’attività estrattiva attestata a La
Castellina dal rinvenimento di scorie 24) possa realmente essere messa in relazione a
lavorazione ‘in loco’ di minerale giunto attraverso i vicini approdi costieri. Poichè questo
campo di ricerche offre molti elementi di incertezza piuttosto che dati sicuramente
affidabili, si può quanto meno sostenere che tutte le evidenze che abbiamo tentato di porre
in luce, giocano a favore di una partecipazione attiva degli approdi costieri dell’età del ferro
al controllo della via marittima di approvvigionamento minerario non solo verso
l’entroterra etrusco ma anche verso il sud della penisola e le isole.
Quanto sostiene Zifferero 25) che ripropone concetti da tempo enunciati 26) , arricchito
dalla prospettiva dello sfruttamento delle sabbie ferrifere del litorale, va tenuto ben
presente, sebbene sul ruolo svolto dall’abitato de La Castellina non deve essere dimenticata
la posizione, certamente favorevole, per controllare la via naturale che immette nel cuore
dell’area a solfuri misti, costituita dal Marangone.
Per questo sito ciò che deve essere tenuto presente e che devo necessariamente
ripetere, è quanto esplicitamente ho scritto relativamente al fatto che la testimonianza
abitativa dell’età del bronzo recente e finale postula una occupazione strategica in quel
periodo nel quale, non si può contestare, il bacino minerario della Tolfa, da qui facilmente
e rapidamente raggiungibile, nonostante la sua non rilevante potenza, abbia potuto
svolgere un ruolo assai importante nella catalizzazione dei prospettori-minerari-bronzistigirovaghi 27) e che sulla scia di questa via di penetrazione tanto antica, si siano cimentati,
magari con scarso successo, gli interessi commerciali dell’età del ferro dapprima, e del
periodo etrusco arcaico successivamente.
23)
O. Toti, Il popolamento e l’utilizzazione del suolo tra il VII e il IV secolo a.C., in Caere e il suo territorio, Ed.
Poligrafico dello Stato, 1990.
24)
O. Toti, N.S., s. VIII, vol. XXI, 1967.
25)
A. Zifferero, in Caere e il suo territorio, cit.; e più di recente in S.E., vol. LVII, s. II, 1991.
26)
Per la completa bibliografia sull’argomento da me trattato vedi: O. Toti, La civiltà protovillanoviana, cit.
27)
O. Toti, La Civiltà Protovillanoviana, cit.; idem, Protovillanoviani e Villanoviani: le radici di una realtà composita,
in Caere e il suo territorio, cit. (purtroppo edito con errori di stampa e privo di una pagina conclusiva).
33
In questo modo a me sembra che il polo costiero de La Castellina, in periodo
etrusco, abbia svolto un ruolo di collegamento notevole, affatto marginale, punta avanzata
degli interessi di Caere sul territorio, indipendentemente dalla rilevanza del successo
economico della iniziativa politica: la Castellina si pone come punta settentrionale più
avanzata nell’approvvigionamento minerario e nel controllo del traffico costiero, sia
marittimo, sia terrestre (punteggiato dalle necropoli e dai siti abitati di Castelsecco, Piana
di S. Lorenzo, Pian Sultano, Monte Tosto) al servizio di Caere.
Per concludere, accettando come attendibile l’ipotesi che la scarsità delle
testimonianze dell’età del ferro tra i Monti della Tolfa sia imputabile ad una reale perdita
di interesse per le risorse minerarie locali a cagione della loro esiguità a fronte delle
imponenti richieste sollecitate dalla evoluzione socio-economica 28)
alle prese con la
coagulazione degli interessi comunitari distribuiti tra centri protourbani di dimensioni
scalari cointeressati gerarchicamente allo sfruttamento delle risorse e al controllo delle vie
e delle rotte commerciali e non piuttosto ad una, per la verità poco probabile, per quanto
possibile, carenza di documentazione, la attestata “evoluzione persistente” che ho
ipotizzata in un mio precedente contributo 29) e le più volte ricordate testimonianze
archeologiche fornite dai frammenti tardo protovillanoviani di Monte Rovello, dalla fibula
ad arco ingrossato di tipo villanoviano della Tolfaccia, dalle tombe ad inumazione di
Poggio Ombricolo, dalla sepoltura ad incinerazione di Fontana del Papa ed ora dalle
sepolture dell’VIII secolo rinvenute alla base della Tolfaccia in vocabolo La Fontanaccia,
non colmano il contrasto con la proliferazione degli stanziamenti villanoviani della costa.
Se questo quadro è realmente lo specchio della situazione ambientale di quel lontano
periodo, si fa prepotente l’interrogativo del perché si sia verificato un incremento tanto
ragguardevole dell’attrazione per questa fascia costiera. Che si sia trattato di un
interessamento dettato dalle condizioni assai favorevoli della costa alle esigenze di una
organizzazione di scambi pare dimostrato dalla ubicazione stessa degli stanziamenti che
attestano una vita assai intensa nel tempo e nello spazio.
Il fatto stesso che l’avvicendarsi delle comunità a partire dal bronzo medio, si
concluda con un punto di arrivo che vede quelle dell’età del ferro villanoviano consolidate,
quasi senza soluzione di continuità su tutta la fascia costiera, con abitati che per estensione
superano di gran lunga i precedenti, richiama l’attenzione sulla particolare attrazione
esercitata dalle potenzialità economiche offerte dal mare quale rapida via di interscambi,
sia quale fonte diretta di risorse economiche.
28)
O. Toti, La civiltà, cit.
34
Se riflettiamo sulla circostanza che questo tratto di costa offriva numerosi, facili e
sicuri approdi sulla linea di cabotaggio tra le colonie greche dell’Italia meridionale e le
fonti minerarie dell’Elba, che a sua volta costituiva la più facile testa di ponte con la
Sardegna e la Corsica, allora dobbiamo insistere sulla portata economica e sul peso politico
di questi insediamenti costieri nell’età del ferro di cui ci stiamo interessando,
riconsiderando la loro esistenza anche in funzione di un preciso disegno politico e non
soltanto frutto di una casuale evoluzione da modelli preesistenti. Possiamo allora supporre
che la scelta dei siti sia non altro che la naturale fermentazione, anche in senso
demografico, delle precedenti occupazioni, che pure, per la verità va detto, attestano
l’apertura a correnti culturali assai vivaci, o che piuttosto la nuova realtà sia la concreta
manifestazione dello stabilizzarsi del flusso e riflusso del sommovimento culturale che
assume contorni decisamente “previllanoviani” nell’età del bronzo finale e di cui la riferita
antichità della talassocrazia tirrenica ne è la testimonianza letteraria, e il cui riflesso
archeologico è fornito dall’evoluzione della società che vede un progressivo frazionamento
della detenzione del potere economico avvertibile nella differenziazione dei corredi tombali
delle grandi comunità villanoviane in fase di coagulazione urbanistica ed una
organizzazione politica delle stesse 30) che si avverte nella gestione territoriale, in
progressiva evoluzione, in tutto l’arco temporale della diffusione dei campi d’urne 31) .
Se l’impianto degli stanziamenti marittimi è la risposta di un preciso nesso di
causalità tra la talassocrazia tirrenica, le vie di penetrazione commerciale verso le fonti di
approvvigionamento dei minerali metalliferi della Toscana, della Sardegna e della Spagna,
il ruolo svolto da questi insediamenti nello sfruttamento delle risorse minerarie del nostro
territorio sarebbe stato del tutto marginale o quanto meno secondario nell’età del ferro.
Per la verità è proprio l’ipotesi di una “evoluzione persistente” nei termini da me
proposti 32) che rifiutando l’antistorico quadro di un totale, improvviso e completo
abbandono degli stanziamenti protovillanoviani dei Monti della Tolfa, con l’invenzione di
una distruzione violenta, come pateticamente ancora taluni fautori dell’ipotesi formulata
dal Peroni 33) vorrebbero considerare verità rilevata, conferma paradossalmente il
29)
O. Toti, Protovillanoviani e villanoviani, in Caere e il suo territorio, cit.
AA.VV., Scavi nella necropoli villanoviana in località “Quattro Fontanili”, in N.S. serie VIII, vol. XVII, 1963, XIX,
1965, XXI, 1967.
31)
F. di Gennaro, Organizzazione del territorio nell’Etruria meridionale protostorica: applicazione di un modello
grafico, in Dial. Arch., 1982; idem., Forme di insediamento tra Tevere e Fiora dal bronzo finale al principio dell’età
del ferro, Bibl. St. Etr., 1986: idem; Il popolamento dell’Etruria meridionale e le caratteristiche degli insediamenti tra
l’età del bronzo e l’età del ferro, in Etruria Meridionale-Conoscenza, Conservazione, Fruizione, Ed. Quasar, 1988.
32)
O. Toti, cit.
33)
Per la verità molte rettifiche va subendo questa vecchia ipotesi da quando resi noti i dati di scavo nell’abitato di
Monte Rovello (M. Rovello, Testimonianze dei miceni nel Lazio, Ed. Ateneo, Roma, 1973). Si veda per tutti: F. di
30)
35
mutamento della politica territoriale e il richiamo offerto dalle rinnovate esigenze
economiche e commerciali.
In altri termini, assume plausibilità l’abbandono del territorio dei Monti della Tolfa
nell’età del ferro villanoviana a vantaggio delle realtà costiere, considerandolo frutto di un
“calcolo” razionale, attuato con progressività nel tempo e nello spazio, rifiutando
l’abbandono assoluto e desertificante come un esodo dalle dimensioni bibliche che
d’altronde è posto in dubbio dalle testimonianze più volte ricordate; se così non fosse non
risulterebbero razionalmente concepibili le pur sparute testimonianze villanoviane nel
cuore del bacino minerario nel suo complesso, cioè nell’area alunitica e in quella a solfuri
misti (che pure non è priva di ossidi e sesquiossidi di ferro-ematite e magnetite),
tantomeno l’abbandono improvviso, a meno che non ammettessimo un repentino
sopraggiungere del fenomeno villanoviano inteso in termini di travolgente ondata
demografica e culturale, il che francamente riaprirebbe ben altro discorso sull’origine
stessa del villanoviano, quando viceversa a me sembra che l’ipotesi delle “aree di primaria
evoluzione” 34) possa ben adattarsi ad una trasformazione culturale e a mutamenti del
paesaggio umano non traumatici ma storicamente, archeologicamente, economicamente e
socialmente accettabili in armonia con l’ipotesi che il villanoviano sia da correlarsi con un
progressivo incremento demografico determinato dal successo che arride alla diffusione
delle nuove tecniche introdotte per l’approvvigionamento dei mezzi di sostentamento in
campo agricolo e dalle migliori condizioni di vita legate alla diffusione della pianificazione
abitativa sicuramente foriera di migliori condizioni igienico-sanitarie, con il che si
conclude quella simbiosi di avvenimenti che prepara e accompagna la diffusione della
cremazione, determinando profonde trasformazioni culturali e non facilmente valutabili
mutazioni etniche, quali l’esplosione del vulcano di Thira, le invasioni dei popoli del Nord e
dei popoli del Mare, il crollo dell’assetto politico delle regioni egeo-anatoliche e orientali.
Dai dati archeologici è impossibile stabilire con certezza quanta parte della
ampiezza del fenomeno villanoviano sia imputabile alla evoluzione provillanoviana, quanta
all’invocato sinecismo e quanta al concreto sopraggiungere di nuove correnti etniche e
fermenti culturali con queste legati. Questa non è la sede per dibattere l’annoso e per molti
aspetti controverso problema che poi in definitiva si ricollega all’origine stessa della
nazionalità etrusca. Qui era sufficientemente necessario ribadire il ruolo svolto dagli
stanziamenti villanoviani del territorio tolfetano nella prospettiva di fare luce sulle effettive
Gennaro, Il popolamento dell’Etruria meridionale e le caratteristiche degli insediamenti tra l’età del bronzo e l’età del
ferro, in Etruria meridionale, Conoscenza, Conservazione, Fruizione, Atti del Convegno, Viterbo, 1985; pag. 77, note,
25 e 26, che rende giustizia a quanto da anni andavo sostenendo.
36
potenzialità economiche del territorio e sulle implicazioni politiche insite nel suo controllo
nel periodo dei campi d’urne.
Lungi dall’avere dato una risposta esauriente certo è che per tutto l’arco di questo
periodo sono degne di considerazione le testimonianze di influenze culturali e di rapporti
economici concretizzati anche dalla presenza di oggetti di chiara importazione e di
imitazione, basti accennare ai ripostigli di Coste del Marano, di Tolfa e di Monte Rovello, al
frammento submiceneo di Monte Rovello, al ripostiglio di S. Marinella, al frammento
dipinto dell’Elceto, per i quali si rimanda ai molti specifici lavori noti, oltrechè alle
tematiche ornamentali di chiara ispirazione geometrica 35) , alle importazioni nuragiche e
alla ceramica di argilla figulina precoloniale, di cui Tarquinia e Veio offrono la serie
geograficamente più vicina alla fascia costiera del territorio tolfetano.
Alfine una particolarità accomuna inevitabilmente gli abitanti villanoviani costieri:
il loro eclissarsi segna il trionfo dell’inurbamento del territorio. Ci si allontana dai lidi
scegliendo posizioni favorevoli alla novella pianificazione abitativa, al controllo delle vie
commerciali e meglio difendibili, con un processo di concentrazione in siti già occupati (La
Castellina), o in aree poco distanti già oggetto di attenzione nei secoli precedenti (la Scaglia
(Algae?); la Ficoncella (Aquae Tauri?); Punton del Castrato (Punicum?).
ODOARDO TOTI
CONTRIBUTO ALLA CONOSCENZA DELLE FIBULE DEL BRONZO FINALE
RINVENUTE IN ETRURIA MERIDIONALE
Sulla base di un lavoro di raccolta dei dati e di analisi tipologica e distributiva, è
stato recentemente possibile apportare un ulteriore contributo al quadro delle conoscenze
relative alle fibule della facies medio-tirrenica durante l’età del Bronzo finale (XII-X sec.
a.C.).
In questa sede si presentano alcune considerazioni, che si riferiscono in particolare
al territorio dell’Etruria meridionale 1) , ed integrano un altro ampio lavoro di analisi
presentato da R. Peroni ed altri nel 1979 2) .
34)
O. TOTI, Protovillanoviani e villanoviani, cit.
F. Biancofiore- O. Toti, Monte Rovello, cit.; R. Peroni, Inventaria Archeologica; Ripostigli dell’età dei metalli, fasc.
I.; V. Bianca Peroni, Le spade dell’Italia continentale, in P.B.F., vol. IV, I. 1970.; S. Bastianelli, Santa MarinellaRipostiglio di bronzi arcaici, in N.S., vol. X, serie VI, fasc. 10-12.
35)
1)
Il presente articolo costituisce la sintesi di alcune conclusioni della tesi di laurea dello scrivente (Le fibule dell’età del
Bronzo finale nel territorio dell’attuale Regione Lazio) discussa nel dicembre 1992 presso la cattedra di Protostoria
37
E’ utile ricordare come allora, confrontando le aree di distribuzione dei diversi tipi
metallici (i quali per alcune peculiari caratteristiche di standardizzazione son più
facilmente confrontabili tra loro che non la ceramica), fu possibile osservare come talvolta
tali aree si sovrapponessero, determinando unità territoriali caratterizzate sia da tipi
propri ed esclusivi, che da particolari combinazioni di tipi. Tali unità territoriali furono
denominate facies; ulteriori unità di distribuzione più limitata furono denominate gruppi.
La facies medio-tirrenica si articola in cinque gruppi: Tolfa-Allumiere nella Tuscia
e in parte nella Toscana marittima; Terni in Umbria meridionale lungo la valle del fiume
Nera; Roma-Colli Albani nel Latium Vetus; Fucino in Abruzzo occidentale; Volturno nella
Campania settentrionale.
E’ da osservare che oggi, rispetto al lavoro pubblicato in AMP, sono disponibili
diverse nuove attestazioni che non sono state considerate in esso, ovvero sono venute alla
luce successivamente alla sua edizione. Inoltre, la nuova sistemazione tipologica dei
materiali elaborata dallo scrivente essendo più dettagliata (o, per così dire, “a maglie
strette”) ha permesso di scomporre fogge e tipi già definiti in AMP in numerosi tipi e
varietà grazie alla documentazione grafica e all’esame diretto di quasi tutti gli esemplari.
Tale analisi tipologica ha reso possibile la definizione di questi tipi e varietà,
contraddistinti da un ristretto campo di variabilità che molto spesso rivestono un ben
preciso significato ai fini dello studio delle cerchie produttive, dato che un gran numero di
essi ribulta distribuito entro ambiti territoriali ben delimitati.
Il presente contributo vuole perciò focalizzare alcune conclusioni (da non
considerare in questa sede esaustive dell’intero argomento), che riguardano strettamente
infatti ben dieci tra unica, tipi e varietà di fibule proprie ed esclusive, che verranno
sinteticamente illustrate.
Iniziamo con le fibule ad arco di vilino foliato di grandi dimensioni con staffa
semicircolare. Principali caratteristiche di queste fibule tutte rinvenute nel ripostiglio di
Coste del Marano (Tolfa) - sono le splendide decorazioni a sbalzo dell’espansione foliata e
le dimensioni, che oscillano da 23,8 a 27,9 cm. di lunghezza. Sia le une che le altre sono,
naturalmente, proporzionate al rango sociale della persona che avrebbe dovuto esibirle. Un
Europea dell’Università di Roma “La Sapienza” (relatore Prof. R. Peroni, correlatore Dr. M. Pacciarelli). La
tassonomia dei materiali si è avvalsa di riproduzioni grafiche eseguite dall’autore direttamente sull’originale, tranne nei
casi in cui l’esemplare non era più reperibile o non disponibile nei Musei (per i quali il disegno è stato ricavato dalla
bibliografia). L’argomento oggetto del presente contributo implica un apparato bibliografico assai vasto ed articolato
che si è preferito ridurre al minimo per non appesantire il testo.
2)
Peroni R. - Carancini G.L. - Bergonzi G. - Lo Schiavo F. - Von Eles Masi P.: per una definizione critica di facies
locali: nuovi strumenti metodologici, in Archeologia: Materiali e Problemi 1, Il Bronzo finale in Italia, Atti del Centro
Studi di Protostoria (Roma 1978) Bari 1979, pag. 9 e ss. In seguito, nel testo, verrà abbreviato AMP.
38
particolare di rilievo è il fatto che esse non offronto confronti aderenti almeno per quanto
riguarda le dimensioni; al contrario le decorazioni (le protomi di uccello, la “barca solare”)
presentano stretti paralleli anche con classi diverse dalle fibule. Il tipo rimane esclusivo del
ripostiglio di Coste del Marano, datato unanimemente all’XI secolo a.C.
Le fibule del tipo ad arco di violino foliato di medie dimensioni due esemplari
provenienti dal sepolcreto di Allumiere - sono confrontabili con quelle appartenenti al tipo
precedente, al quale si avvicinano per le grosse borchie che ornano l’espansione foliata.
La variante del tipo è caratterizzata da cappi a otto dal lato della molla ed è
confrontabile con due esemplari, cronologicamente più antichi (fase Hallstatt Al, XII sec.
a.C.) rispetto al nostro tipo, il quale si può ascrivere per le relazioni con le fibule del
ripostiglio di Coste del Marano, all’XI sec. a.C.
Specifico del ripostiglio tolfetano è l’unicum con arco foliato a scudetti alternati a
cappi a otto. A questa fibula (considerata esclusiva del gruppo di Tolfa-Allumiere anche in
AMP), si avvicina l’esemplare rinvenuto in una località imprecisata del Fucino, che
differisce dalla nostra sia per la particolarità di avere al posto dei cappi tre noduli, che per
un diverso gusto decorativo degli scudetti. Sempre in base alla cronologia del ripostiglio di
Coste del Marano, l’esemplare si può datare all’XI sec. a.C.
Tra le fibule ad arco semplice troviamo innanzitutto l’unicum con arco ingrossato e
doppia piegatura con staffa a spirale, rinvenuto in una tomba del sepolcreto di Allumiere.
La fibula nel suo insieme non trova confronti puntuali; viceversa i singoli elementi hanno
qualche riscontro con esemplari di altre fogge.
In primo luogo la staffa di filo avvolta a spirale, caratteristica di alcuni tipi di fibule
serpeggianti. Anche l’ingrossamento dell’arco è paragonabile con fibule ad arco ingrossato
a doppia piegatura appartenenti ad un tipo che possiede una diffusione più vasta. Il
contesto di rinvenimento, cioè una sepolture che oltre alla fibula descritta conserva
materiali ceramici decorati con un gusto particolarmente elaborato, fa pensare ad una fase
cronologica particolarmente avanzata nell’ambito del Bronzo finale (fine X sec. a.C.)
Tra le fibule ad arco semplice con doppia piegatura e noduli, l’unico tipo esclusivo
del gruppo a nord del Tevere è quello caratterizzato da noduli non rilevati, ma sottolineati
in negativo con due o tre profonde scanalature. La decorazione dell’arco è completata con
incisioni a spina di pesce e linee anulari.
Gli esemplari di questo tipo provengono tutti (tranne uno da una località
sconosciuta dei Monti della Tolfa e dunque da un contesto ignoto) da contesti funerari,
rinvenuti a Coste del Marano, Sasso di Furbara (Cerveteri), Valle del Campaccio
(Allumiere), Montarano Sud (Civitacastellana).
39
Il tipo è distinto in due varietà che, nell’ambito del gruppo Tolfa-Allumiere,
rappresentano molto bene due produzioni, una delle quali precisamente localizzabile;
infatti la varietà A (Coste del Marano e località sconosciuta dei Monti della Tolfa) è
contraddistinta da piccole ma profonde incisioni a zig-zag trasversale presso i noduli (non
possedute dalla varietà B), che potrebbero costituire un probabile “marchio di fabbrica”.
Cronologicamente il tipo è da porsi in un momento avanzato dell’XI sec. a.C.
Un arco molto sottile con una sola piegatura alla sommità dell’arco ed una
decorazione a fasci di linee incise alle estremità di quest’ultimo, contraddistinguono un
unicum rinvenuto sporadicamente nel sepolcreto di Allumiere. Poiché non esistono fibule
con una sola piegatura alla sommità, non si può escludere che l’arco si sia in realtà
deformato.
Sempre dalla necropoli di Allumiere proviene (questa volta all’interno di una tomba)
l’unicum con arco di filo piegato in modo da formare una serie continua di occhielli,
all’interno dei quali è inserito un pendaglietto a doppia spirale; la staffa è semplice.
Il nostro esemplare appartiene cronologicamente ad un momento avanzato
nell’ambito dello sviluppo dei gruppi “protovillanoviani” ma è stato anche rinvenuto in
tombe oramai “villanoviane”, come ad esempio a Falerii e a Bologna.
Ad un tipo costituito da molte varietà, alla varietà di piccole dimensioni
appartengono due esemplari di fibule (entrambi dai tumuli di Crostoletto di Lamone) di un
tipo costituito da molti esemplari, e caratterizzato da un arco semplice con una piegatura
attenuata alla sommità, gomito sopra la staffa, due gruppi di noduli costolati ai lati
dell’arco e decorazione incisa a spina di pesce e linee anulari.
Gli esemplari del tipo (siano essi di grandi, medie o piccole dimensioni) mostrano
comunque una forte uniformità tipologica, e sono cronologicamente ascrivibili, soprattutto
sulla base di numerosi esemplari di grandi dimensioni provenienti dal ripostiglio di Coste
del Marano, all’XI secolo a.C.
L’ultimo tipo da considerare, è quello rappresentato dalle fibule caratterizzate da
grandi e medie (varietà A), e piccole dimensione (varietà B), arco con due piegature e
decorazione incisa a zone a spina di pesce e fasci di linee anulari.
Soltanto le fibule appartenenti alla varietà A sono proprie ed esclusive del gruppo
Tolfa-Allumiere. La loro provenienza è esclusivamente sepolcrale: Sorbo (Cerveteri),
Allumiere, Sasso di Furbara (Cerveteri), Montorgano (Cerveteri), Monte Tosto (Cerveteri).
Il tipo comunque è alquanto omogeneo e cronologicamente si pone nella fase terminale del
Bronzo finale (X sec. a.C.).
SAVINO SBARRA
40
LA NECROPOLI ORIENTALIZZANTE E TARDO-ARCAICA DI VILLA BRUSCHIFALGARI A TARQUINIA
Preliminarmente è da precisare che la presente relazione nasce dai diversi contributi
degli autori. Ludovico Magrini, infatti, individuò l’area archeologica e ne diresse lo scavo;
Mirella Milla curò il restauro dei corredi, mentre allo scrivente fu affidato il commento dei
reperti e la pubblicazione dei risultati.
41
Questo lavoro era già pronto nell’autunno del 1985 ma, vari ostacoli ne impedirono
la stampa. Ora, per evitare ulteriori ritardi, si è preferito mantenere la bibliografia
aggiornata fino alla data indicata.
Intanto, come è noto, purtroppo, Ludovico è deceduto improvvisamente a Roma l’8
novembre 1991.
Egli fu l’infaticabile animatore dei Gruppi Archeologici Italiani, sempre sostenuto da
un convincimento di fondo al quale si è ispirato costantemente nella sua poliedrica opera
di organizzatore, studioso, pubblicista, conferenziere: che la coscienza civica di un
cittadino moderno debba essere fondata sulla consapevolezza delle ‘proprie radici storiche
e culturali’ e che soltanto da questa rinnovata convinzione etica e spirituale possa derivare
un nuovo senso del Dovere, finalmente capace di superare i meschini egoismi individuali.
Pertanto, fedele a questo assunto, fu tenace ricercatore delle varie testimonianze del
passato della ‘sua’ Tarquinia, fiducioso che la stessa impostazione potesse essere applicata
all’intero
patrimonio
archeologico
-
artistico
-
culturale
della
Nazione.
Contemporaneamente, fu instancabile suscitatore di energie, entusiasmi, consensi nelle
più giovani generazioni e nell’opinione pubblica in generale.
La partecipazione a questo lavoro, sebbene un segno, è comunque una ulteriore
inequivocabile testimonianza del Suo versatile ingegno.
Infine, mentre faccio presente che i disegni delle planimetrie delle tombe sono
dell’amico Ettore De Giovanni, rivolgo un sentito e vivo ringraziamento a Bruno Blasi,
Presidente della S.T.A.S., che mi ha premurosamente invitato a pubblicare questa
relazione su una necropoli tarquiniese nel Bollettino della benemerita Associazione,
indiciato perciò come la sede più naturale e più appropriata.
C.V.P.
Chi percorrendo l’Aurelia, proviene da Roma, incontra Villa Bruschi-Falgari
immediatamente sulla destra, poco dopo il bivio per arrivare a Tarquinia. E’ ubicata in una
ampia rientranza del declivio sud-occidentale dei Monterozzi 1) , dove è localizzabile una
delle più antiche sorgenti della Corneto medioevale: la Fonte dei Giardini o dell’Isaro 2) .
In questa località fresca ed amena, i Conti Bruschi - Falgari vollero erigere una
costruzione in stile classicheggiante che si aggiungeva ad un precedente edificio rustico ed
alla Cappella gentilizia.
1)
2)
I.G.E., f. 142 I.S.O.: 32TQM281805.
Cfr.: POLIDORI 1977 p. 81; MAGRINI 1965 p. 11 sg.; GUERRI 1980 p. 27.
42
Più che una residenza, si tratta di un complesso suburbano, sprovvisto di
attrezzature per il pernottamento, da utilizzare nei momenti lasciati liberi dai negotia
cittadini.
Il parco, ricco di essenze arboree, è ingentilito da resti di capitelli medioevali, plinti
e porzioni di colonne, tratti probabilmente dalla demolita Chiesa di S. Giovanni
dell’Isaro 3) , nella quale, a sua volta, già in precedenza erano stati riutilizzati materiali
romani 4) . Numerose sono anche le casse di sarcofagi in nenfro, alcune delle quali provviste
di coperchi con personaggi recumbenti, provenienti dai frequenti scavi archeologici
intrapresi dalla Famiglia Bruschi, soprattutto nel secolo scorso, nelle sue ampie
proprietà 5) e nell’area dei Monterozzi 6) .
Sui poggi che a Nord e a Sud delimitano lo spazio pianeggiante della Villa, il Gruppo
Archeologico Romano, nella primavera del 1969, accertava l’esistenza, anche in quest’area
contigua al Tumulo Luzi ed alla Tomba del Maestro delle Olimpiadi, di una necropoli
orientalizzante e tardo - arcaica, rivelata da alcuni saggi clandestini. Lo scavo di recupero,
compiuto
in
collaborazione
con
la
Soprintendenza
Archeologica
per
l’Etruria
Meridionale 7) , permette di identificare un complesso di sette tombe, scavate nel banco di
arenaria, appartenenti ai seguenti tipi: 4 a fossa, 1 a falsa camera del tipo “a fenditura”, 2 a
camera. Di queste la prima è stata scoperta isolata, sul poggio settentrionale; tutte le altre
sono raggruppate sulle pendici del poggio meridionale, in un’area approssimativamente
romboidale, di circa m. 20 di lato, orientata Nord-Sud.
Le tombe sono state indicate con una numerazione cardinale progressiva che riflette
l’ordine di rinvenimento; ma in questa sede vengono illustrate secondo un ordine
cronologico, desunto dalla datazione dei corredi rinvenuti, a cominciare, ovviamente, dalla
più antica.
Morfologia delle tombe
3)
Cfr.: POLIDORI 1977 p. 128; CORTESELLI-PARDI 1976 p. 96; CORTESELLI-PARDI 1983 p. 50; TIZIANI 1984
P. 13.
4)
Nei pressi sono stati localizzati i resti di una villa romana di età tardo-repubblicana, cfr.: NOVELLONE 1970 p. 9;
BRUNETTI NARDI 1972 p. 78.
5)
In questa parte del territorio tarquiniese la Proprietà Bruschi-Falgari si estendeva dalla Villa omonima fino a Porta
Clementina e al Calvario, cfr.: HELBIG 1881, p. 47; PASQUI 1885 p. 522; PALLOTTINO 1937 col. 53 nota 2;
MORETTI 1959 p. 112.
6)
Sugli scavi ad occidente dell’attuale Cimitero, cfr: HELBIG 1869 pp. 193-201; sugli scavi a settentrione nel
Cimitero, cfr.: HELBIG 1880, p. 43; sugli scavi a oriente del Cimitero, cfr.: HELBIG 1869, p. 193-201; sugli scavi a
settentrione nel Cimitero; cfr.: HELBIG 1880, p. 43; sugli scavi a oriente del Cimitero, cfr.: HELBIG 1869, p. 257; ID.
1870 p. 57; ID. 1874, pp. 236-240; ID. 188.
7)
Cfr. MITCHELL 1970 pp. 7-9; CATALDI-MELIS 1971 p. 22 n. 10; BRUNETTI-NARDI 1972 p. 78. Si coglie
l’occasione per ringraziare il precedente Soprintendente all’Etruria Meridionale Prof. M. Moretti per l’invito alla
cooperazione rivolto all’Associazione e l’Assistente, Sig. A. Coletta che ha seguito le varie fasi del recupero.
43
I) Tomba n. 3
Trattasi di una tomba a fossa, lunga circa m. 1,10, larga m. 0,52, profonda m. 0,70.
Interamente presenta, a m. 0,45 di profondità, una risega rettangolare larga mediamente
m. 0,15, delimitante un incasso rettangolare lungo m. 0,75, largo m. 0,22, alto m. 0,26,
provvisto di un poggiatesta rettangolare, rilevato lungo m. 0,20. Chiusa da una lastra di
nenfro rettangolare, con dimensioni di poco inferiori a quelle della fossa, spessa m. 0,18, è
orientata ad Ovest.
II) Tomba n. 4
E’ una piccola tomba a falsa camera, preceduta da dromos rettangolare,
complessivamente lunga circa m. 4, larga m. 2,05 e profonda m. 1,20. Il dromos si articola
in una parte gradinata, costituita da tre scalini di varia dimensione per alzata e pedata ed
in una parte di pianta rettangolare avente funzione di vestibolo, antistante all’ingresso
della camera funeraria. Quest’ultima, di pianta quadrangolare, lunga circa m.1,55, larga m.
1,60 ed alta m. 1,15, presenta le pareti laterali aggettanti all’interno, in maniera da
costituire una sezione semi-ogivale. La fenditura rettangolare è, in proporzione, molto
larga, misurando circa m. 0,76. Una bassa banchina lunga m. 1,30 larga m. 0,70 ed alta m.
0,25 si stende lungo la parete laterale sinistra, con uno dei lati corti addossati sulla parete
di fondo. L’ingresso, ampio m. 0,41, con gli stipiti larghi m. 0,35, leggermente inclinati
verso l’interno, era chiuso da un rozzo lastrone non sbozzato. L’orientamento è ad Ovest.
In fase di sterro sono stati ritrovati eventuali filari di blocchi che potessero completare o
restringere l’aggetto delle pareti, laterali e neppure tracce di piani di imposta. Si è
rinvenuto soltanto un unico blocco rettangolare, lungo m. 0,84 e largo m. 0,70, all’interno
della piccola camera funeraria che quindi doveva far parte della copertura. La tomba è
catalogabile fra quelle del tipo “a fenditura”.
III) Tomba n. 6
Trattasi di una tomba a fossa, lunga circa m. 1, larga m. 0,50, delimitata
internamente da una risega rettangolare che racchiude un incasso rettangolare lungo m.
0,65 e largo m. 0,35. E’ orientata a Nord-Est.
IV) Tomba n. 7
Trattasi di una tomba a fossa, lunga circa m. 2,30, larga m.1,30, delimitata
internamente da una risega disposta soltanto su i due lati lunghi e su un lato corto e
racchiudente un incasso rettangolare lungo circa m. 2 e largo m. 0,60. E’ orientata ad
Ovest.
44
V) Tomba n. 2
Trattasi di una tomba a fossa, lunga circa m. 1,10, larga m. 0,55, delimitata
internamente da una risega rettangolare irregolare. Sul lato meridionale, infatti, si nota
una rientranza angolare con un lato obliquo e nell’angolo sud-occidentale una ulteriore
rientranza semi-circolare, dai contorni molto accidentati.
L’incasso risultante, che ne riflette l’anomalia, è lungo m. 0,72, largo m. 0,35.
L’orientamento è a Nord-Est.
VI) Tomba n. 1
E’ una tomba a camera, preceduta da dromos allungato, complessivamente lunga m.
12, larga m. 3,30 e profonda altrettanto. Il dromos di pianta rettangolare molto allungata,
deviante decisamente verso est, è costituito da una parte gradinata, composta da sei
scalini, abbastanza ampi in pedata e bassi per alzata. L’area avente funzione di vestibolo è
di pianta sostanzialmente quadrangolare. La camera funeraria, di pianta rettangolare,
lunga circa m. 4,50 con pareti verticali, è stata rinvenuta priva del soffitto già crollato in
precedenza. Internamente si notano una banchina laterale, più piccola (m. 2,00x0,80)
collocata sulla parete lunga di sinistra ed una banchina più grande, addossata sulla parete
di fondo (m. 3,30x1,10) con il piano di deposizione che si addentra nella parete laterale
destra di m. 0,60. Si determina così una rientranza rettangolare che porta la larghezza
complessiva della camera funeraria appunto a m. 3,30. L’ingresso rettangolare, ampio m.
0,80 con gli stipiti larghi m. 0, 90 presentava ancora in situ quattro blocchi irregolari posti
a sigillo. E’ orientata a Sud-Est. Lo stato di conservazione è pessimo: infatti le pareti
laterali si sono conservate soltanto fino all’altezza delle banchine; il dromos mostra
un’ampia fenditura che l’attraversa per quasi tutta la sua lunghezza, mentre le sue pareti
sono compromesse da lesioni e da vuoti conseguenti al distacco di consistenti frammenti di
arenaria.
VII) Tomba n. 5
E’ una tomba a camera, preceduta da un corridoio di accesso rettangolare, lunga
complessivamente circa m. 5,70 e larga m. 2,60. Il dromos si articola in una gradinata
ripida formata da cinque scalini con una alzata piuttosto accentuata ed in un’area con
funzione di vestibolo di pianta rettangolare, più larga che profonda. La camera funeraria di
pianta rettangolare lunga m.3,00, larga m. 2,60, con pareti verticali, è stata rinvenuta priva
del soffitto, crollato in precedenza. Lungo le pareti laterali lunghe sono addossate due
banchine rettangolari con uno dei lati corti poggianti sulla parete di fondo, che misurano
45
rispettivamente: quella di sinistra m. 2,15x0,60 e quella di destra m. 2,15 x 0,65. L’ingresso
rettangolare largo mediamente 0,70 m. presenta gli stipiti con una leggera strombatura
verso l’esterno. E’ orientata a Sud-Ovest.
CATALOGO DEI CORREDI
dalla tomba a fossa n.3
Ceramica Italo-geometrica
I. Oinochoe
H. 19,6; Ø bocca 6,8; Ø max. 12,8; Ø base 5,1. Ricomposta da frammenti con
integrazioni in gesso. Argilla depurata a superficie nocciola chiara con vaste scheggiature.
Bocca trilobata; collo cilindroide; corpo ovoidale con spalla poco arrotondata; base distinta
a disco incavato; ansa a doppio bastoncello impostata verticalmente. Decorazione dipinta
in bruno - rossastro ed in bruno-marrone: labbro interamente verniciato; sul collo sei linee
orizzontali distanziate; sulla spalla zone metopali campite da trattini ondulati, delimitate
da gruppi di linee verticali e al di sotto tre linee orizzontali; sul resto del corpo due larghe
fasce comprendenti tre linee orizzontali distanziate; sull’ansa tre fasce orizzontali mediane,
distanziate, intersecate da tre linee verticali.
2) Kotyle
H. 8,2; Ø bocca 10,3; Ø max. 13,6; Ø base 3,9. Ricomposta da 25 frammenti, manca
di parte del bordo e di un’ansa. Argilla figulina a superficie nocciola chiara. Orlo
assottigliato; bordo curvilineo inclinato all’esterno; vasca poco ampia ma profonda; base
distinta ad occhino; anse a bastoncello impostate orizzontalmente sotto l’orlo. Decorazione
dipinta rosso-amaranto: sotto l’orlo due sottili linee orizzontali; al di sotto, una fascia
campita da una successione di trattini “a sigma” verticali, compresa fra gruppi di linee
verticali; sulla vasca, linee orizzontali spaziate; alla base, tre fasce orizzontali di diversa
altezza; sulle anse, una fascia orizzontale.
Impasti
3) Olpe - Attingitoio
H; 12,9; Ø bocca 9,8; Ø max. 13; Ø base 4,5. Ricomposta da numerosi frammenti,
con integrazioni in gesso, manca di parte del collo e del corpo. Impasto a superficie brunomarrone-scuro, con ingubbiatura. Orlo arrotondato; labbro inclinato all’esterno; collo
tronco-conico; spalla breve ed arrotondata; corpo ovoidale; base distinta a disco incavato;
ansa sormontante, a nastro agli attacchi sull’orlo e sulla spalla e a bastoncello schiacciato
nella parte più alta.
46
4) Skyphos
H. 8,2; Ø bocca 9,8; Ø max. 14,8; Ø base 3,9. Ricomposto da 9 frammenti, con
integrazioni in gesso, manca di parte del labbro e del corpo. Impasto a superficie brunomarrone-scuro, con ingobbiatura. Orlo assottigliato; brevissimo collo inclinato all’esterno;
corpo ovoidale leggermente allungato; base sagomata ad anello; anse a bastoncello
impostate obliquamente sulla spalla. Decorazione incisa: sulla spalla, una successione di
triangoli puntinati internamente.
5) Tazza carenata biansata
H. 12,3; Ø bocca 15,7; Ø max (in frat.) 19; Ø base 5,8. Ricomposta da numerosi
frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte del labbro, del bordo e di un’ansa.
Impasto a superficie bruno - marrone con ingobbiatura. Orlo arrotondato; labbro
leggermente estroflesso; bordo in risalto inclinato all’interno; breve spalla poco
arrotondata; vasca carenata ampia e bassa, a profilo arrotondato; base distinta ad anello;
anse a nastro sormontanti impostate verticalmente, margini fortemente rilevati e fessure
triangolari allungate all’interno. Decorazione impressa: bordo delimitato da due linee a
“falsa cordicella”; sulla spalla, successione di larghe solcature verticali, interrotte da una
bugna rilevata sulla carena in posizione mediata, ornata da trattini a “falsa cordicella”.
6) Tazza carenata biansata
H. 6,2; Ø bocca 11,2; Ø max. 6,2; Ø base 4,2. Integra, con scheggiature sul labbro.
Impasto a superficie bruno - marrone con ingobbiatura. Orlo assottigliato, labbro
leggermente estroflesso; bordo quasi verticale; spalla breve e poco arrotondata; vasca con
carena accentuata, bassa e larga, a profilo quasi convesso; base distinta a disco; anse
sormontanti, a nastro agli attacchi sull’orlo e sulla carena e a bastoncello schiacciato nella
parte più alta. Decorazione plastica: sul bordo una nervatura mediana rilevata; sulla spalla
una successione di piccole solcature inclinate, interrotta da una bugna sulla carena in
posizione centrale.
7) Tazza carenata manoansata
H. 9,4; Ø bocca 12,5; Ø max. 15,2; Ø base 4,8. Ricomposta da numerosi frammenti,
con integrazioni in gesso, manca di parte del labbro e del bordo. Impasto a superficie
bruno - marrone con ingobbiatura. Orlo assottigliato; labbro estroflesso; bordo quasi
verticale; spalla breve poco arrotondata; carena accentuata, vasca poco ampia e bassa a
47
profilo rigido; base distinta a disco; ansa a nastro sormontante, margini rilevati e fessura
triangolare allungata nella parte interna. Decorazione impressa: alla base del bordo una
linea orizzontale a “falsa cordicella”; sulla spalla una successione di larghe solcature
verticali.
8) Tazzina carenata manoansata
H. 5,3; Ø bocca 6,4; Ø max 7,5; Ø base 2,5. Integro, con scheggiature sul labbro ed
integrazioni in gesso della vasca e della base. Impasto a superficie bruno - marrone con
ingobbiatura. Orlo assottigliato; labbro estroflesso; bordo leggermente inclinato
all’esterno; spalla appena indicata; carena accentuata; vasca bassa e stretta a profilo rigido;
base indistinta a disco; ansa sormontante, a nastro in corrispondenza degli attacchi sulla
carena e sull’orlo, a bastoncello schiacciato, nella parte più alta.
9) Calice su piede
H. 5,4; Ø bocca 10,7; Ø base 5,1. Ricomposto da numerosi frammenti, con
integrazioni in gesso, manca di parte del bordo e della vasca. Impasto a superficie bruno marrone con ingobbiatura. Orlo arrotondato; bordo leggermente inclinato all’interno;
vasca carenata bassissima e poco larga, a profilo curvilineo; basso piede espanso.
10) Piatto
H.4,9; Ø max. 25,1; Ø base 6,6. Ricomposto da 18 frammenti, con integrazioni in
gesso, manca di parte della base; vaste scheggiature. Impasto a superficie bruno - rossastra
con ingobbiatura. Orlo arrotondato; labbro estroflesso espanso, con due fori passanti e
accentuato risalto dell’attaccatura con il bacino ampio, basso a profilo rigido. Decorazione
dipinta in bruno - rossastro lacunosa.
11) Fuseruola
H.2; Ø max. 3,7. Impasto a superficie bruno - marrone con ingobbiatura. Corpo
tronco - conico basso e leggermente incavato; foro passante verticale.
12) Rocchetto
H. 4,5; Ø max. 2,6. Impasto a superficie bruno - marrone con ingobbiatura. Corpo
cilindrico, espanso alle estremità, con terminazioni leggermente convesse.
13) Rocchetto
48
H. 4,3; Ø max. 3,1. Impasto a superficie bruno - marrone con ingobbiatura. Corpo
cilindrico, espanso alle estremità, con terminazioni incavate.
14) Rocchetto
H. (in frat.) 3,1; Ø max. 3. Incompleto, mancante della metà. Impasto a superficie
bruno-marrone
con
ingobbiatura.
Corpo
cilindrico,
espanso
all’estremità,
con
terminazione arrotondata.
dalla tomba a falsa camera n.4
Impasti
15) Oinochoe a collo tronco - conico allungato
L. max 7, L. min. 2 Rimangono 33 frammenti parzialmente ricongiungibili di orlo
arrotondato, labbro trilobato, collo tronco - conico allungato, pareti, base distinta a disco e
di ansa a doppio bastoncello impostata verticalmente. Impasto a superficie brunomarrone-scuro con ingobbiatura. Decorazione incisa ed impressa: alla base del collo tre file
di puntini e al di sotto, tre linee orizzontali; sulla spalla una successione di “denti di lupo”
campiti con trattini obliqui.
16) Oinochoe a becco d’anatra
L. max. 8,3; L. min. 3,5. Rimangono 7 frammenti parzialmente ricongiungibili di
labbro trilobato, con lobo anteriore prominente, orlo arrotondato, pertinenti a tipo non
meglio specificabile. Impasto a superficie bruno-marrone-rossastro, con ingobbiatura.
17) Olla
H. 13,8; Ø bocca 9,6; Ø max. 16; Ø base 6,2. Ricomposto da numerosi frammenti
con integrazioni in gesso, manca di parte del corpo. Impasto a superficie bruno - marrone
con ingobbiatura. orlo quasi piatto; brevissimo collo tronco-conico; corpo ovoidale
espanso, con spalla ampia e arrotondata; base a disco indistinta; presina triangolare,
impostata obliquamente sulla spalla.
18) Skyphos
H. 9,3; Ø bocca 11,3; Ø max. 12,4; Ø base 4,7. Ricomposto da numerosi frammenti
con integrazione in gesso, manca di parte del labbro, del corpo e delle anse. Impasto a
superficie bruno - marrone - chiaro, con ingobbiatura. Orlo assottigliato; labbro verticale;
corpo ovoidale con spalla breve ed arrotondata; base a disco distinto; anse a bastoncello
49
impostate con leggera inclinazione sulla spalla. Decorazione incisa: sulla spalla,
successione di piccoli triangoli fra due linee orizzontali: al di sotto, un airone stilizzato
rivolto verso destra, rappresentato con testa semicircolare, lungo becco triangolare, corpo
allungato reso con cinque linee curve disposte in ordine crescente dall’alto in basso, zampe
curve a “forcina”.
19) Kantharos a vasca bassa
H. 6,6; Ø max. 11,8; Ø base 5,1. Ricomposto da numerosi frammenti con
integrazioni in gesso, manca di parte del bordo, della vasca e delle anse. Impasto a
superficie bruno-marrone-scuro con ingobbiatura. Orlo arrotondato; labbro estroflesso;
bordo inclinato all’esterno; vasca carenata bassa e poco ampia; base a listello inclinato;
attacchi delle anse del tipo a nastro sull’orlo e sulla carena. Decorazione plastica:
esternamente alla vasca una successione di grosse baccellature.
20) Tazza carenata monoansata
L. max. 10; L. min. 2,3. Rimangono 5 frammenti parzialmente ricongiungibili di
bordo verticale, spalla breve ed arrotondata, vasca carenata ampia e bassa, ansa a nastro
restringentesi verso l’alto e margini rilevati. Impasto a superficie bruno-marrone-scuro,
con ingobbiatura.
21) Tazza carenata mononansata
L. max. 5; L. min. 2,3. Rimangono 8 frammenti parzialmente ricongiungibili di
bordo inclinato all’interno, spalla breve ed arrotondata, vasca carenata ampia e bassa, ansa
a nastro restringentesi verso l’alto con margini rilevati. Decorazione: successione di piccole
solcature verticali sulla spalla. Impasto a superficie bruno-marrone-chiaro.
22) Tazza carenata
L. max. 5,7x L. min. 3,5. Rimane un frammento di bordo leggermente inclinato
all’interno, di spalla breve ed arrotondata, di vasca carenata pertinente a tipo non meglio
specificabile. Decorazione: alla base del bordo, una linea impressa a falsa cordicella; sulla
spalla, una successione di piccole solcature verticali. Impasto a superficie bruno-marrone
con ingobbiatura.
23) Ansa
50
L. max. 6; L. min. 3,2. Ricomposta da 4 frammenti ricongiungibili. Tipo
sormontante, nastriforme agli attacchi e a bastoncello nella parte più alta, pertinente a
tazza carenata. Decorazione impressa a “falsa cordicella”: lungo i margini una coppia di
linee verticali; alla base dell’attaccatura sulla carena, quattro linee orizzontali e alla base
dell’attaccatura sull’orlo, tre linee semicircolari. Impasto a superficie bruno-marrone.
24) Tazzina carenata monoansata
H. (in frat.) 5; Ø bocca 5,9; Ø base 2,8. Manca di parte del bordo e dell’ansa.
Impasto a superficie bruno-marrone-scuro, con ingobbiatura. Orlo assottigliato; bordo
leggermente estroflesso; vasca carenata bassa e stretta; base indistinta a disco; ansa a
bastoncello sormontante, impostata verticalmente, con attacchi sull’orlo e sulla carena.
25) Coppa emisferica su piede
L. max. 8,7; L. min. 2,6; Ø base 10,4. Rimangono 13 frammenti parzialmente
ricongiungibili di bordo con orlo arrotondato, di vasca emisferica a parete curva, di alto
piede espanso. Decorazione impressa a “falsa cordicella”; sul bordo; elementi di meandro
verticale in successione. Impasto a superficie bruno-marrone-chiaro, con ingobbiatura.
26) Coppa su piede
H.9,8; Ø max. 10,1; Ø base 7,5. Ricomposta da numerosi frammenti, manca di parte
del labbro, della vasca e del sostegno. Impasto a superficie bruno-marrone, con
ingobbiatura. Orlo assottigliato; labbro inclinato all’esterno; vasca emisferica con pareti
curvilinee e bordo leggermente inclinato all’interno; piede espanso con basso sostegno
tronco-conico.
27) Calice
H. 7,2; Ø bocca 15,3; Ø base 6,2. Ricomposto da numerosi frammenti, con
integrazioni in gesso, manca di parte del bordo. Impasto a superficie bruno-marronechiaro, con ingobbiatura. Orlo assottigliato; bordo leggermente inclinato all’esterno; vasca
carenata ampia e bassa; base a listello verticale. Decorazione: sul bordo due nervature
distanziate.
28) Ciotola monoansata
H. 4,7; Ø max. 13; Ø bocca 12,3. Ricomposta da numerosi frammenti, con
integrazioni in gesso, manca di parte del bordo, della vasca e dell’ansa. Impasto a
51
superficie bruno-marrone-scuro, con ingobbiatura. Orlo arrotondato; bordo basso
inclinato all’interno; vasca ampia e bassa; ansa a bastoncello impostata obliquamente sul
bordo.
Bronzi
29) Fibula ad arco ingrossato
L. 2. Incompleta, mancante di parte della molla, dell’ardiglione e della staffa.
Fortemente ossidata ed incrostata.
30) Fibula a sanguisuga
L. 1,2. Incompleta, mancante della molla e dell’ardiglione. Fortemente ossidata ed
incrostata.
31) Fibula a sanguisuga
L. 1,4. Incompleta, mancante della molla, dell’ardiglione e della staffa. Fortemente
ossidata ed incrostata.
32) Fibula a sanguisuga
L. 1,4. Incompleta, mancante della molla, dell’ardiglione e della staffa. Fortemente
ossidata ed incrostata.
33) Fibula a sanguisuga
L. 1,6. Incompleta, mancante della molla, dell’ardiglione e della staffa. Fortemente
ossidata ed incrostata.
34) Fibula ad arco serpeggiante
L. 2. Incompleta, mancante di parte dell’arco, della staffa, dell’ardiglione e della
molla. Fortemente ossidata ed incrostata. Decorazione: due coppie di apofisi globulari ai
lati dell’arco.
35) Fibula
L. 5,5. Un frammento di ardiglione ossidato ed incrostato.
36) Anello
Ø 2. Incompleto. Filo a sezione tonda. Ossidato, con incrostazioni.
37) Frammenti
Particelle a sezione piatta, ossidati ed incrostati.
Ferro
38) Lancia
52
Lung. 35,5; Larg. 4,5; Ø 2,2. Ricomposto da 2 frammenti, ossidati e con
incrostazioni, manca di parte del cannone. Lama foliata allungata; cannone cilindrico a
sezione circolare, cavo internamente.
39) Puntale
Lung. 14,6; Larg. 2,6. Ricomposto da due frammenti ossidati e incrostati. Corpo di
forma conica allungata, a sezione circolare, internamente cavo.
40) Lancia
Lung. 7,2; Larg. 2,7. Rimane un frammento di cannone a sezione circolare,
notevolmente ossidato e con incrostazioni calcaree.
41) Lancia
Lung. 5,9; Larg. 2,5. Rimane un frammento di cannone a sezione circolare,
notevolmente ossidato e con incrostazioni calcaree.
dalla tomba a fossa n. 6
Ceramica italo-geometrica
42) Skyphos
H. 13,7; Ø bocca 14,7; Ø max. 16,8; Ø base 6,7. Ricomposto da numerosi frammenti,
con integrazioni in gesso, manca di parte della spalla, della vasca e della base. Argilla
figulina a superficie nocciola. Orlo assottigliato; breve collo quasi verticale; spalla
arrotondata e stretta; vasca ampia e profonda; base distinta a disco incavato; anse a
bastoncello impostate obliquamente sulla spalla. Decorazione dipinta in bruno-amaranto,
parzialmente evanita e lacunosa; sul collo due linee orizzontali; sulla spalla, fra una coppia
di linee orizzontali una fascia campita da una linea ondulata che prosegue sulle anse; sulla
vasca verniciatura uniforme.
43) Bacino a tre piedi
H. 6,4; Ø max. 20,5. Ricomposto da 16 frammenti, con integrazioni in gesso, manca
di parte del labbro e dei piedi. Argilla figulina a superficie giallina. Labbro a tesa,
orizzontale, con orlo assottigliato; vasca ampia e bassa con pareti notevolmente curvilinee;
fondo leggermente ombelicato; tre piedi a bastoncello schiacciato, posti a distanza
simmetrica. Decorazione dipinta in amaranto; verniciatura uniforme del labbro e della
parte più alta della vasca; completa verniciatura dell’interno ad eccezione di una fascia
risparmiata in corrispondenza del labbro.
Bucchero
44) Skyphos
53
H. 6,7; Ø bocca (in frat.) 10,2; Ø base 3,8. Ricomposto da 5 frammenti, manca di
parte del labbro, della spalla, della vasca e delle anse. Orlo assottigliato; labbro breve,
leggermente inclinato all’esterno; vasca stretta e profonda; base distinta ad echino; ansa a
bastoncello impostata orizzontalmente sulla spalla. Decorazione incisa: sulla spalla serie di
ventaglietti semi - aperti rivolti verso destra; sulla vasca tre gruppi di linee orizzontali
spaziati.
Impasto
45) Olla su piede
H. 17,5; Ø bocca 14,7; Ø max. 18; Ø base 10,5. Ricomposto da 19 frammenti, manca
di parte del corpo. Integrato. Impasto a superficie bruno - rossastro, con ingobbiatura.
Orlo arrotondato; ampio labbro estroflesso; corpo globulare, leggermente schiacciato;
basso piede espanso. Decorazione dipinta in bruno - rossastro disposta su tutta la
superficie; lacunosa.
dalla tomba a fossa n. 7
Bronzo
46) Spirale
Lung. 2,1; Larg. 1,9. Tipo costituito da sei giri di filo a sezione circolare. Ossidato.
47) Fibula a sanguisuga
Lung. 5,8; Larg. 1,7. Composto da tre frammenti, manca della molla. Tipo a lunga
staffa. Decorazione graffita: sul dorso dell’arco, gruppi di linee trasversali.
48) Fibula
L. 2,2. Rimangono cinque frammenti di staffa lunga pertinenti a tipo non meglio
specificabile.
49) Fibula
L. 4,2 Rimangono quattro frammenti di ardiglione, pertinenti a tipo non meglio
specificabile.
50) Astuccio (?)
L. 5,1. Corpo cilindrico leggermente schiacciato e due fascette trasversali distanziate.
Ossidato.
51) Anellini
Ø. 0,8-0,6. Gruppi con filo a sezione circolare. Ossidati.
52) Chiodo
54
H. 1,2; Ø 1,7. Manca di parte del gambo. Ossidato. Capocchia a sezione
semicircolare; gambo allungato a sezione circolare.
53) Chiodo
H.1,2; Ø 1,4. Stesso tipo del n. 53.
54) Chiodo
H.1,1; Ø 1,3. Stesso tipo del n. 53.
55) Chiodo
H. 0,5; Ø 0,9. Stesso tipo del n. 53.
56) Chiodo
H. 0,5; Ø 1,9. Stesso tipo del n. 53.
57) Lamina
L. 2,4. Rimangono 5 frammenti informi, ossidati.
58) Piastra
Lung. 4,5; Larg. 2,3. Rimangono due frammenti di forma irregolare, ossidati.
Piombo
59) Anello
Ø.3. Costituito da 2 frammenti di filo a sezione circolare. Ossidato.
dalla tomba a fossa n. 2
Ceramica etrusco-corinzia
60) Oinochoe
H. 21,8; Ø max. 15,8; Ø base 8. Ricomposta da numerosi frammenti, con
integrazioni in gesso, manca di parte del labbro, della spalla e del corpo. Argilla figulina a
superficie giallina. Orlo assottigliato; labbro trilobato; collo tronco-conico; corpo ovoidale
leggermente schiacciato, con spalla ampia ed arrotondata; base a listello inclinato; ansa a
nastro sormontante, impostata verticalmente. Decorazione dipinta, completamente
evanita.
61) Piatto
H. 4,9; Ø max. 25,1; Ø base 11,3. Ricomposto da 10 frammenti, con integrazioni in
gesso, manca di parte del bacino. Argilla figulina, a superficie giallina. Orlo arrotondato,
ingrossato; piccolo bordo verticale; bacino ampio e profondo rigido; base a listello
inclinato; due piccole anse a bastoncello, di forma triangolare, impostate orizzontalmente
sul bordo. Decorazione incisa e dipinta: una accentuata solcatura orizzontale sul bordo; tre
fasce rispettivamente bruno-rossastro, bruno-verdastro e bruno-rossastro sull’orlo ed
55
internamente sul bordo; al centro del bacino, tre fasce concentriche con la stessa
alternanza cromatica.
Bucchero
62) Kantharos
H. 10,3; Ø bocca 15,7; Ø max. 19,7; Ø base 6,8. Ricomposta da numerosi frammenti,
con integrazioni in gesso, manca di parte del bordo. Orlo assottigliato; bordo inclinato
all’esterno; vasca carenata poco profonda e stretta; basso piede espanso; anse a nastro
sopraelevate, impostate verticalmente. Decorazione graffita ed impressa: sotto l’orlo due
linee orizzontali; sulla carena, successione di impressioni a “virgola”.
dalla tomba a camera n. 1
Ceramica attica
63) Oinochoe
H. 132; Ø bocca 6,1; Ø max. 10,1; Ø base 6,9. Ricomposto da frammenti. Argilla
figulina rosata. Orlo arrotondato; labbro trilobato; breve collo tronco-conico; corpo
ovoidale con spalla ampia e quasi piatta; base ad echino; ansa a bastoncello schiacchiato,
leggermente sormontante, impostata verticalmente. Decorazione: vernice nera omogenea,
brillante, disposta sull’intera superficie.
64) Lekythos
H. 10,1; Ø bocca 3,4; Ø max. 7,4; Ø base 6. Integra. Argilla figulina rosata. Orlo
piatto; labbro imbutiforme; collo tronco-conico allungato, nettamente distinto; corpo quasi
globulare con spalla arrotondata; base distinta ad echino; ansa a bastoncello impostata
verticalmente. Vernice nera omogenea, brillante disposta sull’intera superficie.
65) Pelike
H. 32,8; Ø bocca 16; Ø max. 23,5; Ø base 15,5. Ricomposta da numerosi frammenti e
reintegrata nelle parti mancanti. Sulla superficie: minutissime scheggiature e lesioni.
Argilla figulina arancione. Vernice nera lucente ed omogenea. Labbro svasato con orlo
ribattuto; basso collo cilindrico; corpo globulare leggermente allungato; piede a disco; ansa
a nastro impostate verticalmente. Sul collo ramo di alloro verso destra, fra due linee
orizzontali risparmiate; sotto le anse kyma ionico; sotto le scene: meandro verso destra,
interrotto da quadrati con croce centrale e punti agli angoli.
A: Heos sta per rapire Kephalos: al centro, con profilo rivolto a sinistra, Heos alata,
con sphendone sul capo e chitone mosso da numerose pieghe, muove con le braccia protese
56
verso Kephalos, che indossa un himation bordato da una fascia marcata, largo petaso sul
capo e lancia nella mano sinistra appoggiata sulla spalla; a destra un giovane cacciatore,
vestito alla stessa maniera, con due lance nella mano destra, colto da sorpresa.
B: Tre giovani ammantati, in posizione stante, conversano: la figura di sinistra, con
spalla e braccio scoperti, parla; quella di centro di profilo a sinistra, completamente avvolto
nell’himation, ascolta e quella di destra, appoggiata ad un bastone, si copre il volto fin
quasi all’altezza degli occhi.
Accanto alle figure principali, in alto, i nomi di Heos e di KEPHALOS, sovradipinti
con vernice più chiara.
66) Kotyle
H. 6,2; Ø bocca 7,1; Ø max. 12,4; Ø base 4. Ricomposta da frammenti. Argilla
figulina rosata. Orlo assottigliato; bordo leggermente estroflesso; vasca poco ampia e
profonda; base ad echino; anse a bastoncello impostate orizzontalmente sotto l’orlo.
Vernice nera omogenea brillante disposta su tutta la superficie ad eccezione di una fascia
risparmiata nella parte inferiore della vasca.
67) Kantharos
H. 9,3; Ø bocca 8,8; Ø max. 13,4; Ø base 5,7. Ricomposta da numerosi frammenti.
Argilla figulina rosata. Orlo arrotondato; labbro estroflesso; bordo verticale; vasca
emisferica distinta; base a disco arrotondato, nettamente distinta; anse a nastro impostate
verticalmente. Vernice nera brillante ed omogenea. Al di sotto dell’orlo una fascia a
risparmio campita da una rete di tre file di rombi con piccole losanghe sovradipinte in
vernice evanita e negli intervalli, piccole losanghe a vernice rossa con puntini centrali;
nella parte alta della vasca una fascia a risparmio campita da file di trattini verticali e da
una di puntini, fra due linee orizzontali.
68) Kantharos
H. 8,9; Ø bocca 8,8; Ø max 13,4; Ø base 4,6. Ricomposto da numerosi frammenti,
manca di parte del labbro e del bordo; varie scheggiature in superficie. Argilla figulina
nocciola chiara. Vernice nera omogenea lucida, disposta su tutta la superficie; sul labbro
una fascia sovradipinta in bruno-arancione, campita da una fila di trattini verticali e da
una fila di puntini; sul bordo in zona metopale, sovradipinta, con vernice bianca evanita e
lacunosa, un ramo di alloro con bacche, rivolto verso destra; nella parte alta della vasca,
sovradipinta in bruno-arancione, una fascia campita da una successione di trattini verticali
e di puntini.
69) Glaux
57
H.5,8; Ø bocca 6,5; Ø max. 12; Ø base 4,2. Ricomposto da 5 frammenti, con
integrazioni in gesso, manca di parte del bordo, della vasca e di un’ansa. Argilla figulina
rosata. Orlo assottigliato; bordo leggermente introflesso; vasca poco ampia; base distinta a
disco con profilo arrotondato; anse a bastoncello schiacchiato impostate al di sotto
dell’orlo: una orizzontalmente, l’altra verticalmente.
Impasto
70) Olletta o boccale
H. 5,2; Ø bocca 6; Ø base 3,8. Integro. Impasto a superficie marrone-rossastro. Orlo
assottigliato; labbro inclinato all’esterno; corpo globulare allungato; base indistinta a
disco.
71) Ciotolina
H.4; Ø max. 8,2; Ø base 5,1. Integra. Argilla figulina. Piccolo labbro introflesso;
vasca bassa e stretta; base distinta a listello inclinato. Decorazione dipinta in bruno rossastro, evanita e lacunosa: sul labbro una larga fascia; sulla vasca una banda verticale,
evidente sbavatura di colore, che si ripete anche internamente.
72) Fuseruola
H.2,1; Ø 2,7. Impasto a superficie bruno-marrone. Corpo tronco-conico, con
terminazione maggiore nettamente distinta, espansa a profilo arrotondato; foro passante e
verticale.
73) Fuseruola
H. 1,1; Ø 2,3. Impasto a superficie bruno-marrone con ingobbiatura. Corpo troncoovoidale, base leggermente incavata, foro passante verticale.
Pasta vitrea
74) Amphoriskos
H. 7,02; Ø bocca 2,8; Ø max. 6. Integro con qualche lesione superficiale. Pasta vitrea
verdastra. Labbro estroflesso, leggermente espanso; collo tronco-conico; corpo globulare
schiacchiato con spalla ampia e bassa; anse a bastoncello, sottili, con profilo ad “s”,
impostate verticalmente, con attacchi sotto il labbro e sulla spalla. Decorazione dipinta
rosa e bianca: fra gruppi di linee orizzontali rosate un folto gruppo di linee a zig-zag
bianche e rosa inframezzate.
75) Spillone
Ø.2. Manca il lungo ago metallico. Capocchia a corpo globulare schiacchiato,
ricomposto da due frammenti. Faiançe bianca.
58
Alabastro
76) Alabastron
H. 13; Ø bocca 4; Ø max. 3,6. Integro. Labbro espanso piatto; breve collo cilindrico;
corpo cilindroide allungato con fondo arrotondato; due piccole prese laterali nella parte
espansa del corpo.
77) Alabastron
L. max. 11,9; L. min. 1,2. Frammentario, incompleto. Rimangono 23 frammenti di
labbro, di collo, di pareti, con parti di fondo e presine. Stessa forma nel n. 77.
78) Sassolini
Lung. 2,9; Larg. 2,1. N. 9 piccoli ciottoli, con venature.
Bronzo
80) Ansa
Lung. 10; Larg. 4,1. Forma semicircolare schiacciata a sezione quadrangolare, con
terminazioni ripiegate internamente, completate da piccoli globi, nettamente distinti.
Decorazione a rilievo: sul corpo tre distinte file di puntini.
81) Ansa
Lung. 11,5; Larg. 4,5. Ricomposta da 5 frammenti. Stessa forma del n.80. Un perno
ad occhiello.
82) Lamina
L. max. 5,8; L. min. 0,8. Rimangono 24 frammenti a sezione fine, alcuni con
margine rialzato, e a profilo curvo.
83) Piede
Lung. 7; Larg. 5,2. Corpo a forma di giglio stilizzato, con elementi laterali simili ad
ali e basetta conformata a zampa palmata. Decorazione incisa: al centro, in alto, un motivo
a spina di pesce; ai lati linee sinuose longitudinali, dalle quali si staccano trattini ondulati,
verticali, distanziati.
84)Pomello (?)
H.4,2; Ø max. 3,8. Corpo cilindrico, alto, con terminazione espansa a profilo
globulare schiacciato, nettamente differenziata. Una fascia, ben distinta alla congiunzione
del corpo con la terminazione.
85) Pomello (?)
H.3; Ø max. 4,2. Stessa forma del n. 85.
86) Pomello (?)
H. 2,8; Ø max 4,7. Stessa forma del n. 85.
59
87) Puntale
H. 10,6; Ø 1,3. Corpo cilindrico allungato, con terminazione tronco-conica,
nettamente differenziata.
88) Chiodo
H.5,5; Ø 1,6. Ricomposto da tre frammenti. Incompleto. Capocchia a sezione
semicircolare; stelo a sezione tonda.
89) Chiodo
H.2,8; Ø 1,8. Incompleto. Larga capocchia a sezione semicircolare fortemente
schiacciata; stelo a sezione tonda.
90) Chiodo
H.1,2; Ø 1,6. Incompleto. Stessa forma del n. 89; stelo a sezione quadrangolare.
91) Chiodo
H.2,1; Ø 1,6. Incompleto. Stessa forma del n. 90.
92) Chiodo
H.2,2; Ø 1,4. Integro. Capocchia a sezione semicircolare schiacchiata; stelo a sezione
tonda, con terminazione affusolata.
93) Chiodo
H.1,2; Ø 1,2. Stessa forma del del n. 90. Incompleto.
94) Chiodo
H. 2,7; Ø 1. Incompleto. Stessa forma del n. 90.
Avorio od osso
95) Coperchietto (?)
H. 0,5; Ø 1,7. Piccolo disco a sezione piatta; al di sopra protuberanza cilindrica
bassa, con foro centrale.
96) Coperchietto (?)
H. 0,8; Ø 1,6. Stessa forma del n. 95.
97) Vasetto miniaturistico (?)
Lung. 1,7; Larg. 1,5. Un frammento di bordo con orlo a mandorla ben distinto,
sporgente all’esterno.
Legno
98) Frammenti
Lung. 3,7-Larg. 1,7; Lung. 3,7-Larg. 1,8; Lung. 3,1-Larg. 0,6. Rimangono tre schegge,
coperte da patina verdastra di ossidazione.
60
Dalla tomba a camera n. 5
Ceramica-grezza
99) Lagynos
H. in frat. 11,3; Ø max. 13,3; Ø base 6. Ricomposto da 10 frammenti, manca di parte
del labbro, del collo della parete e dell’ansa. Grezza terracotta, a superficie marrone. Breve
collo cilindroide; corpo carenato, basso e schiacciato, con spalla a profilo rigido; base ad
anello; attaccatura sulla spalla dell’ansa a nastro.
100) Boccale
H. 17,8; Ø bocca 10,5; Ø max. 16,5; Ø base 6,8. Ricomposto da numerosi frammenti
con integrazioni. Grezza terracotta a superficie bruno-marrone. Orlo a fascia, fornito di
battente interno; corpo ovoidale, leggermente compresso con spalla ampia a profilo
incavato; base a disco indistinto; ansa a nastro, costolata, impostata verticalmente.
101) Bacino a tre piedi
H. 10,7; Ø max. 18,4. Ricomposto da 11 frammenti, manca di parte del labbro, del
bordo e della vasca. Grezza terracotta, a superficie bruno-marrone. Labbro completamente
piegato all’esterno; bordo leggermente inclinato all’interno; vasca ampia e molto bassa;
piedini a bastoncello, disposti a distanze simmetriche.
Tipologia vascolare
I Cer. italo-geometrica
1) Oinochoe n.1 (T.3);
2) Kotyle n. 2 (T.3);
3) Skyphos n. 42 (T.6);
4) Bacino a tre piedi n. 43 (T.6);
II Impasti
5) Lagynos n. 99 (T.5);
6) Oinochoe a collo troncoconico allungato n. 15 (T.4);
6a) Oinochoe a becco d’anatra n. 16 (T.4);
7) Boccale n. 100 (T.5);
8) Olla globulare n. 17 (T.4);
8a) Olla su piede n. 45 (T.6)
8b) Olletta n. 70 (T.I.);
9) Olpe - attingitoio n.3 (T.3);
10) Skyphoi n. 4 (T.3); n. 18 (T.4);
61
11) Tazze carenate biansate n. 5 (T.3); n. 6 (T.3);
11b) Tazze carenate monoansate n. 7 (T.3); n.8 (T.3); n.20 (T.4); n. 21 (T.4); n. 24
(T.4);
12) Kantharos a vasca bassa n. 19 (T.4);
13) Calice apodo n. 27 (T.4);
13a) Calice su piede n. 9 (T.3);
14) Coppa emisferica su piede n. 25 (T.4);
14a) Coppa su piede n. 9 (T.3)
15) Bacino a tre piedi n. 101 (T.5);
16) Ciotola n. 71 (T.I.);
16a) Ciotola monoansata n. 28 (T.4);
17) Piatto n. 10 (T.3)
III Buccheri
18) Skyphos n. 44 (T.6);
19) Kantharos n. 63 (T.2);
IV Cer-etrusco-corinzia
20) Oinochoe n. 60 (T.2);
21) Piatto n. 61 (T.2);
V Cer. Attica a figure rosse
22) Pelike n. 65 (T.1);
23) Kantharos n. 67 (T.1);
VI Cer. Attica
24) Oinochoe n. 63 (T.1);
25) Lekythos n. 64 (T.1);
26) Kotyle n. 66 (T.1);
27) Glaux n. 69 (T.1);
VII Cer. etrusco - attica a figure rosse
28) Kantharos n. 68 (T.1);
VIII Tip. di Pasta vitrea
29) Amphoriskos n. 74 (T.1);
62
IX Tip. di Alabastro
30) Alabastra nn. 76-77 (T.1).
Cronologia
Il corredo della Tomba a fossa n. 3 si compone essenzialmente di due tipi di
materiali: gli impasti e la ceramica italo-geometrica. Fra gli impasti, l’olpe-attingitoio n.3,
la tazza carenata biansata n.5 e quella carenata monoansata n.7 mostrano un costante
confronto con analoghe forme presenti nella Tomba a fossa 8 di Poggio Gallinaro 8) . Il tipo
dell’oinochoe italo-geometrica n.1 trova confronto con una identica oinochoe rinvenuta
nella Tomba a fossa della Patera di Bronzo e dei Vasi geometrici, datata dal Canciani
intorno al 700 a.C. 9) .
Questa datazione è confermata dalla kotyle italo-geometrica n. 2 imitante tipi del
P.C.A.. Inoltre la tazza carenata biansata n. 6 presenta una forma simile a quella rinvenuta
nella Tomba a fossa XVI dei Monterozzi 10) . Un ulteriore indizio di alta datazione è dato
dalla skyphos di impasto n. 4, che si rinviene in area vulcente, a Poggio Buco, nella Tomba
XXV, associato con un’anforetta decorata con losanghe quadrettate in posizione metopale.
Pertanto, sembra probabile per la Tomba a fossa n.3 di Villa Falgari una datazione intorno
al 700 a.C.. Allo stesso orizzonte culturale appartengono, fra le altre, anche: la Tomba a
fossa XVI dei Monterozzi, la Tomba della Patera di Bronzo e dei Vasi Geometrici e forse la
Tomba 8 di Poggio Gallinaro.
Il corredo della Tomba a falsa camera n.4 è costituito soltanto da impasti. Fra questi
si distingue l’oinochoe a becco, frammentaria, n. 16 confrontabile con quelle caratterizzate
da analoga particolarità, rinvenute nella Tomba 8 di Poggio Gallinaro, nella Tomba di
Bocchoris e nella Tomba a fossa detta “dell’Oinochoe costolata rossastra” (o Helbig XIII).
Qualificante è anche l’oinochoe a lungo collo troncoconico n.15, frammentario,
trasposizione evidente in materiale povero delle oinochoai metalliche di importazione
fenicio-cipriote. Fra gli esemplari più antichi della serie scoperti in Etruria, oltre
probabilmente all’oinochoe a corpo globulare compresso della Tomba di Bocchoris 11) , è da
annoverare certamente quella rinvenuta nella Tomba XII di Poggio Buco, associata con
una coppa - cratere decorata con metopengattung 12) .
8)
Come in questo caso, così anche per i successivi, si veda il commento ai singoli pezzi, indicati con lo stesso numero
cardinale usato per elencarli nel catalogo.
9)
Cfr.: CANCIANI 1974 p. 29 n. 2 tav. 21,2.
10)
Cfr.: CULTRERA 1930 p. 131 n. 3 fig. 17; HENCKEN 1968 p. 383 fig. 373.
11)
Cfr.: HENCKEN 1968 p. 368 fig. 362 c.
12)
Per il sistema decorativo della metopengattung, cfr.: CANCIANI 1974 pp. 25-26 n. 2; BARTOLONI 1984 p. 107 sg.
63
Per questo corredo dell’area vulcente è estremamente probabile una datazione al I
quarto del sec. VII a.C.. Ora, poiché nella Tomba n.4 di Villa Falgari è presente la coppa su
piede n.26, documentata anche nella Tomba XII di Poggio Buco, ne consegue la possibilità
della stessa datazione. D’altra parte, la tipologia della coppa su piede è ben attestata
nell’Orientalizzante Antico 13) .
La datazione proposta sembra confermata: dal kantharos a vasca bassa n. 19, con la
fibula ad arco serpeggiante n.34, che si rinvengono associate anche nella Tomba
dell’Anfora di Bronzo 14) e dalla punta di lancia di ferro n. 38 che si trova, fra le altre, anche
nella Tomba 9 di Poggio Gallinaro 15) .
Fra le tombe dell’Orientalizzante Antico Tarquiniese, quindi, la Tomba n. 4 di Villa
Falgari va collocata dopo la Tomba di Bocchoris 16) , con la quale elemento di relazione può
essere costituito dalla citata oinochoe a collo lungo troncoconico.
Il corredo della Tomba a fossa n. 6 è caratterizzato dall’olla su piede di impasto n.45,
che nell’area vulcente e falisca si rinviene generalmente in contesti dell’Orientalizzante
Antico. Lo skyphos italo-geometrico n.42 è decorato da una bansa ondulata sulla spalla,
che come motivo ornamentale appare diffuso nell’Orientalizzante Medio. Infatti è attestato
su un’olla italo-geometrica della Tomba Giulimondi, su due olle e su un’olpe-attingitoio
italo-geometrici della Tomba 75 della Banditaccia 17) , datate dal Colonna fra il 660-630
a.C. 18) . Ma la presenza dello Skyphos di bucchero n. 44, che compare in momento di
transizione all’Orientalizzante Recente ed è documentato anche nella Camera degli Alari di
Cerveteri e nella Seconda Camera del Tumulo veiente di Vaccareccia, costituisce un
elemento cronologico più recente, confermato dall’associazione con il bacino a tre piedi
italo-geometrico n. 43, analogo a quello rinvenuto nella Tomba di Casalaccio V, inserita dal
Cristofani nella Fase IV veiente 19) . Quindi per la Tomba n.6 di Villa Falgari è probabile una
13)
Per le forme di impasto, si veda la nota di commento n. 26. In proposito va specificato che, recentemente, la
cronologia della serie I-VI delle tombe di Poggio Buco nel Museo di Firenze è stata rialzata dall’Autrice, cfr.:
BARTOLONI 1984 p. 107 nota 25. Nell’ambito della ceramica italo-geometrica ne costituiscono esempi: Vulci, Monte
Auto, FALCONI AMORELLI 1971 p. 210 n. 5 tav. XLVIII; BARTOLONI 1984 p. 108 nota 35 n. 3 tav. II, a; Tomba
22 DOHAN 1942 p. 89 e p. 92 n. 10 tav. XLVII. Nel corredo di questa tomba vanno distinte almeno due deposizioni: la
prima, costituita dalla ceramica italo-geometrica, dagli impasti e dai bronzi, è da attribuire all’Orientalizzante Antico; la
seconda, composta dall’oinochoe n. 6, dall’olla n. 7 etrusco-corinzie, dal bacino a tre piedi di impasto n. 16 e dalla
kylix etrusco-corinzia n. 17 del Pittore delle Macchie Bianche (cfr. COLONNA 1961 p. 68 n. 7), è da attribuire, invece,
ad un momento finale dell’Orientalizzante Recente; Poggio Buco, Tomba VI, BARTOLONI 1972 p. 66 n. 5 tav.
XXXIV a-b; Veio, Vaccareccia, Tomba XI, PALM 1952 p. 66 p. 80 n. 3 tav. XXI.
14)
Cfr.: HENCKEN 1968 pp. 353-355 fig. 351 b, g, h; CANCIANI 1974 p. 52 nn. 8-9 tav. 38.
15)
Cfr.: HENCKEN 1968 p. 350 fig. 350.
16)
Cfr.: PALLOTTINO 1937 col. 181 sg.; HENCKEN 1968 pp. 364-378; STROM 1971 pp. 149-150; COLONNA
1972 pp. 565-569; CANCIANI 1974 pp. 23-24 n. 1 tav. 17,1; tav. 34,10; CATALDI 1985 pp. 93-95.
17)
Cfr.: RICCI 1955 col. 491 nn. 25-26 fig. 115,3; n. 31 fig. 115,7; col. 493 n. 63 fig. 115,1.
18)
Cfr.: COLONNA 1968 p. 268.
19)
Cfr.: CRISTOFANI 1969 p. 68.
64
datazione fra il 640 ed il 630 a.C., leggermente anteriore alla II deposizione della Tomba
XXV dei Monterozzi 20) .
Per quanto riguarda la cronologia della Tomba n.2 l’oinochoe etrusco-corinzia n.60
ed il kantharos di bucchero n. 62 trovano un esatto parallelo nella Tomba a fossa n. 10 di
Poggio Gallinaro, datata dalla Cristofani - Martelli al 630-610 a.C. 21) . Questa indicazione
cronologica riceve una conferma dal piatto etrusco-corinzio n.61, che solitamente compare
in contesti dell’ultimo quarto del sec. VII a.C. Questo corredo, dunque, rientra a pieno
titolo nella Fase dell’Orientalizzante Recente, nella quale si colloca un consistente numero
di tombe tarquiniesi. Fra queste: la Tomba “egizia” al Museo di Firenze 22) , la Tomba di
Poggio del Cavalluccio 23) , la Tomba 10 di Poggio Gallinaro 24) e le Tombe: III-XIII-XXVI e
3034 dei Monterozzi 25) .
Pochi elementi di bronzo costituiscono i resti del corredo della Tomba a fossa n.7;
comunque, la parte di spirale allungata ed i frammenti di fibula del tipo a sanguisuga con
la lunga staffa sono sufficienti per permettere una generica collocazione nell’ambito del
sec. VII a.C.
I materiali di corredo della Tomba a camera n.1 costituiscono nel loro insieme una
deposizione alquanto omogenea. Punto di riferimento cronologico qualificante è costituito
dalla pelike attica a figure rosse n. 65 nella quale si riconosce la maniera sia del Pittore del
Deinos, sia del Pittore di Kleophon, per cui la datazione che ne consegue è quella del fine
del sec. V, primo decennio del sec. IV a.C.. Con questa cronologia bene concorda il
kantharos attico n. 67, appartenente alla classe di “Saint Valentin”, associato con una
identica forma, n. 68, di probabile imitazione etrusca. Anche i due alabastra nn. 76 e 77
sembrano appartenere ad un tipo che é maggiormente diffuso nel sec. IV a.C.
Il lagynos n. 99, la brocca n. 100 ed il bacino a tre piedi n. 101, che testimoniano la
riutilizzazione della tomba a camera arcaica n. 5, indicano una deposizione databile nella
metà del I sec. a.C.
Osservazioni conclusive
20)
Cfr.: CULTRERA 1930 pp. 136-141; HENCKEN 1968 pp. 394-395; RASMUSSEN 1978 pp. 18-19. Nel corredo di
questa bomba sono state distinte due deposizioni. Per quella più antica, cfr.: GJERSTAD 1965 p. 52; CANCIANI 1974
p. 43 n. 9; per quella più recente, cfr.: CRISTOFANI 1969 p. 70; CANCIANI 1974 p. 13 n. 1.
21)
Cfr.: CRISTOFANI MARTELLI 1971 p. 387 nota 13.
22)
Cfr.: CRISTOFANI MARTELLI 1971 p. 379-392 tavv. LXXXI-LXXXIII.
23)
Cfr.: PERNIER 1907 p. 347 fig. 74.
24)
Cfr.: PERNIER 1907 p. 343 fig. 71; HENCKEN 1968 p. 356 fig. 355.
25)
Cfr.: Tomba III, CULTRERA 1924 pp. 401-402 tavv. XX-XXI; SZILAGYI 1972 p. 22 e p. 34; Tomba XIII,
CULTRERA 1930 p. 128; Tomba XXVI, CULTRERA 1930 pp. 142-145 figg. 24-28; HENCKEN 1968 p. 386 fig.
65
L’alta datazione del corredo n.4: I quarto del sec. VII a.C. offre lo spunto per alcune
considerazioni sulla struttura della tomba, senza, per altro, voler entrare nel complesso
rapporto con le tombe del tipo a fenditura 26) con le quali condivide, senza dubbio, alcuni
aspetti morfologici comuni quali: la sezione semi-ogivale della camera e la fenditura aperta
nel cielo; ma dalle quali si differenzia per la particolare limitatezza delle sue dimensioni,
decisamente modeste.
Proprio questa caratteristica qualificante permette di indicare meglio un tale tipo di
struttura con la definizione che sembra più appropriata di tomba a pseudo-camera o a
falsa-camera.
Oltre alla Tomba n.4 di Villa Falgari, sembrano rientrare in questa categoria, nel I
quarto del sec. VII a.C., altre piccole tombe tarquiniesi, morfologicamente simili, ma
strutturalmente differenti che sono:
__ tombe semicostruite con ambienti a sezione semi-ogivale, con la parte inferiore
scavata nella roccia e con la parte superiore completata con blocchi di riporto 27) ;
- tombe ipogee, con camera a sezione ogivale 28) .
375; SZILAGYI 1972 p. 55 n.1 p. 60 nota 52; RASMUSSEN 1978 pp. 32-33; Tomba 3034, RASMUSSEN 1978 pp.
31-32.
26)
Con questo termine convenzionale si vuole indicare quelle tombe semi-ipogee con ambienti a sezionie semi-ogivale,
scavati in parte nel banco di arenaria a volte attraversate longitudinalmente da larghe fenditure, chiuse con lastroni
sovrapposti. Sono ben documentate in area tarquiniese, cfr.: MON INST 1829-1833,1, tav.XL b,8; LENOIR 1832 p.
270; HELBIG pp. 237-240; FIORELLI 1876 p. 38; DASTI 1877 p. 59; GHIRARDINI 1881 p. 364; ID. 1882 pp.
206,208-210; HELBIG 1882 pp. 45,171,211; ID. 1885 pp. 80,120-126; PASQUI 1885 pp. 439-440,
442,457,464,472,510-511; HELBIG 1886 pp. 85-87; ID. 1887 pp. 153, 156; ID. 1888 pp. 181, 184; PASQUI 1900 p.
85; MONTELIUS 1904, II, pp. 296-297; 10,12 e 14,16 p. 294,7; ID. 1912 p. 75 n. 403-404 p. 106 n.485, 487 p. 118 n.
536-539 p. 119 n. 540-542 p. 129 n. 597-598, 600, 602-605 p. 130 n. 607; CULTRERA 1924 p. 401, 404;
SCHACHERMEYR 1929 p. 132 nota 1; CULTRERA 1930 pp. 142, 146, 152, 158, 164, 179, 180; ÅKERSTROM
1934 pp. 43-47,49; PALLOTTINO 1937 coll. 187-188 note 1-2, 192 nota 4 tipo b, 195 nota 2; MARCHESE 1944-45
pp. 14 sg.; DEMUS QUATEMBER 1958 pp. 21-22 nota 17 fig.4; GALLINA 1965 pp. 235-240; HENCKEN 1968 pp.
359-363, 380, 382, 386, 393-394 1965 pp. 235-240; MAGRINI 1970 pp. 17-20; BRUNETTI NARDI 1972 p. 76; ID.
1981 p. 159; SPADEA 1982 pp. 109-111 tavv. XLII 2; XLIII-XLIV. Questo tipo di tomba, per il consistente numero di
attestazioni è considerato un’espressione tipica della cultura orientalizzante tarquiniese, cfr.: MENGARELLI 1942 p.
41; COLONNA 1967 p. 16 nota 34. Per la diffusione in altre aree, cfr.: COLONNA 1963 p. 157 nota 38, p. 159 nota
41; ID. 1967 p. 16 nota 34.
27)
Questo tipo di tomba viene indicata in varia maniera dagli Autori: Tomba semisotterranea, cfr.: MENGARELLI
1927 p. 157; ÅKERSTROM 1934 p. 25; MENGARELLI 1940 p. 5; COLONNA 1963 p. 157; Tomba a camera
semiscavata, cfr. RICCI 1955 col. 498 sg.; Tomba seminterrata, cfr.: PRAYON 1975 pp. 14-15. Tuttavia la definizione
più appropriata è quella di Tomba semicostruita proposta dal Colonna, cfr. COLONNA 1963 p. 164. Per quanto
riguarda la struttura, cfr.: MENGARELLI 1927 p. 157 tav. XIX; ÅKERSTROM 1934 p. 23 fig. 4; MENGARELLI
1940 p. 5 n. 9 tav. I e p. 13 n. 54 tav. XII; COLONNA 1963 p. 157 nota 39; LININGTON 1966 pp. 147-157;
PRAYON 1975 pp. 14-16 fig. 3c pp. 48, 52 tavv. 3,85 I-3; PROIETTI 1980 p. 61 fig. s.n. Il tipo della tomba
“semicostruita” è particolarmente diffuso in area ceretana, cfr.: MENGARELLI 1940 p. 5 n. 9 tav. I; RICCI 1955 col.
498: Tomba 78 fig. 117; col. 500: Tomba 79 figg. 118-123; col. 505: Tomba 81 fig. 124; col. 508: Tomba 84 fig. 125;
col. 512: Tomba 88; col. 570: Tomba 132; col. 643: Tomba 176; col. 644: Tomba 177; col. 648: Tomba 181;
COLONNA 1963 p. 157 nota 39; PRAYON 1975 p. 16: tipo AI. Per la diffusione in area tarquiniese, cfr.: HELBIG
1870 pp. 56-58; GHIRARDINI 1882 p. 202 nota 4; PASQUI 1885 p. 439 e p. 442; ÅKERSTROM 1934 p. 43;
ROMANELLI 1943 p. 232: Tomba 82 fig. 13; COLONNA 1963 p. 157 nota 39; HENCKEN 1968 p. 595. Per la
presenza in altre aree, cfr.: COLONNA 1963 p. 157 nota 39.
66
Questa sostanziale omogeneità delle forme, rappresentata essenzialmente dalle
sezioni ogivale o semi-ogivale degli ambienti funerari è così puntualmente ricorrente ed
apprezzata in quanto le possibilità tecniche a disposizione consentivano ormai una
sufficiente imitazione delle strutture abitative o dei padiglioni funebri, allestiti in occasione
delle esequie. Queste simboliche manifestazioni di vita, così riprodotte, avrebbero
consentito, attraverso le modalità del rito, la sopravvivenza del defunto oltre la morte 29) .
Le differenze strutturali si inquadrano, invece, in un momento di sperimentazione,
di ricerca di più ampi spazi da adibire alle accresciute necessità funerarie, utilizzando al
meglio le risorse geo-morfologiche locali a disposizione. E’ una ricerca dagli esiti
imprevedibili, non scontati e né tanto meno definiti.
In tal senso, questa fase di ricerca mostra di essere la prosecuzione di quella della
precedente fase tardo-villanoviana, senza soluzione di continuità 30) .
Tuttavia deve essere evidenziata una importante differenza: se nella fase
antecedente l’accrescimento
era rappresentato principalmente dalla qualità e dalla
quantità degli oggetti di corredo, ora, in fase Orientalizzante Antica, l’accrescimento è
anche costituito dall’ampliamento e dalla macroscopica differenziazione delle strutture
28)
A questo tipo corrisponde molto probabilmente la Tomba di Bocchoris, cfr.: HELBIG 1896 p. 15 sg.;
ÅKERSTROM 1934 pp. 49-51; PALLOTTINO 1937 col. 189 nota 2, col. 183 nota I; HENCKEN 1968 pp. 364-378;
STRM 1971 pp. 149-150; CANCIANI 1974 pp. 23-24 n.2, pp. 46-47 nn. 10-11; CATALDI 1985 pp. 93-95. In
proposito Helbig afferma che il famosissimo corredo di Bocchoris è stato scoperto in una tomba con il soffitto a
schiena. Ora, con questo termine, i vari Autori ottocenteschi indicano costantemente un tetto a doppio spiovente
(displuviato) cfr.: PALLOTTINO 1937 col. 192 nota 6. Infatti Åkeström identifica la camera della Tomba di Bocchoris
con un ambiente a pareti verticali, caratterizzato da un tetto di questo tipo e considerata l’alta datazione del corredo:
700 a.C. circa, costituirebbe un esempio isolato nell’ambito dello sviluppo della tomba a corridoio. Tuttavia si ha una
qualche esitazione ad accettare la proposta dell’Åkerström sia perché le tombe a camera con tetto a spiovente, in area
tarquiniese, appartengono in massima parte ad una fase molto avanzata dell’Orientalizzante e all’epoca Arcaica, cfr.
CULTRERA 1930 p. 146 fig. 29; tomba XXXI, p. 155 fig. 35: tomba XLII, p. 162 fig. 42; tomba XLVIII, p. 171:
tomba LI , p. 171 fig. 51: tomba LIII, p. 172 fig. 52; tomba LIV, pp. 172-175: tomba LVII, p. 175 fig. 56: tomba LVIII;
ROMANELLI 1943 p. 217: tomba 67, p. 225: tomba 75, p. 250: tomba 105; MARCHESE 1944-45 p. 7 fig. I: tomba
115, p. 8: tomba 116, p. 13: tomba B; sia perché, per il periodo considerato: primo trentennio circa del sec. VII a. C., in
area ceretana, sono documentate tombe con camera a sezione ogivale, sul tipo di quella rinvenuta nel Tumulo del
Colonnello, cfr.: PRAYON 1975 p. 17 nota 26 tav. 85,7. Quindi è possibile che il corredo della Tomba di Bocchoris
(cfr.: Hencken), datato 700-690 a.C. (cfr.: Canciani, Cataldi) sia stato rinvenuto in una piccola tomba con caratteristiche
analoghe. D’altra parte, Helbig, giunto a Tarquinia troppo tardi, non poté osservare direttamente il tipo di ipogeo già
reinterrato; ma una tomba con una sezione a sesto acuto poteva ben apparire agli occhi dei frettolosi e superficiali
scavatori, ben poco interessati all’aspetto architettonico, un tipo con soffitto a schiena. Comunque è da escludere che si
sia potuto trattare di una tomba a sezione semi-ogivale con fenditura aperta nella volta, come invece è ipotizzato in
BIANCHI-BANDINELLI TORELLI 1976, scheda 16, perché la testimonianza dell’Helbig è esplicita in questo senso:
si tratta di una tomba a camera con tetto a schiena; in ogni caso, con un soffitto di tipo chiuso.
29)
Cfr.: COLONNA 1985 p. 290.
30)
Con ciò non si intende aderire alla tesi dello sviluppo delle tombe a fossa in quelle a camera, attraverso le tombe a
corridoio, proposta dall’Åkerstrom (ID. 1934 pp. 43-51) e ripresa recentemente dal Prayon (ID. 1975 p. 14 sg. fig.3),
sebbene con qualche modificazione. Per la revisione della tesi evoluzionista, cfr.: COLONNA 1963 p. 164 sg. Invece,
si vuole porre l’accento sulla dinamica sociale ed economica e sottolineare quelle spinte di rinnovamento e di
trasformazione, insite nella Società etrusca tarquiniese, che già molto consistenti sulla fine dell’età del Ferro risultano
decisamente potenziate nella successiva età Orientalizzante Antica, cfr.: COLONNA 1975 pp. 5-8; CRISTOFANI 1978
pp. 29-51; TORELLI 1981 pp. 47-71.
67
funerarie. In questo senso, l’area ceretana conserva la testimonianza di un ulteriore tipo di
piccola tomba a “falsa” camera, che quindi si aggiunge a quelli indicati precedentemente: è
la Tomba 66 della Banditaccia, completamente costruita con blocchi di riporto 31) .
Nella Tarquinia coeva, dunque, l’articolazione sociale in notevole incremento,
conosce un ulteriore sviluppo che sembra fare da preludio alla successiva definitiva
affermazione della più alta Aristocrazia.
Quindi, non è privo di significato il fatto che nell’area di Villa Falgari la tomba a
falsa camera n.4 si differenzi ed emerga tanto nettamente dal complesso delle altre tombe
a fossa di età orientalizzante e che vi sia stato sepolto proprio un guerriero.
La persistenza delle tombe a fossa n. 6 e 2 ancora nell’ultimo quarantennio del sec.
VII a.C., dopo la straordinaria fioritura delle tombe a tumulo monumentali quali: il
Tumulo di Poggio del Forno 32) , il Tumulo di Poggio Gallinaro 33) , il Tumulo Avvolta 34) , il
Tumulo I° della Doganaccia 35) , il Tumulo Luzi 36) e contemporaneamente alle tombe a
tumulo minori con camere funerarie del tipo “a fenditura” 37) , oltre a documentare il
notevole grado di complessità raggiunto dallo sviluppo delle strutture socio-economiche,
dimostra l’esistenza di ceti sociali secondari e meno abbienti.
Inoltre, a Villa Falgari, la notevole densità di tombe orientalizzanti, quale risulta dal
rapporto con l’esigua estensione dell’area sepolcrale esplorata, lascia intravvedere per
questo periodo uno sviluppo demografico crescente; mentre, la presenza di tombe di Età
Arcaica: nn. 5 ed 1 indica, senza dubbio, la continuità di vita 38) di un abitato, che le
eccessive distanze impediscono di identificare con quello della Civita 39) .
31)
Cfr.: MENGARELLI 1940 p. 5 n. 8 tav. I, p. 12 n. 53 tav. XII; RICCI 1955 col. 476 fig. III tav. VII, 66; COLONNA
1963 p. 160 nota 43 fig. 6; PRAYON 1975 p. 16; MORETTI 1977 p. 7 tav. III.
32)
Cfr.: GUERRINI - SCIARRA 1968 pp. 231-234; BALDO 1977 p. 3; COSTANTINI 1980 pp. 33-38; BRUNETTI
NARDI 1972 p. 79.
33)
Cfr.: COLONNA 1973 p. 549 tav. CXXI-CXXIIa; RIDGWAY 1973-74 p. 49; TORELLI 1980 p.126; BRUNETTI
NARDI 1981 p. 164.
34)
Cfr.: AVVOLTA 1829 pp. 95-100 tav. f.t.; FOSSATI 1829 p. 123, 130; PALLOTTINO 1937 col. 25 nota I, col. 67
nota 3, coll. 182-183, 208; HENCKEN 1968 pp. 397-401; STRM 1971 pp. 168-169; PRAYON 1975 pp. 52-53 nota
254 tav. 86, 19.
35)
Cfr.: CULTRERA 1932 pp. 100-116; ÅKERSTROM 1934 p. 45; PALLOTTINO 1937 coll. 64, 186-187, 195;
DEMUS QUATEMBER 1958 pp. 21-22 nota 17; COLONNA 1963 p. 165 nota 69; HENCKEN 1968 pp. 378-380 figg.
370-371; CATALDI-MELIS 1971 pp. 23-24 n. 23; PRAYON 1975 p. 54 e nota 269.
36)
GALLINA 1965 pp. 235-240; MAGRINI 1970 pp. 17-20 tav. III-IV; CATALDI-MELIS 1971 p. 21 n. 7;
BRUNETTI NARDI 1972 p. 77.
37)
Si veda in particolare i Tumuli detti del Leoncino e dell’Infernaccetto, inediti, ubicati in località “Infernaccio”, a Sud
dell’area della “Madonna del Pianto”, cfr.: BRUNETTI NARDI 1981 p. 159. In ogni modo, si rimanda alla nota 26 del
presente lavoro.
38)
Nella stessa area di Villa Bruschi-Falgari sono state rinvenute consistenti testimonianze dell’Età del Ferro, cfr.:
MORETTI 1959 pp. 137-138; CATALDI-MELIS 1971 p. 22 n.9; BRUNETTI NARDI 1972 p. 78.
39)
L’inattesa scoperta dell’abitato protostorico in località “Calvario”, nella zona nord-occidentale dei Monterozzi, cfr.
LININGTON-DELPINO-PALLOTTINO 1978 pp. 3-24 tavv. I-VI; LININGTON 1982a p. 177 sg.; ID. 1982b. pp.
68
Invece, la posizione topografica della necropoli, collocata quasi alla fine delle
propaggini occidentali dei Monterozzi, sul versante che guarda il mare, sembra costituire
un’ulteriore prova dell’abitabilità antica del colle di Corneto 40) .
Infine non va tralasciato il fenomeno della riutilizzazione rilevato nella tomba a
camera arcaica n.5, dove è stata rinvenuta una deposizione tardo-repubblicana.
LUDOVICO MAGRINI
MIRELLA MILLA
CELESTINO VITTORIO PETRIZZI
Nota sul restauro della Pelike Attica a figure rosse n. 65.
Stato di conservazione: frammentata; alcune lacune sui fianchi ed altre, meno
estese, in corrispondenza delle figure e dei giunti. Tracce di un antico restauro sono
evidenziate da coppie di fori passanti per l’inserzione di grappe metalliche alla base e su un
fianco; una coppia di fori appare iniziata ma non completata; la base fu limata ai giunti per
facilitarne l’incastro.
Efflorescenze ed inflorescenze saline (in prevalenza nitrati) hanno causato
sollevamenti e distacchi della vernice e dello strato superficiale, più diffusi sulla superficie
interna e sui frammenti della fascia inferiore. Numerose le deformazioni negli spessori
per separazione in strati.
Pulitura: lavaggi con acqua distillata e Desogen al 2% alternati a bagni con alcool,
proteggendo la superficie con carta giapponese per impedire ulteriori cadute di vernice. Un
primo consolidamento della superficie esterna ha permesso ulteriori lavaggi fino ad
estrazione totale dei sali. Pulitura con bisturi dei residui calcarei ed argillosi.
Consolidamento: applicazioni successive e ripetute di Paraloid B72 in soluzione al
2%.
Ricomposizione: mediante resine epossidiche serie trasparente, previa applicazione
di un primer reversibile con solventi chetonici per parte dei frammenti, un collante
nitrocellulosico è stato utilizzato per i restanti, con scelta di incollaggi per ovviare alla
245-256; FUGAZZOLA 1985 p. 47 se modifica ed amplia il quadro del popolamento sui Poggi tarquiniesi nell’Età del
Ferro, induce ad una certa cautela sulla possibile esistenza di abitati anche in età storica.
40)
Cfr.: PASQUI-COZZA 1885 pp. 513-523 tav. XV; CULTRERA 1920 pp. 266-275; PALLOTTINO 1937 coll. 86
sg. 99, sg. 103 nota 4. Con ciò, non si vuole riaprire la ormai superate questione dell’ubicazione della Tarquinia arcaica,
che è collocata sulla Civita, ma si tratta di dover accertare, in maniera approfondita, le possibilità abitative, in epoca
arcaica, sulle estremità occidentali dei Monterozzi, che i dati desunti dalle necropoli circostanti lasciano ipotizzare
come notevolmente consistenti.
69
notevole deformazione degli spessori e con successiva infiltrazione di resina epossidica per
sostenere i punti di minor aderenza.
Integrazioni: stucco cellulosico (Polyfilla) colorato con tempere.
Consolidamento delle integrazioni: con metacrilato in soluzione al 2%.
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L’INDAGINE TOPOGRAFICA IN ARCHEOLOGIA
Storia della disciplina
La topografia antica è una delle discipline che afferiscono agli studi storici ed
archeologici. Per definizione, con il termine topografia si intende la scienza che studia il
territorio ed i metodi di rappresentazione grafica di questo; ne consegue che la topografia
antica è la materia che studia l’assetto territoriale antico, attraverso l’analisi dei dati
archeologici, e realizza una cartografia archeologica adeguata alla ricostruzione del
popolamento nei singoli periodi storici. In altri termini, dalla topografia antica ci si attende
un’analisi dei dati per stabilire come fosse distribuita la popolazione dalla preistori al
medioevo (distribuita in villaggi, concentrata nei centri urbani, sparsa nelle campagne,
divisa in piccoli agglomerati rurali, etc.), con quali risorse si mantenesse (agricoltura,
commercio, artigianato, traffici marittimi, minerari, etc.) e come fossero organizzate le
comunicazioni (strade principali, viabilità secondaria, percorsi fluviali, marittimi, etc.).
81
Questa disciplina trae le sue origini dall’esigenza di riscoprire e localizzare le città
antiche ricordate nelle fonti letterarie latine e greche, esigenza sentita a partire
dall’Umanesimo, e si affina con il successivo fiorire degli studi cartografici. Va da sé che
l’unico modo per appurare l’esattezza delle informazioni antiche era la conoscenza diretta
del territorio attraverso la perlustrazione dei luoghi. Numerosi sono gli studiosi che si sono
distinti in questo campo e troppo lungo sarebbe elencarli tutti; sono però da ricordare per
il loro impegno nell’alto Lazio personaggi come Annio da Viterbo, Filippo Cluverio e Luca
Holstenio.
Il progresso negli studi archeologici, con la conseguente specializzazione di
competenze per la topografia antica, e l’evoluzione delle tecniche cartografiche porò, nel
1881, alla promozione di un programma per il censimento del patrimonio archeologico
italiano. Tale programma, realizzato da G. Gamurrini, A. Cozza, A. Pasqui, R. Mengarelli e
che prese il nome di “Carta Archeologica d’Italia”, investì principalmente il territorio
dell’Etruria meridionale, marittima ed interna, della Sabina e dell’agro Falisco portando
alla localizzazione di centri come Luni sul Mignone, San Giuliano, Falerii Novi e Nepi. Il
progetto, però, non giunse mai a compimento per la carenza di fondi disponibili ma la
messe di documentazione raccolta nei sette anni di ricerche contribuì non solo
all’accrescimento delle conoscenze scientifiche sugli abitanti ma anche all’istituzione del
Museo Etrusco di Villa Giulia.
Nel 1926, non senza polemiche e conflitti accademici, vennero avviati due
programmi topografici ancora attuali: la “Forma Italiae” da parte di G. Lugli dell’Istituto
di Topografia Antica dell’Università di Roma e la “Carta Archeologica” di R. Bianchi
Bandinelli. Il primo - erede diretto della metodologia adottata dal Gamurrini, Cozza,
Pasqui, Mengarelli - prevedeva la realizzazione di carte topografiche in scala 1:25.000 (le
tavolette dell’Istituto Geografico Militare) con la localizzazione puntuale dei singoli
rinvenimenti e la conoscenza diretta integrale del territorio in esame; il secondo consisteva
nella raccolta sistematica dei dati bibliografici riportati su base cartografica al 100.000.
Negli anni ‘50 J. Ward Perkins e la British School of Rome realizzarono un grande
progetto di ricerca di superficie, la “South Etruria Survey”, che investì soprattutto il
territorio dell’antica città di Veio. L’iniziativa mirava a raccogliere i dati relativi agli
insediamenti abitativi minori (fattorie e ville rustiche), nel momento in cui le
trasformazioni agrarie del dopoguerra sconvolgevano l’assetto morfologico, avvalendosi
anche di discipline non archeologiche quali la geologia e la geomorfologia per la
ricostruzione del paesaggio antico.
82
Finalità e metodologie sostanzialmente simili portarono F. Castagnoli, in quegli
stessi anni, a dare un nuovo impulso al progetto “Forma Italiae” che si arricchì di
numerosi volumi. L’intento del Castangoli era di realizzare un catasto delle presenze
archeologiche che fosse strumento fruibile, in egual misura, dal mondo scientifico e dagli
enti preposti alla tutela o alla pianificazione territoriale. Tale scopo, già presente nei
programmi della commissione Cozza-Pasquini-Gamurrini e del Lugli, si rese ancor più
pressante nel momento in cui il “boom” economico degli anni ‘60 - e la conseguente
espansione edilizia, la realizzazione di nuove strade a scorrimento veloce, l’utilizzazione di
macchine agricole pesanti - portò alla distruzione e al rapido deterioramento del
patrimonio archeologico.
Da allora molteplici sono stati gli sviluppi tecnici nell’indagine territoriale, maturati
anche grazie all’applicazione di tecnologie geofisiche ed informatiche, ed il confronto delle
varie esperienze ha portato ad un notevole arricchimento scientifico nelle metodologie
della ricerca topografica.
Nuovi indirizzi di ricerca: la scuola anglosassone e la scuola romana.
Allo stato attuale delle ricerche, possiamo dire che sostanzialmente sono due le
direttrici metodologiche sulle quali sono divii gli studiosi di topografia antica.
La prima, in auge dagli anni ‘80, è la c.d. “scuola anglosassone” come è stata definita
in un recente convegno tenutosi a Pisa. Questa ha concepito una tecnica di ricerca
“estensiva” che si avvale dell’interdisciplinarietà delle materie (geologo, pedologo,
paleobotanico, antropologo) e l’elaborazione dei dati su base statistica. Tale tecnica si
distingue per la scelta di indagare grandi comprensori regionali accomunati da motivi
storici, svincolandosi dunque dalla costrizione geografica determinata dalle tavolette IGM,
attraverso la campionatura del territorio oggetto della ricerca con una serie di transetti
regolari organizzati in modo da avere una rappresentazione statisticamente valida per
l’intero territorio. Un’esemplare applicazione di questo metodo è stata attuata da A.
Carandini e dalla sua équipe nel corso del progetto “Ager Cosanus”, esteso dalla valle
dell’Albegna al fosso Tafone, che ha portato alla copertura complessiva del 20% dell’intero
territorio e alla scoperta di numerose presenze archeologiche ancora sconosciute. Tale
metodologia, alla quale va indubbiamente riconosciuto il merito di essere innovativa e di
aver costituito riflessione scientifica per l’approfondimento delle problematiche di ricerca
topografica in Italia, ha il vantaggio di perlustrare quantitativamente meno territorio dunque con un notevole risparmio di tempo - ma a mio avviso i risultati ottenuti non
83
costituiscono un valido supporto per le proiezioni statistiche sulla ricostruzione dell’assetto
abitativo dell’intera regione. Troppe, e spesso imponderabili, sono infatti le variabili
relative alle scelte insediative per ogni singolo periodo storico dalla preistoria al medioevo,
scelte determinate per esempio da fattori climatici, geologici, morfologici, politici ed
economici. A queste variabili si sommano i limiti propri del tipo di ricerca determinati
dalla visibilità del terreno al momento della ricognizione, dallo stato di degrado del dato
archeologico, dalla conoscenza dell’operatore del materiale ceramico e dalle sue
propensioni storico-cronologiche. In ultima analisi, una pianificazione accurata della
ricerca ed una compless strategia dei transetti non potrà soddisfare tutte le discriminanti
portando, per forza di cose, a risultati parziali e, dunque, statisticamente viziati. Da quanto
esposto risulta evidente che la rappresentatività del dato è direttamente proporzionale al
territorio coperto: ad una maggiore area perlustrata corrisponde un valore statistico più
indicativo, dunque più vicino alla realtà. 1) .
La seconda direttrice è quella che trova nella “scuola romana” il suo punto di
riferimento e la sua applicazione metodologica nei volumi della collana “Forma Italiae”. Lo
spirito in cui si muove l’opera stessa, che come detto precedentemente vanta importanti
tradizioni di studio, può essere sintetizzato dalla frase del Gamurrini: “La Carta deve
servire come di preparazione e fondamento per gli studi e le scoperte future e, inoltre, per
assicurare all’Italia la conservazione dei monumenti”. A tale scopo la metodologia adottata
prevede:
- la pubblicazione di volumi secondo il criterio di suddivisione geografica per
tavolette IGM, ovvero per carte topografiche in scala 1:25.000 comprendenti un’area di
10x10 km.;
- l’esplorazione diretta ed integrale del territorio in esame;
-la schedatura delle emergenze archeologiche con descrizione sintetica ed analitica
dei singoli rinvenimenti, mobili ed immobili;
- un’abbondante documentazione grafica e fotografica di supporto alle schede;
- la localizzazione puntuale dei singoli rinvenimenti sulla carta topografica, con
riporto in scala dell’estensione.
E’ fuor di dubbio che tale metodologia, recentemente definita “intensiva”, comporta
una conoscenza effettiva delle presenze archeologiche in una determinata area, sempre
1)
Tale considerazione potrà apparire lapalissiana ma dimostra quanto sia difficile, o quantomeno azzardato, applicare
modelli matematico-statistici ad una disciplina umanistica come la topografia antica.
84
considerando i limiti stessi del tipo di ricerca, ma è altrettanto vero che non consente di
avere un quadro di insieme della situazione storica del comprensorio regionale di
appartenenza. Inoltre, bisogna aggiungere che in alcuni volumi pubblicati è mancata una
dettagliata sintesi storico-topografica sull’evoluzione insediativa del popolamento. Questo,
è in parte da imputare alla scarsa conoscenza del materiale ceramico da parte degli
operatori - a loro discolpa, però, deve essere considerata la mancanza di approfonditi studi
ceramologici fino a non molti anni fa - e dalla propensione della topografia per un tipo di
studio che privilegiava preferenzialmente l’analisi strutturale. Tale indirizzo, grazie anche
al dibattito metodologico avvenuto in questi ultimi anni, sembra cambiato essendo
richiesta anche al topografo una maggiore conoscenza della ceramica - elemento base per
ogni periodizzazione storica - e gli ultimi volumi editi, ancor più quelli di prossima
pubblicazione, dimostrano una maggiore sensibilità ed un affinamento delle tecniche
relative alla ricostruzione dell’insediamento antico del territorio nelle singole fasi storiche.
Discorso a parte merita un altro campo di studio che riguarda la redazione di “Carte
Archeologiche” in scala 1:100.000 da parte del Ministero della Pubblica Istruzione o, più
recentemente, da Regioni e Provincie. Come abbiamo avuto modo di accennare
precedentemente, si tratta della compilazione di carte IGM sulla base dei dati raccolti dallo
spoglio della bibliografia esistente e degli archivi (Sopraintendenze, Musei, Comuni,
Provincie, Archivi di Stato, archivi privati ecc.). I dati, organizzati in schede sintetiche
descrittive, sono rappresentati simbolicamente sulla carta e risultano suddivisi per periodi
grazie ad una scala cromatica indicata nella relativa legenda. Il lavoro ha lo scopo di
costituire la base per lo studio territoriale sia a fini archeologici che per la programmazione
degli sviluppi.
Va da sé che questi tre campi di indagine, diversi per finalità e metodologie, non si
escludono a vicenda ma, proprio per le differenze peculiari delle singole ricerche, sono da
considerare basiliari e complementari per ogni tipo di studio territoriale scientifico e non.
La realizzazione della carta archeologica: gli strumenti
Gli attuali indirizzi della topografia sono, per certi versi, determinati dalla grande
“urgenza territoriale” che è stata quasi improvvisamente, certo tardivamente, recepita dalla
collettività, trovatasi a fronteggiare le emergenze ambientali derivanti dal forte degrado
che ha investito e travolto la quasi totalità del territorio nazionale. Da questa situazione
sono scaturite due direttive per gli studiosi di topografia antica: 1) la necessità di
catalogare e posizionare su carte adeguate tutte le emergenze archeologiche del territorio,
operazione indispensabile per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico; 2) un
85
lavoro di preparazione per lo sfruttamento intelligente del territorio e la programmazione
degli sviluppi.
Per arrivare ad un così ambizioso risultato devono essere utilizzati molti strumenti
di lavoro che insieme concorrono alla strutturazione di un serio metodo scientifico:
a) studio accurato della geomorfologia della regione indagata, che si avvalga delle
moderne scienze paleoambientali, della pedologia e geologia, per poter ricostruire, almeno
in via ipotetica, l’habitat antico (linee di costa, percorsi dei fiumi, paludi, foreste, etc.);
b) analisi delle fonti antiche (classiche e medievali), che comprende la raccolta delle
informazioni tratte dalle opere letterarie, storiche, annalistiche geografiche, itinerarie,
epigrafiche e di tecnica agrimensoria; da questo strumento si possono ricavare utili
indicazioni sulla storia socio-politica, sulla viabilità antica, sul popolamento, sulle attività
produttive e sui modi di sfruttamento del territorio in oggetto;
c) cartografia antica, per individuare tracce riguardanti strutture o percorsi antichi
oggi scomparsi ma visibili fino all’inizio del nostro secolo e segnati sulle carte. In tal senso,
particolare rilevanza assume l’analisi critica della cartografia storica, ovvero le carte
finalizzate alla ricostruzione dell’assetto antico redatte dal XVII secolo in poi, per il
carattere documentario dell’opera;
d) documentazione d’archivio riguardante la scoperta, spesso inedita, di materiale
archeologico; molto utili, a tal proposito, risultano gli archivi degli ordini religiosi o quelli
privati di proprietari terrieri;
e) toponomastica, strumento estremamente valido negli studi topografici per il
carattere conservatore dei nomi delle località; questi forniscono informazioni relative
all’ubicazione dei centri antichi e ai tratti viari oppure alludono all’esistenza di resti
archeologici. Nel territorio viterbese esemplificativi sono i casi di Bolsena per Volsinii, Via
dell’Origlio per Via Aurelia, Pian di Voci per Vulci, Torrente Arrone da Arunth (tipico
nome etrusco) oppure Murelle e Muraccioli per indicare strutture murarie;
f) ricognizione sul terreno; è lo strumento principale delle ricerche topografiche
attraverso il quale si localizzano siti antichi altrimenti sconosciuti. Si tratta di effettuare
perlustrazioni per individuare l’affioramento di materiale archeologico in seguito alle
arature. Nella grande maggioranza dei casi, per l’effetto distruttivo dei lavori agricoli, il
rinvenimento si presenta sotto forma di aree di frammenti fittili;
g) fotografia aerea.
Quest’ultimo aspetto, anche se entrato a buon diritto a far parte degli strumenti di
indagine archeologica da diversi anni, merita di essere approfondito essendo ancora poco
sfruttato o, peggio ancora, male impiegato. In questa sede si tenterà di fornire
86
un’esemplificazione delle possibilità offerte dalle fotografie aeree alle ricerche
topografiche 2) . L’utilizzazione di termini tecnici, quando strettamente necessari, sarà
seguita da una spiegazione sintetica ma - almeno nelle intenzioni - esauriente,
demandando
la
trattazione
particolareggiata
dell’argomento
ai
manuali
di
fotointerpretazione archeologica recentemente pubblicati.
Bisogna premettere che tra i numerosi tipi di fotografie aeree esistenti (verticali,
oblique, panoramiche, infrarosso, etc.) le più utili ai fini archeologici sono quelle verticali,
in considerazione anche del rapporto tra la quantità di informazioni ricavabili ed il prezzo.
I vantaggi offerti dalle foto verticali consistono, prevalentemente, nel mostrare il terreno
secondo una prospettiva planimetrica - in tutto simile alle rappresentazioni delle carte
topografiche - permettendo, dunque, una visione di insieme dell’area che non è possibile
con il semplice controllo sul terreno; inoltre, osservate attraverso lo “stereoscopio”
(strumento ottico bioculare che consente di vedere contemporaneamente due fotogrammi,
uno con l’occhio destro l’altro con il sinistro), è possibile percepire le caratteristiche
tridimensionali ed altimetriche del territorio. Altro fattore estremamente importante è che
le fotografie aeree verticali possono essere utilizzate per la realizzazione di carte
topografiche a scala adeguata per i fini archeologici, ad esempio con isoipse molto
ravvicinate per esaltare il microrilievo determinato dalle strutture antiche sepolte.
Gli elementi archeologici - siano essi fattorie, strade, divisioni agrarie, tagliate,
tombe, cave, etc. - si manifestano nelle aerofotografie sotto forma di tracce che, nella
pratica, si distinguono per variazioni cromatiche, andamento del terreno e particolari
aspetti del paesaggio.
Le variazioni cromatiche, che si traducono in sfumature di colore vero e proprio o di
tonalità di grigio nelle pellicole b/n, vengono registrate dal materiale fotografico anche se
impercettibili all’occhio umano; tali sfumature possono essere enfatizzate dall’uso di filtri.
Lo sviluppo del rilievo dipende, come è ovvio, dalla conformazione geologica
sottostante; dunque, un elemento interrato influisce sull’andamento altimetrico del
terreno determinando differenze, spesso minime (microrilievo), che possono essere
individuate con lo stereoscopio.
L’aspetto del paesaggio è determinato da fattori antropici antichi e moderni
correlati tra loro; in alcuni casi l’ambiente attuale risulta fortemente caratterizzato da
elementi antichi (si pensi al tipico paesaggio della Pianura Padana - con lunghi rettifili ed
2)
E’ bene precisare che per fotografie aeree si intendono genericamente le riprese effettuate dall’alto, comprendendo in
tal senso sia quelle realizzate da palloni aerostatici che da elicottero e satellite, ma anche da strumenti fotografici
87
incroci ortogonali - determinato dalla persistenza della divisione agraria di età romana), in
altri le implicazioni sono meno evidenti.
Finora sono stati descritti genericamente gli elementi che manifestano l’esistenza di
anomalie sulle aerofografie; passiamo ora ad analizzare, nel concreto, come si riconosce
una traccia archeologica ed i principali fattori che determinano la comparsa della stessa.
In determinate condizioni, i resti archeologici interrati possono influenzare il grado
di sviluppo della vegetazione determinando sulla fotografia una traccia di tono chiaro. Il
fenomeno è prodotto dalla differenza di profondità dell’humus in corrispondenza della
struttura, minore rispetto all’area circostante, comportando una variazione di nutrimento
con conseguenze sulla crescita, sulla densità e sul colore della vegetazione. Ovviamente,
completamente invertito è il discorso per quanto riguarda i fossati difensivi, le tagliate
viarie, i canali interrati etc.: la vegetazione, insistendo su un maggiore spessore di humus,
risulterà più rigogliosa e la risoluzione fotografica sarà una traccia scura. In condizioni
ottimali, ad esempio, una strada romana interrata apparità come una fascia chiara - in
corrispondenza della sede stradale - delimitata dalle due linee sottili scure delle scoline;
più generalmente sarà una traccia chiara. Il fattore “vegetazione”, che potremmo indicare
come uno dei più facilmente individuabili e di diretta interpretazione, permette in casi
particolarmente felici di distinguere con cura i dettagli degli edifici interrati.
Esemplificativi sono i fotogrammi riguardanti le ville imperiali di Centocelle e di S.
Palomba, dove è possibile riconoscere minuziosamente la planimetria e l’articolazione
interna degli ambienti, o la villa di Pian d’Arcione presso Tarquinia. Va però notato che è
possibile ottenere questo tipo di tracce soltanto con strutture murarie non profonde e con
vegetazione non eccessivamente matura (con lo sviluppo, infatti, le differenze di crescita e
di colorazione si annullano). E’ evidente, dunque, che tali discriminanti condizionano
fortemente il lavoro del fotointerprete/archeologo; solo le fotografie scattate in un certo
periodo dell’anno, infatti, potranno potenzialmente registrare tracce di questo genere.
Anche il fattore “umidità” è da considerare uno degli elementi che causano la
comparsa di tracce da ricondurre all’esistenza di strutture archeologiche sepolte. Tali
tracce, che compaiono prevalentemente su superfici prive di vegetazione, sono determinate
dalle differenze di capacità di drenaggio di un terreno, ovvero dalle caratteristiche
pedologiche che permettono l’assorbimento dell’acqua. E’ evidente che alterazioni nel
substrato comportano la formazione di aree con permeabilità differenziata e con grado di
evaporazione direttamente influenzato dallo spessore del suolo coltivabile: minore è
particolari quali “giraffe” o simili. In questa sede, però, si prenderanno in considerazione soltanto le foto eseguite da
88
l’humus più rapido sarà il prosciugamento della superficie. Sulla fotografia, quindi, la
colorazione del suolo non apparirà uniforme ma si presenterà con zone di diverse tonalità,
dove il tono scuro indica una maggiore presenza d’acqua. Come detto precedentemente a
proposito delle tracce da vegetazione, le strutture sepolte implicano una diminuzione di
profondità del terreno causando, dunque, una veloce evaporazione dell’acqua assorbita:
l’esito fotografico è una traccia chiara in corrispondenza dei resti archeologici. Ovviamente
una tagliata stradale, un fossato o un canale sarebbero identificati da una linea scura. In
casi particolari, però, si può verificare un’inversione di tono della traccia. Il fenomeno, che
dipende dalle caratteristiche della struttura, dalla forma, dalla posizione rispetto alla
direzione di deflusso delle acque e dalla conformazione del suolo, si verifica per il ristagno
di umidità intorno alle strutture che saranno evidenziate da una linea scura.
L’ultimo fattore che tratteremo in questa sede riguarda le tracce da microrilievo 3) ,
per l’identificazione delle quali è consigliabile l’uso dello steroscopio per la visione
tridimensionale dei fotogrammi. Abbiamo già accennato al fatto che un elemento sepolto,
in determinate condizioni, può modificare l’andamento altimetrico del rilievo con
rialzamenti e depressioni.
Sulla foto tali elementi determinano tracce che si apprezzano in particolar modo
quando la ripresa sia stata eseguita con sole molto basso all’orizzonte, cioè con luce
radente, quando anche i minimi rilievi producono un’ombra. In tal caso, il microrilievo si
dimostra particolarmente utile nel caso di identificazione di strade antiche infossate, in cui
l’andamento si manifesta per l’ombra proiettata dalle sue pareti e per la depressione
compresa tra queste. In questa categoria di tracce sono compresi anche i resti archeologici
sommersi, come nel fotogramma che riguarda Pozzuoli dove le strutture, poco conservate
in alzato, si individuano per il microrilievo e per le ombre proiettate sul fondo marino.
E’ bene aggiungere che i voti più indicati per un lavoro di fotointerpretazione
archeologica sono quelli più vecchi, ed in particolare quelli realizzati prima dei grandi
processi di trasformazione agraria degli anni ‘50. In questi fotogrammi, infatti, aumenta la
possibilità di ricavare informazioni per la ricostruzione del paesaggio antico.
Particolarmente utili si dimostrano le numerose fotografie scattate durante l’ultima guerra
dalla RAF, anche per il minor grado di distruzione delle strutture archeologiche sepolte.
Il risultato finale: la carta sincronica
aeroplano per la facilità di reperimento delle stesse e per le possibilità di impiego per fotogrammetria archeologica.
89
Tutte le informazioni ottenute dall’analisi dei singoli strumenti sopra menzionati
conducono alla redazione di una carta topografica con la con la localizzazione di tutti gli
elementi che contribuiscono alla ricostruzione del paesaggio antico (centri antichi, villaggi,
fattorie, ville, necropoli, acquedotti, cunicoli, strade, tagliate, cave, etc.).
Come base cartografica è abbastanza diffuso l’uso delle carte dell’Istituto Geografico
Militare Italiano in scala 1:25.000 ma, a seconda dello scopo e dell’entità di territorio che si
deve abbracciare, si possono utilizzare anche scale più piccole (p. es. le carte 1:100.000
dell’IGMI per le carte archeologiche simboliche) o più grandi (utilizzando cioè le carte
realizzate dalle Regioni o dai Comuni). La scelta di utilizzare la cartografia ufficiale è
determinata, come precedentemente ricordato, anche dallo scopo “civico” della ricerca:
fornire agli enti preposti alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico
uno strumento di lavoro utile per la pianificazione degli sviluppi. In tal senso, i requisiti di
queste carte rispondono pienamente alle esigenze delle amministrazioni locali in fase di
progettazione territoriale. In qualche caso, però, la base cartografica è costituita da una
elaborazione grafica schematica, con l’indicazione dei limiti territoriali, delle località e
dell’idrografia principale; tale rappresentazione è utilizzata prevalentemente per
focalizzare informazioni di carattere generale sulla distribuzione di determinati elementi
(carte delle ossidiane, di un certo tipo di anfore, di categorie specifiche di insediamenti,
etc.) e, dal momento che non contempla le componenti fondamentali del paesaggio (come
l’altimetria), non si può considerare un’espressione propria della topografia.
Il
limite
principale di una ricerca topografica condotta sul territorio, come si è avuto modo di
accennare in precedenza, è costituito dall’alta percentuale di dati non recuperabili a causa
delle trasformazioni del paesaggio (aree edificate, cave, sbancamenti, lavori agricoli, etc.),
degli “occultamenti temporanei” (vale a dire emergenze archeologiche coperte da fitta
vegetazione, aree di frammenti fittili non visibili perché in terreni a pascolo, etc.) o
dell’impossibilità di indagare certe aree (zone militari, recintate, etc.). Tale limite, come è
ovvio, condiziona la corrispondenza tra l’effettiva quantità delle presenze antiche nel
territorio e quelle registrate sulla carta. Se, dunque, lo scopo di una carta archeologica è
quello di fornire informazioni precise sulla presenza o meno di emergenze antiche informazioni che devono essere utilizzate dallo specialista quanto dalle amministrazioni
locali - la mancanza di indicazioni in una zona può essere interpretata, da un non
specialista, come assenza di resti antichi mentre il vuoto potrebbe dipendere da uno dei
3)
In realtà esistono altri fattori che consentono al fotointerprete di supporre l’esistenza di elementi archeologici ma, per
motivi di spazio e perché indicatori indiretti di strutture sepolte, si è optato per una esclusione di questi dal presente
lavoro.
90
fattori limitativi precedentemente ricordati. Per ovviare almeno in parte a questa
contraddizione, che genera comprensibili perplessità e diffidenze, è stato studiato un
espediente grafico per fornire al fruitore della ricerca uno strumento univoco di
valutazione. Alla base dell’espediente è un’indagine minuziosa, dettata anche dalla
esperienza maturata nell’ambito degli studi di topografia antica, sui fattori che
determinano la possibilità di individuare emergenze archeologiche sul territorio. Si è
potuto, così, stilare un “indice di visibilità”, riferito alle diverse condizioni del terreno,
associato ad una scala cromatica: ogni elemento dell’indice è distinto da un colore.
La realizzazione di carte archeologiche cromatiche permetterebbe di visualizzare
contemporaneamente l’elemento e le condizioni di visibilità del terreno al momento della
ricognizione 4) . Facciamo l’esempio precedente; sulla carta è segnata un’area di color verde
scuro (corrispondente ad una zona di visibilità nulla per macchia o folta vegetazione) senza
presenze archeologiche: l’assenza può essere determinata dalle condizioni del terreno;
cambiando lo stato di questo (messa a coltura del campo), potrebbero emergere resti
antichi. Se invece il colore dell’area fosse bianco (condizioni ottimali di visibilità: terreno
privo di vegetazione, non polveroso, etc.) la mancanza di indicazioni corrisponderebbe ad
una effettiva assenza di strutture archeologiche sul territorio. Ancora; pochi frammenti
fittili in un campo contraddistinto dal colore verde chiaro (corrispondente ad una zona a
pascolo) non provano necessariamente la presenza di una piccola abitazione, o peggio di
una costruzione completamente distrutta dai lavori agricoli, ma solo l’esistenza di un
insediamento le cui dimensioni e lo stato di conservazione non sono precisabili per la
visibilità appena sufficiente, conseguenza diretta del tipo di coltura dell’area.
Da questi esempi si intuisce le potenzialità di lettura della carta e la raffinatezza di
interpretazione e di analisi che si cela dietro questi lavori. In molti casi, infatti, è possibile
stabilire persino il grado di conservazione dell’elemento archeologico sepolto in relazione
al tipo di coltivazione o alla evidenziazione nell’indice dei danni provocati da azionipositive o negative - quali lo sbancamento da aratura, il riporto di terra artificiale o
naturale (frane, alluvioni), le cave, etc.
L’operatore, dunque, non potrà più essere un semplice appassionato che passeggia
per campi cercando materiale antico ma dovrà possedere una seria esperienza di ricerca
sul territorio per cogliere anche quelle informazioni non prettamente archeologiche che
rendano la carta un serio strumento scientifico.
GIORGIO F. POCOBELLI
91
BIBLIOGRAFIA
AA.VV., Ricognizione archeologica e documentazione cartografica, in Quaderni
dell’Istituto di Topografia Antica VI, Roma 1974.
R. Bianchi Bandinelli, Carta archeologica d’Etruria, in Studi Etruschi I, 1926, pp.
449-454.
A. Carandini, Settefinestre. Una villa schiavistica nell’Etruria romana, Modena
1985.
La Cartografia archeologica: problemi e prospettive, Atti del convegno
Internazionale di Pisa (21-22 marzo 1988), Pisa 1989.
F. Castagnoli, La Carta Archeologica d’Italia (Forma Italiae), in Quaderni della
ricerca scientifica: un decennio di ricerche archeologiche, Roma 1978, pp. 269-280.
M. Celuzza, E. Regoli, La valle d’Oro nel territorio di Cosa. Ager Cosanus e Ager
Veientanus a confronto, in Dialoghi di Archeologia 1980, 2, pp. 31-62.
G.M. De Rossi, La via Aurelia dal Marta al Fiora, in La via Aurelia da Roma a
Forum Aureli, Quaderni dell’Istituto di Topografia Antica IV, Roma 1968, pp. 121-154.
G.F. Gamurrini, A. Cozza, A. Pasqui, R. Mengarelli, Forma Italiae. Materiali per
l’Etruria e la Sabina, (a cura di F. Castagnoli), Roma 1970.
M. Guaitoli, La carta archeologica, in Metodologie nella ricerca topografica - Atti
del I congresso di Topografia Antica (13-15 maggio 1993) (in c.s.).
G. Lugli, Anxur-Terracina, Roma 1927.
F. Piccarreta, Manuale di fotografia aerea; uso archeologico, Roma 1987.
M. Rendeli, Città aperte, Roma 1993.
G. Schmiedt, Atlante aerofotografico delle sedi umane in Italia: parte I,
l’utilizzazione delle fotografie aeree nello studio degli insediamenti, Firenze 1964.
4)
Carte di questo tipo sono in corso di realizzazione nella sezione di Topografia Antica dell’Università di Roma “La
92
CASTELLI DI CORNETO NEL XIII SECOLO
I siti di Civitella, Monte Monastero e Sant’Arcangelo hanno ricoperto un’importanza
fondamentale nello sviluppo della potenza politica di Corneto intorno al XIII secolo.
Queste tre località sorgevano lungo il corso del fiume Mignone confermando la teoria
secondo la quale il corso d’acqua costituì una importantissima via di comunicazione,
collegando facilmente Corneto con i centri più interni della Tuscia. Tra Monte Monastero e
Sant’Arcangelo il “Passo di Viterbo” 1) testimonia l’esistenza di una strada che attraversava i
due centri per raggiungere Civitella, quindi Blera e Vetralla.
E’ su questi territori dei monti della Tolfa che si consolidò un lungo attrito tra
Corneto e Viterbo, quest’ultima intenzionata ad estendere il predominio verso il Tirreno
proprio attraverso Sud.
Sant’Arcangelo rappresenta, insieme a Santa Maria del Mignone, la più importante
fondazione religiosa del Medioevo sui mondi della Tolfa. Un documento del 976,
conservato nell’archivio di Viterbo, ci permette di affermare l’esistenza dell’abbazia già nel
X secolo. In esso si fa menzione di un abate di Sant’Arcangelo che acquista da tale Ugone
alcuni casali con terreno, individuati nel massiccio montuoso tolfetano. Il luogo, che
attualmente si chiama Piantangeli o Pian d’Angelo, è raggiungibile per la strada che dal
tempio etrusco della “Grasceta dei cavallari” sale verso est attraverso un fitto bosco. Vicino
l’abbazia esisteva un castello con un centro abitato che nel 1061 fu sottomesso al comune di
Viterbo dal Conte Farulfo. Nel 1201 l’abate Paltone, in un atto della Margarita cornetana,
cede alcuni suoi diritti sul vicino castello a Corneto che ne conserverà il controllo per vario
tempo. “.... 1201 marzo” ind. IV, Corneto. Paltone prete, abate della Chiesa di
Sapienza”, la pubblicazione delle quali è prevista per i volumi della Forma Italiae di prossima stesura.
1)
Attuale strada di campagna.
93
Sant’Arcangelo, col consenso di prete Guido, oblato della medesima Chiesa, dona a
Tommaso Ferrario, a Rogerio e a Tagliacozzo, consoli di Corneto il castello di
Sant’Arcangelo e Casagnelis, ad pacem et guerram faciendam secondo la loro volontà...” 2)
Anche il Polidori, nelle sue “Croniche”, evidenzia il fatto: “... nell’anno 1202 la
Comunità di Corneto conquistò il castello di Sant’Arcangelo per via di donatione
dell’Abbate d’esso luogo conforme da relativo Instrumento si può ampliamente vedere...”.
La vita del castello e del monastero continuò per diversi decenni parallelamente.
Nel XIV secolo iniziò il declino. Gli eventi bellici che interessarono anche i monti della
Tolfa e soprattutto la peste che sconvolse l’Italia nel 1348, portarono ad una rapida
decadenza del monastero e del castello.
La proprietà di Sant’Arcangelo fu rivendicata nel 1356 al Sinodo di Montalto dal
vescovo viterbese Nicolò. Dopo il trecento non ci sono più documenti che lo riguardano,
quindi si può presupporre il suo definitivo abbandono.
Oggi dell’abitato non esiste alcun muro, ma sono presenti tracce sotto la superficie
erbosa. Approssimativamente il borgo si estendeva per 80 metri con una larghezza di 250
metri. Le tracce della chiesa sono molto più evidenti; lo schema è a tre navate culminanti
in tre absidi. Le navate sono ripartite in tre campate con quattro semicolonne addossate
alle pareti e quattro colonne centrali. Le dimensioni interne sono di m. 11,75/11,90 di
larghezza e m. 19,15 di lunghezza. Della torre campanaria non resta che la base. Moltissimi
capitelli sono stati recuperati nel 1974 dalla Soprintendenza e custoditi nel museo civico di
Tolfa. Al centro della navata maggiore sono visibili alcune parti di muro formanti un
recinto a forma quadrangolare la cui forma e le cui dimensioni fanno pensare ad un
probabile spazio per una “schola cantorum”.
Del pavimento restano poche tracce mentre l’abside sinistra presenta tracce di uno
scavo recente. Sono inoltre chiare alcune tracce di tombe a fossa ricavate nel pancone di
tufo. Quel che rimane delle colonne e delle semicolonne addossate alle pareti presenta una
tecnica di lavoro con scalpellino molto evoluta. Bisogna segnalare inoltre che in questa
località sono state rinvenute una moneta di Federico II del XIII secolo e due monete del
XIV secolo.
Gli esperti sono concordi nel ritenere che la costruzione fu eseguita nel XII secolo
mentre l’abbandono dell’edificio dovrebbe essere avvenuto verso la metà del XIV secolo.
La storia di Sant’Arcangelo s’intreccia con altri due importanti borghi medioevali:
Monte Monastero e Civitella. Il primo si ergeva sul Monte Monastero, alto 403 metri a sud
2)
Margarita Cornetana, p. 54 c. II. “Col diritto di fare la pace e la guerra”.
94
di Civitella Cesi. Dai documenti di riscossione delle decime, risulta che alla fine del 1200
dovevano esserci tre chiese: Santa Maria, San Giovanni e San Leonardo che dipendevano
dalla diocesi di Viterbo. Il castello seguì il suo declino nel XIV secolo dopo essere passato
agli Anguillara. Di esso non rimane che un residuo di muraglione raggiungibile attraverso
una strada di campagna.
Civitella Cesi si raggiunge seguendo la strada che da Monteromano porta a Blera.
Una diramazione immette in una strada pianeggiante e panoramica che, attraverso
verdeggianti campi di olivi, conduce al piccolo centro. Civitella appare in buonissimo
stato, arroccata a 190 metri e cinta da mura, un vero e proprio borgo medioevale con un
castello recentemente restaurato, quindi in perfette condizioni.
Fu edificato nel 1024 dai conti Bovaccini. Fino a poco tempo fa ne era proprietario il
duca Don Andrea Torloni. Sembra che attualmente sia stato messo nuovamente in vendita.
Cerchiamo ora di seguire, riassumendo, in ordine cronologico le vicende che hanno
legato quesi tre castelli alla potente città di Corneto.
Secondo un documento datato 1141 ma, secondo alcuni, falso, il conte di Monte
Monastero Farulfo cedette al comune di Viterbo alcuni castelli dei monti Tolfetani, tra cui
lo stesso Monte Monastero, S. Arcangelo, Alteto e San Giovenale.
Nel 1193 il centro fu distrutto da Enrigo di Calandrino, nel corso di una spedizione
contro Viterbo. Verso la fine del XII secolo Monte Monastero fu un feudo del conte Guido
di Santa Fiora. Nel 1201 i figli di Guido di Santa Fiora chiesero aiuto a Corneto in quanto il
conte Ugolino 3) si era impadronito ingiustamente del castello di Tolfavecchia. Ugolino fu
sconfitto dai Cornetani e fu costretto ad accettare alcune condizioni: 1) Dover riconoscere il
comune di Corneto come signore di diretto dominio di Tolfavecchia, di Monte Monastero e
di tutto il territorio che allora possedeva e di quello che avrebbe potuto acquistare in
seguito. 2) Dover offrire ogni anno in occasione della festa di San Secondiano un cero del
peso di dieci libbre. 3) Dover promettere di dare ai figli del conte Guido “mille libras
denariorum paparenorum... currentis monete” 4) e tutto il tenimento che aveva in Cencelle.
4) Dover dichiarare i cornetani esenti da qualsiasi dazio nelle sue terre. 5) Dover giurare il
“sequitamentum consulum Corneti” nel tempo in cui giurassero gli altri cornetani e di far
giurare allo stesso modo i figli dei figli non appena avessero compiuto il quattordicesimo
anno di età.
Lo storico Mutio Polidori ricorda l’evento nei suoi Annali di Corneto: “Nel detto
anno 1202 Haveva il Conte Ugolino di casa Nicolidi occupato la Tolfa vecchia che
3)
Conte e Signore di Tolfa Vecchia.
95
possedeva il Conte Guido, a che il comune di Corneto l’haveva infeudata, in pregiuditio de
figlioli di detto Conte Guido, che hebbero ricorso a Corneto come Signore di diretto
dominio d’essa Tolfa, affine fosse loro somministrata giustitia. Per lo che li cornetani posti
in arme si portarono alla recuperatione della Tolfa, et doppo diversi contrasti, alla fine fu
concordato che detto Conte Ugolino riconosca il Commune di Corneto per signore di
diretto dominio non solo della Tolfa Vecchia et Montemonasterio, ma anco di tutti gl’altri
Castelli, e Luoghi goduti da detto Conte Ugolino et che in avvenire gl’occorresse acquistare.
Che dia per tributo annuale nella festa di S. Secundiano 5) un cereo di libbre dieci di cera, et
che paghi alli detti figlioli del conte Guido mille lire de denari paparini da pagarsi a
raggione di lire cento l’anno nella festa di S. Maria d’Agosto sino all’intiero pagamento di
dette mille lire, et che consegni tutte le possessioni loro. Et di più che detto Conte Ugolino
sia obbligato dare lire sessanta nel giorno della festa di San Fortunato, che li Cornetani
siano franchi d’ogni datio, che si restituisca a detti Cornetani dal detto Conte Ugolino tutto
quanto esso o suoi homini ha hauto per la morte del conte Guido. Et finalmente che detto
conte Ugolino, et i suoi Vassalli presenti siano tenuti a giurare il Vassallaggio, et il seguito
de Ceretani, come anco dovranno giurare li successori tutti doppo che havessero compita
l’età di quattordici anni, et altro come in detto Instrumento si vede”.
Questo compromesso segnò un lungo periodo di influenza di Corneto sui monti
della Tolfa, almeno fino alla seconda metà del ‘400 con l’intervento della Chiesa.
Nel 1202 la città di Viterbo si riprese Monte Monastero in seguito ad una guerra
contro Corneto, conclusasi con la sconfitta di quest’ultima a Montalto. “... Narra la cronica
manuscritta di Viterbo che Janni Cocco, Pietro Forteguerra e Pietro di Polo con molti
viterbesi andorno a dannificar Corneto, e che venuti all’arme sopra Mont’alto i cornetani
fossero rotti con priggionia de molti che furno condotti in Viterbo... “ (Polidori - Annali).
Monte Monastero fu al centro di una contesa anche trra Viterbo e Roma che non
poteva lasciare alla Tuscia un nodo di comunicazione così importante nelle vie interne che
dal braccianese e dal vetrallese portavano alla Maremma. Per ventitrè giorni il castello fu
assediato inutilmente dai Romani difeso strenuamente da trecento viterbesi. Gregorio IX
pose fine alla contesa cedendo definitivamente il castello a Roma.
Nel 1238 Enrico, abate di Sant’Arcangelo, tentò di sottrarsi alla signoria di Corneto,
ma il tentativo fallì cosicchè non solo dovette giurare il solito “sequitamentum” ma porre
nel castello, per il comune di Corneto, un Visconte. “... Nell’anno 1238. Si vede un
4)
Mille libbre di denari paparini... in moneta corrente.
96
instrumento col quale l’abbate di S. Arcangelo ratifica che il Castello del detto nome di S.
Arcangelo spetta a Corneto per raggione del quale promette corrispondere quanto
appartiene a detto Publico, et renuntia all’appellatione interposta con obligo di accettare il
Visconte che deputerà il Comune di Corneto et di giurare il seguimento d’esso Comune, et
altro come in detto Instrumento si vede”. (Polidori-Annali). “Enrico abbate di S. Arcangelo,
per ordine di Iacopo di Gepzio console del comune di Corneto, ad computationem di
Bonifacio giudice, giura di rispondere a detto Comune per quanto ad esso spetta per il
castello di S. Arcangelo, in forza del privilegio fra Rainone da Tolfa vecchia e i suoi fratelli e
nipoti e secondo quanto è stabilito nel capitolo del costituto. Giura di rinunciare al
processo di appello intentato contro il Comune e presta il sequitamento da molti massari di
S. Arcangelo e costituisce nel castello un Visconte. In S. Arcangelo, alla presenza di Angelo
di Rollando, Ottaviano da Mastro, Giorgio Malascorte, Gepzio Vitelli, Griffulo, Tommaso
notaio e Matteo Humilitis, testi.
Rogito di Bonifacio, imp. aule ordinarius atque not. 6) , giudice del comune di
Corneto..” (Margarita cornetana, p. 54-55 c. III).
L’8 maggio 1251 venne nominato castellano di S. Arcangelo dal Podestà di Corneto
“Boccavitellus”, Pietro Bencivenne con l’obbligo di dimorare nel castello, per tutelare i
diritti di Corneto.
“Boccavitello, podestà e rettore di Corneto, istituisce Pietro di Bencivenne castellano
e gastaldo del Comune nel castello di S. Arcangelo. Questi, ad computationem di Bonifacio
giudice, giura di conservare la pace in detto castello, dove risiede un conte del Comune e
dell’abate, e di rendere conto a questi ultimi dei redditi di S. Arcangelo, versando al
Comune quanto gli spetta dei banni, dei plaiti, del terratico, dell’erbatico, del solcatico,
delle vigne, della data e di tutto ciò che al Comune medesimo pertiene secondo le
disposizioni del privilegio. In S. Arcangelo, presenti Rollando Vitelli, Pandolfo di Vaccario,
Berizone di Gerardo di Crescenzio, Ottaviano Mastri, Amatore di Ranieri di Maco, Gepzio
di Iacopo di Gepzio, Crescenzio Recuperati, Giovanni barbiere, Giovanni di Paolo
banditore, Pietro di Simeone, Simeone di Andrea di Giulia, testi...” (Margarita cornetana,
p. 55-56 c.III).
L’8 marzo 1256, 102 uomini di Tolfa vecchia, (coloro che avevano compiuto il
quattordicesimo anno di età), tramite il Visconte Carnifex giurarono di nuovo il
“sequitamentum” di Corneto.
5)
San Secondiano, antico patrono di Corneto insieme a San Lituardo. Il giorno della festa di San Secondiano il popolo
cornetano veniva benedetto dalla finestra della cappella, situata nell’attuale Palazzo Comunale, con la reliquia del
braccio del santo, deposta in una teca argentea. Questa celebrazione con processione ebbe inizio nel 1600.
97
Il 9 marzo 1256 giurarono 57 uomini di Monte Monastero, il 14 aprile giurarono
invece i 18 di Civitella. “... Li Tolfetani della Tolfa vecchia et gl’homini di Montemonastero
e di Civitella riconoscendosi sudditi di Corneto giurarono fideltà, et seguito de Cornetani,
come da relativi Instrumenti nel libro della Margarita”. (Polidori-Annali).
“I detti Guglielmo Cappello e Andrea fanno similmente giurare il sequitamento del
podestà di Corneto agli uomini di Monte Monastero, ovvero: Pietro Alberie visconte di
Monte Monastero, Ricto di Rollando, Salimbene, Benefatto, Rollando Tedesce, Lorenzo
Farate, Scambio, Petruccio, Orvetano, Gianni di Stefania, Liuto, Ventura senese, Angelo di
Bruna, Giovanni di Nicola, Niccolò, Giovanni di Scambio Arcerii, Guitto, Stefano bifolco,
Martino, Simeone Carlii, Girardo catone, Stefano di Benevento, Giovanni,
Accursio,
Matteo pecoraro, Iacopo di Viola, Plantanello, Gennaro, Iacopo di Ammirato, Bartozio,
Angelo di Marsilio, Michele Pulsonis, Leonardo, Giovanni di Pietro, Giovanni di Albertino,
Bartolomeo Cerase, Pietro Bucutus, Rainaldo, Pietro, Pietro di Frisa, Roberto di
Bartolomea, Giovanni de Bulminensibus, Ranuccio, Ranuccio tolfetano, Pietro di Gianni
Mealle, Egidio, Nuto, Gianni, Uguccio, Ricto, Deutaiuti, Getundiano, Giovanni di Pepone,
Tedisa, Vuiasclarate, Bartolomeo di Simeone... (Margarita cornetana, p. 57 c. III)... “. Ad
computationem di Enrico, giudice, assessore e vicario del podestà di Corneto, Guglielmo di
Cappello, sindaco ad Arena notaio fanno giurare a Verardo de Lepti, Serafino de Albona,
Pineterus Dainensis, Caniozzo, Pietro, Spinello, Iacopo, Biagio, Salvuccio, Cazato, Iacopo
di Neri, Ricculo, Spuleti, Capitano, Nicaleita, Neri, Barone, Pietro di Neri, uomini di
Civitella Cesi, il sequitamento di Monaldo di Ranieri di Stefano podestà di Corneto...
(Margarita cornetana, p. 58 c.III).
Da questi documenti, tenuto presente il numero dei firmatari e il fatto che gli stessi
dovevano aver compiuto il quattordicesimo anno di età, si desume che a Tolfa vecchia
sarebbero dovuti risiedere dai 350 ai 500 abitanti, a Monte Monastero la metà e a Civitella
ancora meno.
Nell’estate del 1283 un documento della Margarita Cornetana riporta la nomina di
Leonardo Mingardini a procuratore di Corneto il quale ricevette il giuramento di fedeltà
delle città di Tolfa vecchia, Civitella, Montemonastero e S. Arcangelo.
“Pellegrino da Anagni, giudice del comune di Corneto, in rappresentanza di
Roffredo Carsecani, vicario di Niccolò dei Conti, proconsole romano, rettore di detta terra,
e Andrea Grassi, console della medesima, per autorità del consiglio regolarmente adunato
in palazzo, costituiscono maestro Leonardo Mingardine sindaco e procuratore per ricevere
6)
Rogato da Bonifacio giudice ordinario e notaio dell’aula imperiale.
98
il giuramento di sequitamento degli uomini di Tolfa Vecchia, Monte Monastero, S.
Arcangelo e Civitella Cesi, per nominare il castellano di S. Arcangelo e per esercitare i
diritti previsti dal privilegio del comune di Corneto... (Margarita Cornetana, p. 58 c. IV).
“Coronato di Iacopo... in rappresentanza dei consoli del comune di Corneto, fa
giurare allo stesso modo gli uomini di Monte Monastero, ovvero: Azzorello di Falcone,
Giovanni detto Pica, Petruccio, Gianni di Pietro, Gianni Bernardo, Cola di Gianni, Neri,
Gianni di Zozo, Cristoforo Acobj, Iacopello di Pietro, Nardo Iunte, Andrea Rotondecti,
Pucio di Gennaro, Gianni di Adinolfo, Simeone Vengne, Pietro Presbiteri, Iacopo de Porta,
Bartolomuccio di Leoncino, Guido di Gennaro, Iacopo, Gennaro, Giovanni di Giuliano,
Temuccio, Iacopuccio di Gennaro, Francesco, Angelo viterbese, Nuto Fuge, Giovanni
Caramani, Marco Talentis, Riccuccio, Bohacculus, Nardo di Giovanni Fladonis, Leuzio di
Ranuccio, Bartolomeo di maestro Iacopo, Gianni Bonvini,
Nardo Santensis, Pietro
calzolaio, Palmerio di Scambio, Iacopello di Alberto, Leonardo di Matteo, Rosso di
Giovanni, Scambio di Clavello, Scambio, Puccio di Niccolò, Bartolomeo Strade, Orvetano,
Angilello Piparis, Pietro di Leonardo di Ranieri, Pasquale, Muzio di Loffredo, Pietro di
Gianni, Giovanni di Pepone, Leonardo di Enrico, Scambio di Florio, Iacopuccio, Nardo di
Ruggero, Lonardo di Grazia, Lonardo di Benefatto, Giovanni di Alberto, Tignoso di
Normanno, Nardo di Romano, Pietro di Iorio, Vanni di Valentino, Senator, Nardo Montue,
Iacopo di Giovanni, Venturozzo, Ranieri di Oddone, Giovanni de porta, Guidarello di
Riccardo, Federico, Ugolino di Alberto, Tornabene, Iacopuccio di Pietro, Angelo Lete,
Mengulo, Guglielmino, Giovanni Ionte, Nerone, Guittonio, Rollando, Cola di Niccolò,
Clemente, Michele di Pepone, Pietro di Verdiano, Iacopo di Giovanni di Albertino,
Tomarello di Rollando, Giovanni di Bavoso, Guglielmo Lombardo, Puzio Caulinus,
Angilello di Pietro, Biagio di Deutaiuti...
In Monte Monastero, alla presenza accettante di Rollando Vitelli, Matteo di
Tancredi, Ezalo di Boncambio e Vitaluccio di Giovanni Orvetano, testi... (Margarita
cornetana, p.60-61 c. IV).
“Nell’anno 1283. Il popolo e Commune di Corneto volendo che li Signori della Tolfa
vecchia, Montemonasterio, S. Arcangelo e Civitella riconoscessero esser Vassalli di
Corneto, fece procura in persona di Leonardo Mingardini a ricevere il giuramento di
Vassallaggio da detti Signori, conforme si vede da relativo Instrumento... Nell’anno
suddetto 1283. Leonardo Mingardino Procuratore del Comune e Popolo Cornetano, in
virtù della sua procura si trasferì alla Tolfa, e fece giurare il Vassallaggio a Tolfetani come
da relativo instrumento si vede”.
99
... Nell’anno suddetto 1283. Dopo che il Procuratore del Commune di Corneto fece
giurar Vassallaggio a gl’Huomini della Tolfa, si conferì a Montemonasterio a far
similmente giurare gl’Huomini di detto castello... Havendo il Scindico del Commune di
Corneto fatto giurare Vassallaggio a gl’Huomini della Tolfa Vecchia, e di Montemonasterio,
deputò il castellano nel Castel di S. Arcangelo...” (Polidori-Annali).
Il 3 settembre 1299 i signori di Tolfavecchia e S. Arcangelo giurarono il
“sequitamentum Potestatis, Populi et Communis Cornetii nel palazzo comunale cornetano,
presente “Consilio speciali et generali” 7) ed “etiam convocatis hominibus terre predicte ad
parlamentum predictum”, 8) promettendo di portare ogni anno nella festa di San
Secondiano un cero, di dieci libbre di peso, “palam et publice” 9) dalla porta di S. Pancrazio
fino alla Camera del Comune, per ivi consegnarlo alla magistratura cornetana; di tenere
“cum omni honore et reverentia” 10) il castellano del comune di Corneto in Sant’Arcangelo;
e di venire in Corneto ogni anno, “ad petitionem Potestatis” 11) o del suo vicario, insieme
con gli altri signori di Tolfavecchia e Sant’Arcangelo che abbiano raggiunto l’età di
quattordici anni, a prestare simile giuramento (Margarita, Polidori-Croniche, Th.
Wustenfeld).
Sempre nel 1299 (dicembre) scoppiarono dei disordini sui monti della Tolfa.
Accadde che i signori di Tolfavecchia e S. Arcangelo, comandati da un certo Guastapane,
occuparono con la forza Monte Monastero, non prestando fede ad una vecchia divisione. I
rappresentanti della popolazione espulsi dal castello, si recarono da Pietro di Ottone di
Vico, podestà di Corneto, il quale inviò subito dei fanti e cavalieri a Monte Monastero che
fu in breve riconquistato.”
... Essendo la posterità del Conte Ugolino, Feudatario et Vassallo di Corneto, nelli
Castelli della Tolfa, S. Arcangelo, Montemonasterio, Civitella e Rota, numerosa assai, et
questa havendo fra se diviso detti Castelli, toccando ad alcuni Montemonasterio et
Civitella, et ad altri la Tolfa Vecchia, e S. Arcangelo, et havendo li Signori della Tolfa
violentemente occupato Montemonasterio contro li Signori di detto luogo, questi sotto li
25 Dicembre 1299 hebbero ricorso alla Communità di Corneto come giudice competente
nella causa di detta turbativa, per esser causa di feudo d’essa Communità, dalla quale
ottennero esser benignamente uditi, et aiutati nelle loro raggioni. Onde mosso il Populo di
Corneto, assieme col suo Potestà, Manfredo di Vico, fratello di Pietro di Vico Prefetto di
7)
Alla presenza del Consiglio speciale e generale.
Ed anche convocati gli uomini della terra predetta al parlamento (riunione) predetto.
9)
Apertamente e pubblicamente.
10)
Con ogni onore e rispetto.
11)
su richiesta del podestà.
8)
100
Roma, anzi con Pietro d’Oddone de Vico sustituto di detto Manfredo potestà di Corneto
deputato da Urso Ursi, Rettore et Capitan generale del Patrimonio, con comitiva di
guerrieri Cornetani si transferì al Castello sudetto di Montemonasterio, et ivi fatta la
chiamata fece intendere all’Invasore che desistesse dalla suddetta violenza et turbativa. Fu
risposto dagli occupatori non essere in loro potestà di lasciar libero il Castello perché si
riteneva a nome del Conte Anguillara che vi teneva genti d’arme dentro, oltre che non
erano obligati mentre v’havevano raggioni, et pretentioni, attesa l’ingiustitia della divisione
fatta fra essi.
... Udita la risposta delli Occupatori di Montemonasterio, con la renitenza di
consegnar detto Castello, fu a forza d’armi recuperato detto luogo discacciandone
gl’occupatori. Et con consenso delli Signori et habitanti di detto Castello di
Montemonasterio fu d’esso pigliato possesso dal Comune di Corneto a li 28 Dicembre...
... Adì 29 Dicembre, doppo che il Populo Cornetano hebbe recuperato
dagl’occupatori Montemonasterio, et presone il possesso, pacificò come sopra habbiamo
detto. Confirmò l’investitura di detto Castello con nuovo Instrumento, nella persona delli
antichi feudatarij, fatta prima da essi recognittione et confessione del diretto dominio a
favore di Corneto, tanto di Monasterio et Civitella, quanto d’ogni altro luogo ch’essi
acquistassero in avvenire, et quelli tenere a dispositione di Corneto a pace et guerra, et
quelli non alienare. Honorar i Cornetani et esantarli da ogni datio... Pagar per tributo
ogn’anno nella Vigilia di S. Secundiano un Cero di dieci libre di Cera...” (Polidori-Annali).
Il 30 dicembre 1299 furono convocati i Signori di Tolfa che si erano resi colpevoli
dell’azione contro Montemonastero. Essi riconobbero i Cornetani come i veri padroni: gli
giurarono fedeltà e promisero di non molestare più Montemonastero e Civitella.
Il 6 gennaio 1300 “Odunno et Pieraldo a nome proprio et a nome di Simone et
Guittarelli fratelli et di Cola loro nepote, Signori della Tolfa vecchia, di S. Arcangelo, di
Montemonasterio, Civitella et Rota, per la quarta portione si confessano vassalli et fedeli di
Corneto, per raggione della quarta portione che hanno in detti Castelli, et promettono
tenere detti Castelli a nome di Corneto a pace et a guerra. Defendere et honorare i
Cornetani, et quelli farli esenti d’ogni datio, dare per tributo un palio il giorno avanti la
festa di S. Secundiano. et contribuire nel Cereo da darsi per tributo da Signori di
Montemonasterio, non alienar detti Castelli di Montemonasterio et Civitella. Ricevere il
castellano nella Rocca di Sant’Arcangelo... (Polidori-Annali).
Il 7 gennaio 1300 Guastapane, del fu Guastapane, rappresentando anche i Signori di
Tolfavecchia e S. Arcangelo, nel palazzo comunale di Corneto, dinanzi a Pietro di Ottone di
Vico “milite nobilium virorum domini Petri de Vico Dei gratia alme urbis illustris Prefecti
101
ed domini Manfredi fratris eius” 12) podestà di Corneto per Orso di Matteo Orsini, ratificò
tutti i precedenti atti di omaggio fatti dal conte Ugolino e i suoi successori, promise di
recarsi a Corneto “cum omnibus fratribus, nepotibus et consortibus suis a quatuordecim
anni supra” 13) due volte l’anno, dopo la venuta del nuovo podestà per giurare “ad sancta
Dei evangelia in publico Consilio dicti Communis sequitamentum 14) ..., consegnare per
festa di San Secondiano, dopo averlo fatto portare in processione da San Pancrazio in
Comune alla vigilia di detta festa “ante horam nonam” 15) un Palio di seta del valore di dieci
libre di denari paparini invece del solito cero, promise di tenere a beneplacito dei cornetani
i suoi castelli in pace e in guerra “cum omnibus personis de mundo... excepta Romana
Ecclesia, dominio imperatore et Commune Urbis (Margarita Cornetana) 16) .
Abbiamo seguito la cronostoria dei tre castelli e borghi che furono legati a Corneto
nel XIII-XIV secolo rifacendoci a quei pochi documenti in nostro possesso. Poche e
frammentarie notizie che si interrompono nel XIV secolo quando scompaiono insieme a
molti piccoli centri della zona, anche S. Arcangelo e Montemonastero, forse coinvolte nella
grande peste. Le loro chiese risultano abbandonate nella procura del clero di Tuscania
datata 29 settembre 1356. Anche nelle liste della tassazione del sale di questo periodo i
nomi dei due centri non compaiono.
Se di Montemonastero non ci sono rimaste che misere tracce, le testimonianze della
zona di Sant’Arcangelo sono esposte, e quindi visibili, in un cortile del palazzo municipale
di Tolfa, anche se sottoposte all’attività degli agenti atmosferici 17) . Civitella Cesi, sia pur
con le naturali modifiche del tempo, si presenta ancora intatta. Un borgo arroccato su un
colle, popolato da poche anime che si chiamano tutte per nome. Chi ci capita si accorge di
respirare ovunque il profumo della storia.
GIULIO CESARE GIANNUZZI
Bibliografia
F. TRON - I monti della Tolfa nel medioevo - Roma 1982.
F. GUERRI - Registrum Cleri Cornetani - Corneto Tarquinia 1908
12)
Milite dei nobili uomini del Signor Pietro di Vico per grazia di Dio illustre prefetto della benigna città e del Signore
Manfredi suo fratello.
13)
Con tutti i fratelli, nipoti e suoi fratelli sopra i quattordici anni.
14)
sopra i santi Vangeli di Dio durante il consiglio pubblico di detto Comune.
15)
Prima dell’ora nona (tre del pomeriggio).
16)
Con tutte le persone del mondo ad eccezione della chiesa di Roma, del dominio dell’imperatore e del Comune della
città.
17)
Si tratta di una serie di capitelli con lastroni decorati a bassorilievo e da un sarcofago.
102
M. POLIDORI - Croniche
F. TRON, R. BERRETTI, M. GORRA, E. PIERI, F. D’ALOIA - L’Abbazia di Piantangeli Roma 1984
P. SUPINO - Margarita Cornetana - Roma 1969
O. MORRA - Tolfa - Civitavecchia 1979
M. CORTESELLI, A. PARDI - Corneto com’era - Tarquinia 1983
SANT’AGOSTINO ALLA FONTANELLA
Alcuni storici, fin dal Medioevo, hanno sostenuto che Agostino, subito dopo il
battesimo ricevuto in Milano dal vescovo Ambrogio nel 387 d.C. e prima di imbarcarsi per
l’Africa nel 388, abbia voluto visitare i monasteri che erano sorti in Toscana e sul litorale
etrusco, per osservarne il sistema di vita cenobitico.
Tra questi vengono menzionate frequentemente il monastero di Lupocavo sul M.
Pisano e quello di Centumcellae.
Una diffusa leggenda popolare, riportata anche in scritti di antichi autori 1) , vuole
che Agostino mentre era ospite nell’Eremo della SS. Trinità de Centumcellis presso
Allumiere 2) , per ristorare il corpo e la mente, soleva a lungo passeggiare, raggiungendo
talvolta il mare. Sarebbe avvenuta in una di queste peregrinazioni la famosa apparizione,
nota alla letteratura ed all’arte come l’Incontro di S. Agostino e l’Angelo.
Mentre Agostino passeggiava appunto sulla spiaggia vicino al Porto di Giano (poi di
Bertaldo), meditando sul mistero della Trinità, gli apparve un Fanciullo che con il cavo
1)
S. Alberto da Siena (+1181); Alberto di Padova (1269-1323); Pietro De’ Natali (1330-1406 c.); Vincent Ferrer (13501419); Giacomo Gherardi detto il Volterrano (1434-1516); Martin Antonio Del Rio (1551-1608), oltre ai resoconti dei
Registri dell’Ordine Agostiniano e delle visite pastorali dei Vescovi di Corneto.
2)
Su questo Santuario posto tra i Monti di Allumiere a circa sette miglia dal mare, vedi: E. Brunori, Ricerche
archeologiche all’Eremo della SS. Trinità di Allumiere, in Bollettino della Soc. Tarquiniense di Arte e Storia 1991:
Catalogo Mostra Documentaria XVI Centenario del Battesimo di S. Agostino (387-1987), Allumiere 1987; Catalogo II
Mostra documentaria “Risorge l’Eremo della Trinità”, Allumiere 1991.
103
della mano attingeva l’acqua del mare e la versava in una piccola fossa scavata nella sabbia.
Alla richiesta del perché di tale azione, il Fanciullo rispose che voleva versare tutto il mare
in quella piccola fossa. Agostino, meravigliato, fece notare l’umana impossibilità
dell’impresa; ma il Celeste Fanciullo gli rispose con questo monito: “E’ più facile per me
riuscire a versare tutta l’acqua del mare in questa piccola fossa, che per te spiegare
l’imperscrutabile mistero della santissima Trinità!”.
Detto ciò sparì. Questo prodigioso avvenimento è stato raffigurato in moltissime
opere pittoriche da eccelsi artisti di diverse epoche, tra i quali spiccano il Botticelli, il Lippi
e il Rubens.
Il più antico documento, finora da noi ritrovato, che descrive l’incontro di Agostino
con Gesù Cristo, nel Porto di Giano, risale al XII sec., epoca in cui fu scritta “La vita di
Guglielmo” da parte del discepolo Alberto, pervenutaci in un manoscritto del XVI sec. 3) .
All’incirca attribuibile alla stessa epoca (XII-XIII sec.) è un altro antico documento,
venuto alla luce durante il pontificato di Clemente VIII (1593-1605), che descrive
l’avvenimento riportandolo nello stesso luogo, cioè nel litorale del Porto di Giano o di
Bertaldo.
Si tratta di una lapide incisa con “caratteri antichissimi”, ritrovata dal Nobile
cornetano Alessandro Degli Atti, proprietario del sito lungo il mare, chiamato in
quell’epoca “la Fontanella di S. Agostino” dove era anticamente il Porto di Giano, poi
chiamato di Bertaldo, tra la città di Corneto e Civitavecchia, mentre stava fabbricando in
detto luogo, come ci attesta Mons. Ambrogio Landucci 4) .
Questo eremita e Prefetto della Congregazione di Lecceto, poi Vescovo di Porfirio,
nella metà del XVII sec. dopo aver visitato la Chiesa della Sughera a Tolfa e il Romitorio
3)
S. Alberto da Siena,, (+1181) Vita di Guglielmo, Ms. KVII 15, datato 1582, Biblioteca Comunale di Siena - sta in
Roberto Ferretti, L’immaginario collettivo sui monti di Castiglione, Castiglion della Pescaia 1989. C’è da sottolineare
che in questa prima descrizione dell’incontro non si fa cenno alla sorgente di acqua dolce che sarebbe scaturita nella
buca scavata sulla spiaggia.
“.... sitibundus ad centum cellas et se contulit, avidus cupidine vidende heremitiuncule, in vasta et precavata montium
valle illustrata ferar un posite, quas pater communis vitae. et sine proprio diligerat sanctus Augustinus cuius habitum
et ipse Gullielmus gestabat; construxerat, dedicaverat, trinitati et habiteravat, cui titulum usque hodie, cultus sanctae
Trinitatis a conditore inditus est: eo quod librum de Trinitate didicitur peregisse, et emendasse, ibidem si quidem
inceptum nec dum perfectum donec perventum est ad mare Tirrenum, quo solebat animi ricreandi causa sepius se per
conferre, ad portum Jani, quem finitimorum incole Bertoldum divit ubi oraculum et videre meritus est, scilicet Jesum
Christum exhorientis maris aquam precava concava grande parvamque in foveam immittere conatus. Quo monitus
presagio atque correctus didicit ponendum esse finem operi ceteris pretermissis sicque indixit et ad celum redegit ob
quam rem commotus..”.
4)
Ambrogio Landucci, Sacra Leccetana Selva, Roma, 1657. Vi sono state diverse e imprecise datazioni circa il
ritrovamento della lapide: P. Falzacappa indica il 1667, Corteselli-Pardi in “Corneto com’era” p. 18, indicano ... dopo il
1650, a seguito dei lavori di sopraelevazione della Chiesa di S. Agostino, Muzio Polidori invece, in “Croniche di
Corneto”, p. 82, scritto tra il 1673 e il 1683, conferma la datazione del Landucci, scrivendo: “ e si comprova da
inscittione in marmo inciso in litera gotica, ritrovata nelle ruine d’alcune anticaglie, vicino a detta Torre di Bertaldo,
circa ottant’anni fa...”.
104
della SS. Trinità ad Allumiere, fu ospite dei Padri Agostiniani del Convento di S. Marco in
Corneto, i quali gli mostrarono quella antica lapide, riportandone poi il contenuto, per la
prima volta, in un’opera data alle stampe nel 1657. In considerazione dell’importanza di
tale documento ne riproduciamo alcuni brani tratti dall’originale:
Purtroppo di questa lapide, incisa con caratteri gotici, ci è pervenuta soltanto la
trascrizione, ricopiata lettera per lettera dalla paziente penna di Pietro Falzacappa 5) .
Come per le altre due lapidi, esistenti fino all’inizio di questo secolo e
fortunatamente ricopiate dalla stessa mano, all’Eremo della SS. Trinità di Allumiere, così
anche per questa è possibile una datazione approssimativa intorno al XII-XIII sec.
L’identicità dei caratteri e la concatenazione dei loro contenuti, fanno supporre che
le tre lapidi siano il frutto di un preordinato piano, predisposto verosimilmente dagli
Eremiti Agostiniani dell’area centumcellense, per consolidare nella pietra quella antica
tradizione sul soggiorno di S. Agostino tra i monaci della Tuscia e di Centumcellae.
Infatti la prima lapide attesta che in quel luogo vi fu un vetustissimo Cenobio nel
quale S. Agostino era vissuto con quei monaci, prescrivendo loro la Seconda Regola.
La seconda lapide, esposta all’esterno della chiesa, si rivolgeva ai viandanti (viator)
spiegando come Agostino avesse quivi iniziato l’opera “De trinitate” interrotta dal monito
del celeste fanciullo presso il lido di Bertaldo, quasi rimandando il viandante ad una visita
in quell’altro sacro luogo, come in un mistico itinerario.
Infatti sappiamo che una “via romana” passava davanti al Romitorio della Trinità e
in direzione di Cencelle, conduceva al mare.
Qui la terza lapide forse era stata esposta nel luogo dove scaturisce la sorgente di
acqua dolce, cui attingevano gli abitanti del posto e gli addetti alle operazioni del piccolo
approdo marittimo. Nessuna notizia ci è pervenuta circa l’esistenza in antico di un
santuario o di un romitorio.
Sappiamo che essa fu ritrovata, come abbiamo accennato, a cavallo tra il XVI e il
XVII sec. da un nobile cornetano che possedeva il luogo chiamato allora “la Fontanella di
S. Agostino” mentre stava fabbricando nell’ “area del porto di Giano o di Bertaldo.
Probabilmente il proprietario, come succedeva spesso, dovendo fabbricare un edificio
vicino al mare, aveva scelto un’area con una sorgente di acqua potabile, avvalendosi di
preesistenti strutture dirute al fine di riutilizzarne i materiali di costruzione. Tra questi
ruderi sepolta sotto terra fu rinvenuta appunto la lapide. Ci conferma questa ipotesi, la
relazione della visita pastorale effettuata dal Vescovo di Corneto Cecchinelli il 17 maggio
5)
Pietro, Falzacappa (1788-1875), Iscrizioni lapidarie di Corneto-Ms. EF. 24 Archivio Soc. Tarqu. Arte e Storia.
105
1631, in cui si parla di resti di antiche vestigia, come ricorda ancora la visita pastorale del
21 maggio 1652:
“... Temporibus S. Augustini istud Castrum Centumcellarum extabat et habeatur
via quae ducebat ad mare, apud quod adhuc remanent vestigia magni miraculi, quod
avidit Sancto Augustino”. Anche nella visita pastorale del vescovo Paluzzi nel 1667 si fa
riferimento a “ingenti rovine”: Ingentibus riunis annies elaphis prope portum seu Turrim
Bertaldi repertus fuit lapis marmoreus cum infrascripta inscritione literis goticis...”.
Nonostante questi importanti indizi non possiamo tuttavia confermare che quelle
rovine appartenessero ad uno di quegli antichi monasteri che esistevano ai tempi di S.
Agostino lungo il litorale tirrenico. Una lettera di S. Girolamo a Oceano (Ep. 77) racconta
di Fabiola che “peregrinava tra le isole e tutto il mare Etrusco... ed i reconditi seni dei curvi
litorali, nei quali risiedono schiere di monaci, ai quali, o di persona o attraverso santi
uomini e fedeli, elargiva i segni della sua munificenza” 6) .
Enrico de Friemar nel suo Trattato sull’origine dell’Ordine dei frati eremitani,
scritto nel 1334, sostiene che applicò la regola di santa vita soltanto al luogo chiamato
Centumcellae 7) .
Ma forse vi è un qualche riferimento anche da parte di Giordano di Sassonia che nel
1537 così scriveva: “... Ma detto stato dell’Ordine, da quanto è contenuto in lapidi angolari,
è conforme in certo qual modo al sistema di vita in cui una volta vivevano i frati, che
abitavano nell’eremo de Centumcellis, dalle parti di Roma, dove tuttora si dice esista un
monastero dei più antichi che sono in Italia, dove, come si dice, era un duplice sistema di
vita e fu sin dai tempi di papa Gregorio IV (827-844). Imperocché molti abitavano nelle
loro celle distinte nei dintorni e convenivano in certi giorni in un luogo comune per
celebrare e prendere i sacramenti e ritornando alle loro celle portavano con loro sale e
pane. E veramente nel luogo comune non stavano generalmente che uomini provati negli
altri monasteri, che andavano lì, affinché si trasferissero conseguentemente alla vita
solitaria...” 8) .
6)
Nella visita pastorale del Vescovo di Corneto alla Chiesa della SS. Trinità l’8 aprile 1656, è scritto: Supra Molas
Allumierarum praedictas in distantia duorum milliarum circiter in itinere ad Allumieras habetur Ecclesia Antiquissima
excitata in honorem SS. Trinitatis. De ea habetur per traditionem quod mansevit Sanctus Augustinus, dum scribebat de
Trinitate. Nam tunc temporis illa via erat Romana, quae ducebat ad Mare... Vedi anche E. Brunori, L’Abbazia di Santa
Maria del Mignone, Boll. Ass. Arch. Cult. Civita Vetula - Civitavecchia 1993.
7)
Enrico de Friemar di Urimaria, Tractatus de origine et progressu ordinis fratrum eremitarum et de vero ac proprio
titulo eiusdem - 1334: (... cum eremo Tusciae multos fratres eremitas invenisset sanctae vitae, demum appkicuit ad
locum nostrum qui dicitur Centumcellis, nostris ordinis...).
8)
Giordano di Sassonia, Liber vitasfratrum - 1357, Ediz. R. Arbesmann, New York 1943. Da notare che in genere per
Eremo di Centumcellis si è inteso indicare quello della SS. Trinità “De Centumcellis”, presso Allumiere.
106
Sappiamo inoltre che nel XIII secolo esisteva sul litorale a ponente di Centumcellae
la Chiesa di S. Senzio, soggetta al Monastero di S. Maria di Viterbo, dell’Ordine di Santa
Chiara.
Probabilmente la chiesa è da mettere in relazione all’avvenimento riportato
nell’Acta Sanctorum, secondo il quale il beato Senzio era approdato su di una piccola
imbarcazione “in parvulo portu qui appellatur Columna, in finibus Centumcellae”, in cui
era eretta una colonna ad directionem nautarum” 9) .
Al momento non siamo in grado di sapere se questa Chiesa dedicata a S. Senzio
possa aver subito nel tempo un cambiamento di denominazione, come pure il Porto di
Columna.
In effetti la sua più plausibile localizzazione ci sembra quella indicata in
località La Frasca, dove in mare vicino alla riva giacciono due grosse colonne di granito
bianco, le quali potrebbero aver dato la denominazione al piccolo approdo, appunto
Columna 10) .
Forse è da identificare questo porto con Rapinium, approdo riportato nell’Itinerario
marittimo a sei miglia da Centumcellae a tre da Algae e a sei da Graviscae 11) , mentre il
Porto di Giano o di Bertaldo, è localizzabile nella insenatura compresa tra due alti speroni
rocciosi, attualmente denominata le Villette di S. Agostino. Come si vede questi piccoli
porti hanno subìto nel corso della loro storia diverse denominazioni. Non sappiamo se
Rapinium preceda Giano. Rispetto alle fonti donde sono tratte le denominazioni si
potrebbe attribuire maggiore antichità a Rapinium in quanto citato in Itinerari di epoca
imperiale romana, forse in ricordo di un rifugio per scorrerie piratesche, fin dal periodo
etrusco. Il nome di Giano è invece citato in documenti medioevali, come l’epigrafe ritrovata
sul posto di cui abbiamo ampiamente parlato.
Si è ipotizzato che la presenza di un tempio o di un porto dedicato al Dio Giano,
rappresentato iconograficamente bifronte, sia da attribuirsi al fatto che una faccia
guardava verso Tarquinii e l’altra verso Caere, ad indicare nel fiume Mignone, che sfocia
proprio il vicino, il confine naturale tra le due Lucumonie 12) .
In tal caso questa denominazione potrebbe essere molto antica. E’ invece certa la
denominazione di Porto di Bertaldo usata per tutto il medioevo ed oltre. Stessa
9)
Acta Sanctorum, 25 maggio VI, p. 72; C. Calisse, Storia di Civitavecchia, Firenze 1936, pp. 142, 165, 207, 218; G.
Torraca, delle Antiche Terme Taurine - Roma 1761, a pag. 31 narra l’episodio del B. Sensio che uccise nell’anno 430
uno spaventevole drago sommergendolo nel fiume Mignone (.... e a vista di seguace popolo col proprio cinto legatolo
dietro traendoselo nel detto fiume il sommerse...).
10)
Antonio Maffei, Civitavecchia ed il suo entroterra durante il Medioevo p. 38 Civitavecchia 1986; Enrico Seri, Gli
etruschi sulla costa civitavecchiese alla luce delle ultime scoperte, Civitavecchia 1989; Salvatore Bastianelli, Appunti di
campagna, Roma 1988; lib. I, 9; lib. II 1/3; lib. III, 73; lib. VIII, 64.
11)
Arturo Solari, Topografia storica dell’Etruria, vol. I, p. 103, Pisa 1915-1920.
107
denominazione è attribuita alla torre costiera distante dal porto qualche centinaio di metri
in direzione di località La Frasca. Anche in questo caso, però, non sappiamo se la
denominazione di Torre Bertalda (o Bertolda) sia derivata o al contrario possa avere
influenzato in un certo periodo anche il porto determinando così il cambiamento del
toponimo. La sua struttura muraria è composta di malta biancastra e laterizi di epoca
romana, forse riutilizzati in tempi posteriori, attingendo alle strutture di vicini edifici o
ville romane. Infatti tutto il litorale da Torre Val d’Aliga al Mignone è interessato da reperti
e strutture riferibili a presenze preistoriche, etrusche, romane e medioevali 13) .
Una interessante struttura circolare è stata segnalata su uno dei due promontori
rocciosi che chiude a destra verso il Mignone il porto di Bertaldo.
I segni del fuoco all’interno di questa struttura circolare, testimoniano della sua
probabile funzione di faro per segnalazioni notturne, ad uso del sottostante porto,
controllato nell’alto medioevo dall’Abbazia di S. Maria del Mignone e nel XIII-XIV sec. da
diversi successivi proprietari o condomini del Castello di Marinello (poi chiamato Castel
dell’Orso, secondo il Valesio), proprio in quello stesso luogo del Porto di Bertaldo
localizzabile.
Tra di essi sono citati in documenti dell’epoca, Pietro di Vico, Prefetto
di Roma e i figli di Tebaldo dei Signori di Tolfa Nuova 14) , oltre a Francesco Gavelluto e
Napoleone Orsini (donde il nome dato al Castello dell’Orso?).
Sul vicino sperone roccioso che forma l’altra contigua insenatura, erano visibili, fino
ad alcuni fa, tracce di una struttura muraria circolare.
12)
Si veda l’ipotesi, inizialmente avanzata dal Mengarelli, ma poi ritrattata, sul fiume Mignone come confine naturale
tra le due lucumonie di Caere e Tarquinii; Raniero Mengarelli, Necropoli etrusca detta della Torre Valdaliga ovvero
della Cava della Scaglia, Not. Sc. 1942, p. 41.
13)
S. Bastianelli, cit.; R. Mengarelli, cit.; A. Maffei, La Villa marittima di Torre Valdaliga, in Notiziario Ass. Arch.
Klitsche de la Grange, 1985; E. Seri, cit.; Odoardo Toti, Brevi considerazioni sulle presenze costiere della I Età del
Ferro, infra.
14)
Il Castello di Marinello viene citato in più atti notarili: quelli dal 7 apr. 1293 e 21 mar. 1297, nei quali Pietro di Vico
Prefetto di Roma, dichiara a Nicoluccio di Bonaventura, podestà del Comune di Corneto, che il Castello di Marinello,
estendendosi per un lato lungo il mare, per gli altri lungo le terre di Civitavecchia e il fiume Mignone, già di proprietà
del fù Magalotto da Corneto, appartiene al territorio, al distretto e alla giurisdizione di Corneto; che detto Castello egli
possiede per metà pro indiviso con Francesco di Ugerio, i figli e i nipoti di Pietro Maczamuti e i figli del fù Tebaldo dei
signori di Tolfa Nuova; inoltre giura, a nome suo e dei suoi eredi, di non fare donazione, alienazione o vendita di detta
metà di Marinello a nessuno se non qualora fosse indotto a venderla, al Comune di Corneto e per il prezzo di 1000 lire
di denari paparini...”. In un altro atto del 31 ott. 1304 si parla di compenso per custodia del Castello di Marinello.
Infine nell’atto del 4 mag. 1310 si parla esplicitamente di un porto del Castello di Marinello: “Gianni Rabuani,
camerario del comune di Corneto, riceve da Pello di Tebaldo dei signori di Tolfa Nuova, il quale ha caricato nel porto
del castello di Marinello 54 moggi di grano e ve ne caricherà altri due, 13 fiorini d’oro, prezzo del dazio della merce in
detto porto, in ragione di 10 soldi per moggio”. I suddetti atti notarili sono contenuti in Paola Supino, La Margarita
cornetana Regesto dei documenti, Roma SRSSP 1969, e in C. Calisse, I Prefetti di Vico, ASRSP - Vol. X, Roma 1887,
p. 53 - App. LXVIII. Sulla localizzazione di Marinello vedi anche A. Maffei, cit. p. 38 e p. 51 n. 18.
108
Forse trattasi di un’altra torre costiera, poi distrutta o ricostruita in luogo più
idoneo, che potrebbe meglio identificarsi, per la sua forma circolare, con la
rappresentazione della Torre Bertalda pervenutaci in un disegno del XVI secolo.
Si notano attualmente in questo luogo tracce di muratura e frammenti ceramici di
varie epoche. Previene da questo sito anche un denaro paparino in mistura del XIV sec. Fu
in questo periodo che la proprietà del porto di Bertaldo e della Torre di S. Inzini (o S.
Savino) furono oggetto di transazione da Francesco Gavelluto de Gavellutis al Cardinale
Napoleone Orsini, cui seguirono contenziosi da parte del comune di Roma 15) .
Se per l’esistenza di un più antico monastero non si possono che fare delle ipotesi,
riguardo alla chiesa di S. Agostino si hanno più fonti di documentazione. Finora si
conosceva il periodo della sua costruzione “non più antica del 1639”come risulta dal
Registro dei Capitoli della Provincia Romana degli Agostiniani all’anno 1639, in cui fu
deciso di imporre una colletta straordinaria a favore del costruendo Sacello presso la Torre
di Bertaldo, in memoria del miracolo di S. Agostino ed il fanciullo. Un acconto di sc. 14,50
figura pagato a P. Paraclito in quell’anno 16) .
Approfondite ricerche presso gli Archivi di Tarquinia ci hanno permesso di
rintracciare più precise informazioni.
Così dall’Estratto degli atti della Visita pastorale dell’anno 1635, contenente lo stato
nominativo delle chiese della città e diocesi di Corneto, viene elencata anche una
“Ecclesiola sub nuncupatione S. Augustini prope mare, in loco, in quo dicitur sequutum
miraculum tempore S. Augustini”.
In un’altra visita pastorale, quella del 21 maggio del 1652, viene confermata
l’erezione di una Cappella vicino alla fonte presso il mare, dopo la visita pastorale del
15)
C. Calisse, cit. pp. 165, 217, 218; G. Caetani, Regesta chartorum-Archivio Caetani, 1927.
Tommaso Bonasoli, Notizie della Religione Agostiniana e della Provincia Romana, 1782 - Ms. Arch. Gentile. Ago.;
nel Capitolo del 1639 (Registro Dd/ 9, f. 49, 50) fu deciso: “Decerniitur collecta extraordinaria, imponenda
Provinciae, pro extruendo Sacello apud Turrim Bertaldi, prope Civitatem Vetulam, ob memoriam miraculi, quod B.P.
Augustino prope mare contigit cum puero, obtente tamen licentia ab eis, ad quos spectatem, per Prem. Provincialem;
ad quem effectum applicantur scuta quinquaginta due monetae, cum obolis quadraginta novem cum dimidio, quae
supersunt pro introita P. Provincialis absoluti; ita tamen ut ex Provincia colligatur ea pecunia, quae fuerit necessaria,
saltim circiter scuta centum”. F.M. Mignanti (a cura di O. Morra), Santuari della Regione di Tolfa, Roma 1936.
16)
109
1631 17) , da parte di Frate Paraclito da Corneto dell’Ordine Eremitano di S. Agostino nel
convento di S. Marco 18) .
Di grande rilevanza documentale è la visita pastorale del Vescovo Paluzzi, effettuata
il 21 febbraio 1667, durante la quale vengono minuziosamente descritte la chiesa e la fonte
miracolosa. Ne riportiamo ampi stralci, tradotti dal latino:
“La Chiesuola rurale di S. Agostino vicino al Porto o Torre detta di Bertaldo, da
pochi anni fu edificata nel luogo dove S. Agostino vide il Fanciullone nel lido del mare, che
tentava di versare tutta l’acqua marina in una fossa etc... detto questo scomparve,
rimanendo detta fossa piena di acqua perenne e dolce, nonostante spesso venisse raggiunta
dai flutti del mare in tempesta. Per proteggerla dai flutti del mare fu rinchiusa dentro la
fabbrica. Questa fonte ha grande venerazione presso le nazioni e nei dintorni, vi accorrono
quotidianamente a visitare il luogo miracoloso e ad assaggiare e gustare l’acqua,
impetrando la salute dalle infermità e di questa fonte scrissero molti storici tra i quali il
Volaterrano et... La struttura della chiesa è ad unica navata a volta con pavimento in
mattoni. La porta è esposta ad oriente, le finestre sono due soltanto una per lato con due
altre finestre senza ante vicino alla porta con due grate di ferro atte a pregare dall’esterno
quando la chiesa è chiusa. C’è un unico altare in cui un’Icona rappresenta S. Agostino con il
Fanciullo che versa il mare in una fossa... indegni candelabri (!) e l’altare portatile per gli
infermi da accomodare. Da uno dei lati dell’altare si va fuori della porta che conduce alla
Sacrestia esistente dietro l’altare. Si celebra qualche volta in questa Chiesa da parte degli
Eremiti qui esistenti o di un Sacerdote qui portantesi. In Sacrestia c’è un altro altare nel
quale non si celebra. C’è un’Icona dipinta nel muro che ripete il miracolo appresso la fonte
che è in questa sacrestia sul pavimento: c’è un foro munito di telaio e cateratta di legno per
provvedere a bere e gustare l’acqua della fonte miracolosa. Detta fonte è recintata da muro
e sotto la Sacrestia, ad essa si accede da fuori la Chiesa, discendendo dove c’è copiosa
acqua dolce e l’acqua, attraverso un tubo per bere affisso al muro, esce per provvedere agli
indigenti e defluire verso il mare per le alghe del litorale. L’eremita che risiede di continuo
17)
Nella Visita pastorale del 16 mag. 1631 dopo la descrizione dell’apparizione del Fanciullo a S. Agostino, sta scritto:
“... Hodie etiam apud Turrim quae dicitur de Briltado extat ista fovicella continens semper aquas dulces, et
frigidissimas, etiam quod saepius mare redundit et illam cooperiat”.
In questa visita quindi non si parla ancora di una chiesa, ma soltanto di una fontanella, o meglio una buchetta da cui
sgorga acqua dolce. Soltanto dopo questa visita, fu iniziata la costruzione della Chiesuola, che nel 1635 doveva essere
già eretta, come sta scritto nella visita di quell’anno e confermato in quella del 1652 (v. nota seguente).
18)
Visita pastorale del 21 mag. 1652: “... Temporibus S. Augustini istud Castrum Centumcellarum extabat, et habebatur
via quae ducebat ad mare, apud quod adhuc remanent vestigia magni miraculi, quod accidit Sancto Augustino, iuxta
adnotata in dicta Visitatione anni 1631: postquam Visitation Pr. Frater Paraclitus de Corneto Ordinis Eremitarum S.ti
Augustini adhuc vivens, et Conventus S. Marci de Corneto localis construere fecit cappellam prope fontem existentem
secus mare, in qua Cappella, praecedente benedictione Ordinarii Cornetani, pluries celebratum fuit devotionis
gratia...”.
110
qui e vive di questua e di elemosine che fabbricò la Chiesa dedicata a S. Agostino, e
fabbrica al presente le celle, è L. Bartolomeo Hispano e dimora qui dall’anno 20 in circa.
Sopra la Chiesa e la Sacrestia sta costruendo cinque celle per quegli eremiti che verranno.
Da ingenti rovine negli anni passati vicino il Porto o Torre di Bertaldo fu ritrovata una
lapide marmorea con l’infrascritta iscrizione incisa con caratteri gotici, la quale fu portata a
Corneto e si conserva nel Convento di S. Marco ord. S. Agostino, del tenore seguente: HOC
IPSO...
In questa Chiesa fatta in onore di S. Agostino con grande concorso di popolo dove
ogni giorno molte messe si celebrano, siano spese a sollievo degli Eremiti qui dimoranti,
per innalzare un campanile sopra la porta del Convento o Romitorio con sua Campanella”.
Abbiamo rintracciato anche una raffigurazione di questa Chiesuola ai margini di
una più vasta Pianta dell’Acquedotto Traiano, che dai Monti delle Allumiere portava
l’acqua al Porto e Città di Centumcellae.
Risale al 1696, quindi trenta anni dopo la visita pastorale sopra riportata ed è opera
dell’Incisore Alessandro Specchi su delineazione di Cinzo Florio.
Si vede un edificio molto schematico con un campanile (quello da costruirsi con i
proventi delle messe, come prescritto nella visita pastorale del 1667) ed un muro di cinta
che racchiude un terreno di pertinenza. Il suo posizionamento a poca distanza dalla Torre
di Bertaldo in una insenatura, sopra un’alta scogliera, ci ha confermato la direzione ove
orientare le ricerche al fine di individuare l’esatta sua ubicazione.
Nel XVIII sec. abbiamo un’altra minuziosa descrizione della Chiesa e Convento da
parte di un viaggiatore domenicano, Jean Baptiste Labat, in occasione di un pellegrinaggio
effettuato nel mese di Aprile del 1710 (circa) insieme al Card. Imperiali.
Dopo aver descritto la famosa visione dell’Angelo e S. Agostino, si sofferma nella
descrizione della costruzione:
“... In memoria di questo avvenimento si è costruita una cappella dedicandola a S.
Agostino, con un assai grazioso corpo di fabbrica, che appartiene insieme a qualche terreno
adiacente al Convento degli Agostiniani di Corneto città vicina. Non ho potuto scoprire in
qual tempo si è cominciato a venerare questo luogo, nè quando è stata fatta la Cappella e
gli edifici che vi si vedono. Se questi sono i primi, è certo che essi sono molto recenti e
chissà, o che quelli antichi, dei quali non si vede il minimo vestige, siano dopo tanti anni
caduti, oppure che si abbia avuta qualche rivelazione che abbia indicato il luogo dove
questa apparizione è accaduta. Comunque sia, il lavoro dell’Angelo è stato utile; perchè
quantumque scavata ai bordi del mare secondo la storia, si trova al presente una fontana
d’acqua dolce.
111
La Cappella e gli edifici annessi sono sopra una costiera di roccia elevata da due a tre
tese al disopra della superficie del mare e la buca pretesa che forma la vera fontana di oggi
è un po' troppo lontano dal mare per essere stata scavata nella sabbia e ai bordi del mare,
come sarebbe stato necessario, perchè il bambino potesse prendere con la mano l’acqua del
mare e metterla in quella buca... Vera o supposta, la buca è stata rivestita di pietra da
taglio. Essa è in una specie di grotta sotto la Cappella; ci sono dieci o dodici scalini da
scendere; ha circa venti pollici di diametro; non ho misurata la sua profondità. L’edificio
che è a fianco e sulla cappella ha all’incirca otto tese di lunghezza su quattro di larghezza.
E’ a tre piani compreso il pianterreno; noi lo troviamo molto ben mantenuto. Gli
Agostiniani non vi trattengono pertanto alcun religioso a causa della cattiva aria a quel che
dicono. Io credo che ciò che è più da temere è l’indipendenza e l’ozio, dove si trovassero
due o tre religiosi che siano, che causerebbe loro infallibilmente delle malattie più
pericolose all’anima che al corpo...” 19) .
Dello stesso sec. XVIII è un’altra immagine, molto suggestiva, ma fantasiosa, del
Monastero di “Centum cellas”, ai tempi dell’incontro di Agostino con i monaci, lungo il
litorale vicino ad una insenatura ove è approdato un naviglio e una torre costiera con sullo
sfondo forse la città di Tarquinii 20) .
Si deve a Padre Bonasoli la denominazione di S. Agostino della Fontanella usata
nelle sue Memorie scritte nel 1782 21) .
Per ultimo abbiamo un disegno, eseguito intorno al 1940, da Augusto Orlandi, che
rappresenta due prospetti dell’ormai diruto edificio sacro, chiamato spregiativamente il
Conventaccio 22) . Di queste ultime scomparse vestigia parla O. Morra in un articolo
apparso sulla rivista ROMA nel 1940. Ne riportiamo alcuni brani utili per la sua
ubicazione:
“... La solitudine della via rende grata la sorpresa della ridente insenatura che ha il
nome di Porto di Bertaldo, e che in antico come ci apprende la lapide ora ricordata
trasportata al convento agostiniano di Corneto, si chiamò Porto di Giano. Alte scogliere
delimitano dai due lati l’insenatura, che ha in mezzo una larga fascia sabbiosa. Alquanto
indietro, di qualche poco più alto del livello delle onde, appare il cadente edificio, che ha
perduto ormai il suo nome di Chiesa di Sant’Agostino alla Fontanella, come ci appare
19)
Jean Baptiste Labat. Voyages en Espagne et en Italie, T.V., pp. 26, 27- Amsterdam 1731.
Raffaele Pasino, Iconum S.P. Augustini, XVIII sec. Bibl. Angelica Ms. 1267.
21)
T. Bonasoli, cit. “... Quando siasi eretto questo Romitorio chiamato La Fontanella dal detto Fonte, e anche di S.
Agostino, non si sa. La chiesetta peraltro non è più antica del 1639. P. Paraclito... edificò presso la Torre di Bertaldo la
piccola chiesa di S. Agostino della Fontanella.
22)
Il disegno, eseguito da Augusto Orlandi, sta in Ottorino Morra, Dove l’Angelo parlò a S. Agostino, Rivista di Studi e
di vita romana “ROMA” - 1940 - XVIII.
20)
112
denominato nei vecchi registri dell’archivio agostiniano, per assumere quello di
“Conventaccio”, che ne sottolinea l’odierno stato di squallore. La parte destinata ad
abitazione, è, forse, per qualche maggior cura avuta qualche decennio addietro quando fu
utilizzata dalla R. Guardia di Finanza, in condizioni meno peggiori della diruta chiesina,
che appena si riconosce dalle piccole finestre che, secondo capita frequentemente di vedere
nelle chiese campestri, sono a destra e a sinistra della porta d’ingresso. In corrispondenza
alla chiesa, in un ripiano sottostante, al quale si accede dall’esterno, vi è come una celletta
nella quale si vede, delimitato da un margine di pietra, il pozzetto dell’acqua che pur oggi
dicesi di Sant’Agostino, e che corrisponderebbe al luogo preciso dove l’angelico fanciullo
attendeva alla sua opera sotto lo sguardo del Santo. E’ da supporre, per quanto lo stato
dell’edificio non consenta di affermarlo con certezza, che, poichè la chiesina era stata
costruita esattamente al di sopra di questa celletta, una apertura nel pavimento di essa
consentisse ai devoti di vedere dalla soprastante chiesa il pozzetto del miracolo...”.
Queste scarse ma pur sempre importanti indicazioni, insieme alla descrizione di
altri testimoni oculari 23) ci avevano spinto a intraprendere una indagine nel luogo
chiamato “le villette”. Durante una ricognizione nell’insenatura corrispondente al Porto di
Bertaldo (o di Giano), mentre scrutavamo la fascia di spiaggia alla ricerca di un qualche
rivo di acqua dolce che si fosse riversato in mare, e che avemo ritrovato, incontrammo
fortunatamente il signor Alessandro Pozzar, membro del Consorzio di S. Agostino, il quale
ci ha confermato che quel rigagnolo d’acqua che stavamo fotografando era la famosa acqua
di S. Agostino, che fuoriusciva dal pozzo ancora esistente ed in uso dei proprietari dei locali
circonvicini. La sua portata attuale è di circa 50 litri al minuto e la profondità del pozzo, al
quale si accede dal terreno sovrastante attraverso una scala di ferro, è di circa tre metri e
mezzo, l’acqua emergendo per circa due metri. Dice ancora il sig. Pozzar, che una volta,
intorno al 1950, quando la sua famiglia era proprietaria del terreno comprendente sia il
pozzo che il rudere ancora esistente, l’acqua si poteva anche bere; era fresca e di tipo
minerale, ma ora non è più potabile. Alla richiesta se ancora esisteva un qualche rudere
nelle vicinanze, ci ha indicato una bassa costruzione ad un piano, una villetta squadrata,
posta al di sopra del punto dove sgorga l’acqua dolce.
23)
Dalle testimonianze orali rilasciate a A. Maffei dai signori F. Ferrari, V. Boriello, F. Pirani, “la località denominata
in vocabolo “Conventaccio di S. Agostino, era ubicata sopra la ripa marina dell’attuale rada di S. Agostino, zona
Villette (IGM F. 142 II N.O. 32T1M262720). Il Conventaccio, indicato anche come S. Agostino alla Fontanelle, era
costituito da un fabbricato di circa mq. 70-100, articolato su due piani, che conservava ancora il tetto negl anni
1952/53.. L’edificio è stato distrutto nel costruire le moderne villette. Anche la sorgente d’acqua (la Fontanella) che ha
dissetato per millenni marinai e pescatori, si è erduta in seguito a questi lavori..”.
113
E’ forse quanto rimabe del vecchio Convento annesso alla Chiesa di S. Agostino,
utilizzato, circa gli anni Trenta, dalla Reale Guardia di Finanza e disegnato dall’Orlandi,
ormai abbandonato, nel 1940.
Riteniamo, tuttavia, che l’aver individuato gli scarsi resti della Chiesa e Convento di
S. Agostino alla Fontanella, che si ritenevano ormai completamente scomparsi, travolti
dalla urbanizzazione balneare della località, sia motivo di speranza e di auspicio affinchè
così importanti memorie storiche e religiose, ritornino a far parte del patrimonio culturale
nostro e dei nostri figli.
ENNIO BRUNORI
114
GUITTUCCIO DA BISENZO
Nella storia dimenticata e intorno alle origini di alcuni nomi propri di persona,
tuttora in uso come attributi nel nostro linguaggio famigliare 1) , occorrerebbe a volte
soffermare una certa attenzione o, almeno, una nostra curiosità. Perchè, a lungo andare,
alcune vicende si ripresentano a noi nell’oscurità più fitta, o per un ritrovamento
archeologico o per la rivelazione di un arcano documento o per uno scritto lapideo.
Sulla prima pagina del nostro Bollettino abbiamo pubblicato, un anno fa, la
riproduzione di una lastra in macco, ritrovata casualmente per la demolizione di un muro
in quella che un tempo veniva chiamata - e si chiama tuttora - la “Commenda”, vale a dire
l’abitazione del Commendatore che in antico presiedeva alla chiesa di San Giovanni
Gerosolomitano, con annesso ospedale per i pellegrini. Tale edificio, di proprietà del
Sovrano Ordine di Malta, oggi fa parte del retaggio della famiglia di Massimo Marzi. Su
questa lapide - giacchè trattasi di una pietra tombale - azzardammo qualche ipotesi
riguardo alla interpretazione della scrittura, senza tuttavia entrare nel merito degli stemmi
di difficile interpretazione nell’araldica locale. Un altro punto oscuro, a causa di una
parziale effrazione della pietra, il nome della città di provenienza del padre della defunta
Bartolomea, andata sposa a un tal Guittuccio da Bisenzo.
Non ci siamo arresi di fronte a queste difficoltà. Leggendo, consultando e indagando
qua e là, siamo riusciti a individuare, prima di tutto, la provenienza di uno dei casati a cui
appartennero quegli stemmi. Il primo, sulla sinistra, simboleggiava l’antica città di
Bisenzo, un centro abitato sulla sponda occidentale del lago di Bolsena. Di tale nome, ne fa
fede tuttora la presenza di un’isoletta, nel bel mezzo del lago, chiamata appunto “Isola
Bisentina”. Dell’altro, non siamo riusciti ad individuarne l’arme: forse di un altro casato
presente allora nelle propaggini montuose del nostro territorio, nella cui giurisdizione
viveva quel tale Jacopo, padre della suddetta Bartolomea. Il frammento mancante prima
della parola “vetula” è riferibile a “Tulfa”, cioè Tolfa Vecchia che, insieme ad altri piccoli
1)
Nel comune linguaggio locale, sono ancora in uso gli appellativi di guitto e magalotto, per definire persone poco
affidabili. Già nella “Margarita Cornetana” sono frequenti i nomi propri di Guitto o Guittone e Magalotto. Riguardo al
primo nome., Niccolò Tommaseo riferisce: “credo che Guittone, accrescitivo di Guitto, significhi propriamente
furfante, birbone e uomo di vilissimi concetti”. Altri storici, come il Pannucci, parla di “Guittuccio il ribelle”. Per
restare perciò nell’uso comune, questi appellativi, con riferimenti negativi, avrebbero dovuto in passato avere
significato di irregolarità, prevaricazione, ribalderia e prepotenza.
115
feudi della giurisdizione cornetana, si estendeva a quel tempo su tutta la zona dei Monti
della Tolfa 2) .
Chiarito questo aspetto, spontanea è la domanda: “Chi era dunque questo
Guittuccio?”
Certo il discendente di quel tal Guitto, signore di Bisenzo, che non dovrebb’essere
stato, come si diceva poco prima in una nota, uno stinco di santo, se nel nostro idioma tale
appellativo viene tuttora riferito a persona di scarsa moralità, di pratiche poco trasparenti,
di scaltrezza a fine di malizia. Ne troviamo notizia un po' da per tutto: sulla “Margarita
Cornetana”, sulle “Croniche di Corneto” di Muzio Polidori, sulle “Memorie istoriche” di
Francesco Valesio, sul “Registrum Cleri Cornetani” e su altre pubblicazioni del Turriozzi,
del Calisse, del Campanari, del Giontella, del Pannucci, del Mazza, del De Felice e del
Bandinelli. Per averne perciò parlato tanti storici, doveva trattarsi veramente di
personaggio di rilievo per cui ne diamo qui di seguito alcune notizie.
Già nel 1060, come trascrive il Polidori nelle sue “Croniche” li Viterbesi, Cornetani,
Tolfetani et Vetrallesi per causa de dispiaceri riceuti dalli Prefetti di Vico furno astretti a
collegarsi, et a prender l’arme contro d’essi Prefetti, et contro li Signori di Bisenzo loro
parteggiani et venutosi a fatto d’arme furono astretti Prefetti et Signori di Bisenzo salvarsi
con la loro gente in Montefiascone” 3) .
Nell’anno 1262, un tal Jacopo, figlio di Guitto, signore di Bisenzo, aveva ottenuto
dalla Comunità di Corneto la facoltà di edificare il castello di Montebello, con la promessa
di cercar casa in Corneto, di professarsi cittadino e di fornire, in tempo di guerra, due
soldati ben armati “et servir esso di persona con quella comitiva, che gli parerà” 4) , e in
cambio della concessione di lasciare “gli animali de’ Cornetani pascolare conforme è stato
solito per il passato nel tenimento di detto Castello, et altro come si vede da relativo
Istrumento” 3) .
Di questo avvenimento troviamo altra notizia nel Valesio il quale aggiunge alla
suddetta cronaca questo particolare: “...et appunto allora tutto lo Stato della Chiesa era in
grandissimo timore a cagione che Manfredo, figliolo naturale di Federico che occupava il
reame di Napoli, si era fatto inimico il Pontefice e minacciava d’occupare lo Stato” 4) .
Si
legge ancora sul “Registrum Cleri Cornetani”: “Nel mese dicembre 1262, Giacomo (o
2)
Carlo Calisse, nello Statuto di Veiano, scrive: “I nobili Odduccio e Veraldo, figli di un certo Guitto dei signori di
Tolfa Vecchia, Sant’Arcangelo, Monte Monastero e del Castello di Rota...>>.
3)
Muzio Polidori “Croniche di Corneto”. Pagg. 165 e 178.
4)
Francesco Valesio “Memorie Istoriche della città di Corneto”. Pag. 31.
3)
4)
Francesco Valesio “Memorie Istoriche della città di Corneto”. Pag. 31.
116
Jacopo), figlio di un tale signore conte Guitto da Bisenzo compra casa in Corneto per circa
300 libbre di denari pisani di piccolo taglio, e giura di essere cittadino cornetano, di
mettere in tempo di guerra a disposizione de’ Cornetani due soldati armati e di prestare
occorrendo egli stesso servizio nel loro esercito con quanta gente vorrà, in cambio del
permesso di edificare il castello di Montebello, nel cui territorio tuttavia permetterà che
liberamente, come per il passato, vada al pascolo il bestiame dei Cornetani liberamente e
sicuro per le contrade di detto castello, come è stato fin qui per consuetudine” 5) .
Evidentemente il conte Giacomo (o Jacopo) di Guitto, non pago di aver già ottenuto
“le altre due vicine tenute di Montevalerio e Monteleone, tutte situate sulla destra del
fiume Marta lungo la strada che mena a Toscanella, fece nascere controversia fra Giacomo
di Guitto da Bisenzo, i figli Guittuccio e Dragone e la moglie Romana, e il Comune di
Corneto: controversia che fu iniziata in data 28 luglio 1294 e differita al giorno di sabato 30
ottobre 1294, dopo le tre pomeridiane 6) , da Falcone di Pietro di Enrico romano, che
sentenziò ritrovarsi il territorio di Montebello, Montevalerio e Monteleone nel distretto di
Corneto ed essere sottoposto alla giurisdizione di questo Comune” 7) .
Avvenne infatti che a quella scadenza “constatata la contumacia di Jacopo (o
Giacomo) e Guitto da Bisenzo, il giudice Falcone, confortato dal giudice Bartolo di
Bevagna, di nuovo assenti Jacopo, sua moglie e i suoi figli, stabilisce con lodo arbitrale che
le tenute di Montebello, Montevalerio e Monteleone appartengono al territorio e alla
giurisdizione di Corneto, secondo il confine che è posto sopra la fontana Petrula ed estende
i confini della fontana Petrula immettendosi a un fisso confine sopra la valle del Guasso e
dal suddetto poggio raggiunge il limite fino alla strada per Tuscania che va attraverso San
Lorenzo ed oltre e immette alla morra nella quale si trova la pianta di fico sopra San
Martino di Lacolna come s’immette nella via che attraverso la Leona... (omissis) fino alla
via Rokisciana verso la fontanella che si trova in detta via Rokisciana 8) . Resteranno a detto
Jacopo, alla moglie Romana e ai figli Guittuccio e Dragone le terre colte e incolte che essi
possiedono entro detti confini, salvi i diritti dei Cornetani che possiedono terre al di qua e
al di là dei medesimi” 9) .
Due anni più tardi, nel 1298, al tempo del papa Bonifacio VIII, il nobiluomo
Guittuccio da Bisenzo da una parte, insieme a Giusto di Nicola, sindaco della città di
5)
Francesco Guerri “Registrum Cleri Cornetani”. Pag. 262.
Pare che la validità degli atti pubblici o per altre ragioni di convenienza amministrativa, tutto doveva essere ratificato
non dopo la festa di Ognissanti.
7)
Secondiano Campanari “Tuscania e i suoi monumenti”. Pag. 187.
8)
Le località “il Guasso” (oggi detto il “Ghiaccio”), San Lorenzo come pure il casale e il fosso della “Leona”, sono
tuttora presenti nella toponomastica della Roccaccia e di Montebello.
9)
Paola Supino “La Margarita Cornetana”. Pagg. 242-243.
6)
117
Tuscania dall’altra, convenne e promise “la sottomissione, già fatta da suo padre, il
magnifico signor Jacopo del fu Guitto, al comune di Tarquinia, dei castelli e tenute di
Montebello, Contignano e Lagona, nonchè di mantenere ed osservare per sempre tutti i
singoli patti, convenzione, contratti intrapresi fra detto Jacopo e altro predecessore e
antenato dello stesso Guittuccio... (omissis) e di permettere che i Tuscanesi possano
pascolare pacificamente e gratuitamente nei pascoli della tenuta di Castel Marano, le
pecore e il bestiame grosso in tempo di estate, vale a dire nei mesi di maggio, giugno, luglio
e agosto e permettere per tutto l’anno di far legna e tagliar rami nel territorio di detto
Castel Marano” 10) .
Da tutte queste documentazioni risulta la mania di espansione dei membri della
famiglia di Guitto da Bisenzo che promettono favori e aiuti e concessioni ai Cornetani e ai
Tuscanesi, con la costruzione di più castelli, per dominare incondizionatamente tutta la
zona della Tuscia; e che il matrimonio di Guittuccio con Bartolomea, che viveva su
tutt’altra sponda, non aveva altro fine che di arrivare a dominare anche il territorio di Tolfa
Vecchia per aggirare sicuramente le zone di influenza dei Di Vico e degli Anguillara.
Evidentemente sia Guitto che Jacopo e Guittuccio avevano in animo di giocare su
due tavoli: Corneto e Tuscania, cercando in tutti i modi di mantenere un certo controllo su
due territori limitrofi, specie sulla tenuta di Montebello che era forse il centro strategico
delle loro mire espansionistiche: da quando specie si erano spinti, attraverso il matrimonio
con Bartolomea, fin sulla Tolfa per aumentare l’area d’influenza.
Da queste testimonianze storiche risulta il fatto che Guittuccio e Dragone, insieme
alla madre Romana, cercarono di arrivare, con il proprio atteggiamento temporeggiatore, a
mettere le mani su tutto il viterbese.
In precedenza Guittuccio era stato in lotta contro la città di Orvieto che vantava
sulle città lacuali di Bolsena un preciso dominio, civile e religioso. Lo dimostra il fatto che
dopo il famoso miracolo del corporale nella chiesa di Santa Cristina in Bolsena, tutte le
testimonianze vennero trasferite nella città umbra il cui vescovo fece erigere, con le
elemosine dei fedeli, quel maestoso duomo che rappresenta oggi una delle meraviglie del
mondo.
Da notare che Guittuccio, cugino di Galasso di Nicola da Bisenzo, signore di
Piansano, imparentato con Guitto II, suo bisnonno e conte di Vetralla, voleva tentare di
svincolare, se non il Castello di Montebello, almeno quello di Marano, situato fra Piansano
e Bisenzo, dalla ingerenza dei Tuscanesi: cosa che non incoraggiò certamente i rapporti fra
10)
Paola Supino “La Margarita Cornetana”. Pagg. 254-255.
118
lui e Tuscania. Precedentemente la città di Canino, ribellatasi alla sottomissione dei
Tuscanesi (1259), aveva invocato un esercito dal Campidoglio di Roma per riportare
all’annullamento questo tentativo di ribellione. E venne chiesta una tregua per trasferire la
disputa su di un piano giuridico. Fu scelto come arbitro Guittuccio da Bisenzo, il quale,
considerandosi quasi cittadino tuscanese, pronunciò un lodo arbitrale favorevole a
Tuscania. Con tale lodo, stipulato il 6 marzo 1309, si garantiva alla comunità l’uso del
pascolo, del legnatico e dello spicatico.
Ma tale lodo venne dichiarato, tre anni dopo, nullo da Bernardo di Cucuiaco, vicario
papale, il quale volle servirsi di Guittuccio per compiere scorrerie contro gli Orvietani: i
quali, per rivalsa, arrivarono a trucidare e tagliare a pezzi i figli di Guittuccio. Alla fine gli
Orvietani fecero capire che tutto si poteva appianare se Guittuccio fosse stato messo in
condizione di non nuocere ulteriormente. Ai primi di marzo del 1319 l’atto di pace venne
sottoscritto fra Orvieto e Tuscania: però Guittuccio non doveva mettere più piede fuori dal
territorio tuscanese le cui autorità, in caso di bisogno, avrebbero dovuto dare
comunicazione alla città di Orvieto almeno 15 giorni prima.
Questa limitazione ai suoi movimenti e alle sue aspirazioni di vendetta e di
conquista, fece saltare i nervi a Guittuccio che cercò di trascinare contro gli Orvietani i
ghibellini di Tuscania. Ma nel 1323 la città di Tuscania chiese al papa Giovanni XXII di
emanare provvedimenti contro Guittuccio che, dopo tale fallimento, pretendeva dai
tuscanesi il pagamento del pedaggio sulle merci che dovevano attraversare la località di
Montebello.
Guittuccio, nel 1330 morì. Ma verso la metà del 1335 uno dei figli superstiti,
Giovanni, insieme a Faziolo di Vico, si impadronì con fatti d’arme di Tuscania.
Il castello di Montebello, uno dei superstiti dominii della famiglia bisentina, venne
distrutto nel 1353 dal Prefetto Giovanni di Vico. Ne dà notizia il cardinale Albornoz in un
documento del 1364 dove si legge, nella voce Castello di Montebello: “Era in detto castello
una rocca della chiesa di Roma, ma venne distrutta da Giovanni di Vico, prefetto di
Roma” 11) .
Ora veniamo a interessarci della parte riguardante i fatti di Tolfa Vecchia, dal
momento che altri figli di Guittuccio e di Bartolomea del fu Jacopo (o Giacomo), fecero
parlare di sè anche in questa parte del territorio “de urbe”, ovverossia del Patrimonio di
San Pietro. Dal che si deduce che i figli superstiti di Guittuccio da Bisenzo e di Bartolomea
di Tolfa Vecchia, lasciarono in mani paterne tutte le questioni relative ai castelli e le
119
controversie nella zona di Tuscania e di Viterbo, per interessarsi delle proprietà e dei
possedimenti siti nella zona di Tolfa Vecchia.
Infatti, in un documento della “Margarita Cornetana” all’anno 1300, precisamente il
6 gennaio, si legge: “Odduccio e Veraldo, figli del fu Guitto dei signori di Tolfa Vecchia,
Sant’Arcangelo, Monte Monastero, Civitella e Castro Rota, dichiarano a Pietro di Oddone
di Vico, podestà del comune di Corneto, e a Giovanni Silvene, sindaco, di essere insieme
con i loro fratelli Simone e Guittarello, il nipote di Cola e i loro consorti, cives et fideles, del
Comune di Corneto per la quarta parte di detti Castelli loro spettante e per le rimanenti,
che amministrano a nome del Comune, promettono di fare pace e guerra secondo il
beneplacito di Corneto, di non muovere ostilità contro la Chiesa, l’Impero e il Comune di
Roma; di accogliere con onore i Cornetani nei loro territori, di esentarli da qualsiasi
gabella e di salvaguardarne l’incolumità; di offrire ogni anno al Comune, a titolo di censo,
per la festività di San Secondiano e per la vigilia di detta festa, un palio di zendado rosso
del valore di 40 soldi di denari paparini, il quale sarà portato da cavalli in corsa da Porta
San Pancrazio fino al Palazzo Comunale; di contribuire per un quarto alla offerta del cero
di 10 libbre dovuta ogni anno al Comune dai Signori di Monte Monastero e Civitella e di
accettare, per Sant’Arcangelo, il castellano destinatovi dal Comune, al quale renderanno
conto di tutti i proventi spettanti al Comune in forza del patto di sottomissione di detti
Castelli.
A loro volta il podestà e il Sindaco promettono di proteggere detti Castelli da ogni
eventuale nemico, a meno che tale non sia la Chiesa, l’Impero o il Comune di Roma, e
ricevono da detti Odduccio e Veraldo il giuramento di sequimento del Comune.
In Corneto, nella camera del Palazzo Comunale, alla presenza di Rollando di
Crescenzio, giudice, Pellegrino, giudice, Coccius giudice, Griffulo di Niccolò, Alberigo di
Matteo, Beccuccio di Graziano Vitelleschi, Raboano di Scagno, maestro Antonio, testi.
Rogito di Jacopo di Romanuccio da Civitacastellana, ill. pref. alme Urb. not., ora
notaio del popolo, del Comune e del Podestà di Corneto.
Oddone, Guittarello, Simone e Veraldo, fratelli, figli del fu Guitto, signore di Tolfa
Vecchia, Sant’Arcangelo, Monte Monastero, Castro di Rota” 12) .
Da tutto ciò si deduce come le mire espansionistiche dei discendenti di Guitto da
Bisenzo e i lutti che pesarono sulle rispettive famiglie e su tutti i discendenti, nonostante le
disfatte politiche e militari, e il sacrificio di qualche figlio, vittime sacrificali di tanta
11)
Paul Fabre “Melanges d’Archeologie et d’histoire publiés par l’Ecole Française de Rome., Tome VII” conservato
attualmente nella Biblioteca Nazionale di Parigi col numero 4189.
12)
Paola Supino “La Margarita Cornetana”. Pagg. 254-255.
120
arroganza e di una smodata mania di grandezza politica, territoriale e finanziaria, finissero
nella polvere del tempo, come tutte le cose umane di questo mondo.
Come sia finita a Corneto Bartolomea di Jacopo che forse non sopravvisse a tanti
intrighi e a tanti lutti, quasi una Niobe di mitologica memoria, non abbiamo trovata
testimonianza. Probabilmente la sua salma sarà stata tumulata nella chiesa di San
Giovanni Gerosolomitano, legata all’edificio dell’Ospedale gestito dai Cavalieri di Malta,
dal momento che suo marito Guittuccio, fra le tante promesse fatte agli amministratori di
Corneto, aveva deciso di mettervi casa e di considerarsi cittadino cornetano.
Altre notizie su di lei non si hanno se non quella della pietra tombale, venuta per
caso alla luce si è detto più sopra. Forse nel secoli, dopo il crollo di parte della chiesa di San
Giovanni Gerosolomitano dov’ella era probabilmente sepolta, si dovette ricorrere ad alcuni
restauri radicali per evitare il crollo della parte superstite del tempio; mentre la lapide
funeraria sarà stata usata per riparare e ricostruire i muri dell’edificio commendatizio. Per
lo stesso mistero e più tardivo evento per cui la lapide tombale dello storico Muzio
Polidori, dopo l’incendio della cattedrale di Corneto nel 1643, venne rimossa, rintracciata
recentemente all’interno del cortile della stessa Commenda e conservata dal proprietario
dell’immobile, all’interno di tutto il complesso che fu già del glorioso Sovrano Militare
Ordine di Malta, oggi restaurato e rimesso scrupolosamente in piena luce da Massimo
Marzi che ne è il legittimo proprietario.
Bruno Blasi
Bibliografia
Paola Supino - La Margarita Cornetana - Regesto dei documenti Roma - presso la Società
alla Biblioteca Vallicelliana - anno 1969.
Muzio Polidori - Croniche di Corneto - a cura della Società Tarquiniense d’Arte e Storia Tip. C. Ceccarelli - Grotte di Castro - 1977 a cura di Anna Rita Moschetti.
Francesco Valesio - Memorie Istoriche della Città di Corneto - a cura di M. Corteselli e A.
Pardi della Società Tarquiniense d’Arte e Storia - anno 1993 - STEG srl di Tarquinia.
Secondiano Campanari - Tuscania e i suoi monumenti - anno 1856 - Tipografia del
Seminario - Montefiascone.
121
Francesco Guerri - Registrum Cleri Cornetani - Anno 1908 - Corneto Tarquinia Tipografia A. Giacchetti.
Francesco Antonio Turriozzi - Memorie istoriche della città di Tuscania - Roma - 1778.
Università Agraria di Capodimonte - La castellania di Capodimonte e Bisenzio - Anno 1932
- Tipog. Agostiniana - Roma.
Remo De Felice e Angela Carlino Bandinelli - Dell’antico feudo di Rota - a cura della
Provincia di Roma - Tip. Rotostampa - 1990.
Umberto Pannucci - I castelli di Bisenzo e di Capodimonte dal Medioevo a oggi. Tip.
Agnesotti - Viterbo - 1976.
Giuseppe Giontella - Tuscania attraverso i secoli - Tip. C. Ceccarelli - Grotte di Castro anno 1980.
Guido Mazza - La ceramica medioevale di Viterbo e dell’antico Lazio - Edizioni Libri d’Arte
- 1983.
Carlo Calisse - Statuto inedito di Veiano - Roma - Tipografia Vaticana - 1886.
LAPIDE DI BARTOLOMEA DELLA TOLFA APPUNTI GENEALOGI ED ARALDICI
SULLE DUE FAMIGLIE
In apertura del n. 21 del “Bollettino” della Società Tarquiniense d’Arte e Storia, si
dava notizia del ritrovamento di una lastra tombale, con due stemmi a rilievo, avvenuto
durante il restauro del palazzo della Commenda dei Cavalieri di Malta, a Tarquinia 1) .
La scoperta costituisce un tassello molto importante non solo riguardo la storia
medievale di Corneto, ma ancor di più per i suoi risvolti araldici e genealogici.
Il personaggio cui la lapide si riferisce - Bartolomea, figlia del fu Giacomo signore di
Tolfa Vecchia 2) , e moglie di Guittuccio di Bisenzo - come anche quello di suo padre, non
122
erano finora conosciuti dalle fonti storiche, a differenza del marito. Lo stesso dicasi per lo
stemma dei della Tolfa in quel periodo.
E’ dunque questa l’occasione per dare uno sguardo alla storia delle due famiglie,
correggendo anche qualche imprecisione più volte ripetuta da storici locali.
La famiglia della Tolfa (ovvero Tolfi, Tulfa, Tulphi) prese nome dal castello in
provincia di Viterbo, oggi comune autonomo, che venne anche chiamato Tolfa Vecchia.
Tale castello apparteneva, nel 1140, a Nicola dell’Anguillara 3) . Un suo erede (?), il conte
Guido, ne venne spossessato, nel 1202 dal conte Ugolino 4) , di famiglia non ben precisata 5)
ma che, da allora in poi, venne indicata come dei signori di Tolfa.
Pochi anni dopo, nel 1211, i viterbesi occuparono il castello e costrinsero gli abitanti
a giurare loro fedeltà. Per ritorsione, Gezio della Tolfa ed i suoi congiunti assediarono
Respampani 6) , posseduto da quella gente. Ciò dovrebbe essere bastato per rimettere le
cose al loro posto, ed a far nascere anche una certa amicizia con Viterbo. Infatti, nel 1291,
Rainone della Tolfa fu tra i firmatari della pace tra quella città ed il Senato romano 7) .
Subito dopo, nel 1293, Odo di Guitto di Tolfa Vecchia fece atto di sudditanza al
comune di Corneto 8) . Si noti che, in tale atto, risulta per la prima volta l’indicazione di
“signore di Tolfa Vecchia”. Da ciò, deduciamo la costruzione della nuova o, per lo meno, la
divisione della famiglia in due rami, da allora rispettivamente denominati di Tolfa Vecchia
e di Tolfa Nuova.
Anche Francesco di Ruggero e Pietro di Tebaldo, signori di Tolfa Nuova, circa
questo periodo, si sottomisero a Corneto 9) . Negli anni seguenti troviamo periodici
giuramenti di fedeltà a quel Comune 10) . Sembra che i signori di Tolfa Nuova assumessero il
cognome Baldi, quali discendenti di Tebaldo 11) .
I due rami si divisero le proprietà: ai signori di Tolfa Vecchia andò Sant’Arcangelo; a
quelli di Tolfa Nuova, Castel Marinello, Monte Monastero, Civitella e Rota. Come spesso è
accaduto nella storia medievale, due rami della medesima famiglia si schierarono due
1)
M.L.P. e B.B., articolo privo di titolo, in: “Bollettno” della S.T.A.S. n. 21 (1992), pp. 7-8.
La lettura data nel suddetto articolo non sviluppava il nome di Tolfa.
3)
Sora, “I conti dell’Anguillara”, p. 101 nota 21.
4)
Polidori, “Croniche di Corneto”, p. 170.
5)
C’è chi parla di una casa Nicolidi (Polidori, “Croniche di Corneto” p. 170), ma credo si tratti semplicemente di figli
di un Nicola.
6)
Polidori, “Croniche di Corneto”, pp. 171-172; Zippel “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 10 nota 1.
7)
Duprè Theseider, “Roma dal comune di popolo”, p. 268.
8)
Polidori, “Croniche di Corneto”, p. 181; Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 7 nota 4.
9)
Valesio, Falgari, “Memorie istoriche”, p. 35; Polidori, “Croniche di Corneto”, p. 159 - Cfr. anche Zippel, “L’allume
di Tolfa e il suo commercio”, p. 7 nota 4, che riferisce di una autorizzazione del 1295 a Raniero di Tebaldo di Tolfa
Nuova per la vendita di alcuni suoi diritti.
10)
Abbiamo notizie di giuramenti nel 1299, 1300 e 1347.
11)
Zippel, “L’allume di Tolfa”, p. 9.
2)
123
posizioni politiche diverse, una guelfa e l’altra ghibellina. Così fu anche per i della Tolfa:
quelli di Tolfa Vecchia furono dalla parte filopapale degli Anguillara, quelli di Tolfa Nuova
furono per i di Vico Ghibellini.
Il primo atto del dissidio tra la parentela avvenne a cavallo del 1299-1300. I signori
di Tolfa Vecchia occuparono Monte Monastero che, come si è detto, apparteneva a quelli di
Tolfa Nuova. Pertanto intervenne Corneto e per esso il podestà della città, Manfredi di
Vico, che assediò il Castello. Gli occupanti dissero di tenerlo a nome del conte
dell’Anguillara, al quale lo avevano ceduto, ma Manfredi lo riprese ed i cornetani lo
confermarono agli stessi feudatari di prima 12) .
Le lotte di parte proseguirono ed i signori di Tolfa ebbero una spedizione contro di
loro da parte del comune di Roma, nel 1301 13) . ed il loro castello venne occupato, certo
temporaneamente, dal figlio di Manfredi di Vico, prefetto dell’Urbe, nel 1322 14) .
E’ a quel periodo (1329) che risale la lapide funeraria di Bartolomea di Giacomo di
Tolfa Vecchia, definita romana, ritrovata a Tarquinia e che è stata origine di questo
articolo.
Alcuni certo lievi contrasti con gli Anguillara, vennero composti dai signori di Tolfa
Vecchia, nel 1331 15) ; a tal punto che, nel 1363, Puccio di Bove di Tolfa Vecchia nominò suo
esecutore testamentario proprio il conte Giovanni dell’Anguillara 16) . Questo Puccio aveva
sposato una Agnese, forse della famiglia Farnese 17) .
Unico momento di accordo tra i due rami fu nel 1341, quando si ribellarono al papa
avignonese Benedetto XII. Mentre i signori di Tolfa Vecchi tornarono subito
all’obbedienza, su consiglio di Nicola da Perugia, podestà di Viterbo, gli altri furono
attaccati dalle truppe pontificie del vessillifero Guido Orsini che, preso prigioniero Nerio di
Baldo di Tolfa Nuova, lo consegnò al rettore del Patrimonio 18) .
I signori di Tolfa Nuova si sottomisero completamente ai di Vico, consegnando loro
il feudo: un loro membro era tra i cento nobili del Patrimonio che nel 1347
accompagnarono a Roma Giovanni di Vico 19) . Lo stesso Giovanni che nel 1354 prestò
giuramento di fedeltà al rettore del Patrimonio per i suoi feudi, tra i quali proprio quello di
12)
Valesio - Falgari, “Memorie istoriche”, pp. 35-36.
Duprè Theseider, “Roma dal Comune di popolo”, p. 359.
14)
Bock, “Roma al tempo”, p. 204.
15)
Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 9.
16)
Idem, p. 109; Sora, “I conti di Anguillara”, p. 101 nota 4.
17)
Idem, p. 109 nota 4.
18)
Antonelli, “Nuove ricerche”, p. 143; Antonelli, “Vicende della denominazione pontificia”, p. 301.
19)
Duprè Theseider, “Roma del Comune di popolo”, p. 604.
13)
124
Tolfa Nuova 20) . Abbiamo notizia di arbitrati tra Paradiso di Nereo di Tolfa Nuova con
Giovanni di Vico, nel 1355, e tra Nerio di Baldo di Tolfa Nuova con Nuccio di Cecco e suo
figlio Ventura, nel 1362 21) .
Sono queste le ultime testimonianze rintracciate del ramo di Tolfa Nuova; sempre
più spesso l’altro ramo viene indicato solo come di Tolfa. Il castello di Tolfa Nuova passò
dunque nelle mani dei di Vico; poi in quelle di Francesco Orsini, insignitone da Eugenio IV
nel 1435 22) ; di Everso dell’Anguillara, impossessatosene nel 1460 23) ; della Camera
apostolica, sotto Paolo II nel 1464; e finalmente di Pier Luigi Farnese, nel 1534 24) .
Con l’inizio del secolo XV abbiamo notizia di membri della famiglia stabilitisi a
Roma. In particolare di Egidia, sorella di Nerio e moglie di Giovanni “Thomasii”, milite di
S. Eustachio che testò nel 1426 e 1429 (con un lascito anche ad un Nicola della Tolfa,
dell’ordine dei Predicatori), che morì nel 1452, venendo sepolta nella chiesa di S.
Marcello 25) .
I fratelli Ludovico e Pietro della Tolfa, ormai sudditi pontifici a tutti gli effetti,
furono “scudieri onorari e commensali continui” di papa Pio II (1458-1464), ed a loro si
deve la costruzione della cerchia di mura attorno al borgo sorto sotto il loro castello 26) .
Nel 1463 avvenne il fatto straordinario che cambiò le sorti di questa famiglia, dello
Stato pontificio e di tutto il mondo occidentale. Proprio nel territorio circostante il castello
di Tolfa Vecchia, un tal Giovanni da Castro scoprì i giacimenti minerari di allume, che
saranno fonte di enormi ricchezze e dell’interesse di tutti 27) . Le tre figlie di Ludovico della
Tolfa sposarono tre figli di Giovanni da Castro, il quale stipulò con loro il primo contratto
per lo sfruttamento dei giacimenti 28) .
Il papa fece subito presenti i suoi diritti sovrani sui giacimenti minerari, nominando
Pietro della Tolfa a custode delle allumiere e concedendo a Ludovico, il primogenito, parte
dei profitti dell’impresa 29) . Paolo II, appena salito al Soglio, nel 1464, fece una regalia ai
20)
Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 8.
Jacovacci, “Repertorii di famiglie”, v. 2553 parte IV, p. 430; atti del notaio Cecco di Giovanni Paulini.
22)
Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, pp. 8, 8 nota 3, 9, 28 nota 1. Non credo che il castello fu mai del
vescovo Bartolomeo Vitelleschi, come afferma Polidori, anche se riporta di una sentenza del 1454 a favore di questo
per il diretto dominio sul castello (“Croniche di Corneto”, p. 230).
23)
Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 9.
24)
Idem, pp. 9 e 30.
25)
Jacovacci, “Repertorii di famiglie”, pp. 431-432.
26)
Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, pp. 26, 26 nota 1, 27 nota 2.
27)
Polidori, “Croniche di Corneto”, p. 259; Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, pp. 9-10.
28)
Polidori, “Croniche di Corneto”, p. 261; Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 26 nota 2. Quest’ultimo
autore dice di non essere però riuscito a rintracciare il contratto: credo si possa trovare tra gli accordi matrimoniali dei
loro figli.
29)
Zieppel, “L’allume di Tolfa”, p. 27 note 2 e 3.
21)
125
due fratelli in occasione del matrimonio di una figlia di Pietro 30) . L’anno successivo,
Ludovico sposò (certo in seconde nozze) Agnese, figlia del potente Orso Orsini, segnando
così l’ascesa sociale della famiglia 31) .
Tale matrimonio si rivelò provvidenziale subito dopo, nel 1466, quando il papa
abbandonò la linea morbida e desiderò assoggettare direttamente il castello. Tentò prima
fomentando una sollevazione popolare contro i signori, fallita sul nascere; poi facendo
assediare la rocca ed occupando il borgo. I della Tolfa si rivolsero all’Orsini, occupato in
Romagna, che abbandonò immediatamente il campo per correre in loro soccorso. Le
truppe pontificie, appena saputo dello spostamento del comandante, e prima ancora che
questo arrivasse, si ritirarono 32) .
Così venne fatta temporaneamente la pace, in attesa di una soluzione radicale, che
arrivò nel 1469. In quell’anno, con l’intervento di Napoleone Orsini, capitano generale
delle truppe pontificie, la Camera apostolica acquistò regolarmente il feudo per 17.300
ducati 33) , ed il papa regalò anche a Ludovico un cavallo nero 34) .
A questo punto i della Tolfa abbandonarono la loro terra e lo stesso Stato pontificio,
nel quale sarebbe stato difficile rimanere.
Seguirono il loro parente Orsini nel Regno
di Napoli, dove quello era molto potente, ed ormai forti di tale parentela e ricchi, vi si
stabilirono, acquistando il feudo di Serino (oggi in provincia di Avellino), tolto a forza dal
re a Camillo della Marra 35) .
Ludovico della Tolfa lo ritroviamo ancora solo nel 1471, quando ottiene dal papa di
poter procedere contro alcuni suoi debitori nel Patrimonio, e con essi chiudere
definitivamente i conti col passato 36) .
Con l’aiuto degli Orsini, la famiglia si integrò completamente nella nobiltà feudale
partenopea: il figlio di Ludovico, Giovanni Battista, sposò Francesca Carafa 37) . Si
imparentarono inoltre coi Carafa de Spina conti di Policastro (Vittoria della Tolfa era
cugina “ex sorore” di papa Paolo IV), coi Vulcano baroni di Melito, con gli Spinello, coi
Capece Galeota, con gli Orsini conti di Manoppello e marchesi di Guardia, coi de Loffredo,
coi de Guevara duchi di Bovino, coi Caracciolo principi di Avellino, coi Carafa marchesi di
30)
Idem, p. 27 nota 5.
Litta, “Famiglie celebri italiane”, “Orsini”, tav. XV; Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 28 e 189.
32)
Polidori, “Croniche di Corneto”, p. 260; Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 29 nota 1.
33)
Polidori, “Croniche di Corneto”, pp. 260-261; Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 29 nota 2.
34)
Zippel, “L’allume di Tolfa”, p. 29 nota 2.
35)
Polidori, “Croniche di Corneto”, p. 261; Ricca, “La nobiltà del Regno”, vol. IV, pp. 427 e 433; Zippel, “L’allume di
Tolfa, p. 29 nota 2.
36)
Zippel, “L’allume di Tolfa”, p. 29 nota 2.
37)
Ricca, “La nobiltà del Regno”, vol. IV, p. 433. E’ a quest’opera che si può fare riferimento per maggiori particolari
genealogici.
31)
126
San Lucido, coi de Sangro principi di Sansevero, coi Pappacoda marchesi di Capurso, coi
Carbone marchesi di Paduli, coi Caracciolo principi di san Bono (nei quali si estinse il loro
ramo principale alla fine del XVI secolo), e con gli Orsini duchi di Gravina (Giovanna della
Tolfa fu madre di papa Benedetto XIII), estinguendosi nell’anno 1700, con la morte di
Giovanna della Tolfa.
Esula dai nostri interessi seguire le vicissitudini in quella terra, solo dobbiamo
segnalare la nascita cinquecentesca di favole genealogiche che vedono i della Tolfa
discendere dai Frangipane, tanto che spesso si fecero chiamare Frangipane della Tolfa 38) .
Il loro feudo di Serino venne prima innalzato al grado di baronato, poi a quello di
contea, verso il 1530. Possedettero anche il ducato di Grumo ed i feudi di Santo Stefano,
Montebrandoni, Ponte, Monterone, Castelchiodato, Buonalbergo, e Vallata.
A Roma, per le sue opere di beneficienza è rimasta famosa Vittoria della Tolfa,
moglie di Camillo-Pardo Orsini, conte di Manoppello e marchese della Guardia, sposata
prima del 1545 39) . Rimasta vedova, nel 1553 40) , tentò di fondare un monastero di clarisse
in alcune sue case, “alla guglia di S. Macuto”. Il tentativo fallì e, su consiglio del congiunto
papa Paolo IV, donò le proprietà immobiliari ai neo-costituiti del congiunto papa Paolo IV,
donò le proprietà immobiliari ai neo-costituiti Gesuiti, che ne fecero la base per la loro
chiesa di S. Ignazio e del Collegio Romano, nel 1561 41) .
La stessa Vittoria fece altri lasciti testamentari 42) al convento di S. Francesco a Ripa,
verso il 1579 43) , al convento carmelitano di S. Maria in Traspontina (nella cui chiesa eresse
la cappella dell’Immacolata, o del Carmine), nel 1581 44) , al collegio dei Gesuiti, nel 1583 45) ,
al collegio dei Gesuiti, nel 1583 46) , ed all’ospedale di S. Giacomo, nel 1605 47) .
La famiglia di Bisenzio (o Bisenti, Bisenzi) prese il nome dal castello sull’isola detta
Bisentina (oggi nel comune di Capodimonte, in provincia di Viterbo) 48) , della quale furono
signori sembra a partire dal 981, per nomina dell’imperatore Ottone II, di passaggio in
Italia 49) . C’è chi dice che costituivano un ramo degli Aldobrandeschi 50) .
38)
Borrelli, “Vindex Neapolitanae Nobilitatis”, vol. I, p. 170. Da tali falsità si è arrivati oggi a chiamare “rocca dei
Frangipane” quella del centro comunale di
39)
Jacovacci, “Repertorii di famiglie”, vol. 2553 parte IV, p. 432; atti del notaio Teodoro de Gualteronibus.
40)
Forcella, “Iscrizioni delle chiese”, vol. I, p. 170, nn. 648-649; il marito venne sepolto in S. Maria in Araceli.
41)
Negro, “Rione II Trevi”, parte II fasc. II, p. 100; Pietrangeli, “Rione IX Pigna”, parte III, pp. 18 e 37.
42)
Jacovacci, “Repertorii di famiglie”, vol. 2553 parte IV, p. 432; atti del notaio Teodoro de Gualteronibus.
43)
Pietrangeli, “Rione IX Pigna”, parte IV, p. 132.
44)
Gigli, “Rione XIV Borgo”, parte I, p. 104.
45)
Forcella, “Iscrizioni delle chiese”, vol. X, p. 102, n. 179.
46)
Forcella, “Iscrizioni delle chiese”, vol. VI, p. 356, n. 1111; Idem, vol. VI, p. 400, n. 1227; Barberini, “Rione XVI
Ludovisi”, pp. 20 e 22 (dice che il lascito venne fatto al convento della Traspontina).
47)
Forcella, “Iscrizioni delle chiese”, vol. IX, p. 134, n. 265.
48)
Da segnalare l’esistenza di un comune di Bisenti in provincia di Teramo.
49)
Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 32.
127
A partire dal 1080, per più di un secolo, signoreggiarono sulle città di Tuscania (poi
Toscanella ed oggi di nuovo Tuscania) 51) . Nel 1188, i viterbesi cacciarono Ildebrandino di
Bisenzo dal suo castello, ma poi la famiglia lo dovette rioccupare se, nel 1220, Guido di
Bisenzo lo sottomise alla città di Orvieto 52) .
Nel 1245, col favore dell’imperatore Federico II, tornarono a dominare Toscanella, e
la tennero fino al 1279, quando venne loro tolta da Orso Orsini, andando a far parte delle
proprietà di quest’ultimo 53) . E’ in questo periodo che abbiamo notizia di un Guitto, poi
detto Guittone, di Bisenzo (morto avanti il 1262) 54) , e dei figli Giacomo (Jacobo), Nicola,
Tancredi e Giacoma 55) .
I figli maschi sottomisero ad Orvieto i loro castelli di Bisenzo e Capodimonte 56) .
Nel 1261, papa Urbano IV, a seguito dell’omicidio di Guiscardo di Pietrasanta,
governatore della Provincia, perpetrato da Giacomo di Guittone di Bisenzo, gli tolse i
castelli di Bisenzo (che fece demolire) e l’isola Martana 57) . A quel punto, nel 1262 Giacomo
si trasferì a Montebello nel territorio di Corneto, al cui vicario e console chiese di poter
riedificare quel castello (che era stato distrutto nel 1253), promettendo in cambio varie
cose e sottomettendogli il giuramento della cittadinanza cornetana 58) .
Giacomo, assieme al fratello Tancredi, nel 1280, ottenne ancora da Orvieto la
custodia dei castelli di Bisenzo e Capodimonte 59) . Lo stesso, nel 1294, assieme alla moglie
Romana ed ai figli Guittuccio e Dragone, ebbe un contrasto col comune di Corneto per i
confini delle tenute di Montebello, Monteleone e Montevalerio 60) .
Di Tancredi, fratello di Giacomo sappiamo che nel 1262, assieme a viterbesi,
toscanesi e cornetani, saccheggiò Bolsena ed i dintorni di Orvieto, fedeli al papa 61) . Lasciò
tutti i suoi diritti sull’eredità paterna alla sorella Giacoma ed al nipote Guittuccio di
Giacomo 62) . Ebbe un figlio, Guido, signore di Marta, castello che fece lui stesso incendiare
50)
Idem, vol. 78, p. 287; vol. 102, p. 32.
Idem, vol. 78, p. 287.
52)
Idem, vol. 102, p. 32.
53)
Idem. vol. 78, p. 289.
54)
“Margarita Cornetana”, pp. 61 n. 17, 197-298 nn. 384-386.
55)
Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 78, p. 289; vol. 102, p. 29 - Corteselli, Pardi, “I personaggi delle memorie”,
p. 222.
56)
Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 33.
57)
Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 96, p. 69 - Morghen, “Il cardinale Matteo Rosso Orsini”, p. 281 - Corteselli,
Pardi, “I personaggi delle memorie”, pp. 222 e 241.
58)
“Margarita Cornetana” pp. 297-298 nn. 384-386 - Valesio., Falgari, “Memorie istoriche”, p. 159.
59)
Corteselli, Pardi, “I personaggi delle Memorie”, p. 222.
60)
“Margarita Cornetana”, pp. 241-242 nn. 319-320.
61)
Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 19.
62)
Corteselli, Pardi, “I personaggi delle Memorie”, p. 222.
51)
128
nel 1261 per non lasciarlo prendere dai di Vico 63) , e del quale si ha l’ultima notizia nel
1269 64) .
L’altro figlio maschio di Guittone, Nicola, era signore di Pianzano nel 1263, quando
lo sottopose alla città di Tuscania 65) .
Ebbe un figlio di nome Galasso.
Nella stessa epoca, troviamo un Nicola di Ranuccio di Bisenzo, signore di Ancarano,
che nel 1263 sottomise anch’egli il suo castello a Tuscania 66) .
Guittuccio (o Guiduccio, Guittuzzo) di Bisenzo, figlio di Giacomo, signore di
Montebello, per questo castello e per Contignano, Leona e Castel Marano, confermò la
“soggezione antica” a Tuscania 67) . Di lui abbiamo notizie ancora nel 1300 68) e nel 1321,
quando ha una lite per proprietà con Vanne e Cataluccio, figli del cugino Galasso e signori
di Capodimonte, terminata nel 1323 69) . Era lui il Guittuccio marito di Bartolomea della
Tolfa Vecchia, della lapide cornetana del 1329. Tra i suoi figli, ebbe un Giovanni.
Il cugino di Guittuccio, Galasso di Nicola di Bisenzo, barone di Pianzano, tentò di
esentarsi dall’ubbidienza a Tuscania, nel 1300 70) . Come si è detto, sui figli furono Vanni e
Cataluccio.
Sembra che, nel secolo XIII, i Bisenzo, benchè gibellini, fossero contro i di Vico, 71) ,
invece nel 1311 li troviamo chiedere aiuto proprio a quella famiglia, quando furono
attaccati dai Farnese; quelli inviarono in soccorso alcuni militari di Corneto 72) . L’adesione
ai di Vico è dimostrata ancora nel 1347l quando un Bisenzo fu tra i cento nobili del
Patrimonio che accompagnarono a Roma Giovanni di Vico 73) .
Alcuni figli di Guittuccio di Bisenzo, nel 1313 o poco dopo, vennero fatti prigionieri
da Poncello Orsini, che li condusse ad Orvieto o Bolsena, ove li fece uccidere 74) .
L’altro figlio, Giovanni, era consignore di Tuscania nel 1336 e signore di Pianzano
nel 1338 75) . Per la sua attività antipapale, nel 1341 gli vennero tolti Pianzano ed i suoi diritti
63)
Idem.
Valesio, Falgari, “Memorie istoriche”, p. 32.
65)
Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 78, p. 289: vol. 102, p. 124.
66)
Idem, vol. 78, p. 289.
67)
Idem.
68)
Idem, vol. 102, p. 83.
69)
Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 33; Antonelli, “Di Angelo Tignosi”, pp. 3-4; Antonelli, “La
dominazione pontificia”, p. 250. Da Cataluccio di Galasso derivarono i Catalucci. Del Fratello Vanni si ha ancora
notizia nel 1330 (Antonelli, “La dominazione pontificia”, p. 262 nota 3).
70)
Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 124.
71)
Corteselli, Pardi, “I personaggi delle Memorie”, pp. 222 e 241.
72)
Valesio, Falgari, “Memorie istoriche”, p. 38.
73)
Duprè Theseider, “Roma dal Comune”, p. 604; Corteselli, Pardi, “I personaggi delle Memorie”, p. 241.
74)
Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 34 (dice sotto il pontificato di Giovanni XXII, 1316-1334, e che la
giustizia si svolse in Orvieto); Corteselli, Pardi, “I personaggi delle Memorie”, p. 241 (dice nel 1313 e che si svolse in
Bolsena).
75)
Antonelli, “La dominazione pontificia”, pp. 294 e 297.
64)
129
sulla metà di Montebello, che entrarono a far parte dei beni della Chiesa 76) . Nel tentativo di
ottenere il perdono dei guelfi, fece sposare la figlia Caterina con Ranuccio di Cola “de
Celgiolo” Farnese 77) . Altro figlio fu Giacomo.
Questo Giacomo di Bisenzo tentò, però inutilmente, di riavere dalla camera
apostolica i castelli di Pianzano e Montebello, con una causa tenuta verso la fine del
pontificato di Urbano V (1362-1370) 78) .
Anche il castello di Bisenzo nel 1376 venne tolto ad un Catulano di Guelfo da Nicolò
Orsini che lo consegnò alla Camera Apostolica 79) . Dovette però tornare nelle loro mani.
La famiglia di Bisenzo trasferì la dimora di Orvieto e, nel pontificato di Paolo III
(1534-1549), i due fratelli Ascanio e Fabrizio cedettero i loro diritti sul castello avito a Pier
Luigi Farnese, parte in dono e parte per vendita 80) .
Si estinsero con Guido che, nel pontificato di Gregorio XVI (1831-1846), fu, a Roma,
presidente del rione Borgo 81) .
CLAUDIO DE DOMINICIS
*
Alcune considerazioni di tipo araldico consentono di precisare e confermare quanto
esposto nella parte genealogica di queste note.
Come è evidente sulla lapide cornetana sono presenti gli stemmi di due famiglie.
Secondo la descrizione tecnica detta blasonatura vengono così definiti, Bisenzo (scudo di
sinistra): Partito d’oro e d’azzurro alla pergola troncata dell’uno all’altro. Della Tolfa: di...
a cinque fasce ondate di... Gli smalti (colori), non presenti nella riproduzione lapidaria,
ove è stato possibile, sono una nostra integrazione, altrimenti sono stati sostituiti, come di
prassi, dai punti.
Può tornare utile qualche puntualizzazione araldica premettendo che quella
descrittiva è solo una delle funzioni dell’araldica stessa, forse la più limitativa e
difficilmente comprensibile a tutti. Essa tuttavia persegue l’obiettivo di fermare
visivamente la memoria dello stemma. Descrivere un’arma in modo univoco affinché,
anche senza una raffigurazione, sia possibile sapere con precisione come è fatta e quali
elementi la compongono, può a volte costituire l’unica traccia della sua esistenza. La
76)
Antonelli, “Nuove ricerche”, p. 129.
Idem, pp. 129 e 148 app. I.
78)
Idem, p. 129; Antonelli, “La dimora estiva”, p. 160.
79)
Moroni, “dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 34.
80)
Moroni, “dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 31-32.
81)
Idem, vol. 102, p. 31.
77)
130
scienza che si occupa di questo (l’araldica) potrebbe essere ridotta a mera tecnica di
riconoscimento e descrizione delle armi. Più proficuo per un gran numero di ricercatori è
comprendere l’apporto scientifico, le implicazioni di carattere storico che questa scienza
ausiliaria della storia può fornire. Dare storicamente ragione degli elementi di un’arma
relativamente alle figure, al tipo di scudo ed ai vari ornamenti esterni ad esso, registrare le
varianti, qualora nel corso del tempo ve ne siano state, significa spesso ripercorrere le
vicende della storia di una famiglia di un potentato, o di un comune.
Nell’arma infatti è sinteticamente espressa l’immagine che una famiglia, un singolo
personaggio o un regno vogliono figurare e divulgare in un determinato momento della
propria storia, scegliendo tra le vicende presenti e passate ciò che reputano degno di
memoria. Ogni elemento di un’arma viene così a richiamare origini, parentele, eredità,
feudi, dignità, fornendo informazioni a volte indispensabili per lo storico, lo storico
dell’arte, il genealogista ecc.
Dietro la realtà apparente va ricercato un significato in relazione alla mentalità e ai
desideri di chi l’alzava. In questo senso le mutazioni che lo stemma subisce nel corso del
tempo o il permanere delle medesime forme e figure sono da interpretare come
espressione di mutamenti ideologici e politici.
Gli elementi necessari alla formazione di uno stemma sono tre: lo scudo, la figura, lo
smalto. La forma degli scudi della nostra lapide viene detta triangolare o alla francese, ne
conferma l’epoca di esecuzione.
Senza leggere il contenuto dell’iscrizione, sembrerebbe trattarsi di documento
concepito in occasione di una alleanza matrimoniale tra i Bisenzo 82) e i della Tolfa. La
lapide non fu però scolpita in occasione del matrimonio tra Guittuccio e Bartolomea, ma a
ricordo di quest’ultima nella sua morte.
Analizziamo le figure presenti nei singoli scudi. Per i Bisenzo abbiamo la “pergola”,
si tratta di una figura araldica detta “pezza onorevole” assai rara nell’araldica italiana. Essa
è frequente nelle armi gentilizie e civili della Francia 83) dove molte famiglie o città il cui
nome inizia per la lettera Y, la acquisiscono nel proprio scudo alla stregua di una vera e
propria arma parlante. Circa la sua origine alcuni richiamano oggetti presenti
nell’ambiente torneario, cioè barriere da torneo, o speroni dei cavalieri o anche supporto
per la balestra a cric. Altri osservano la somiglianza con il pallio arcivescovile. Quest’ultima
tesi è accolta dal più autorevole araldista della passata generazione, il di Crollalanza che ne
82)
Per notizie sulle vicende storiche dei Bisenzo inserite nelle lotte contro la parte guelfa ad Orvieto cfr. i numerosi
riferimenti in WALEY D., Orvieto medievale, Multigrafica Roma.
83)
Cfr. DE RENESSE T., Dictionnaire des figures héraldiques Bruxelles, 1990, vol. V pp. 703 sgg.
131
osserva la presenza in molte armi dei prelati inglesi. Questa figura per alcuni araldisti
potrebbe aver avuto origine dal pallio usato in primis dagli imperatori bizantini 84) ed in
seguito entrato nell’uso ecclesiale per i gradi alti della gerarchia. La pergola richiama nella
forma quell’indumento: una famiglia che adotta proprio la pergola per rappresentarsi
potrebbe collegare le proprie origini a Bisanzio o ad un toponimo locale che lo ricorda,
oppure affermare l’alta dignità cui si sente chiamata. I Bisenzo assumono la pergola nella
forma troncata, cioè con i tre bracci scissi nel centro 85) , inserendola con una bicromia di
grande effetto, in uno scudo partito dagli stessi smalti. Il risultato è di estrema euritmica
eleganza.
Nello scudo dei della Tolfa è presente la fascia anch’essa figura araldica che si
definisce “pezza onorevole”. Le fasce ondate in particolare, secondo alcuni araldisti tra cui
il Ginanni 86) , sono alzate per lo più da famiglie di parte guelfa. La lapide cornetana offre un
raro esempio dello stemma dei della Tolfa prima della loro ascesa sociale. Di esso non è
stato rintracciato alcun esempio nella cittadina di Tolfa, almeno nella parte esterna degli
edifici più antichi. Nei maggiori repertori di araldica l’arma dei della Tolfa viene citata
nella forma che ebbe dopo il trasferimento della famiglia nel napoletano: cioè d’azzurro
alla torre d’argento.
Il mutamento dell’arma è contemporaneo a quello della
dimora, ma abbandonando l’antica figura (cioè la fascia), viene mantenuto nella nuova
insegna il ricordo delle proprie origini. Infatti la torre, assunta nel nuovo stemma, era
presente nelle armi di famiglie di antica e grande nobiltà. Ed i della Tolfa non rinunciano a
sottolinearlo: il nuovo stemma si pone in rapporto all’antico non rompendo totalmente il
legame araldico proprio nei contenuti (torre) e probabilmente anche negli smalti.
Di
essi non c’è traccia sulla lapide cornetana: l’uso di indicare i colori con particolari tratteggi
anche nelle esecuzioni lapidarie è assai più tardo. In questo caso siamo portati a pensare
che fossero l’azzurro e l’argento. La continuità sembra essere sottolineata anche
dall’adozione dei medesimi smalti o colori dell’arma antica: l’azzurro e l’argento. Un
bell’esempio romano della nuova arma dei della Tolfa compare sulla pietra a ricordo dei
lasciti di Vittoria Della Tolfa Orsini nella sacrestia di Sant’Ignazio. Vittoria, si è visto nella
parte genealogica di queste note 87) , apparteneva alla prima generazione nata dopo il
trasferimento della sua famiglia. Il fatto che ella usi già lo stemma con la torre ci conforta
84)
Per questo particolare aspetto cfr. PETRUSI A., Insegne del potere sovrano e delegato a Bisanzio e nei paesi di
influenza bizantina, in Simbologia e simboli nell’alto Medio Evo. Settimane del Centro Italiano di Studi sull’alto Medio
Evo (XXIII). Spoleto, 1976 vol. II pp. 569-593.
85)
Cfr. di CROLLALANZA G., Enciclopedia araldico-cavalleresca, Forni, Bologna, 1980.
86)
GINANNI M.A., L’arte del blasone dichiarata per alfabeto, Galeotti, Venezia, 1756 p. 128.
87)
Cfr., in particolare quanto detto alla nota n. 46.
132
nella tesi dell’immediato cambiamento che esso subiva senza frapporre passaggi figurativi
intermedi e periodi in cui veniva utilizzato ancora il vecchio stemma.
GIOVANNA ARCANGELI
UN AMORE DI...... PAPA
“Giulia, figliola carissima. Più la tua lettera è stata lunga e più ci è stata gradita,
perchè ho impiegato più tempo a leggere le tue parole che hanno illustrato le bellezze di
Caterina Gonzaga, che non è degna però di toglierti le scarpe. Quando ella ti era vicina,
era come una lucerna vicino al sole. Noi apprezziamo la tua perfezione, di cui mai
abbiamo dubitato, e vorremmo che fosse destinata e dedicata a quella persona che più ti
ama”.
(Fine giugno 1494).
“Giulia, ingrata e perfida. Dichiari di non venire qui contro la volontà dell’Orsini,
benchè comprendiamo il tuo animo cattivo, considerando le tue parole finte e bugiarde,
non ci possiamo persuadere che ora usate tanta ingratitudine e perfidia con noi, avendoci
prima tante volte giurato et assicurato di sottostare ai nostri comandi e di non avvicinare
133
l’Orsini. Ora te ne vai a Bassanello con sicuro pericolo per la tua vita. Speriamo che vi
accorgiate dell’errore e ne facciate adeguata penitenza. E ora con la presente, sotto pena
di scomunica, e maledizione eterna, ti ordiniamo che tu non lasci Capodimonte o Marta,
nemmeno per andare a Bassanello”. (22 ottobre 1494).
Queste lettere appassionate e traboccanti d’amore - prima - e gelosia e furore
amoroso - poi - furono scritte, insieme a moltissime altre, - a quattro mesi di distanza una
dall’altra - da Alessandro 6° a Giulia Farnese.
Prima di addentrarci nei meandri di questo amore passionale, vediamo gli attori che
vi compaiono.
LUI
Alessandro 6°. Papa. Rodrigo Borgia nacque il 1° gennaio 1431 a Jativa, nei pressi di
Valencia, da don Joffrè e da donna Isabella, sorella di Callisto 3°. Per la sua parentela con
questo pontefice nel 1456 Rodrigo fu nominato vicecancelliere e cardinale della Chiesa
Romana. Il suo stato di principe della Chiesa gli comportò un ingente arricchimento, tanto
da divenire l’uomo più potente di Roma.
Condusse una vita dissoluta e, tra il 1462 ed il 1471, ebbe tre figli da donne rimaste
sconosciute: Pedro, Geromina, Isabella.
Dalla relazione amorosa con Vannozza
Cattanei nacquero Cesare nel 1475, Giovanni nel 1476, Joffrè nel 1478 e Lucrezia nel 1480.
Rodrigo venne elevato al Pontificato l’11 agosto 1492 e l’elezione fu sicuramente
simoniaca.
Alessandro morì il 18 agosto 1503 a seguito di un avvelenamento da cibo,
complicato da un indebolimento per malaria o dissenteria. Un coppiere - corrotto da
Cesare Borgia - doveva propinare del vino “corretto alla cantarella” - il veleno dei Borgia al ricchissimo cardinale di Corneto, Adriano Castelleschi.
Per un “disguido” il tossico fu
consumato da tutti i commensali ed il Papa, debilitato dall’età e dalla malattia passò... a
miglior vita.
Di lui è stato scritto:
“Alessandro, per tutta la vita, si preoccupò di godere il mondo, soddisfatto di
vivere, di appagare i tuoi desideri, la sua ambizione. In questo sembrava diventare ogni
giorno più giovane, per vecchio che fosse. Nessun pensiero lo tormentava durante la
notte. Pensava a ciò che gli poteva procurare vantaggi, nient’altro mai lo preoccupò.
(Von Ranke).
134
“Alessandro, uomo altamente dotato, in cui era viva l’idea del godimento del
potere. L’ambizione, la sensualità, l’avidità per la ricchezza erano congiunte con un’indole
energica e qualità brillanti”. (Burckhardt)
“Alessandro, in tutta la vita, non fece altro che ingannare il mondo. Nessuno
meglio di lui possedeva l’arte dell’astuzia. Nessuno confermò promesse con giuramenti
più sacri e nessuno non le mantenne meglio di lui. Se riuscì sempre ad approfittare della
gente è perché nessuno meglio di lui conosceva i lati deboli degli uomini”. (Machiavelli).
Alessandro aveva un temperamento sensuale e ardente ed esercitava sulle donne
un fascino irresistibile: fu però conquistato dalla saggezza di Vannozza, per la quale
nutrì un pacato amore”. (Gregorovius).
Rodrigo scrive poemi, novelle, suona musica, protegge umanisti, aiuta biblioteche
e le collezioni d’arte. Possiede un armadio tutto pieno di vasi d’oro e d’argento. Incarica
artisti, quali Botticelli, Perugino, Ghirlandaio, Filippo Lippi per la sua villa-castello di
Spedaletto, presso Pienza, e per il suo Palazzo (oggi Cesarini) in Via dei Banchi Nuovi, in
Roma”. (Attali).
Rodrigo appare di una saggezza e di uno zelo singolari, di eccellente preparazione,
dimostrando una capacità meravigliosa di convincere e trattando gli affari importanti
con una destrezza ed una determinazione incredibili; tuttavia le sue virtù erano
largamente distanziate dai suoi vizi”.
(Guicciardini).
“Simoniaco, infedele, eretico”. (Savonarola).
Questo era l’uomo!
LEI
Giulia Farnese, detta la Bella. Nacque nel 1474 da Pier Luigi e da Giovannella
Caetani. Fu sorella del cardinale Alessandro, vescovo di Corneto, poi Papa Paolo 3°.
Discendeva da un’antica famiglia di provincia, che signoreggiava su alcune terre
intorno al lago di Bolsena: Capodimonte, Marta, Isola Farnese. Terre belle e fertili, ma che
135
non permettevano di condurre una vita agiatissima. Nel castello di Capodimonte si viveva
tra il fasto del nome e la semplicità di un’esistenza patriarcale.
Il 20 maggio 1489, nella “camera delle stelle” di Palazzo Borgia, alla presenza del
notaio borgiano, Camillo Beneimbene, del vicecancelliere Rodrigo e del cardinale di S.
Maria in Portico, Zeno, fu celebrato il matrimonio del giovane “monocolus (guercio)
Orsinus con la magnifica et honesta fanciulla Giulia”.
La coppia abitò il palazzo del cardinale Zeno, sito nei pressi dei Palazzi Vaticani.
Questi si era infatti allontanato da Roma per paura di una morte violenta.
Quando Orsino, quasi confinato, se ne tornò nel proprio castello di Bassanello,
Giulia restò con Lucrezia Borgia e la propria suocera, Adriana Mila, nipote di Rodrigo.
E’ di questo periodo la nascita della relazione adulterina con il cardinale - prima - e
papa - poi -. L’innamoramento fu rapido, anche per il carattere passionale ed il “sangre
caliente” dello spagnolo.
La tresca divenne ben presto di dominio pubblico e dette fastidio a molti, non solo a
Roma, ma anche fuori d’Italia. Numerose corrispondenze degli ambasciatori delle corti
d’Italia parlavano della “Bella”, della concubina del papa. In Germania venne in seguito
pubblicamente rimproverato a Paolo 3°, fratello di Giulia, il modo con il quale era giunto al
cardinalato. Sicuramente egli si giovò dell’influenza di Giulia per ottenere cariche ed
incarichi; forse per questo venne soprannominato “il cardinale della gonnella o il
cardinale Fregnese”.
La relazione di Giulia con Alessandro continuò sino all’anno 1500: anno in cui ella
restò vedova. Il distacco fu dovuto forse a stanchezza di entrambi gli... attori; per Giulia fu
determinato al suo nuovo stato di vedova. Ma Alessandro continuò ad esercitare su Giulia
una forma di tenerezza protettiva, già sperimentata con successo con Vannozza Cattanei.
Si conosce un secondo matrimonio di Giulia con il napoletano Giovanni Capece
Bozzato, ma la Bella si dedicò all’educazione della figlia Laura, nata da Orsino, fino al
matrimonio di costei con Nicolò della Rovere, nipote di Giulio 2°.
Giulia fece testamento nel mese di marzo 1524, morendo dopo pochi giorni (22 o 23
marzo). La sua morte fu pianta con orazioni funebri e con poesie.
“Madonna Giulia si è fatta bellissima et in mia presenza si scapigliò e si fece
acconciare con i capelli, i quali andavano insino ai piè, et ha i più belli”. (Adriana Mila ad
Alessandro)
“Ella aveva colorito bruno, occhi neri, viso rotondo, un certo ardore et una
civetteria furba e femminile”.
136
Sentiamo il suo parlare:
“Al mio unico signore, essendo assente da Vostra Santità et dipendendo da quella
ogni mio bene e ogni mia felicità, non posso con nessuna soddisfazione gustare tali
piaceri, poichè dove è il mio tesoro, è il cuore mio. Tutto è poca cosa, se non stare ai piedi
di Vostra Santità”. (Giulia ad Alessandro).
Sicuramente Giulia fu una delle più belle donne del Rinascimento. Vasari riporta
che il Pinturicchio la ritrasse allorchè dipinse un volto della Madonna sopra la porta di una
camera dell’appartamento Borgia in Vaticano. Dalla scuola del Pinturicchio venne dipinta
una S. Caterina d’Alessandria con i lineamenti della Farnese. Giulia viene pure
riconosciuta nella statua dell’allegoria della Giustizia, posta sopra il sepolcro di Paolo 3°.
Questa era la donna!
L’ALTRO
Orsino Orsini, signore di Bassanello e Gallese. Nacque intorrno al 1470 da Ludovico
e da Adriana Mila (nata a Roma da Pedro de Mila venuto al tempo ed al seguito di Papa
Callisto Borgia).
Orsino
era
menomato
da
uno
strabismo
o
da
una
ferita
agli
occhi
(monocolus=guercio). Restò orfano nel 1489 ed in quello stesso anno celebrò in Roma le
proprie nozze con Giulia.
Non si comprende la causa di un matrimonio così... assortito. Ma, strano a dirsi, egli
fu amato teneramente dalla moglie e, pur essendo inferiore per ogni verso a Giulia, aveva il
fascino della vittima disarmata.
A Giulia dovette la propria nomina a comandante delle truppe napoletane ed Orsino
condusse quasi sempre una vita lontano da Roma, arroccato nei suoi feudi di Bassanello e
Gallese.
“Tra Orte e Viterbo, poggiando più a nord-ovest verso Orte, sta Bassanello, feudo
degli Orsini, povero borgo di antica origine militare, fondato su una collinetta di poca
altezza come su un basamento. A difesa del luogo si eleva un bel castello a pianta quadra,
arrotondato negli angoli da robusti torrioni quattrocenteschi. Esso domina le casupole
pietrose, la chiesa romanica dal campanile a sei piani, con piccole finestre e la cinta di
mura medioevali”. (Bellonci)
137
In questo ambiente ed in questo scenario si muove e vive il marito di Giulia sino
all’anno 1500, allorchè morì tragicamente a seguito di un solaio che gli cadde addosso
mentre dormiva.
Questo era il terzo uomo!!
I FATTI
Il 12 giugno 1493 Lucrezia Borgia - a soli tredici anni e già alla sua seconda
esperienza matrimoniale - viene data in sposa a Giovanni Sforza di Pesaro. Le nozze furono
particolarmente solenni e celebrate dal neo-eletto Alessandro 6°, alla presenza di dodici
cardinali.
Data la giovane età degli sposi e la sospetta virilità di Giovanni, le nozze non
vennero consumate e Lucrezia attese pazientemente nel palazzo del cardinale Zeno, in
compagnia di Adriana Mila e Giulia la Bella.
L’anno seguente, a motivo di una lunga epidemia di peste a Roma e Napoli, Lucrezia
si accinge a partire per Pesaro, sua nuova residenza. E perchè questa non sembri alla sposa
una terra d’esilio, per indorare la pillola del trasferimento e per evitare il contagio, si
uniscono a lei Giulia, Adriana, Girolama Farnese, Lella Orsini, figlia del conte di Pitigliano
e moglie di Angelo Farnese, fratello di Giulia. Per questa partenza di bellezze muliebri
Roma sembrò senz’altro più povera e più grigia.
L’otto giugno la piccola comitiva, debitamente scortata, entrò a Pesaro, sotto un
violento acquazzone. Nessuna delle donne ebbe modo di agghindarsi secondo i propri
desideri e le dame rimandarono all’indomani la possibilità da abbagliare la piccola corte di
Pesaro con vesti, gioielli, grazia e bellezza. A ben guardare, proprio ben piccola cosa appare
la corte pesarese.
Subito inizia una fitta corrispondenza tra Roma e Pesaro, tra il Papa e le donne
appena arrivate. Ad ogni lettera aumenta l’irrequietezza di Alessandro. Egli sente sempre
di più la mancanza di Giulia. Pian piano si passa dalla preghiera, agli ordini, alle minacce,
alla scomunica. Da dolci nomignoli si arriva ad epiteti quali “ingrata et perfida”.
A complicare le cose sono le truppe di Carlo 8°, entrate in Italia, per cui maggiore
sarà il pericolo in una piccola cittadina come Pesaro. “Manderò qualcuno a scortare la
comitiva massime adesso che vengono li Franciosi per mare e per terram non par bene
che in simil tempo vi troviate a Pesaro per moltitudine di gente che si troverà in questo
paese”. (Alessandro ad Adriana Mila).
Nel frattempo erano pervenute a Giulia altre lettere che annunciavano una malattia
mortale del proprio fratello Angelo, capo della Famiglia Orsini di Capodimonte. Egli,
138
sentendosi prossimo a morire, scongiurava la sorella e la moglie di tornare il più presto
possibile, se volevano vederlo ancora in vita. Giulia decide subito di tornare nel Viterbese e
non la trattengono nè parole, nè preghiere.
Il 12 ottobre Giulia con la sua piccola corte cavalca alla volta di Bolsena e non tiene
conto della rabbia di Alessandro. Questo vede nella partenza inganni, trascuratezze, false
notizie, poco amore.
Due giorni dopo la Bella arriva a Capodimonte, assiste il fratello in agonia e conforta
il dolore della cognata Lella, già sua compagna di viaggio. La morte del fratello viene presa
da Giulia come una punizione celeste per la sua condotta a Roma e solo la quiete del lago
mitiga il dolore. Le è comunque di consolazione la compagnia dei propri cari e al Papa che
scongiura, protesta e minaccia, Giulia dice per la prima volta un no secco e laconico.
Anche Orsino vuole Giulia presso di sè, a Bassanello. Ora non può più tollerare le
offese patite, la sua gelosia si acuisce e gli fa giurare ogni giorno vendetta.
E’ impossibile pensare che Orsino abbia conosciuto soltanto adesso la relazione di
Giulia con Alessandro: l’Italia intera e buona parte dell’Europa conosce l’amore travolgente
del Borgia per la Farnese. Si suppone che se ne fosse accorto per ultimo, ma ora Orsino si
ribella. Venuto a conoscenza che il papa stava trafficando per far giungere Giulia a Roma,
Orsino - al servizio del re di Napoli, - si fermò con l’esercito a Città di Castello, poi, zitto e
rabbioso, covando una tremenda furia, tornò a casa e rappresentò per il papa un grosso
ostacolo, in quanto ad Alessandro non giovava in quel momento uno scandalo: si diceva
che il re di Francia fosse sceso in Italia anche con l’intenzione di deporlo dal soglio
pontificio per la sua condotta riprovevole.
Il pontefice si rivolge a Giulio Orsini, signore di Monterotondo, affinché metta i suoi
buoni uffici con Orsino per convincerlo a permettere a Giulia ed Adriana di recarsi a Roma.
Ai primi di ottobre Orsino rompe gli indugi e fa sapere alle proprie donne e al
cardinale Farnese di volere Giulia presso di sè, altrimenti avrebbe riempito il mondo di
scandali.
Il cardinale Farnese inviò allora Adriana a Roma perchè “provasse a salvare l’onore
degli Orsini e dei Farnese”, ma costei tornò a Capodimonte “Dio sa quanto stracca e con
l’ordine ‘Giulia a Roma’ “.
In tutto questo trambusto Giulia si mostra estremamente donna: fa capricci e
mostra irritazione per la contesa. E’ incuriosita e commossa per l’ardire di quel marito che,
tradito da tutti, ora si atteggia a nemico di un personaggio di quella portata.
Ora Giulia
si rende disponibile per un uomo coraggioso (Orsino) e non per un prepotente
(Alessandro). Non si sarebbe dunque mossa da Capodimonte senza il consenso del marito.
139
Ma il papa minaccia:
“Giulia ingrata e perfida. Benchè sin qui comprendessimo l’animo tuo cattivo, non
ci potevano in tutto persuadere che usassi tanta ingratitudine e perfidia verso di noi,
avendoci tante volte giurato e data la fede di star al comando nostro e non accostar
Orsino. Ora vuoi andare a Bassanello con espresso pericolo di vita e speriamo in breve
che tu e l’ingratissima madama Adriana vi accorgerete del vostro errore e ne porterete la
penitenza condegna. Et ora, sotto pena di scomunica e maledizione eterna, ti
comandiamo che non ti debba partire da Capo di Monte o da Marta, nè manco per
andare a Bassanello. Si preferisce quella “zimia” (scimmia) di Orsino a nosaltres”. (23
ottobre 1494)
Finalmente l’Orsini cede e abbandona la lotta, ottenendo come risarcimento una
grossa somma di denaro per il pagamento (si dice) delle truppe restate senza paga.
Il 29 novembre la piccola comitiva, scortata da trenta cavalieri, si mise in viaggio per
Viterbo, prima, e Roma, poi.
Ma una schiera di soldati francesci sbarrò la strada. Non fu tentata alcuna difesa e
tutti subito si arresero all’avanguardia delle truppe di Carlo 8°, capitanate da Yves
d’Allègre. Le donne furono trasferite a Montefiascone. Si chiese un riscatto di tremila
scudi, che vennero immediatamente esborsati. Giunse pure una lettera di Federico da
Senseverino che ordinava l’immediato rilascio delle prigioniere.
Conosciuta la notizia della liberazione, Alessandro si apprestò a riceverle. Galante e
bello, indossò un giubbone di velluto nero a liste d’oro che mascherava la sua pinguidine di
sessantenne. Calzò finissimi stivali di Valencia, mise una sciarpa spagnola, un berretto di
velluto, pugnale e spada. Ricorse per ultimo al suo fascino latino.
Giulia giunse a Roma, scortata da quattrocento cavalieri francesi. Al lume delle torce
finalmente Alessandro vide il volto della sua amata, della sua Bella, che le rivolgeva il più
malizioso dei saluti d’amore. Sicuramente era l’unica vincitrice.
I cronisti che assistettero all’incontro riportano che Giulia passò la notte in
Vaticano, con buona pace di tutti.
Sic transit gloria mundi! E così sia.
MARIO CORTESELLI
Bibliografia
140
Pastor - Storia dei Papi - Volumi 3 e 5
Burcardo - La civiltà del Rinascimento in Italia
Paschini - Roma nel Rinascimento
Nasalli Rocca - I Farnese
Gelmi - I Papi
Rendina - I Papi
Gregorovius - Storia della città di Roma nel Medioevo
Guicciardini - Storia d’Italia
Pintonello - I Papi
Mathieu - Rosay - Dizionario cronologico dei Papi
Bellonci - Lucrezia Borgia
Corteselli-Pardi - I personaggi delle memorie istoriche della città di Corneto
Pecchiai - Roma nel Cinquecento
Attali - 1492
Cognasco - Italia nel Rinascimento
Hay-Law - L’Italia del Rinascimento
141
S. FRANCESCO DI TARQUINIA NEL SECOLO XIX
Il secolo XIX è caratterizzato da lunghi periodi di calma e forti sconvolgimenti
politici, che contribuiscono alla formazione di una nazione italiana unita, dopo essere stata
per lunghi secoli divisa. Questo travaglio immancabilmente si riflette anche sugli abitanti
del convento S. Francesco di Tarquinia o Corneto, come allora si chiamava la cittadina.
Per poter capire meglio un periodo così intricato si preferisce esporre la materia in
più punti.
I frati del convento S. Francesco di Tarquinia.
La breve bufera della Rivoluzione Francese importata nello Stato Pontificio alla fine
del secolo XVIII aveva prodotto scompiglio nelle case dei religiosi per le restrizioni
imposte. Vi erano state notevoli dispersioni e sbandamenti tra loro. Col ritorno di Pio VII a
Roma nel 1800 anche le comunità religiose cercarono di riorganizzarsi.
Nel convento S. Francesco di Corneto veniva riconfermato guardiano P. Antonio
Maria Taloni da Torria o Torrice. Questo indicava che il suo precedente comportamento
era approvato dai superiori della Provincia Romana. Il suo mandato durò ancora fino al
1808. Gli funsero da vicari del convento P. Giuseppe da Proceno per il 1800, P. Giacomo da
Torrazza per il 1801, P. Bernardino da Gragnana per il 1802, P. Benedetto da Caprarola per
il 1803, 1805, P. Giovanni Antonio da Gragnana per il 1804, P. Giovanni Francesco da
Gragnana per il 1806 e P. Filippo da Castel Viscardo per il 1807-1808. Mentre per gli anni
precedenti abitava il convento una comunità ordinaria con superiore e sudditi, nel 1808
invece diveniva nuovamente una casa di studio, perché vi era presente il P. Francesco da
Grotte di Castro come maestro dei chierici studenti di filosofia, cioè di giovani aspiranti al
sacerdozio. Nel 1809 lo stesso P. Francesco da Grotte di Castro fu fatto guardiano del
convento ed è possibile conoscere per la prima volta tutti i frati della sua comunità. Infatti
erano con lui il P. Filippo da Castel Viscardo, confessore e vicario, P. Giustino da Valentano
maestro dei chierici, P. Nicola da Valentano lettore di filosofia. Vi sono cancellati P.
Vincenzo da Gamalero e P. Lodovico dal Castelferro mandato ad Orte. Vi erano gli studenti
142
di filosofia Fra Cherubino da S. Anna e Fra Luigi da Savigliano, mentre vi erano cancellati
Fra Giuseppe da Boscomare mandato a Velletri e Fra Giulio da Milano mandato a
Magliano Sabina. Vi erano il fratello laico Fra Diego da Scheggia ed i terziari Fra Angelo da
Matelica, Fra Domenico da Arpino e Fra Filippo da Tolentino. Quantunque ormai la
situazione politica fosse compromessa con la deportazione di Pio VII il 6-7 luglio 1808, i
frati seguitarono a considerarsi liberi nei loro diritti.
Nel 1810 fu eletto guardiano del convento P. Giacomo Maria Latini da Corneto e con
lui erano il vicario P. Filippo da Castel Viscardo, P. Nicola da Valentano maestro dei
chierici, P. Giacomo Maceroni da Valentano, P. Leonardo da Pompeiana e per qualche
tempo il suo predecessore P. Francesco da Grotte di Castro ed altri non conosciuti. Ma il 15
giugno la soppressione napoleonica si abbattè sui da Boscomare mandato a Velletri e Fra
Giulio da Milano mandato a Magliano Sabina. Vi erano il fratello laico Fra Diego da
Scheggia ed i terziari Fra Angelo da Matelica, Fra Domenico da Arpino e Fra Filippo da
Tolentino. Quantunque ormai la situazione politica fosse compromessa con la
deportazione di Pio VII il 6-7 luglio 1808, i frati seguitarono a considerarsi liberi nei loro
diritti.
Nel 1810 fu eletto guardiano del convento P. Giacomo Maria Latini da Corneto e con
lui erano il vicario P. Filippo da Castel Viscardo, P. Nicola da Valentano maestro dei
chierici, P. Giacomo Maceroni da Valentano, P. Leonardo da Pompeiana e per qualche
tempo il suo predecessore P. Francesco da Grotte di Castro ed altri non conosciuti. Ma il 15
giugno la soppressione napoleonica si abbattè sui da Boscomare mandato a Velletri e Fra
Giulio da Milano mandato a Magliano Sabina. Vi erano il fratello laico Fra Diego da
Scheggia ed i terziari Fra Angelo da Matelica, Fra Domenico da Arpino e Fra Filippo da
Tolentino. Quantunque ormai la situazione politica fosse compromessa con la
deportazione di Pio VII il 6-7 luglio 1808, i frati seguitarono a considerarsi liberi nei loro
diritti.
Nel 1810 fu eletto guardiano del convento P. Giacomo Maria Latini da Corneto e con
lui erano il vicario P. Filippo da Castel Viscardo, P. Nicola da Valentano maestro dei
chierici, P. Giacomo Maceroni da Valentano, P. Leonardo da Pompeiana e per qualche
tempo il suo predecessore P. Francesco da Grotte di Castro ed altri non conosciuti. Ma il 15
giugno la soppressione napoleonica si abbattè sui da Boscomare mandato a Velletri e Fra
Giulio da Milano mandato a Magliano Sabina. Vi erano il fratello laico Fra Diego da
Scheggia ed i terziari Fra Angelo da Matelica, Fra Domenico da Arpino e Fra Filippo da
Tolentino. Quantunque ormai la situazione politica fosse compromessa con la
143
deportazione di Pio VII il 6-7 luglio 1808, i frati seguitarono a considerarsi liberi nei loro
diritti.
Nel 1810 fu eletto guardiano del convento P. Giacomo Maria Latini da Corneto e con
lui erano il vicario P. Filippo da Castel Viscardo, P. Nicola da Valentano maestro dei
chierici, P. Giacomo Maceroni da Valentano, P. Leonardo da Pompeiana e per qualche
tempo il suo predecessore P. Francesco da Grotte di Castro ed altri non conosciuti. Ma il 15
giugno la soppressione napoleonica si abbattè sui frati di S. Francesco disperendoli.
Il P. Giacomo M. Latini fu imprigionato nel 1811 e deportato in Corsica, dove morì a
Bastia il 16 agosto 1812 in chiara fama di santità 1) . Nella città rimase il solo P. Filippo da
Castel Viscardo, perché maestro di scuola elementare, cappellano dell’ospedale ed
economo parroco di S. Pancrazio.
Egli nel 1814 accompagnò il francescano Mons. Bonaventura Gazola, vescovo di
Carpi ed amministratore apostolico di Corneto e Montefiascone per la sua visita apostolica
al convento di S. Francesco. Era segretario di visita il P. Gaudenzio Patrignani da Coriano,
che in quello stesso anno divenne prima procuratore dell’Ordine Francescano, cioè la
prima carica dopo il Generale e successivamente Generale dello stesso Ordine e più tardi
vescovo di Ferentino.
Il convento riprese vita proprio per l’intervento dello stesso P. Generale presso il P.
Provinciale Giovancarlo da Roma, che nel 1815 vi mandò come guardiano l’ex deportato in
Corsica P. Francesco Maria La Monaca da Viterbo. Componevano la sua comunità l’ex
Provinciale P. Filippo Cecchini da Orte, P. Luigi Maria da Roma, P. Serafino da Gradoli, P.
Leonardo da Pompeiana, un prete secolare, P. Antonio da Capodimonte, i fratelli laici Fra
Tommaso da S. Vito, Fra Giuseppe da Vitorchiano, Fra Pasquale da Caprarola ed i terziari
Fra Giuseppe da Orte e Fra Domenico da S. Martino e vi era certamente anche il terziario
Fra Innocenzo che, essendo stato mandato al mare per questua, dovette dormire fuori della
porta della città, quantunque avesse suonato la campana tanto da spezzarne la corda, senza
che nessuno gli aprisse. Il P. Francesco se ne lamentò con le autorità cittadine con una
lettera. Questo significava una certa non curanza verso i frati, pur dietro molte insistenze
perché ritornassero nella città. Erano mutati i tempi. La svalutazione galoppava. I generi di
prima necessità erano aumentati oltre misura. I danni apportati dalla guardia civica al
1)
Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54 ff. 106, 115, 116, 122, 123, 130, 131, 140, 1411, 147, 156, 157, 163, 167,
168, 169, Vacchetta 1809-1829 APA; Mecocci L.S., P. Giacomo Maria Latini da Corneto Minore Osservante deportato
in Corsica e morto in odore di santità (11-11-1779 - 16-8-1812) in Bollettino dell’anno 1989 STAS 117-155; Mecocci
L.S., P. Giacomo Maria Latini da Corneto (Tarquinia) 1779-1812 in Archivum Franciscanum Historicum 84 (1991)
407-449.
144
convento erano stati ingenti ed il P. Francesco aveva dovuto impegnarsi nella ricostruzione
del convento con forti spese e pochi contributi. Nel 1816 lo sostituì come guardiano il P.
Benedetto da Caprarola ed il 10 maggio 1817 era guardiano P. Gioacchino da Caprarola,
che vi fu riconfermato il 16 febbraio 1819 dal Provinciale P. Luigi da S. Vito. essendogli
vicario e maestro dei chierici di filosofia P. Luca Antonio da Tivoli. Il P. Gioacchino restò
guardiano anche per il 1820-1821, solo che per il 1820 gli fu vicario P. Leonardo da
Pompeiana ed il P. Bernardino da Giudice era maestro dei chierici di filosofia, mentre per
il 1821 adempiva i due uffici il P. Leonardo, che vi restava pure il 1822, quando divenne
guardiano del convento il P. Corrado da Valentano 2) .
Nel 1823 diventò guardiano P. Giuseppe da Proceno e vi fu riconfermato per il 1824.
Il suo vicario e maestro dei chierici per il 1823 era P. Leonardo da Boscomare. Per la prima
volta si hanno gli attestati del convento, ma sono firmati solo dal P. Giuseppe. Per il 1824 la
comunità del convento di Tarquinia appare più ampia nella firma dell’inventario del
convento del 5 gennaio 1825. Ivi non vi compare il P. Bonaventura da Costaraineria
maestro dei chierici filosofici e vicario del convento. Vi sono invece il guardiano P.
Giuseppe da Proceno, il vicario P. Giuseppe da Valentano, i discreti cioè consiglieri P.
Gioacchino da S. Romolo lettore, P. Michele da Roma, P. Giuseppe da Collodi. Vi mancano
i fratelli laici ed i chierici studenti che non avevano diritto a firmare. Vi sono invece il
sindaco apostolico Agapito Avvolta Falgari ed il procuratore Domenico Antonio Dasti (due
secolari che aiutano i frati nell’amministrazione). Il documento è sigillato col vecchio
simbolo del convento. Vi compaiono infatti due figure: S. Francesco a sinistra di chi guarda
ed un giovani martire sulla destra, che certamente è S. Agapito, protettore della città e le
cui reliquie sono contenute in un busto d’argento nella chiesa di S. Francesco. Il P.
Giuseppe da Proceno però commise un errore imperdonabile per quel tempo e certo
indelicato anche oggi. Egli non accettò l’invito del cerimoniere della cattedrale a
partecipare alla messa ed al canto del Te Deum il 7 ottobre 1823 per l’elezione del Papa
Leone XII (Annibale della Genga). Strappò il biglietto d’invito e non vi mandò i suoi frati.
Si attirò così le ire del clero diocesano che minacciava di ricorrere alla Segreteria di Stato,
ma si rivolse al definitorio dei Minori Osservanti del convento di Aracoeli di Roma. Si
sottoscrissero l’arciprete Domenico Lastrai, i canonici Vincenzo Lastrai, Gaetano Cesarei,
Sebastiano Forcella, Michele De Domnis, il beneficiario e canonico del capitolo Angelo
(Galassi?), Angelo Scappini, D. Giacomo Boccanera ed il cappellano D. Raffaele Flamini in
2)
Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Vacchetta 1809-1829 APA; Visita pastorale di Mons. Bonaventura Gazola
30-6, 2-8-1814 AVT ff. 75-76; Lettera del P. Generale Gaudenzio Patrignani al capitano Arcangelo Lucidi 10-11-1814,
145
rappresentanza degli altri assenti. Fu incaricato Luigi De Bernardis di trattare a Roma la
sostituzione del P. Giuseppe col P. Filippo da Orte e col P. Francesco da Grotte di Castro. Il
De Bernardis però si presentò in ritardo. perché credeva che la questione dovesse trattarsi
il 2 aprile ed invece il definitorio avvenne il 2 febbraio ed il P. Giuseppe fu riconfermato
guardiano per il 1824. Il Provinciale P. Clemente da Farnese ricevette il De Bernardis il 13
febbraio, quando tutto era stato fatto e per deporre il P. Giuseppe ci sarebbe voluto un
processo canonico che avrebbe suscitato scandalo nella popolazione. E la sostituzione col
P. Francesco da Grotte di Castro non sarebbe stata possibile, perché egli era impegnato per
3 anni come confessore di un monastero ed il P. Filippo da Orte non poteva essere
obbligato perché “padre di merito” (era ex Provinciale). Allora a nome di tutti i canonici il
canonico Michele De Domnis chiedeva che il P. Giuseppe domandasse pubblica scusa al
Capitolo della cattedrale ed ai pubblici rappresentanti cioè al comune. Diventava così una
questione difficile e spinosa.
Il 27 gennaio 1825 fu eletto guardiano di S. Francesco P. Francesco da Fibialla
invece del P. Giuseppe da Proceno. Suo vicario e maestro dei chierici filosofi era P.
Leonardo da Pompeiana. Il problema era quindi risolto 3) .
Il 26 gennaio 1826 fu eletto guardiano P. Angelo Benedetto da Pietrabruna e fu
affiancato dal vicario e maestro dei chierici P. Giacomo Maceroni da Valentano. Con loro
erano P. Gioacchino da S. Remo, P. Giuseppe da Palombarda, P. Emanuele da Villanova ed
il sindaco apostolico Agapito Avvolta ed il procuratore Domenico Antonio Dasti. Il 29
gennaio 1827 venne eletto guardiano il P. Giocchino da S. Romolo o S. Remo rimanendovi
fino alla sua morte avvenuta l’11 settembre 1830. Collaborarono con lui nel 1827 il vicario e
maestro dei chierici di filosofia P. Camillo da Roma, che rimase in quest’ultimo ufficio
anche nel 1828, essendo stato sostituito come vicario dal P. Giuseppe da Palombara e nel
1829 anche in quello di maestro. Per il 1829 si ha invece una comunità intera dopo tanto
tempo. La componevano il P. Gioacchino da S. Remo guardiano e commissario del Terzo
Ordine, P. Alfonso da Grotte di Castro lettore di filosofia, P. Giuseppe da Palombara vicario
e maestro dei chierici, P. Camillo da Roma lettore di morale e confessore, i chierici Fra
Giuseppe Serafino da Apollosa, Fra Antonio da Castellaro, Fra Luigi e Fra Tommaso da
Castellazzo, i terziari Francesco da Cori, Giunipero da Domo all’Irovaglio e Pietro da
Lettere del P. Francesco Maria da Viterbo 1815-1816, Lettera del P. Benedetto da Caprarola 20-7-1816 Tit. XVII, fasc.
7, aa. 1814, 1815, 1816 ASCT.
3)
Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Attestati 6-5-1823, Inventario 5-1-1825 APA; Lettera dei canonici al
definitorio dei Minori Osservanti di Aracoeli 1824, Lettere di Luigi De Bernardis al gonfaloniere di Corneto 7-1 e 142-1824, Minuta di lettera al definitorio d’Aracoeli 30-1-1824, Minuta di lettera di Luigi De Bernardis 11-2-1824,
Lettera del Provinciale P. Clemente da Farnese 14-2-1824, Lettera del canonico Michele De Domnis 1824 Tit. XVII,
fasc. 7, a. 1824 ASCT.
146
Cantalupo. E’ una delle comunità più interessanti del convento di Tarquinia per i suoi
personaggi. Fra Giuseppe Serafino da Apollosa infatti muore a Genova il 1 ottobre 1828. P.
Antonino da Castellaro, dopo essere stato molte volte superiore dei conventi della
Provincia Romana, si recò in Terra Santa e morì a Nazaret il 15 settembre 1868. Mons.
Luigi Moccagatta da Castellazzo visse la maggior parte della sua vita missionario in Cina,
dove divenne vicario apostolico e vi morì il 6 settembre 1891. Il P. Camillo Maria da Roma
fu per più anni segretario provinciale e definitore.
Il P. Gioacchino da S. Remo fu
confermato guardiano per il 1830, ma l’11 settembre 1830 vi morì e fu sostituito il 6
dicembre dal P. Giustino da Grotte di Castro. Gli era vicario e maestro dei chierici filosofi
P. Alfonso da Grotte di Castro 4) .
Il P. Giustino da Grotte di Castro fu riconfermato guardiano per il 1831.
Collaborarono con lui il vicario e maestro dei chierici filosofi P. Alfonso Maria da Grotte di
Castro, P. Michelangelo da S. Remo, P. Bonaventura d’Olevano, P. Francesco Maria da
Viterbo.
Il 24 gennaio 1832 fu eletto guardiano P. Luigi da Roma. P. Raffaele da Caprarola
era vicario e maestro dei chierici filosofi,
occupando tali uffici anche per il 1833. Per il
1832 vi erano pure P. Francesco Maria da Viterbo, P. Bonaventura da Olevano e P.
Anselmo da Cavatore. Il 15 gennaio 1833 fu eletto guardiano P. Giuseppe da Valentano.
Oltre il P. Raffaele da Caprarola vi era il P. Francesco da Viterbo. Mentre gli attestati dei
predecessori sono sempre firmati dal sindaco apostolico, questi invece non lo sono perché
non vi è stata una buona amministrazione 5) .
Il 24 gennaio 1834 fu eletto guardiano P. Francesco da Vallerano. Il P. Francesco da
Caprarola divenne vicario e maestro dei chierici filosofi. Vi furono tra gli altri P. Raffaele
da Canistro. P. Raffaele da Caprarola, P. Giovanni da Triora, P. Romolo da S. Remo, P.
Michelangelo da Civezza e per la prima volta come discreto P. Francesco Giacchetti da
Corneto. Il 27 gennaio 1835 divenne guardiano P. Michelangelo da Civezza e suo vicario e
maestro dei chierici studenti di filosofia era P. Francesco da Caprarola. L’anno seguente
era guardiano sempre P. Michelangelo da Civezza, ma cambiava indirizzo di scuola, perché
il P. Gioacchino da Caprarola veniva scelto come vicario e maestro dei chierici di
grammatica, cioè con un grado inferiore agli studenti di filosofia, perché essi studiavano i
4)
Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Attestati 8-1-1827, 14-1-1829, Vacchetta 1809-1829; Mons. Luigi (Carlo
Antonio) Moccagatta da Castellazzo 1809-1891. Registro dei novizi di Orvieto 1828-1844 APA Ms. 73 ff. 66-66 v;
Necrologio S. Bernardino di Orte ASBO (erroneamente + 1-9-1891); Angeletti C., Necrologio della Provincia Romana
dei SS. Apostoli Pietro e Paolo (Roma 1969) 591: Acta Ordinis Fratrum Minorum 1 (1882) 24, 6 (1887) 27, 9 (1890)
52, 10 (1891) 152, 199-200, 11 (1892) 29, 50 (1931) 397.
5)
Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Attestati ed inventario 31-1-1831, Attestati 7-1-1832, 6-1-1833, 14-1-1834
APA.
147
primi rudimenti della lingua.
Tra i sacerdoti presenti nella comunità come discreti vi
erano P. Liberato da Tessennano, P. Raffaele da Canistro, P. Bartolomeo Sisti e P. Giovanni
da Triora.
Il 21 gennaio 1837 fu eletto guardiano del convento il P. Bernardino da Caprarola
che occupò tale incarico pure per il 1838. Egli in seguito sarebbe stato due volte Provinciale
della Provincia Romana e Custode di Terra Santa. Nel 1837 in convento rimasero gli
studenti di grammatica, perché il P. Onorato da Gradoli era vicario e loro maestro. Vi
erano anche P. Liberato da Tessennano, P. Francesco da Rocchetta, P. Raffaele da
Canistro, P. Vincenzo da Cumazia, P. Giovanni da Triora. Nel 1838 invece ritornarono nel
convento gli studenti di filosofia ed il P. Onorato da Gradoli era vicario e loro maestro. Con
loro erano P. Luigi da S. Remo, P. Raffaele da Canistro, P. Paolino da Lucca, e P. Francesco
da Rocchetta. Vi erano stati quindi dei lievi mutamenti.
Il 16 aprile 1839 il P. Liberato da Tessennano fu eletto guardiano del convento e P.
Luigi da Poggio era vicario e maestro dei chierici studenti di filosofia, che occupò tale
ufficio anche per il 1840. Il 7 maggio dello stesso 1840 fu eletto guardiano P. Onorato da
Gradoli e vi rimase fino al 17 febbraio 1843, quando egli rinunziò a questo ufficio e gli
successe il 19 il P. Francesco da Corneto, già guardiano di Canino. Per il 1840 vi erano oltre
P. Onorato e Luigi da Poggio, P. Francesco da Caprarola, P. Francesco da Rocchetta, P.
Lorenzo da Velletri, P. Paolino da Lucca, P. Raffaele da Canistro e P. Michele da Lerida,
cioè un spagnolo certamente ospite per le restrizioni nella sua patria. Sono diversi in
questo periodo gli Spagnoli ospiti nello Stato Pontificio, alcuni dei quali di una robusta vita
spirituale, come il P. Pietro Lopez. Nel 1841 il vicario e maestro dei chierici di filosofia era
P. Francesco Giacchetti da Corneto. Vi erano però gli altri padri del discretorio P. Paolino
da Lucca, P. Mariano da Velletri, P. Prospero della Spezia. Nel 1842 il vicario del convento
doveva essere il P. Tommaso da Cori, ma non firma l’inventario di tale anno. Vi sono
invece P. Alfonso da Grotte di Castro maestro dei chierici di filosofia, P. Fortunato da
Lucca, P. Giuseppe Maria da Pigna, P. Francesco da Caprarola, P. Mariano da Velletri, P.
Paolino da Lucca. P. Mariano da Velletri sarà più tardi guardiano del convento infine
Provinciale della Provincia Romana nel periodo dell’occupazione dello Stato Pontificio da
parte dello Stato Italiano 6) .
6)
Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Attestati 10-1-1835, 11-1-1837, 11-3-1838, 31-3-1839- 31-3-1841, 1-3-1842,
Inventari 11-3-1838, 31-3-1841, 1843 APA; P. Bernardino (Paolo Toparini) da Caprarola 1808-1833 fu Provinciale
1846-1849, 1859-1861, Custode di Terra Santa 1856-1857 e buon predicatore. P. Mariano Greco da Velletri fu
Provinciale dal 1868 al 1873, scrivendo molte lettere al guardiano di S. Francesco di Tarquinia P. Angelo (Luigi
Zaccaria) da Subiaco che meriterebbero un approfondito esame per tale periodo. Egli morì a Velletri il 5-4-1883.
148
Nel 1843 venne eletto presidente del convento il P. Francesco da Corneto, perché
eletto fuori capitolo. Maestro dei chierici di filosofia fu eletto P. Giuseppe da Tivoli, che
tuttavia non firmò gli attestati del 1843, segno questo che egli non vi era presente. Vi erano
invece il vicario del convento P. Paolino da Lucca, P. Alfonso Maria da Caprarola, P.
Francesco da Caprarola, P. Mariano da Velletri e P. Fortunato da Lucca. Il 30 gennaio 1844
il P. Francesco Giacchetti da Corneto fu riconfermato guardiano del convento, ma il 23
febbraio rinunziò, perché non voleva riconoscere come suo vicario il P. Celestino da Roma
che era anche maestro dei chierici di filosofia. La questione fu portata in definitorio ed il P.
Giuseppe da Roma definitore disse: “Comanda più esso ( P. Francesco da Corneto) che i
PP. Provinciale del Rev.mo Definitorio”. La sua rinunzia fu accettata e fu sostituito col
presidente P. Mariano da Velletri, che vi restò col P. Celestino da Roma, P. Luigi da
Olevano, P. Fortunato da Lucca, P. Fortunato da Boscomare, e P. Giovanni da Triora. Il 17
gennaio 1845 guardiano del convento P. Mariano da S. Remo o S. Romolo e vi fu
riconfermato per il 1846. Fu vicario del convento e maestro dei chierici di filosofia il P.
Celestino da Roma. Nel 1845 i discreti del convento erano P. Mariano da Velletri, P.
Fortunato da Lucca, P. Luigi d’Albenga, P. Luigi da Pozzo e prosindaco apostolico era
Francesco Angelo Marzoli. Nel 1846 vi era lo stesso prosindaco apostolico, senza il P.
Celestino da Roma, ma con altri nuovi P. Alessio da Cerreto, P. Secondiano da Corneto, P.
Mariano da Velletri, P. Michele Molleras (lo spagnolo P. Michele da Lerida già ricordato) e
P. Fortunato da Lucca. Vi si notano diversi mutamenti di personale tra i sacerdoti. Il P.
Mariano da S. Remo fece presentare da Giuseppe Latini, fratello di P. Giacomo Maria, la
richiesta di confermare di avere un sepolcro nella chiesa di S. Francesco che il definitorio
gli concesse il 9 ottobre 1838 ed ottenne la risposta affermativa il 10 febbraio 1846 7) .
Il 27 gennaio 1847 fu eletto guardiano del convento P. Raffaele da S. Romolo, ma
rinunziò ed al suo posto il 4 febbraio fu eletto P. Francesco da Corneto. Il P. Fortunato da
Lucca era vicario e P. Secondiano da Corneto era maestro dei chierici studenti di filosofia.
Vi erano però con loro il P. Michelangelo Detroli, P. Crescenzo da Acquetico, P. Gioacchino
da Poggio, P. Fortunato da Lucca, P. Michele da Lerida ed il prosindaco apostolico
Francesco Angelo Marzoli. Il P. Francesco da Corneto rimase guardiano fino al 24 gennaio
1855. Fu un guardianato lungo ed in un periodo particolarmente interessante, perché nel
1848 vi fu la Repubblica Romana con tutte le conseguenze che portò nello Stato Pontificio
nella sua breve durata. Nel 1848 nel convento oltre il P. Francesco da Corneto vi erano P.
7)
Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Atti definitoriari 1830-1862 Ms. 57 ff. 27, 44, 49, Attestati 15-1-1844, 6-11845, 1-1-1846, 16-1-1847 APA; Stati d’anime della parrocchia di S. Leonardo: 1844 12 frati in S. Francesco, 1845 12
frati 4-4-1846 - 12 frati, 27-3-1847 17 frati ASGT.
149
Secondiano da Corneto, P. Crescenzo da Acquetico, P. Guglielmo da Montalto, P. Giovanni
Battista da Toscanella (Tuscania). Di questo stesso anno si ha una statistica della
parrocchia di S. Leonardo veramente interessante, perché fornisce alcuni dati anagrafici
dei frati che non si trovano altrove e gli impegni di ognuno di essi nel convento. Questo
credo che sia in relazione alla Repubblica Romana che richiedeva tali note su i frati. E’
indicata come “Statistica del 1849”, ma non corrisponde completamente perché negli
attestati del 1 gennaio 1849 al 31 agosto vi sono solo il P. Francesco da Corneto guardiano,
P. Giovanni Battista da Toscanella, P. Crescenzo da Acquetico e P. Secondiano da Corneto.
Invece in tale statistica vi sono: “P. Francesco Giacchetti da Corneto di anni 36
(guardiano), P. Fortunato Giampaoli da Lucca vicario di anni 38, P. Guglielmo Bianchi da
Montalto di anni 28, P. Giovanni Battista Fioroni da Toscanella di anni 30, P. Crescenzo
Molinari da Acquetico di 29 anni, Fra Giuseppe Papone da Boscomare chierico professo di
24 anni, Fra Valentino Bianchi da Badalucco chierico professo di 19 anni, Fra Luigi Leoni
da Farnese chierico professo di 23 anni, Fra Egidio Orengo da Castelfranco chierico
professo di 19 anni, Fra Luca Perna da Crasciana chierico diacono di 26 anni, Fra Basilio
Ceccarelli da Ciciliano laico professo di 33 anni, Fra Giuseppe Mattei da Civitellaloreto
laico professo di 30 anni, Fra Gaetano Nicolai da Montefiascone terziario di 42 anni, Fra
Luigi Gianneschi da Brandelio terziario di 27 anni, P. Secondiano da Corneto di 34 anni”. Il
P. Valentino Bianchi da Badaluccio diventerà definitore e confessore delle monache di SS.
Cosma e Damiano a Roma, morendo in questi uffici il 16 giugno 1898. Il 21 settembre 1849
fu eletto vicario del convento e maestro dei chierici di filosofia P. Valeriano da
Castrocetriolo ed egli nel 1851 aveva solo il titolo di vicario. Questo significava che nel
convento non vi erano più i giovani studenti, ma era di nuovo diventato come tanti altri.
Negli attestati dal 1 settembre 1849 - 10 gennaio 1851 firmarono il guardiano P. Francesco
da Corneto, P. Fortunato da Lucca, P. Valeriano da Castrocetriolo, P. Alessandro da
Ciciliano e P. Secondiano da Corneto. In quelli dell’11 gennaio 1851 - 15 gennaio 1852 vi era
escluso il P. Alessandro da Ciciliano ed aggiunto solo il P. Francesco da Veroli che era
vicario, ed occupò questo ufficio nel 1853. Il 15 luglio 1852 il P. Francesco Giacchetti si era
dovuto rivolgere al definitorio provinciale per il comportamento minatorio nei suoi
confronti del P. Leonardo da Boscomare. La vecchiaia facilmente gli giocava un brutto
scherzo. Al ricorso del P. guardiano venne ad accertarsi il P. Bernardino da Ferentino ed il
17 agosto si discusse il caso in definitorio, mettendo delle restrizioni al P. Leonardo e per la
pena rimesso alla clemenza del P. Generale il 20 agosto. Il P. Leonardo morì l’anno
successivo nella casa paterna il 7 dicembre. Nel 1823, come si è visto, egli era stato vicario
del convento e maestro dei chierici studenti di filosofia, purché non si tratti di un
150
omonimo. Nel 1852 nel convento vi erano anche P. Lodovico Chiappera, P. Alessandro da
Acquetico, P. Angelo Maria da Caprarola ed il pro sindaco Francesco Angelo Marzoli
vigilava sulla loro amministrazione. Nel 1853 invece vi erano col P. Francesco da Corneto e
P. Francesco da Veroli P. Lodovico Chiappera, P. Angelo Maria da Caprarola, P. Antonio
Lauro da Perinaldo e P. Luigi da Roma. Proprio di questo periodo e non oltre il 24 gennaio
1854 è un’altro stato d’anime della parrocchia di S. Leonardo perché il P. Francesco da
Corneto vi è indicato con la nota “fu Luigi” ed il padre era morto il 14 febbraio 1853 e non
vi è il P. Samuele da Farnese che è nel convento dopo il 24 gennaio 1854. Vi erano: P.
Francesco Giacchetti (fu Luigi) di anni 40 guardiano di Corneto, P. Francesco Pinciveri di
Giuseppe di 28 vicario di Veroli, P. Luigi Lori fu Andrea di 52 da Roma, P. Antonio Lauro
di Giovanni Battista di 42 da Perinaldo, P. Lodovico Chiappera di Pietro di 39 da Sillico, P.
Angelo Pulcinelli fu Luigi di 34 da Caprarola, Fra Bernardo Barba fu Giovanni Battista di
41 laico da Carpineto, Fra Teofilo Rutini fu Nicola di 41 laico da Concigliano, Fra
Cherubino Trenta di Sante laico da Civitella di Subiaco, Fra Giuseppe Lavioso di Giuseppe
terziario di 28 da Castellazzo, Fra Luigi Fabriani di Giuseppe terziario da Palombara,
Pietro Rigoni di Angelo di 28 garzone del convento di Pieve Carrena”. Chiaramente vi sono
tutti i frati del convento senza nessun gruppo di giovani studenti e per la prima volta vi
compare un borghese come garzone. Questo non toglie che vi potevano essere anche
prima, perché non vi sono state occasioni così chiare nelle precedenti enumerazioni dei
frati, in quanto quasi sempre si è trattato dei maggiori responsabili della comunità
conventuale, cioè del discretorio o consiglio di essa. Nel 1854 il vicario del convento era P.
Samuele da Farnese che collaborava col P. Francesco Antonio da Farnese, P. Luigi da
Roma, P. Fedele da Castellazzo; ma nello stato d’anime della parrocchia di S. Leonardo vi
sono indicati solo il P. Francesco Giacchetti da Corneto guardiano ed il P. Samuele da
Farnese, lasciando altri 11 spazi vuoti per gli altri frati. Questo indicava che la comunità era
veramente numerosa anche senza i giovani studenti. Così saranno state le altre comunità
del convento pervenuteci solo parzialmente. Negli attestati del 1853 vi è aggiunto il nome
del prosindaco apostolico Francesco Angelo Marzoli, mentre in quelli del 1854 non vi è 8) .
Il 24 gennaio 1855 fu rieletto guardiano del convento P. Liberato da Tessennano e
suo vicario era P. Secondiano da Corneto, ma gli attestati di quest’anno furono firmati solo
dal P. Liberato e dal P. Luigi da Roma e dal prosindaco apostolico Francesco Angelo
8)
Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Atti definitoriali 1830-1862 Ms. 57 ff. 53, 98, 100, 101, Attestati 10-1 e 3112-1848, 31-8-1849, 10-1-1851, 15-1-1852, 16-1-1853, Dicembre 1853, 21-12-1854 APA; Stati d’anime della
parrocchia di S. Leonardo: 16-4-1848 17 frati, 30-3-1849 18 frati, 23-3-1850 18 frati, 12-4-1851 15 frati, 1-4 1852 15
frati, 19-3-1853 12 frati, 1854 P. Francesco Giacchetti da Corneto di 41 anni guardiano e P. Samuele da Farnese più 11
spazi vuoti ASGT; Statistica 1849, Statistica 1854 Tit. XV, fasc. 5 ASCT.
151
Marzoli ed il P. Liberato rinunziò al suo ufficio con la firma degli attestati il 31dicembre
1855. Nel 1856-1858 divenne guardiano P. Fulgenzio da Sugano. Nel 1856 erano con lui P.
Francesco da Caprarola, P. Fedele da Castelferro, P. Cesario da Orvieto. Nel 1857 vi erano
P. Cesario da Orvieto, P. Girolamo da Farnese, P. Isidoro Maria da Farnese vicario. Nel
1858 vi si aggiungeva il P. Fortunato da Lucca e non vi era più il P. Isidoro Maria da
Farnese. Vi era sempre il prosindaco apostolico Francesco Angelo Marzoli.
Nel 1859 il guardiano del convento era P. Michelangelo da Caprarola. Con lui fino
all’8 gennaio 1860 firmarono gli attestati P. Francesco Antonio da Farnese, P. Bonaventura
Cuzzori da Caprarola, P. Liberato da Tessennano ed il prosindaco apostolico Francesco
Angelo Marzoli. Il 30 aprile 1860 il Provinciale P. Bernardino da Caprarola ed il definitorio
provinciale decisero di aprire un nuovo convento di studio di grammatica ed umanità nel
convento di Corneto, inviandovi come lettore il P. Antonio da Ferentino. Simile studio
restava anche a Veroli. I conventi erano pieni di studenti e 10 novizi dovevano recarsi a
Corneto, dopo la chiusura dell’anno di noviziato nel mese di maggio. Che questo sia
avvenuto è certo perché il 12 dicembre 1860 in definitorio “per vista che i Conventi di
Tivoli, Orvieto, Corneto e Caprarola erano gravati di Chierici più del consueto, decisero che
il nostro lanificio per questa volta pagasse al Convento di Tivoli scudi cento, a quello di
Orvieto cinquanta, a quello di Corneto cinquanta e così a quello di Caprarola”. Il P.
Antonio da Ferentino però non firmò gli attestati del 1860,
mentre li firmarono il
guardiano P. Michelangelo da Caprarola, P. Liberato da Tessennano, P. Angelo da Subiaco,
P. Francesco di Palma e P. Bonaventura Cuzzori da Caprarola. Il P. Angelo (Luigi Zaccaria)
da Subiaco si trovava per la prima volta nel convento di S. Francesco, ma vi sarà in
particolare come guardiano durante l’occupazione di Roma nel 1870 e subito dopo 9) .
Dal 1861 al 1870 fu guardiano del convento il P. Anacleto Civitani da Velletri. Era il
primo ad avere un guardianato così lungo dopo il P. Francesco da Corneto. Nel 1862-1863
erano con lui P. Angelo da Subiaco, P. Francesco Antonio da Farnese, P. Onorato da
Gradoli e P. Liberato da Tessennano. Nel 1865 vi erano P. Francesco Antonio Danti da
Farnese, P. Casimiro Mola da Orsogna, P. Liberato da Tessennano, P. Domenico
Temporini da Castellazzo. Il P. Provinciale Francesco da Lucca compì la visita canonica al
convento il 26 maggio. Nel 1866 firmarono gli attestati col P. guardiano Anacleto da
Velletri i Padri Giacomo da Castelmadama, Francesco Antonio da Farnese, Domenico da
Castellazzo, Casimiro Mola da Orsogna e Francesco da Corneto. Non vi era più tra i discreti
9)
Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Atti definitoriali 1830-1862 Ms. 58 ff. 160, 161, Attestati 31-12-1855, 1856,
1857, 1858, 8-1-1860, 8-1-1861 APA; Stati d’anime della parrocchia di S. Leonardo 31-3-1855, 12 frati, 1856 10 frati,
4-4-1857 10 frati, 27-4-1858 10 frati, 16-4-1859 9 frati, 31-3-1860 9 frati ASGT.
152
il P. Liberato da Tessennano che rimase ancora per qualche tempo nel convento, ma vi
erano nuovi il P. Giacomo Ghezzi da Castelmadama futuro Custode di Terra Santa,
Vescovo di Orte, Civitavecchia e Gallese, e P. Francesco Giacchetti da Corneto che si
fermerà nel convento sino alla morte 5 maggio 1895. L’8 luglio 1866 giunse visitatore o
commissario provinciale, come si diceva allora, P. Giuseppe da Caprarola ed era
accompagnato dal P. Francesco da Rom Nel 1867 vi erano gli stessi componenti. Il 14
febbraio 1868 il P. Generale Raffaele da Pontecchio col suo definitorio volle erigere una
cattedra sessennale di teologia a S. Francesco di Corneto e vi designò come lettori o
professori il P. Casimiro da Orsogna della Provincia Osservante di S. Bernardino e P.
Giacomo da Castelmadama, mandando loro la nomina con una lettera del 21 febbraio. Era
certo una cosa molto importante per il convento di Tarquinia. Firmarono però gli attestati
di questo anno il guardiano P. Anacleto da Velletri, P. Luigi da Farnese, P. Domenico da
Castellazzo, P. Francesco da Corneto, P. Casimiro da Orsogna. Vi mancavano il P. Giacomo
da Castelmadama e P. Odorico da Casalebordino che forse non appartenevano al
discretorio. Nel 1869 firmarono gli attestati col guardiano P. Anacleto da Velletri i Padri
Luigi da Farnese, Domenico da Castellazzo, Giacinto da Casabasciana, Francesco da
Corneto, Valentino da Valentano, Casimiro Mola da Orsogna, il prosindaco apostolico
Francesco Angelo Marzoli. Erano presenti o frequentavano il convento anche P. Giacomo
da Castelmadama, P. Luigi da Lucca, P. Mosè da Colle Compito e P. Vincenzo da Fratta.
Era l’ultimo anno dello studio sessennale di teologia nel convento. Nell’anno seguente non
vi era più P. Giacomo da Castelmadama e P. Casimiro Mola vi rimase solo per breve tempo,
poi insegnò a Roma nel collegio di S. Antonio in Via Merulana. Egli successivamente fu
accolto nella Provincia di Toscana. Era molto caustico nei suoi giudizi dei teologi o filosofi
che avevano la sfortuna di frequentarlo, per cui non lo accettavano volentieri. Queste
incomprensioni lo isolarono dalla cultura in voga e ne soffrì molto. Morì in Fucecchio
(Firenze) il 28 maggio 1918 con grande esempio di povertà francescana.
Le molte presenze di frati in questo anno nel convento si possono spiegare con la
presenza dello studio teologico e con il clima politico turbato in altre parti d’Italia con le
restrizioni verso gli Ordini Religiosi.
Il 5 maggio il Provinciale Mariano Greco da Velletri passò in visita canonica. Questo
era segno di eventuali mutamenti di personale 10) .
10)
Attestati 8-1-1862, 8-1-1863, 5-1-1867, 31-12-1868, 31-12-1869, Atti definitoriali 1862-1905 APA Ms. 58 f. 27:
Registro di messe per i religiosi defunti 1865-1893 (sacerdoti celebrati) ASFT; P. Casimiro Mola da Orsogna Acta
Ordinis Fratrum Minorum 37 (1918) 175-176, Necrologium omnium almae Provinciae Thusciae a S. Francisco
Stygmatizato religiosorum Adm Rev. P. Francisci a Vinacciano eiusdem Provinciae Ministri Provincialis jussu editum
et a R.P. Joanne Maria Montano a Florentia Provinciae chronologum dispositum Floreniae ex Typographia Rinaldi.
153
Nel 1870-1874 fu guardiano del convento P. Angelo Zaccaria da Subiaco. Fu un
periodo difficile e delicato, perché di transizione tra lo Stato Pontificio e quello italiano.
Con le stesse autorità locali cambiava il rapporto, che prima fu abbastanza conciliativo, poi
duro ed ostile.
Il P. Angelo cercò di difendere i diritti dei frati nei limiti del possibile, ma cercò
anche di essere malleabile e comprensivo in alcuni problemi pratici col comune. Le
difficoltà tuttavia non gli mancarono ed il Provinciale P. Mariano Greco gli scrisse molte
lettere per i suoi problemi col personale e specialmente per i giovani studenti di filosofia.
Queste lettere meriterebbero uno studio particolare.
Per i motivi già accennati, gli attestati del 1870-1871 furono ritardati. Li firmarono il
guardiano P. Angelo da Subiaco, il vicario P. Bonaventura da Castelmadama, P. Francesco
da Corneto, P. Leonardo da Gallinaro, P. Domenico da Castellazzo ed il prosindaco
apostolico Francesco Angelo Marzoli che lo faceva per l’ultima volta.
Il 13 settembre 1870 il generale Nino Bixio con una divisione di 12.000 uomini,
proveniente dal fronte Orvieto-Tuscania-Montefiascone e l’ammiraglio Del Carretto con
una flotta occuparono la città.
Con tutto ciò nel 1870 furono molti i frati presenti nel convento. Vi furono: il
vecchio guardiano P. Anacleto da Velletri, P. Casimiro Mola da Orsogna, P. Valentino Cola
da Valentano, P. Giacinto da Lucca, P. Francesco Giacchetti da Corneto, P. Domenico
Temporini da Castellazzo, P. Luigi Leoni da Farnese, P. Bonaventura Lolli da
Castelmadama, P. Leonardo Farina da Selva Gallinara, P. Raimondo Paglialunga da
Onano, P. Ubaldo Ruggeri da Castelmadama, P. Ludovico da Roma, P. Bernardino
Grisanto. Il convento di S. Francesco doveva essere ancora una delle poche oasi dei frati
scacciati dagli altri conventi per motivi politici. Anche qui però cominciarono presto a
sorgere difficoltà d’investigazione fiscale e personale risolte in un primo momento con
l’aiuto del prosindaco apostolico Francesco Angelo Marzoli. Il 28 novembre 1871
l’assessore Secondiano Cesarini richiedeva al P. guardiano l’elenco dei religiosi del
convento ed il P. Angelo glielo forniva il giorno seguente. E’ così possibile conoscere tutti i
nomi dei singoli frati ed i loro uffici occupati nella comunità. Vi erano: P. Angelo da
Subiaco guardiano, P. Bonaventura da Castelmadama vicario, P. Domenico da Castellazzo
corista, P. Francesco da Corneto maestro dei chierici, P. Leonardo da Gallinaro lettore di
filosofia, P. Raimondo da Onano, P. Ivo da S. Donato, P. Maurizio da Subiaco, Fra Ruggero
A.D. 1949 p. 162; Cecchi V. Storia del Ritiro Francescano della Vergine presso Fucecchio (Firenze 1937) 265-267;
Mons. Giacomo Alessandro Ghezzi 1842-1920 Acta Ordinis Fratrum Minorum 39 (1920) 131-132, Angeletti C.,
154
da Ciciliano chierico studente di filosofia, Fra Giuseppe da Palombara chierico studente di
filosofia, Fra Giuseppe da Monterola (Marche), Fra Gaetano da Ariccia (Abruzzo), Fra
Francesco da Piglio, Fra Francesco da Bagnoli. Vi era ospite per motivi di predicazione P.
Ubaldo da Castelmadama. Nel 1872 P. Maurizio da Subiaco diveniva discreto al posto di P.
Leonardo da Gallinaro. Vi si aggiungeva il P. Luca Baldi.
Il 4 luglio 1873 il definitorio provinciale discusse la richiesta del comune di
impiantare nel convento un liceo in cui potevano insegnare due religiosi uno per la
matematica e l’altro per la retorica. Questo fu respinto dal definitorio perché non
confacente agli usi di allora. Il P. Angelo si mostrò comprensivo per la richiesta di ampliare
la strada della Via dei Magazzini per farci entrare con più comodità i carretti col grano. Fu
concesso di abbattere un tratto della clausura che fu ricostruita, dopo avere ottenuto i
dovuti permessi della Santa Sede e del Regno d’Italia. I frati quindi persero una leggera
striscia di terreno, ma tra non molto avrebbero dovuto cedere tutto.
Il P. Angelo però dovette intervenire nella chiesa di S. Francesco per le
intemperanze di un trombetto del comune durante un funerale. Egli quindi fu citato in
tribunale e, dati i tempi che correvano, fu condannato a 5 giorni di carcere a Civitavecchia.
Questo scioccò il P. Angelo ed il Provinciale P. Mariano da Velletri gli inviò una lettera
veramente fraterna. Però anche costui era al termine del suo mandato, perché fu sostituito
dal definitorio generale il 5 maggio 1873 col P. Giuseppe da Caprarola. Il P. Angelo fu
sostituito agli inizi del 1874 11) .
Nel 1874 successe al P. Angelo il presidente P. Leonardo Farina da Gallinaro che vi
restò fino al 1876. I suoi collaboratori in questi anni furono il vicario P. Francesco da
Corneto, P. Francesco Antonio da Farnese, P. Maurizio da Subiaco, P. Domenico da
Castellazzo, e P. Raimondo da Onano che firmarono gli attestati del 1874, 1875 e 1876. Nel
1874 vi fu in convento anche P. Tommaso da Tuscania. Il 6 luglio 1875 l’ingegnere
Muratori, agente del demanio, li cacciò dal convento per l’applicazione della legge di
soppressione. Essi si rifugiarono nella casa del canonico Lorenzo Ramaccini, che concesse
loro in affitto il primo e secondo piano di essa, situata in via Tarquinia 12. Essi vi restarono
fino al 1889 e vi morirono Fra Giuseppe Zanchini da Monterolo il 9 luglio 1877 e P.
Necrologio della Provincia Romana dei SS. Apostoli Pietro e Paolo (Roma 1969) 83, Liberati V.G., Presenza del
passato - Testimonianze di vita e di fede (Castel Madama 1992) 2-29.
11)
Atti definitoriali 1862-1905 Ms. 58 ff. 39-40, Atti della Provincia 1856-1909, Attestati 1870-1871, 1872, Elenco dei
religiosi del P. Angelo da Subiaco 29-11-1871 APA; Registro di messe per i religiosi defunti 1865-1893 (Sacerdoti
celebranti), Petizione del P. Angelo da Subiaco al Papa, Risposta della Congregazione dei Vescovi e Religiosi 22-61872, Decreto del vescovo di Corneto Mons. Francesco Gandolfi 26-6-1872, Perizia dell’architetto Francesco Dasti 126-1872, Attestato del pretore R. Battaglia 23-7-1872, Decreto del procuratore generale Ghiglieri 5-8-1872, ASFT; Dasti
L., Notizie storiche archeologiche di Tarquinia e Corneto (Corneto Tarquinia 1910) 395.
155
Domenico Temporini da Castellazzo il 15-1-1886. Per il fratello laico Fra Giuseppe fu
riusata la lapide mortuaria del cardinale Giovanni Vitelleschi.
Nel 1876 il P. Leonardo si ammalò e dovette recarsi a Pisa per motivi di salute ed il
P. Francesco Giacchetti da Corneto, che era vicario, dovette succedergli nell’officio di
rettore della chiesa, che tenne fino alla sua morte il 2 maggio 1895. Nel convento vi era solo
il rettore della chiesa ed un fratello laico. In tutto erano però 6 sacerdoti e 3 fratelli laici che
vestivano da frati e vivevano del loro lavoro, e delle offerte dei fedeli. Il canonico D.
Lorenzo Ramaccini accettò l’incarico di procuratore cioè di amministratore dei pochi beni
dei frati o risparmi per vivere, consistenti in 4.000 lire depositate dal P. Francesco da
Corneto il 1 gennaio 1878, 650 lire il 3 febbraio 1880, 200 lire il 20 gennaio 1882, ma
ritirare dallo stesso padre 1.000 lire nel 1882. D. Lorenzo firmò quindi tutti gli attestati
annuali del convento col P. Francesco ed i discreti fino al 31 gennaio 1887.
In questi anni difficili per i frati del convento di S. Francesco la comunità rimase
quasi costante. Così dal 1877 al 1879 vi erano il guardiano o presidente P. Francesco
Giacchetti da Corneto, P. Domenico Temporini da Castellazzo, P. Francesco Antonio Danti
da Farnese, P. Raimondo Paglialunga da Onano, aggiungendosi come vecchio superiore P.
Leonardo Farina da Gallinaro ed il laico Fra Giuseppe da Monterolo, morto il 9 luglio 1877,
come si è già detto, ma che indicava che vi erano anche i fratelli laici. Tra i discreti del 1879
e la prima parte del 1880 vi era anche il P. Cosma Neri da Cori e P. Alipio Capelloni. Dal
1880 non era più tra loro il P. Maurizio Scattone da Subiaco. Nel 1880 vi era il P. Luigi
Cesare, nel 1882 P. Costantino Spinelli, nel 1883 P. Luigi Leoni da Farnese, nel 1884 P.
Ludovico Garibaldi da Cipressa e P. Cosma Neri da Cori che erano ospiti occasionali. Il 15
novembre 1883 passò il commissario provinciale P. Fortunato Lupori per visita canonica e
vi trovò una vita regolare nella comunità in un periodo di sfascio come era allora. Molti
erano i conventi soppressi totalmente chiusi. Il 10 novembre 1884 vi passò il P. Provinciale
Alessandro da Grotte di Castro. Nel 1885 col guardiano P. Francesco da Corneto vi erano
i discreti P. Francesco Antonio Danti da Farnese, P. Ruggero Emiliani da Ciciliano, e P.
Ugolino Pomelli da Subiaco. Per qualche tempo vi erano anche i Padri Domenico
Temporini da Castellazzo e P. Raimondo da Onano, ma poi se ne andarono via. Il 15
ottobre andò in visita ancora il Provinciale P. Alessandro da Grotte di Castro. Non si nota
più con i padri discreti del convento il P. Domenico Temporini da Castellazzo forse
debilitato, che muore in casa Ramaccini a 76 anni il 15 gennaio 1866. Il 24 maggio 1866 il
definitorio provinciale decise di inviare a Corneto il P. Carlo Felice da Tessennano e
proprio esso si sottoscrisse negli attestati di tale anno col guardiano P. Francesco
Giacchetti da Corneto, P. Luigi Leoni da Farnese, P. Alfonso Maria da Caprarola,
156
rimanendovi per qualche tempo il P. Ugolino Pomelli da Subiaco, mentre il P. Ruggero era
già andato via 12)
Il 22 giugno 1887 il definitorio discusse sulla necessità di trasferire lo studio del
collegio di Civitavecchia in altro luogo, perché non vi si poteva più mantenerlo e tra le
ipotesi di trasloco vi fu pure Corneto, ma non fu realizzato. Il 14 luglio passò in visita il P.
Provinciale Bernardino da Ferentino e forse si rese conto dell’inopportunità di realizzare
questo disegno a Corneto.
In questo anno vi erano discreti P. Luigi da Farnese, P. Carlo Felice da Tessennano,
P. Mariano da Viterbo, P. Clemente da Capranica, oltre il guardiano P. Francesco da
Corneto. Tra i frati occasionali di tale anno vi furono P. Carlo De Castris da Ferentino e P.
Cosma Neri da Cori. Il 3 aprile 1888 firmavano gli attestati col guardiano P. Francesco da
Corneto, P. Luigi da Farnese, P. Carlo Felice da Tessennano. Poco dopo vi dovettero essere
dei mutamenti, perché gli attestati dell’8 aprile 1889 furono firmati solo dal guardiano P.
Francesco da Corneto, P. Luigi da Farnese e P. Giuseppe da Cave. Infatti per qualche
tempo vi restò il P. Carlo Felice da Tessennano e se ne andò. Tra i frati occasionali vi
furono il P. Cosma Neri da Cori e P. Giacomo Puccica da Capranica. Il 17 settembre 1888
giunse il delegato visitatore P. Evangelista da Piana. Il 9 aprile 1888 il P. Pietro Basili da
Rocca di Papa sostituiva come definitore provinciale P. Giacomo Ghezzi da Castelmadama,
che era stato eletto Custode di Terra Santa. Nel 1889 i frati del convento dovettero subite
ulteriori restrizioni, perché furono costretti da Gustavo Scotti, nuovo proprietario del
palazzo Ramaccini, a pagare l’affitto dal febbraio. I Frati se ne tornarono in convento.
Firmarono perciò gli attestati del 4 giugno 1890 solo il P. Francesco da Corneto e P. Luigi
da Farnese, anche se erano stati con loro il P. Giuseppe da Cave P. Francesco da Farnese ed
occasionalmente il P. Valentino da Badalucco.
Il 19 giugno 1890 vi giungeva il visitatore generale P. Andrea Lupori. Il 22 novembre
compiva la sua visita il Provinciale P. Benedetto Marcelli da Tivoli. Il convento ebbe un
nuovo guardiano: P. Maurizio Scattone da Subiaco ed il P. Francesco Giacchetti da Corneto
restò rettore della chiesa e procuratore. Con loro era discreto P. Francesco Antonio Danti
da Farnese, anche se in questo anno vi furono per qualche tempo P. Luigi da Farnese e P.
Giuseppe da Cave.
12)
Atti definitoriali 1862-1905 Ms. 58 ff. 53, 68, 70, 95, Atti della Provincia 1856-1909, Attestati 10-5-1874, ed altri
mesi, 1875, 1876, 14-1-1878, 23-1-1879, 3-2-1880, 17-1-1881, 23-1-1882, 22-1-1883, 28-1-1884, 20-1-1885, 28-11886, 31-1-1887, 1887, 3-4-1888, APA; Registro di messe per i religiosi defonti (sacerdoti celebranti) 1865-1893,
Legati eretti nella chiesa di S. Francesco 1883-1935, Deposito del P. Francesco da Corneto presso D. Lorenzo
Ramaccini 1-1-1878, Dichiarazione del P. Antonio (Agostino Nicolini) da Marino 22-9-1888, Atto di intimazione e
diffida di Gustavo Scotti 3-3-1889 ASFT; Lettera del sindaco Luigi Dasti 26-12-1876 Tit. XVII, fasc. 14, a 1876
ASCT; De Cesaris C., Considerazioni su una lapide tombale in Bollettino dell’anno 1982 STAS 13-14, 18 nota 1.
157
Il P. Maurizio da Subiaco rimase guardiano del convento fino al maggio 1893
quando egli fu eletto Provinciale dal definitorio generale ed in suo luogo gli successe il 1
maggio P. Raimondo Paglialunga da Onano. Con lui nel 1890 erano P. Francesco
Giacchetti da Corneto, P. Giuseppe da Cave, P. Francesco Antonio Danti da Farnese, P.
Luigi da Farnese. Nel 1891 vi erano solo il guardiano P. Maurizio da Subiaco, P. Francesco
Giacchetti da Corneto e P. Francesco Danti da Farnese. L’11 novembre passò in visita il P.
Provinciale Benedetto da Tivoli. L’anno seguente qualche cosa cambiò, perché lo stesso P.
Provinciale nella relazione al P. Generale ricordava il convento di Corneto tra quelli che
cedevano la pensione ottenuta per metterla in comune. Gli stessi frati erano notevolmente
aumentati, essendovi oltre il guardiano P. Maurizio da Subiaco, P. Francesco Danti da
Farnese, P. Amedeo Mari da Montorio Romano, P. Francesco Giacchetti da Corneto, P.
Carlo Felice da Tessennano, P. Raimondo da Onano 13) .
Col provincialato del P. Maurizio Scattone da Subiaco comincia una nuova serie di
famiglie dei conventi della Provincia Romana ed è quindi possibile constatare chi fu
mandato nei singoli conventi e le possibilità ricevute. Così il P. guardiano Raimondo
Paglialunga da Onano che vi resterà fino al termine del secolo sarà casista o solutore dei
casi di morale nel 1893-1894, procuratore dal 1895 al 1899, rettore della chiesa dal 1895.
Nel 1893-1894 il P. Carlo Felice da Tessennano era vicario, catechista, commissario del
Terzo Ordine, procuratore, P. Francesco da Corneto era rettore della chiesa, discreto e
confessore, P. Francesco Antonio da Farnese era discreto, organista e confessore, Fra
Benedetto da Capranica di Sutri era fratello laico e nel 1894 vi si aggiungeva il terziario Fra
Luigi da Terano. Nel 1895 veniva tolto il P. Carlo Felice da Tessennano e sostituito col P.
Carlo De Castris da Ferentino, che era in Velletri, ma non si decideva a partire e fu
obbligato a farlo il 18 marzo. Egli era lettore giubilato, casista, commissario del Terzo
Ordine. P. Francesco Antonio da Farnese era vicario, confessore e catechista. P. Francesco
da Corneto era discreto, confessore e rettore della chiesa, ma moriva il 2 maggio e gli
succedeva nell’incarico di rettore il P. Raimondo. Vi erano il Fratello laico Fra Giovanni
Giuseppe da Roiate che veniva da Velletri ed era il primo curatore empirico di sciatica ed il
terziario Fra Luigi da Terano.
13)
Atti definitoriali 1862-1905 Ms. 58 ff. 70, 71, 82, Atti della Provincia 1856-1909, Attestati 8-4-1889, 4-6-1890, 7-11891 APA; Deposito del P. Francesco da Corneto presso D. Lorenzo Ramaccini 1-1-1878 5-8-1890, Dichiarazione del
P. Antonio (Agostino Nicolini) da Marino 22-9-1888, Atto di intimazione e diffida di Gustavo Scotti 3-3-1889,
Registro di messe per i religiosi defonti (sacerdoti celebranti) 1865-1893, Legati eretti nella chiesa di S. Francesco
1883-1935, Amministrazione delle messe 1892-1911 ASFT.
158
Il 13 dicembre 1893 passò in visita canonica il Provinciale P. Maurizio Scattone da
Subiaco. Mentre il 13 ottobre 1896 ed il 31 ottobre 1897 vi passò il Provinciale P. Andrea
Basili da Rocca di Papa.
Nel 1896 non vi era più Fra Giovanni Giuseppe da Roiate e vi giungeva Fra Mariano
da Viterbo. Dal 5 febbraio 1897 a tutto il 1899 i sacerdoti erano sempre P. Raimondo da
Onano, P. Carlo da Ferentino, P. Francesco Antonio da Farnese ed i fratelli laici erano Fra
Egidio da Benabbio ed il terziario Fra Domenico da Caprarola.
In realtà non sono pochi i frati che abitarono il convento di S. Francesco in questo
secolo, anche se non è stato possibile trovarli tutti. Di essi non si sapeva nulla o quasi
perché solo raramente qualcuno ha scritto su loro. Alcuni sono veramente interessanti per
la chiesa universale e per l’Ordine Francescano come il P. Giacomo Maria Latini da
Corneto, morto con chiari segni di santità nella sua deportazione in Corsica il 16 agosto
1816 ed il P. Raimondo Paglialunga da Onano vissuto molti anni a Tarquinia e mortovi il
23 agosto 1911. Vi vissero dei missionari come P. Antonio da Castellaro, P. Bonaventura
Lolli da Castelmadama, i fratelli P. Girolamo Basili e P. Andrea da Rocca di Papa
missionari in America Latina e quest’ultimo buon Provinciale della Provincia Romana. Vi
studiarono o insegnarono ben tre vescovi Mons. Luigi Moccagatta vicario apostolico in
Cina, Mons. Giacomo Ghezzi da Castelmadama vescovo di Civita Castellana-Orte-Gallese,
Mons. Sebastiano Pifferi da Castelmadama arcivescovo di Plata di cui non ho trovato
riscontro negli elenchi dei frati del convento forse perché vi fu solo studente, ma vi è
indicato come uno che vi dimorò 14) .
I predicatori.
Come nei secoli precedenti i religiosi continuarono a predicare nelle loro chiese e
l’avvento e la quaresima nella cattedrale S. Margherita. Dopo la soppressione napoleonica
del 1810 vi mancarono i Conventuali di S. Maria in Castello che non vi tornarono più, ma
furono suppliti con la partecipazione dei Cappuccini di altri luoghi.
Già alla fine del secolo precedente si erano presentate delle difficoltà per la
predicazione, perché i Francesi che occupavano lo Stato Pontificio permettevano la
predicazione solo ai vescovi ed ai parroci. Così il P. Filippo Antonio da Carbognano che
doveva predicare l’avvento del 1798, non poté farlo. Egli ne ottenne la patente solo il 27
14)
Atti definitoriali 1861-1905 Ms. 58, ff. 114, Atti della Provincia 1856-1909, Famiglie 1893-1922 APA Ms. 64;
Registro di messe per i religiosi defonti (sacerdoti celebranti) 1865-1893, Legati eretti nella chiesa di S. Francesco
1883-1935, Amministrazione delle messe 1892-1911 ASFT; Romanelli E., S. Francesco di Tarquinia (Roma 1967) 86.
159
novembre 1799 ed approfittò per presentare la sua domanda per la quaresima del 1800 con
le sue referenze: “lettore già Giubilato in Teologia e predicatore annuale del corrente
Avvento in questa nostra Chiesa Cattedrale” (1799). In questo modo era chiaro che
qualsiasi altro concorrente veniva messo da parte. Così infatti avvenne per il P. Francesco
Antonio da Casabasciana che presentava pure le sue referenze: “già in Filosofia, ed in
Teologia Lettor Giubilato” 15) .
Per l’avvento del 1801 fu eletto per acclamazione il P. Bernardino da Valentano
osservante e lettore. Il P. Giovanni Domenico da Torrano ottenne la patente per l’avvento
del 1803. Per l’avvento del 1804 concorrevano il P. Angelo Maria da Caprarola e l’ex
Provinciale P. Bernardino da Lucca. Il P. Angelo ottenne 10 voti favorevoli ed 11 contrari e
P. Bernardino ne ottenne 19 a favore e 2 contro, vincendo. La quaresima del 1805 la
predicò P. Luigi da Porto di Fermo, mentre il P. Giuseppe Maria da Filottrano non fu
votato, perché aveva ringraziato il consiglio comunale. Il P. Giovanni Antonio da Lucca si
presentò per la predicazione dell’avvento del 1808 ed il cappuccino P. Luigi da Bergamo
per quello del 1809. Il primo ottenne 15 voti favorevoli ed uno contrario, l’altro ne ottenne
11 favorevoli e 5 contrari, essendo ambedue eletti.
Nel 1819 si presentò per la predicazione dell’avvento il lettore di filosofia del
convento di S. Francesco P. Giacomo Maceroni da Valentano e lo predicò. Il P. guardiano
di S. Francesco Gioacchino da Caprarola presentò per la quaresima P. Benedetto da Tivoli,
che spiegava la Sacra scrittura in Aracoeli e fu accettato per il 1820. P. Reginaldo da Roma
invece ottenne l’avvento del 1821 e la quaresima del 1825 con 18 voti favorevoli ed uno
contrario. P. Corrado da Valentano guardiano di S. Francesco predicò l’avvento del 1822 e
P. Giacomo da Valentano quello del 1824 con 18 voti favorevoli ed uno contrario. P.
Mariano da Roma del convento di Aracoeli predicò l’avvento del 1827 con 15 voti favorevoli
e nessuno contrario. Il conte Pietro Falzacappa però gli fece una dura critica: “predicatore
26 dicembre 1827. L’avvento è stato predicato dal P. Mariano da Roma Minore Osservante.
Cosa dire di lui? Poche parole. Non aveva alcun numero ma è stato pagato, e per questa
stessa ragione il frate predicava”. Il P. Reginaldo da Caprarola invece predicò l’avvento del
1829. Lo stesso Falzacappa ne criticò la mimica, pur lodandone il contenuto. Egli ebbe
invece parole feroci per la quaresima predicata nel 1830 dal P. Luigi Bartocci da S. Anatolia
ex custode della Provincia Serafica: “Predicatore 11 aprile 1830. Il Zoccolante P. Luigi da S.
Anatolia che si iubilava ex custode della Provincia Serafica ci ha favorito nella cessata
Quaresima. E’ cosa difficile trovare una bestia più rara, ma il frate ha guadagnato un
15)
Patenti e benserviti 1733-1806 ff. 93, 93 v, Reformationes 1796-1800 52 v, 54 v, Libro dei consigli 1799-1809 ff. 7,
160
centinaio di scudi, e si vide dalle critiche. Con una voce da energumeno copriva talvolta,
anzi spesso i suoi disordinati periodi”. Eppure il P. Bartocci aveva già predicato a Tivoli e
per questa predicazione aveva ottenuto 16 voti contro 3. Anzi il P. Luigi fu ripresentato dal
P. Provinciale Clemente da Farnese per la quaresima del 1835 con i Padri Giacomo da
Valentano e Mariano da Roma. Il P. Luigi ottenne 20 voti favorevoli e nessuno contrario.
Questo è segno che essendo indigesto al Falzacappa, era apprezzato dagli altri uditori,
perché P. Giacomo da Valentano ottenne 10 voti favorevoli e 10 contrari e P. Mariano da
Roma ne ottenne 9 a favore ed 11 contro. Il P. Michelangelo da S. Remo continuò l’avvento
del 1830, iniziato dall’agostiniano Muscini e predicò quello del 1831. Anche verso di lui il
Falzacappa fece ironia per mancanza di cultura, ma egli invece fece valutare positivamente
questa sua predicazione presso le autorità cittadine facendosene fare un attestato.
L’avvento del 1834 lo predicò il guardiano di S. Francesco P. Francesco da Vallerano,
presentato al consiglio comunale dal conte Falzacappa, ottenendo 21 voti favorevoli e 3
contrari 16) .
P. Bernardino da Caprarola guardiano di S. Francesco ottenne la patente per la
predicazione dell’avvanto del 1837, dopo la presentazione in consiglio di Giuseppe
Falzacappa, ottenendo 14 voti favorevoli e 4 contrari. Il P. Bernardino da Caprarola fu uno
dei più apprezzati predicatori del suo tempo oltre che futuro Provinciale e Custode di Terra
Santa.
Un altro personaggio di particolare spicco nella Provincia Romana è stato il P.
Giuseppe Modena da S. Remo che accompagnò in Egitto la B. Caterina Troiani, fondatrice
delle Francescane Missionarie d’Egitto ed ora dette del Cuore Immacolato di Maria. Egli
ottenne la predicazione della quaresima del 1840 e quella del 1850. Questo era segno della
stima che godeva per la sua buona preparazione. Egli morì a Napoli il 25 dicembre 1876 17) .
Il 18 ottobre 1844 il P. Generale Luigi da Loreto presentò come predicatori della
quaresima del 1845 P. Luigi da S. Remo che ottenne 15 voti favorevoli e 7 contrari, P. Luigi
da Orvieto che ne ottenne 7 favorevoli e 7 contrari e P. Celestino da Cipressa che ne
ottenne12 favorevoli e 10 contrari. Vinse quindi il P. Luigi da S. Remo.
9, 12, 14 ASCT; Mecocci S., I Francescani a Cori (Cori 1986) 146.
16)
Patenti e benserviti 1733-1806 ff. 93 v. 94, Libro dei consigli 1799-1809 ff. 61, 63, 64, 249, 256, 259, 263, 350, 352,
354, Lettera del P. Giovanni Antonio da Lucca Carte Sparse del secolo XIX a. 1809, Lettera del P. Giacomo da
Valentano Tit. IV, fasc. 9 a. 1819, Consigli 28-5, 11-7-1819, 13-12-1820, 19-5-1822 Consigli 1818-1823, Consigli 4-71824, 28-10-1827 Consigli 1823-1828, Consigli 13-12-1829, 7-10 e 27-11-1834, 1-4 e 28-10-1835 Consigli 18321835, Dichiarazione per il P. Michelangelo da S. Remo 4-12-1833 Tit. XVII, fasc. 7, a. 1833, ASCT; Pietro
Falzacappa, Cronaca Cornetana 1826-1832 AF Ff12 presso STAS, Corteselli M., “Cronaca Cornetana” di Pietro
Falzacappa in Bolletino dell’anno 1984 STAS 74, 75.
17)
Consigli 28-7-1837, 25-8-1839 Consigli 1836-1839, Consiglio 13-12-1849 Tit. IV., fasc. 9, a. 1849 (si tratta di
appunti) ASCT; Cedrone A., Madre Maria Caterina Troiani (Frosinone 1985) 41.
161
Il concittadino P. Isidoro da Corneto, Minore Riformato della Provincia di Assisi,
lettore di teologia, fu eletto predicatore della quaresima del 1846.
P. Bernardino da Grotte di Castro, lettore giubilato, ottenne la predicazione
dell’avvento del 1847 con 11 voti favorevoli e 9 contrari, ma era l’unico concorrente. Egli
divenne postulatore generale delle cause dei santi dell’Ordine Francescano e portò avanti
la causa della Venerabile Suor Lilia Maria del Santissimo Crocifisso di Viterbo, terziaria
francescana fondatrice di ben 5 monasteri 18) .
P. Salvatore da Ceriana, predicatore dell’avvento del 1849 “con tanta lode” fu eletto
anche per la quaresima del 1851. Per l’avvento invece del 1851 concorsero il P. Costantino
Spinelli “lettor giubilato dei Minori Osservanti” ed il cappuccino P. Innocenzo da Bagnaia.
Venne preferito il primo con 11 voti contro 6 sul secondo con 10 voti contro 7.
Nel 1854 il riformato P. Luigi da Viterbo, lettore di teologia dimorante a Celleno cioè
della Provincia di Assisi, ottenne la predica dell’avvento con 13 voti e 10 contrari.
Per la quaresima del 1855 furono presentati l’ex Provinciale P. Tommaso da Roma
ch ottenne 13 voti favorevoli ed 1 contrario ed i Padri Vincenzo da Arnara e Cesare da
Roma che ne ottennero 1 favorevole e 10 contrari. Il P. Bonaventura da Caprarola l’ex
lettore di filosofia in S. Francesco ottenne la predicazione dell’avvento del 1859 con 9 voti
favorevoli e nessuno contrario. Per la quaresima del 1860 il Provinciale P.Bernardino da
Caprarola presentò P. Francesco Ignazio da Roma che ottenne tutti i 9 voti. P. Stanislao da
Ferentino che ne ottenne 3 favorevoli e 5 contrari, P. Giuseppe da Fumone che ne ottenne
5 favorevoli e 3 contrari. Nel 1861 si presentarono per la predicazione dell’avvento P.
Nicola Conziani Agostiniano, che ottenne 8 voti favorevoli e 4 contrari, D. Nicola Laurenti
ne ottenne 4 voti favorevoli ed 8 contrari, P. Liberato da Tessennano già lettore e
predicatore del convento S. Francesco con 6 voti favorevoli e 5 contrari. Questa votazione è
interessante perché per una predicazione ritenuta di facile attribuzione si presentavano un
Agostiniano, un Osservante ed un prete come nelle predicazioni dei secoli precedenti.
Il 15 agosto 1859 il P. Costantino Spinelli da Cipressa, già ricordato, si presentava
per la predicazione della quaresima del 1861 con molti titoli: già maestro di teologia a
Bologna, prefetto degli studi dell’Ordine Francescano, membro dell’8° congresso di
scienziati di Genova, accademico degli Ardenti di Viterbo, predicatore di quaresime nelle
cattedrali della Liguria, Romagna, Stato Pontificio e dell’Aracoeli nel 1859. Con tutte
queste premesse doveva essere il prescelto, ma il 2 novembre 1860 mise in dubbio la sua
18)
Consigli 18-10-1844, 29 e 31-8-1845, 31-10-1847 Consigli 1844-1847 ASCT; Tomassini M.A., I Santi Sommersi
Venerabile Serva di Dio Lilia Maria del SS.mo Crocefisso (Viterbo 1990) 133, 134; P. Isidoro da Corneto 1808-1881
teologo, definitore, missionario in Libano per 18 anni. Acta Ordinis Fratrum Minorum 1 (1882) 63-64.
162
libertà per il 1861 e rovinò tutto. Infatti egli ottenne 5 voti favorevoli e 7 contrari. Il
riformato P. Luigi da Viterbo, lettore di teologia e guardiano di S. Damiano di Assisi ne
ottenne 2 favorevoli e 10 contrari. Il cappuccino P. Giuseppe Angelo da Viterbo predicò la
quaresima con 10 voti favorevoli e 2 contrari 19) .
Per la quaresima del 1865 furono presentati l’ex Provinciale P. Bernardino da
Caprarola che ottenne 10 voti a favore e 3 contrari, P. Cesare da Roma che ne ottenne 5
favorevoli e 9 contrari col P. Luigi da S. Remo. P. Anacleto da Velletri presentò per
l’avvento del 1867 P. Alessandro Giannarelli che ottenne 8 voti favorevoli ed 1 contrario,
ma il 20 ottobre rinunziò e fu sostituito dal P. Francesco Ignazio da Roma che fu approvato
con 7 voti contro 3. Lo stesso P. Anacleto presentò il 4 luglio 1869 P. Ubaldo da
Castelmadama per la quaresima del 1870 che ottenne 10 voti favorevoli ed 1 contrario, P.
Luigi da Monticelli che ottenne 5 voti a favore e 6 contrari, P. Bonaventura da Ferentino
che ne ottenne 4 a favore e 7 contrari. Il P. Ubaldo che aveva predicato con plauso la
quaresima del 1870 fu eletto per acclamazione per l’avvento. L’avvento invece del 1871 fu
predicato dal P. Romualdo da Gradoli con tutti i 7 voti favorevoli. Egli però era l’ultimo
predicatore di questo secolo che veniva scelto tra i frati. Le leggi di soppressione si faranno
sentire persino in questo campo 20) .
La chiesa ed il convento
La chiesa di S. Francesco era grande, a tre navate con transetto, ma da stile goticoromanico era trasformata in stile barocco con tutte le sue cappelle. Essa aveva un bel
campanile del 1612. Il chiostro del convento era spazioso con arcate duecentesche in un
lato e cinquecentesche sugli altri tre, che nella balconata raccoglievano le acque piovane e
le convogliavano in due cisterne cinquecentesche, che servivano da serbatoio per i frati e la
popolazione.
Il convento era recintato con muro di clausura per tutto l’orto che era poco
produttivo, perché carente di acqua ed esposto ai venti specialmente alla tramontana.
Per l’instabilità politica degli ultimi anni del secolo precedente non mancarono
problemi di trascuratezza di manutenzione del grande fabbricato.
Il P. Antonio Maria da Torrice lo faceva presente al comune il 25 marzo 1800. Lo
difendeva in consiglio comunale Giuseppe Bruschi esponendo di “apprestare un pronto
19)
Consigli 30-12-1849, 15-10-1851, 3-10 e 30-12-1854, 30-10 e 28-12-1859, 15-8-1860, 18-10-1861, 23-10-1864
Consigli Tit. IV, fasc. 9, aa. 1849-1864 ASCT.
20)
Consigli 2-6 e 20-10-1867, 4-7-1869, 24-4-1870, 15-10-1871 Consigli 1867-1870, 1870-1871 ASCT.
163
sollecito riparo ai Tetti del medesimo, e della Chiesa annessa, scoperti in parte, ed in parte
caduti, e fracidi nei legnami e generalmente bisognevoli così detti Legni, che di Canali,
Tegole, e Paganelle per così prevenire il nuovo Inverno, che se fosse per ritrovare i detti
Tetti nello stato in cui sono attualmente, sarebbe inevitabile la ruina delli Muri, e delle
volte, che molto han sofferto di danno per le Piogge fin’ora cadute per la ruina appunto deli
suddetti Tetti, che non potevano espellere le surriferite Piogge”.
Non viene però spiegato, se questo dipendeva da cattiva manutenzione, come è
probabile, o da qualche tromba d’aria, come spesso avveniva. Il danno tuttavia era così
evidente che il consiglio comunale accettò la proposta con 14 voti favorevoli. Il 2 luglio
eseguì la perizia dei lavori il capomastro Domenico Neri per la spesa di 85 scudi e 42
baiocchi. Il 16 novembre la fece il capomastro Saverio Calvigioni per una spesa di 220
scudi e 66 baiocchi. Nella discussione comunale del 7 luglio si era evidenziato che Pio VII
aveva destinato al comune 350 scudi, perciò la disponibilità era maggiore. Il 21 marzo 1803
però il governatore generale di Civitavecchia scriveva al commissario di Corneto che 132
scudi dovevano essere impiegati per pagare le due maestre di scuola ed il restauro di S.
Francesco “fattosi peraltro la corrispondenze Perizia, e deliberato il lavoro al miglior
offerente giusta le solite Regole”. Questo indicava che ancora non avevano cominciato i
lavori di restauro. Intanto la chiesa veniva abbellita con un pulpito in legno con 4
colonnine alte palmi 16 che lo dividevano. Lo aveva costruito il falegname Egidio Pasquini,
fornendone le caratteristiche ed il prezzo di 24 scudi e 20 baiocchi. Il capitano Guido Raffi
glielo saldò il 30 giugno 1802 con 20 scudi.
Il comune continuava a sovvenzionare i frati per le ordinarie necessità,
amministrando i legati onerosi di messe come nei secoli precedenti. Così esso concedeva ai
frati 100 scudi per il vino e la pietanza il 27 aprile 1801 e 1 dicembre 1802 più 20 scudi del
legato Cerrini 21)
I rapporti col convento comunque dovevano essere buoni, se il P. Antonio da Torrice
guardiano del convento si permetteva di fare osservare che i frati avevano dovuto pagare
perfino una botte di vino marinaresca, cosa assurda nei secoli passati e la gente era servita
dai frati meglio di quando in convento vi erano “dodici o quindici individui”. Questo era
segno evidente che i frati vi erano di meno.
21)
Consigli 25-3-1800, 27-4-1801, Consigli 1799-1809 ff. 25, 28, 29, 89, 91, 154, 208, 209, 210, Perizia di Domenico
Neri 2-7-1801, Perizia di Saverio Calvigioni 16-11-1802, Esito comunitario 1803 Carte sparse secolo XIX aa. 1801,
1802, 1803, Pulpito di S. Francesco 30-6-1801, Lettera del governatore generale A. Negrete 21.
22) Lettera del P. guardiano di S. Francesco 1806, Erezione della via crucis nel palazzo comunale 3-5-1807, Lettera
alla Congregazione del Buon Governo 2-4-1808 Serie chiese e conventi aa. 1806, 1807, 1808, Consiglio 13-12-1808
Consigli 1799-1809 ff. 363, 365, 367, Perizia di Saverio Calvigioni e Lettera ai conservatori 5-3-1809 Carte sparse del
secolo XIX a. 1809, Deliberazioni 13-7-1810 Deliberazioni 1809-1810 ff. 13-13 v ASCT.
164
Il 3 maggio 1807 il guardiano P. Antonio da Torrice eresse le stazioni della Via
Crucis nella cappella del palazzo comunale con il permesso del delegato generale dei Frati
Minori P. Raniero da Lucca, del provicario generale della diocesi Serafino Ronca e del
parroco di S. Martino D. Luigi Donati.
Nel 1808 le forti tramontane spostarono le tegole dei tetti delle case della città e
particolarmente quelle del convento di S. Francesco più esposto ai venti per la sua
posizione elevata. Il P. guardiano ed i frati fecero presente al comune i danni subiti ed il
pericolo per i muri e le volte del convento e della chiesa. Il consiglio comunale affrontò il
problema il 13 dicembre. I frati prospettavano di fare eseguire i lavori in economia da un
frate muratore, per risparmiare sui 106 scudi di spesa occorrenti. Il consiglio comunale
approvò il lavoro all’unanimità con 13 voti. Il 5 marzo 1809 eseguì la perizia il muratore
Saverio Calvigioni, mettendo in risalto che il danno era elevato ed era necessario sostituire
2.000 tegole, 3.000 canali, 1.600 pianelle, ma vi erano dei danni anche sulla cappella di S.
Girolamo perché vi era “caduta una pagina di tetto, per cui ha bisogno di quaranta
limarelle, ed un travicellone”. Il guardiano era P. Francesco da Grotte di Castro. Fu
eseguito il lavoro? Lo Stato Pontificio era già occupato dai Francesi mandati da Napoleone
ed il 15 giugno 1810 i frati furono espulsi dal convento, che fu occupato poi dalla guardia
civile, che procurò molti danni e la chiesa la ufficiarono sacerdoti secolari fedeli al regime
bonapartista. Per i sepolcri gentilizi nella chiesa il 12 ottobre 1810 fu giustamente emanato
un decreto che esigeva la muratura con calce alle lapidi 22) .
Persino nel periodo napoleonico però furono fatti alcuni restauri, perché il 15 agosto
1811 furono pagati 10 scudi e 70 baiocchi al fabbro Pietro Marzi per la muratura nella
chiesa. Flaminio Neri fupagato il 24 agosto 1811 per avere parato la chiesa di S. Francesco
per la festa di S. Agapito, che era il protettore della città e per l’incoronazione
dell’imperatore e del fantomatico S. Napoleone Martire, che aveva sostituito la festa
dell’Assunta il 15 agosto. Per la festa di S. Agapito dello stesso anno fu renumerato anche
Pellegrino Uccelletti (P. Filippo da Castel Viscardo), perché vi aveva celebrato la messa
cantata ed era stato assistito dai suoi inservienti. Flaminio Neri il 12 dicembre 1812 vinse
l’appalto per la manutenzione della chiesa fino al dicembre 1819. Il 20 aprile 1812 gli venne
pagato il lavoro, ma non dovette essere consistente, perché il P. Francesco Maria La
Monaca da Viterbo giudicò la chiesa un fienile, dopo la caduta di Napoleone. Il convento
del resto non era in migliori condizioni, considerando quello che ne scriveva il visitatore
apostolico Mons. Bonaventura Gazola il 2 agosto 1814; “conventum accessit, plurimasque
22)
165
ruinas vidit, inter quas ea notanda quae in tectis observantur, quaequae aliter, aliter vidi
per tegolarum, et laterculorum raptum a popolaribus exercitum, contignere potuit”. Lo
accompagnavano il P. Filippo da Castel Viscardo unico frate restato nella città ed il
segretario di visita P. Gaudenzio Patrignani da Coriano, eletto subito dopo procuratore
generale dell’Ordine e nello stesso anno Generale. Fu proprio lui a promettere in una
lettera del 10 dicembre 1814 al capitano del comune di Corneto Arcangelo Lucidi che si
sarebbe interessato del caso presso il Provinciale P. Gian Carlo da Roma. La Congregazione
dei Vescovi e Religiosi il 26 novembre annullava tutti i privilegi concessi per la
soppressione degli Ordini Religiosi nel 1810, ed il 28 dichiarava apostati tutti coloro che
non vi ritornavano. Le premesse quindi vi erano. Allora qualcuno si preoccupò anche della
parte organizzativa o economica. Così il vicario generale della diocesi Francesco Garrigos
prescrisse che fossero restituiti i paramenti sacri alla chiesa di S. Francesco. Lo stesso
fratello di P. Giacomo Maria Latini Giuseppe sottoscrisse la restituzione al P. guardiano di
S. Francesco di quel poco che era restato, dopo avere aiutato il fratello nelle dure prove
della prigionia. Vi restavano appena 70 scudi dei 130 avuti, ma era sempre un segno di
generosità.
Il primo guardiano postnapoleonico a S. Francesco di Corneto fu un deportato in
Corsica: il P. Francesco Maria La Monaca da Viterbo. Egli accettò l’incarico dopo molte
perplessità per le pietose condizioni in cui si trovavano sia la chiesa che il convento, ma fu
incoraggiato in questo dall’insistenza di alcuni cornetani. Le difficoltà però non gli
mancarono perché per esempio il fratello terziario Innocenzo, mandato da lui al mare forse
per la questua, dovette dormire fuori delle mura cittadine, benché avesse suonato la
campana della porta della città tanto da rompere la corda e nessuno si mosse in suo favore.
Anche per i lavori di restauro della chiesa vi furono belle promesse, ma a pagarne le spese
fu lui. Basterebbe rileggersi due sue lettere per rendersene conto. La prima era del 9
settembre 1815 alla Congregazione del Buon Governo che diceva: “Presentemente però la
ridetta Chiesa ha bisogno di molti risarcimenti sia nell’esterno, che nell’interno; poiché è
scoperta una porzione dei Tetti, che la coprono; per cui allorché piove, cade l’acqua
nell’interno della medesima e l’altra porzione dei Tetti, perché mal costruita già minaccia
ruina; in oltre l’interno della Chiesa sembra ridotto un Fienile, non è cosa decente, che la
Casa di Dio sia ridotta in un così pessimo stato.
L’Oratore ha replicato volte interpellato li Pubblici Rappresentanti della Comunità a
volersi dar carico di fare eseguire nella ridetta Chiesa li necessari ristauri; ha più volte
insistito acciò la Comunità costringesse il surriferito Flaminio Neri nell’adempimento delle
sue obbligazioni”. La perizia del restauro del campanile era stata fatta il 2 agosto del
166
capomastro Giacomo Draghi per la spesa di 48 scudi e 48 baiocchi, ma tutta la spesa per la
chiesa ed il convento raggiungeva circa 500 scudi e non si riusciva a saldare il debito. Per la
chiesa avevano fatto la perizia i capomastri Benedetto Draghi e Domenico Santini. Il
delegato di Civitavecchia il 19 settembre esortava il comune di Corneto a concedere il
lavoro al migliore offerente come sosteneva in consiglio comunale il 14 il consigliere
Giacomo Lucidi Miniati. Il problema del pagamento dei restauri restava tuttavia non
risolto. Il P. Francesco in una lettera non datata, ma successiva ai restauri esprimeva
l’amarezza del momento e ne faceva la storia che preludeva alla sua partenza dal convento.
Egli scriveva: “Cessata la passata invasione (napoleonica) egli fu destinato dai Suoi
Superiori a reggere l’incarico di questo Convento. Al giorno dello stato di ruina, in cui era
ridotto, ed incerto sulla continuazione di quei sentimenti di attenzione e di benevolenza,
per i quali sempre si contraddistinse questa Illma Comunità, e tutta intera la popolazione,
andava
esitando,
non
sapeva
indursi
ad
incominciare
l’esercizio
addossatogli.
Opportunamente un formale invito dei Primari Cittadini vennero a destarlo dalla sua
perplessità, e si decise a venire a Corneto.
Nell’osservare coi propri occhi lo stato materiale del convento, e nel conoscere il
prezzo carissimo dei generi di prima necessità avrebbe sicuramente l’Oratore abbandonata
l’impresa, se la protezione dell’Illustrissima Magistratura, e le promesse di molti particolari
non l’avessero animato ad una cosa per cui ben capiva, che troppo deboli erano le sue
forze. Si aggiunge la promessa del Governo, di pagare cioè le spese per i riattamenti
occorrenti. L’Oratore non perdé un momento di tempo a mandare la perizia, che
l’Amministrazione dei Beni Ecclesiastiti credé di assegnare la somma di scudi 370 giunto il
sottoscritto all’illustrissimo Arcidiacono Falzacappa (Giovanni Vincenzo) Recolletor de’
Spogli di Stato però la riduzione ebbe luogo anche sulla somma accordata da S.E. Revma
Mons. Tesoriere Generale scrivendo colla propria mano colla posta del 14 scaduto al
nomato Illmo Arcidiacono, ordinando di non pagare, che soli scudi 152 compresi scudi 60
che restano da riscuotersi.
In questo stato di cose il P. guardiano esponente si trova in grandi angustie per aver
fatto una lavorazione di restauri assai maggiore della somma ottenuta sulla fiducia del
restritto, e sulla speranza di poter a poco a poco cogli introiti del convento supplire alla
maggiore spesa che indispensabilmente occorreva, e pertanto occorre.
Ora che la detta sovvenzione gli manca, gli Artisti tutti devono essere pagati, non
avendogli potuto dare che poche somme in conto si trova sconcertato in modo che non sa
come ultimare i lavori accessori, ne come dare di quello, che è fatto il soldo ai medesimi,
essendo troppo giusto soddisfare. A sì enorme vuoto si unisce la scarsezza di tutti i generi
167
di assoluta necessità ed in consequenza il prezzo carissimo, cui si vendono, ed i sussidi non
possono essere corrispondenti al buono e caritatevole desiderio di questa pia
popolazione... ed anziché far venire i Religiosi ispecie Sacerdoti per completare la famiglia
egli si vede nella penosa situazione non meno necessaria d’abbandonare il Convento.
“Questa lettera ai conservatori cioè ai responsabili della città di Corneto mette al nudo con
forma garbata ma sincera la vera situazione del momento. Il 16 febbraio in Aracoeli a
Roma fu scelto il nuovo Provinciale P. Raniero da Lucca. In quei giorni anche il convento
di S. Francesco di Corneto dovette avere il nuovo guardiano in P. Benedetto da Caprarola.
Il 20 luglio 1816 egli dichiarava al comune che avrebbe restituito il danaro ottenuto “per la
sussistenza” del convento, se la Congregazione del Buon Governo non l’avesse approvato.
Questo era segno che la situazione economica dei frati era grave. Basterebbe osservare i
conti con i creditori che presumibilmente vengono saldati in questo periodo con i muratori
ed artigiani Benedetto Draghi, Tommaso Marzoli, Luigi Ghignone 23) .
L’11 febbraio 1817 fu eletto guardiano del convento P.Gioacchino da Caprarola. Egli
il 10 maggio si rivolse alla Congregazione del Buon Governo perché la chiesa ed il convento
avevano subito gravi danni dai forti venti. Il delegato di Civitavecchia pregava il comune di
preparare il preventivo di spesa per i tetti e le finestre della chiesa e del convento. Il
capomastro Benedetto Draghi lo eseguì il 9 giugno e vi occorrevano 180 scudi e 18
baiocchi, con una descrizione minuta del piano di lavoro. Il problema fu portato in
consiglio comunale il 6 luglio, ma per i tetti della chiesa ci doveva pensare Flaminio Neri,
che ne aveva vinto l’appalto nel 1812 fino al dicembre 1819. Per il resto se ne sarebbe
parlato col finanziamento del 1818. La proposta fu approvata all’unanimità.
Nell’estate 1819 tutti i frati del convento andarono soggetti ad un’influenza per 5
mesi. Essi erano tanto debilitati da non potersi servire reciprocamente e dovettero chiedere
aiuto ai borghesi. Per questo chiedevano un aiuto economico al comune. Il consigliere
Giovanni Petrighi si fece interprete di questa richiesta ed il governatore la fece sua e fu
approvata il 2 febbraio 1820 con 15 voti favorevoli ed uno contrario. Il 26 novembre furono
concessi ai frati 50 scudi.
23)
Mandati 1810-1811 ff. 34, Lettera del P. Generale Gaudenzio Patrignani al capitano Arcangelo Lucidi 10-12-1814,
Lettere del P. Francesco M. da Viterbo (episodio di Fra Innocenzo) 1815, alla Congregazione del Buon Governo 3-91815 e 1816, ai conservatori di Corneto 1816, a S. Eccellenza 20-1-1816, Lettera di Lucidi Miniati 14-9-1815, Lettere
del delegato apostolico G.A. Benvenuti al governatore di Corneto 19-9-1815, 6-2-1816, Preventivo per i restauri della
chiesa dei capimastri Benedetto Draghi e Domenico Santini 1816, Attestato del P. guardiano Benedetto da Caprarola
20-7-1816 Tit. XVII, fasc. 4, aa. 1814, 1815, 1816 ASCT; Visita pastorale di Mons. Bonaventura Gazola a S.
Francesco 3-6 e 2-8-1814 ff. 75-76 AVT; Conto di Giuseppe Latini 5-12-1814, Conto di Giovanni Petrighi con P.
Benedetto da Caprarola 22-1-1816 (?) ASFT; Vacchetta 1809-1829 APA.
168
Lo stesso P. Gioacchino nel 1818 aveva fatto argentare una muta di candelieri ed una
croce dall’intagliatore Giuseppe Franchi di Roma, abitante in Via Aracoeli 56, pagando 54
scudi e 85 baiocchi.
Il 18 novembre 1821 fu portato in consiglio comunale il danno causato da un turbine
nel mese di febbraio. I danni erano palesi. Presentò l’argomento il consigliere Arcangelo
Bruschi ed il governatore lo accolse. Fu approvato di contribuire con 80 scudi del
sopravanzo della “Cassa Popolare” di tale anno. Sempre nel 1821 il P. guardiano chiedeva
al vescovo Bonaventura Gazola la riduzione dei legati onerosi che la concedeva il 5
maggio 24) .
Nel 1823 il guardiano P. Giuseppe da Proceno si rivolse al comune per ottenere il
restauro del chiostro. Il 2 marzo l’argomento fu discusso in consiglio comunale. Il
gonfaloniere Francesco Ronca prese la parola a favore dei frati. In un nuovo consiglio i
consiglieri ecclesiastici D. Giovanni Ronca e Francesco Mariani e tutti i consiglieri
assegnarono al bilancio del 1822 la spesa di 60 scudi. Non tutto però era risolto perché
intervennero il governatore di Corneto D. Calisti Tiudola e quello di Civitavecchia Serafino
Simonetti il 29 novembre. Il 30 si radunò di nuovo il consiglio comunale. Intervennero il
gonfaloniere Francesco Ronca ed il governatore, decidendo di attribuire 50 scudi con 16
voti favorevoli e 4 contrari.
Il nuovo guardiano P. Francesco da Fibialla nel 1825 richiedeva un sussidio per il
restauro della chiesa e del convento. Se ne interessava il governatore Serafino Simonetti il
13 dicembre 1825. Il 23 gennaio 1826 veniva eletto guardiano del convento P. Angelo
Benedetto Guasco da Pietrabruna che rinnovava la richiesta ed il governatore Vincenzo
Giuliani la ripresentava il 18 dicembre 1826. Finalmente fu discussa in consiglio comunale
con l’intervento del gonfaloniere Francesco Maria Bruschi Falgari il 27 gennaio 1827 e fu
approvata con 14 voti favorevoli e uno contrario. Essa fu ripresentata il 13 dicembre perché
detta smarrita e fu riapprovata con 19 voti favorevoli ed uno contrario per la spesa di 50
scudi.
Il 19 gennaio 1827 era eletto guardiano P. Gioacchino da S. Romolo o S. Remo. Egli
il 29 gennaio accettò la cappellania di S. Firmina a Porto Clementino, già affidata nel 1815
all’agostiniano P. Agostino Mancini. Essa comportava l’emolumento annuo di 80 scudi, il
24)
Lettera del P. Gioacchino da Caprarola alla Congregazione del Buon Governo 10-5-1817, Perizia per i tetti della
chiesa di Benedetto Draghi 9-6-1817, Tit. IV, fasc. 9, a. 1817, Lettera del delegato apostolico G.A. Benvenuti al
governatore di Corneto 13-5-1817 Carte sparse del secolo XIX, a. 1817, Consigli 1-6 e 6-7-1817 Consiglio 1-2-1820
(epidemia estiva del 1819), 26-11-1820, 18-11-1821 Consigli 1818-1823 ASCT; Conto per duratura di candelieri 23-81818, Legato Giovanni Petrighi 1-6-1819 e 10-2-1821, Elenco dei legati (s.d. ma di questo periodo) Riduzione dei
legati di S. Francesco di Mons. Bonaventura Gazola 1-5-1821 ASFT.
169
dovere di celebrarvi le messe ogni giorno festivo, confessare, fare il catechismo, assistere i
moribondi, gli ergastolani delle saline e mantenere in ordine la biancheria occorrente. Era
un impegno non indifferente per quei tempi ed altamente sociale.
Il 28 luglio 1828 lo stesso guardiano richiedeva un sussidio, ma l’oratore Angelo
Maria Falzacappa sosteneva in consiglio che ciò non era possibile, perché con la Cassa
Popolare vi erano molti debiti da pagare come nel 1827. Era quindi necessario aspettare un
tempo più opportuno.
Il 29 marzo 1828 il marchese Giulio Serlupi rinunziò al patronato della cappella di S.
Antonio e fu affidata ai fratelli Egidio e Luigi Querciola che vi potevano seppellire i loro
morti e la custodivano.
Il 29 marzo 1829 il governatore di Civitavecchia A. Battistini si interessava per un
sussidio “ per il restauro dei tetti della chiesa e del convento rimasti quasi scoperti”, ma il
governatore di Corneto T.M. Turdiola comunicava al P. guardiano l’11 settembre che non
era possibile perché i debiti della Cassa Popolare non lo permettevano. Altrettanto
rispondeva il 4 aprile 1831 Egidio M. Querciola. Doveva essere realmente un periodo
difficile.
Il 30 giugno 1830 il P. Gioacchino da S. Remo assisté come proparroco di S. Antonio
Abate con altri al testamento di Caterina Catalini della stessa parrocchia, che non firmò
perché analfabeta. Questo però indicava l’impegno pastorale dello stesso P. guardiano.
Non mancarono questioni giuridiche per i frati. Il 1 giugno 1832 il sindaco
apostolico Agapito Avvolta richiedeva a Anna Maria Querciola fu Luigi ed erede del fu
Leonardo Querciola di pagare il censo sulla somma di 112 scudi e 50 baiocchi al 5 per cento
annuo 25) .
Il 17 febbraio 1833 veniva presentata al consiglio comunale la richiesta dei frati di un
sussidio a causa delle “elemosine minorate in conseguenza dello scarsissimo raccolto
dell’ultima stagione” e della decurtazione del legato Cerrini. Si desiderava che gli
Osservanti fossero trattati come i Passionisti, accordando loro i proventi dei dazi sulle
carni. Il problema fu discusso il 6 aprile e si richiedevano 15 scudi per il 1832 e 15 per il
25)
Lettera del governatore D. Calisti Rurdiola al gonfaloniere 22-11-1823, Consiglio comunale 1823, Lettera del
governatore Serafino Simonetti al gonfaloniere e anziani 29-10-1823, Lettere del governatore Vincenzo Giuliani al
gonfaloniere 18-12-1826, 7-12-1827, 25-9-1828, Lettera di Luigi De Bernardis al gonfaloniere Francesco M. Bruschi
Falgari 10-7-1827, Lettera del guardiano di S. Francesco 1827, Lettera del progovernatore Francesco Bruschi Falgari al
gonfaloniere 29-10-1828 Lettera del governatore A. Battistini al gonfaloniere 29-3-1829 Tit. XVII, fasc. 7, aa. 1823,
1826, 1827, 1828, Consigli 2-3 e 30-11-1823, 13-12-1824, 13-12-1825, 21-1-1827, 28-7-1828 e 4-9-1829 Consigli
1823-1828 ASCT; Cappellania di Porto Clementino assegnata all’agostiniano P. Agostino Mancini 12-5-1818, affidata
al guardiano di S. Francesco P. Gioacchino da S. Remo 29-1-1827, Decreto del Provinciale P. Giuseppe M. Da Civezza
per la concessione della cappella di S. Antonio ai fratelli Querciola 28-4-1828, Lettera del P. guardiano al
170
1833. Il discorso del consigliere esortava a non cedere i 30 scudi, ma solo i 15 del 1833. Era
intervenuto Francesco Mariani.
Il vicegonfaloniere il 4 dicembre 1833 rilasciava al P. Michelangelo da S. Remo la
dichiarazione che era stato 5 anni nel convento di S. Francesco, aveva predicato due volte
l’avvento nella cattedrale ed era stato proparroco delle chiese S. Antonio e S. Giovanni.
Contro le due predicazioni dell’avvento del P. Michelangelo il conte Pietro
Falzacappa aveva fatto le sue critiche.
Il 16 febbraio 1834 fu portata in consiglio la richiesta di un sussidio da parte del
guardiano P. Giuseppe da Valentano. Intervenne il consigliere Casimiro Falzacappa,
dicendo che era stata concessa l’elemosina di 15 scudi per il 1833 e criticando duramente
l’operato del guardiano che aveva tenuto male l’amministrazione, tanto che “l’attuale
sindaco (apostolico) non ha voluto nemmeno sanzionare”. Questo era vero e la conclusione
logica fu che la proposta ottenne 19 voti favorevoli e 4 contrari. Il restauro quindi non fu
approvato ed il 21 luglio 1834 il nuovo guardiano P. Francesco Maria da Vallerano chiedeva
un sussidio per le spese sopportate per i restauri urgenti dei tetti della chiesa e gli furono
accordati 25 scudi dal consiglio comunale, intervenendo il gonfaloniere Bonaventura De
Sanctis ed il consigliere Raffaele Rispoli. La proposta ottenne 19 voti favorevoli e 5
contrari.
Il 3 agosto 1834 il prefetto della Congregazione dei Riti card. Patrizi concesse al
convento di S. Francesco che si potessero celebrare le messe per i morti tutti i giorni,
eccetto le feste di prima e seconda classe, quelle di precetto e le ferie e vigilie privilegiate 26) .
Nel 1836 era guardiano P. Michelangelo da Civezza. Egli dovette risolvere diversi
problemi. Vi era quello endemico per Corneto della mancanza di acqua durante l’estate.
Egli si rivolse al comune, perché fossero pulite le due cisterne del chiostro del convento che
raccoglievano l’acqua piovana per i frati e per la popolazione. Il problema fu discusso in
consiglio comunale il 13 dicembre 1836. Era il consiglio più importante dell’anno, perché vi
venivano discussi i problemi principali. Nel consiglio era presente il gonfaloniere Egidio
Maria Querciola ed intervenne il conte Pietro Falzacappa. La proposta fu approvata
pienamente. L’ingegnere Antonio De Rossi fece la perizia e fu portata in consiglio il 27
luglio 1837. Il lavoro lo eseguì Giuseppe Pasquini sotto la direzione di Benedetto Draghi
per 183 scudi. Erano presenti al consiglio del 9 luglio 1838 il gonfaloniere Carlo Avvolta e
progonfaloniere Turdiola 11-9-1829, Testamento di Caterina Catalini 18-6-1830, Questione con Anna Maria Querciola
1-6-1832 ASFT.
26)
Consigli 7-2 e 6-4-1833, 16-2 e 21-7-1834 Consigli 1832-1835, Dichiarazione per il P. Michelangelo da S. Remo 412-1833, Lettera del delegato apostolico L. Giuli Delicato 7-12-1835, Lettera al delegato apostolico 29-12-1835 Tit.
XVII, fasc. 7, aa. 1833, 1835 ASCT; Privilegio concesso dal card. Patrizi 3-8-1834 ASFT.
171
Lorenzo Maria Benedetti, che intervenne sull’argomento e fu approvato con 7 voti
favorevoli e 4 contrari. Sempre per il problema idrico il 21 giugno 1840 fu presentato al
definitorio provinciale il disegno di poter costruire un bottino nell’orto di S. Francesco con
nuova clausura per il terreno ceduto. La richiesta proveniva dal gonfaloniere Egidio Maria
Querciola, su disegno dell’ingegnere Antonio De Rossi per l’estensione di 182 canne
romane, ma che il geometra Giuseppe Crispini le estendeva a 412 canne romane il 18
agosto 1840. Il P. Provinciale Luigi da Lucca firmava il decreto il 7 novembre 1840.
Il P. Michelangelo dovette rivolgersi al vicario generale della diocesi, perché la
signora Anna vedova di Nicola Lucidi Miniati non pagava il legato perpetuo di scudi 800 a
40 scudi annui. Forse si presentò personalmente ad un incontro, ma si trovò di fronte a
minacce e lusinghe, come si nota in una lettera del 6 ottobre. Egli quindi col sindaco
apostolico Agapito Avvolta si rivolse al procuratore Vincenzo Pugliesi, consegnando l’atto
di comparizione all’interessata il 17 ottobre.
Il 26 dicembre la signora Laura Pardi
terziaria francescana disponeva che il convento potesse ricevere 200 scudi come legato
perpetuo per messe da 20 baiocchi l’una, per i suoi funerali e sepoltura in S. Francesco. Era
il modo solito usato dai terziari, che secondo la regola di Nicolò IV, facevano testamento
quando entravano nel Terzo Ordine.
Le spese minute venivano fatte presso i negozianti di allora ed erano pagate entro
l’anno, come si rivela da un conto dal 10 gennaio 1837 - 11 gennaio 1838 presso la
pizzicheria Corridi Sbrinchetti con scudi 7 e 67 baiocchi e mezzo 27) .
Il 1 gennaio 1838 Eugenio e fratelli Lucidi cedettero la cappella di S. Pasquale loro
patronato al canonico D. Angelo Marzi ed al fratello Giovanni Battista. Luigi Petrighi e
fratelli invece avevano intentato una causa per un censo al convento, ma l’avevano perduta
ed il 20 marzo 1838 egli attestava di essere debitore verso il convento di S. Francesco di 57
scudi e 50 baiocchi, promettendo di pagare 25 paoli ogni prima settimana del mese. Nel
1839 lo stagnaro Evangelista Pasquini aveva eseguito piccoli lavori e veniva saldato dal
guardiano con 8 scudi e 57 baiocchi.
Si è già parlato più volte dei legati e delle complicazioni per riscuoterli specialmente
per le inadempienze degli interessati. In questo periodo se ne ha un elenco completo con i
relativi oneri nelle singole cappelle della chiesa. Vi erano da celebrare 200 messe all’altare
degli Angeli per il legato Lucidi Miniati dal 1688, 90 messe alla cappella di S. Brigida per il
legato Parma Cardini-Falzacappa, 19 messe all’altare di S. Girolamo per il legato
27)
Atti definitoriali 1830-1862 APA Ms. 57 ff. 11-12; Consigli 20-5 e 13-12-1836, 28-7-1837, 3-9-1838 Consigli 18361838, Testamento di Lucia Pardi 26-12-1836 Istromenti 1871-1901 ASCT; Lettera del P. Michelangelo da Civezza 8-1-
172
Martellacci, 9 messe all’altare del Terzo Ordine per la novena di S. Pietro d’Alcantara per il
legato Falzacappa, 6 messe cantate senza ministri per il legato dei calzolari, 12 messe, una
ogni mese all’altare privilegiato per il generale Alessandro Forcella-Costantino Bruschi, 2
messe semplici cantate ed una solenne per il medesimo, la messa cantata semplice
all’altare privilegiato nel mese di novembre per Francesco Ronca, 1 messa per chi aveva
lasciato dei legati, 25 messe all’altare della Madonna di Loreto per Costantino CostantiniPetrighi Giovanni, 31 messe all’altare di S. Brigida per Margherita Beneghi Rispoli che si
celebravano dal 1815. Per i legati abrogati si doveva recitare l’intero ottavario dei morti in
coro. Per il legato dei mercanti se ne doveva recitare una volta al mese. Si dovevano
recitare 40 uffici in coro ogni mese per il legato dei calzolai. Per il legato Cerrini si
dovevano celebrare 2 messe, una il giorno di S. Antonio e l’altra per l’ottavario dei morti
per 10 scudi ciascuna. Francesco Mariani nel 1838 lasciava un legato temporaneo per una
messa quotidiana nella cappella di S. Francesco o nella sua abitazione a 20 baiocchi l’una
nei giorni feriali, a 25 baiocchi nei festivi. Come si può notare vi erano entrate per il
convento, ma vi erano pure dei rompicapo non indifferenti. Qualche volta i frati
richiedevano ai patroni delle cappelle di poterne usare qualcuna per tutti. Così il P.
guardiano richiese quella dell’Assunta al canonico Cesarei per farvi il presepio ed egli la
cedé il 22 gennaio 1839 28) .
Il 19 febbraio 1839 nel chiostro e nel piazzale di S. Francesco vi erano ancora i detriti
del restauro di una cisterna, eseguito da Giuseppe Pasquini. Il lavoro lo aveva appaltato il
27 dicembre 1838 per 185 scudi, lo aveva preventivato l’ingegnere Antonio De Rossi il 17
febbraio, ma al termine del lavoro costava 221 scudi e 39 baiocchi e non era stato ancora
saldato.
Il 25 agosto 1839 il guardiano di S. Francesco presentava un memoriale per il
restauro del campanile che andava in rovina. Era gonfaloniere Carlo Avvolta. Intervenne
nel consiglio Eugenio Lucidi, affermando che era bene fare visitare il campanile da persone
competenti anche perché le finanze non erano disponibili. Il consiglio approvò la proposta
con tutti i voti meno uno. Il 27 ottobre l’ingegnere De Rossi presentò la perizia per il
restauro per la spesa di 213 scudi e 70 baiocchi. Intervenne il consigliere Francesco Maria
Bruschi, essendo gonfaloniere Carlo Avvolta. Il consiglio approvò con 15 voti favorevoli
contro 4. Il 13 dicembre ritornarono sull’argomento per inviare l’ingegnere e due deputati a
1836, Citazione per la signora Anna Maria Lucidi Miniati 17-10-1836, Conto presso il negozio Corridi Sbrinchetti
(carne) 11-1-1838 ASFT.
28)
Rinunzia al patronato della cappella di S. Pasquale dei fratelli Lucidi Miniati a favore dei fratelli Marzi 1-1-1838,
Attestato di Luigi Petrighi e fratelli 20-3-1838, Conto di Evangelista Pasquini 1839, Elenco dei legati 1839, Cappella
dell’Assunta ceduta ai frati per presepio dal canonico Cesarei 22-1-1839 ASTF.
173
visitare il lavoro da compiere per “molto economizzare nel progettato restauro, togliendo
via così tante spese, che nulla han che fare al mantenimento del Campanile, ma che si
possono classificare per abbellimento e comodo”. Sono eletti a questo scopo come delegati
Pietro Falzacappa e Costantino Bruschi. Il 16 gennaio 1840 l’ingegnere Antonio De Rossi fu
pregato di recarsi a visitare il campanile con i consiglieri Pietro Falzacappa e Costantino
Bruschi. Il cardinale desiderava che il restauro fosse portato al termine prima della
quaresima, quando sarebbero inizate le missioni. I tempi tecnici tuttavia non lo
permettevano, perché era necessario fare un appalto regolare. Il 24 gennaio l’ingegnere
Antonio De Rossi redasse una perizia circostanziata dei lavori: accomodare le tre volte del
campanile, rifarci il mattonato, rinnovare i cannelli di vetro dove scorrevano le corde delle
campane, murare 8 vani di finestre (4 tondi e 4 quadri), rinnovare nel piano superiore gli
archetti doppi, rinnovare i medesimi archi con travertino, mettere catene di ferro per
legare le colonne agli archi, rinnovare la muratura a scarpa sopra il cornicione fino al
capolino, il mattonato murato a stagno, rinnovare le scale per accedere ai piani del
campanile legate con staffoni. Era un lavoro veramente considerevole. Vi si erano recati
per rendersene conto i deputati Costantino Bruschi e Pietro Falzacappa e gli artigiani Luigi
Morelli e Luigi Ghignoni ed i testi Ferdinando Falzacappa e Angelo Corti. Da Pietro
Falzacappa fu indicato come appaltatore Filippo Morelli, ma il lavoro fu eseguito da Mario
Calvigioni.
Il guardiano P. Onorato da Gradoli pagava al fabbro Gaetano Scappini 2 scudi e 77
baiocchi per alcuni lavoretti di manutenzione del convento dal 22 settembre 1839 al 1
gennaio 1840, tra cui una chiave nuova a Fra Gaetano ed una mappa di chiavi al vicario. Ed
il 29 dicembre egli pagava 25 scudi per le medicine ed uno scudo e 26 baiocchi per
l’incenso al farmacista Gaetano Ciccolini.
La cappella dell’Assunta già richiesta dal guardiano al canonico Gaetano Cesarei per
farci il presepe, nella visita del visitatore generale P. Cherubino da Cori veniva offerta al
signor Francesco Angelo Marzoli “uomo facoltoso, ed insigne Benefattore del nostro
Convento”. Il P. Provinciale Reginaldo Maria da Roma ne firmava il decreto il 27 gennaio
1840 29) .
29)
Perizia dell’ing. Antonio De Rossi per il restauro del campanile 17-2-1839, Lettera dell’ing. Antonio De Rossi al
gonfaloniere 19-2-1839, Lettere del delegato apostolico L. Giuli Delicato al gonfaloniere 19-11-1839, 26-1-1840,
Lettere al delegato apostolico 31-8, 30-9, 9-11-1839 e 25-1-1840 (due lettere), Lettera dell’ing. Antonio De Rossi 23-61840, Lettera dell’ing. De Rossi al gonfaloniere 24-1-1840, Perizia dell’ing. Antonio De Rossi 24-1-1840, Contratto di
lavori con Filippo Morelli 29-1-1840, Stato dei lavori eseguiti da Marco Calvigioni constatati dall’ing. Antonio De
Rossi 23-6-1840, Lettera dell’ing. Antonio De Rossi al gonfaloniere 2-7-1840 Tit. XVII, fasc. 4, aa. 1839, 1840,
Consigli 25-8, 27-10, 13-12-1839 Consigli 1836-1839 ASCT; Conti con il fabbro Gaetano Scappini 22-9-1839 e 1-11840, Conto col farmacista Gaetano Ciccolini 28-12-1839, Decreto del Provinciale P. Reginaldo M. da Roma per
174
Si ripresentava spesso il problema dei legati per le messe. In questo momento vi
erano messe 8 per Callimaci, 2 per Cerrini, una per Angennes, 4 per Gubernali, 6 per i
calzolai, 9 per Ranna, 1 per Caggi, giornaliera in casa Mariani ma che stava per terminare e
22 lette ed 11 cantata per Secondiano Galassi che era stata concessa dal provinciale Luigi
Maria da Lucca il 2 dicembre 1842. Non sempre però le cose andarono per il verso giusto,
perché Luigi Petrighi avrebbe dovuto pagare le spese del processo perduto, senza attuarlo.
Vi fu un nuovo processo contro di lui, ma i frati si tirarono in dietro e le spese le dovettero
pagare il guardiano P. Francesco Giacchetti ed il vicario P. Paolino da Lucca nel 1843. Altra
lite sorse con Costantino Bruschi e lo stesso guardiano dovette pagarne le spese di 7 scudi e
40 baiocchi il 19 novembre 1843 e per l’appello verso Luigi Costantino Bruschi dovette
versare al procuratore Benedetto Blasi 2 scudi e 94 baiocchi.
Il 18 luglio 1843 Giuseppe Latini, fratello del P. Giacomo Latini morto deportato in
Corsica il 16 agosto 1812, chiese al definitorio di poter scavare una tomba nella navata
centrale della chiesa ed il P. Provinciale Giuseppe Maria da Velletri gli firmò il decreto il 18
luglio stesso.
Il guardiano P. Francesco da Corneto chiese al comune di intervenire per il restauro
dei tetti della chiesa. Il 21 settembre 1843 intervenne il delegato apostolico di Civitavecchia
S. Rossi. Il problema fu discusso nel consiglio del 5 novembre, proponendo di intervenire
con 15 scudi e 25 baiocchi. Questo indicava che non si trattava di un lavoro radicale, ma
solo di manutenzione. Per le piccole spese Fra Antonio da Perinaldo aveva comprato 4 o 5
libbre di fegato di merluzzo presso il negozio di Calvigioni, come egli scrisse al guardiano e
lettore P. Francesco da Corneto.
Il 24 agosto 1844 il presidente del convento P. Mariano da Velletri si rivolse al
definitorio, perché la famiglia Lucidi aveva chiesto al cardinale Clarelli che il suo vicario
generale Filippo Benedetti riducesse il loro legato a 10 scudi. Il definitorio rispose che si
rimetteva alla coscienza del cardinale 30) .
l’assegnazione della cappella dell’Assunta ai Marzoli 27-1-1840 ASFT; Ceccarini P. - Perotti M.L., Lavori pubblici:
Restauro del campanile di S. Francesco in Il Procaccia Giornale dell’Archivio Storico, Anno IV, n. 13.
30)
Pagamento del guardiano di Aracoeli P. Bernardino da Caprarola per la causa del legato Maglioni 21-6-1841, Lettera
del guardiano P. Onorato da Gradoli e decreto del Provinciale P. Luigi da Lucca per il legato di Secondiano Galassi 212-1842, Elenco dei legati (vi è un incomprensibile legato Cerrini 80 e altre 2 messe) 2-12-1842, Causa per il censo di
Luigi Petrighi 25-1-1843, Tassa per la causa al procuratore Luigi Toscani 5-4-1843, Conto della causa Petrighi 12-51843, Causa Costantino Bruschi e pagamento del guardiano al procuratore D. De Dominicis 19-11-1843, 6-6-1844,
Contratto dei Petrighi con Nicola Giannini per risarcire il debito di 88 scudi e 48 baiocchi al convento 19-6-1843,
Lettera di Giuseppe Latini al definitorio per un sepolcro nella chiesa e decreto del Provinciale P. Giuseppe M. da
Velletri 18-7-1843, Spesa di Fra Antonio da Perinaldo 4-2-1844 ASFT; Legato Lucidi e richiesta di riduzione degli
oneri 22-8-1844 Atti definitoriali 1830-1862 APA Ms. 57 f. 31; Lettere al delegato apostolico 9-9 e 23-11-1843,
Lettera del segretario generale al gonfaloniere 21-9-1843 Tit. XVII, fasc. 4, a. 1843, Consiglio 5-11-1843 Consigli
1840-1843 ASCT.
175
Il guardiano di S. Francesco P. Mariano da S. Remo il 26 aprile 1845 espose al
gonfaloniere la caduta di una parte della clausura verso Porta Nuova a causa delle piogge
ed il tetto
rovinato per le bufere invernali. Vi era anche il problema non risolto nel
restauro del campanile e la stabilità di una campana.
L’ingegnere Antonio De Rossi attuò la perizia del muro di clausura il 3 maggio e
quella del campanile il 5 maggio 1845, facendo rilevare le carenze del restauro precedente
di Mario Calvigioni. Per ben tre volte fu dato l’appalto dei lavori, ma nessuno si presentò
perché c’era poco da prendere. Si propose allora di fare il lavoro in economia sia per la
campana che per i tetti della chiesa con una spesa non superiore a 14 scudi.
Il 27 agosto 1846 si tenne il consiglio comunale sul restauro dei tetti della chiesa ed
il rifacimento del mattonato del chiostro. Intervennero il conte Pietro Falzacappa e
Lorenzo Benedetti, proponendo di controllare il lavoro da eseguirsi e di intervenire per i
tetti della chiesa, perché di pertinenza del comuna, ma non per il mattonato del loggione
del chiostro perché dei frati. Il discorso venne ripreso il 22 novembre, dopo che Pietro
Falzacappa, deputato a rendersi conto del lavoro, riferì sul da farsi 31) .
Il 5 settembre 1847 il gonfaloniere Lorenzo Soderini veniva pregato di intervenire
per fare restaurare il terrazzo del chiostro, liberando i frati dal pagare il contributo di 15
scudi, perché il comune usava l’acqua delle cisterne del chiostro per la popolazione. Il 14
maggio 1847 il P. guardiano si rivolse al delegato di Civitavecchia, dicendo che i restauri
non erano cominciati, perché la metà della spesa dovevano sostenerla i frati che in quel
momento non avevano l’occorrente. Il delegato apostolico Achille M. Ricci esortò il
gonfaloniere a riproporre l’argomento al prossimo consiglio comunale. Il consiglio si tenne
il 5 settembre 1847 col gonfaloniere Lorenzo Soderini, riprendendo il suggerimento del
delegato apostolico per l’ “Ordine Religioso tanto benemerito, giova alla conservazione
dell’acqua potabile nelle Cisterne nel Chiostro di pubblico diritto”.
L’intervento però
dovette essere solo parziale, perché in un conto del convento dal 10 settembre 1848 al 10
31)
Lettera del guardiano P. Mariano da S. Remo 26-4-1845, Perizia dell’ing. Antonio De Rossi 3-5-1845, Lettera
dell’ing. Antonio De Rossi al gonfaloniere 5-5-1845, Lettere del delegato apostolico 28-5 e 23-9-1845, Perizia per i
lavori della chiesa e del chiostro del capomastro Pietro Draghi 12-8-1846, Lettere al delegato apostolico 7-9, 27-10, 712-1846, Lettera al conte Pietro Falzacappa e Lorenzo Benedetti 19-9-1846, Segretario della delegazione apostolica 311 e 15-12-1846 Tit. XVII, fasc. 4, aa. 1845, 1846, Conto dei lavori del capomastro Pietro Draghi 21-12-1846 Tit.
XVII, fasc. 5, a. 1846, Consigli 27-8, 22-11-1846 Consigli 1844-1847 ASCT; Rinunzia alla cappella di S. Pasquale di
Orsola Miniati Boccaletti e del marito Giuseppe 21-8-1846, Restituzione degli arredi sacri di S. Agapito M. di Egidio
Querciola 8-7-1846, Pagamento di vino a Giuseppe Pirofochi 8-6-1846 ASFT.
176
novembre saldato il 7 gennaio 1849 sul mattonato, il materiale e gli operati furono pagati
dal padre guardiano 32) .
Naturalmente il P. guardiano saldava anche gli altri debiti dei frati: 60 scudi a
Lorenzo Benedetti per 2 botti di vino il 2-7-1847, 63 scudi a Nicola Battigalli per 20 some
di vino il 6-10-1847, 2 scudi e 83 baiocchi al farmacista nel 1848, 16 scudi e 83 baiocchi al
falegname Lorenzo Mencarelli, 7 scudi e 3 baiocchi al fabbro Luigi Ghignoni il 10-1-1848.
Vi sarebbero altri conti, ma il più interessante è quello che presenta le spese
sostenute per ogni frate il 9 gennaio 1849: Fra Egidio da Ciciliano laico 9 scudi, P.
Guglielmo a Montalto scudi 4, Fra Giuseppe Maria Papone da Boscomare chierico 4 scudi e
39 baiocchi, Fra Luigi da Farnese chierico 6 scudi, Fra Egidio Orengo da Castelfranco
chierico 5 scudi e 38 baiocchi, Fra Valentino da Badalucco chierico 8 scudi e 30 baiocchi.
P. Secondiano da Corneto 4 scudi e 20 baiocchi per un cappotto civico. Penso che si tratti
del periodo della Repubblica Romana che proclamava le leggi libertarie per i religiosi e
necessariamente i frati dovevano essere provveduti almeno del più necessario per essere
lasciati liberi. Non vi manca il conto del barbiere Michele Ciatti che riceveva 8 scudi per il
1848 e il 1 gennaio 1849 e del farmacista Gaetano Ciccolini con 6 scudi per il 1848.
Per alcune spese il guardiano si serviva degli amici di Roma come il P. Bernardino
da Caprarola per un tappeto, un parato in terzo di broccato, le pagelle del Terzo Ordine,
che naturalmente gli pagava. (Lettere 1 e 10-11-1849). Il guardiano di Viterbo P. Vincenzo
da Arnara gli richiedeva 30 messe da celebrare e gli lasciava la ricevuta il 15 dicembre
1849.
La Confraternita del Suffragio offriva alla chiesa di S. Francesco un tumulo per fare i
funerali, come si usava allora. Il guardiano P. Francesco da Corneto lo accettava dal
camerlengo Girolamo Maneschi il 16 gennaio 1849 33) .
Nel 1850 un forte turbine aveva causato molti danni ai tetti della chiesa e convento
di S. Francesco. Il guardiano P. Francesco da Corneto lo fece presente al consiglio
32)
Lettera del guardiano di S. Francesco al delegato apostolico 14-5-1847, Lettera del delegato apostolico Achille M.
Ricci 14-5-1847 Tit. IV, fasc. 9, Consigli 1847, Consiglio 5-9-1847 Consigli 1844-1847, Lettera del delegato
apostolico 13-9-1847 Tit. XVII, fasc.; 7 a. 1847 ASCT.
33)
Conto per gli operai del terrazzo 7-9-1849 ASFT. Cavallo comprato a Orte 4-6-1847, Conto di Lorenzo Berni 2-71847, Conto di Nicola Battigalli 8-10-1847, Conto di Fra Carlo da Livorno a P. Francesco da Corneto 11-12-1847,
Documento del legato Giuseppe Compagnoni 11-9-1847. Conto della spezieria dell’ospedale 1848 (interessante per le
cure di allora a base di mignatte e chinino), Conti del ferraro Luigi Ghignoni 10-1-1848, Conti di Fra Carlo da Livorno
28-1-1848, 27-1, 8-2, 23-10-1849 Conto di Cecala Ovidio 7-4-1848, Conti di Lorenzo Berni (vino) 7-5-, 2-7, 23-8, 159 e 16-10-1848, Conto di Geremia Pasquini 2-11-1848, Conto per i mattoni di Francesco Maria Falgari 8-12-1848,
Conto di stagnaro 19-12-1848, Conti del falegname Lorenzo Mencarelli 1848, 20-12-1848, Lettera di Fra Francesco
Antonio da Camaiore a P. Francesco da Corneto 30-12-1848 (vi sono 19 persone), Conto del farmacista Gaetano
Ciccolini 31-12-1848, Conto sui frati del convento (1849), Conto del barbiere Michele Ciatti 1-1-1849, Attestazione di
messe ricevute del P. Vincenzo da Arnara guardiano di Viterbo 15-12-1849 ASFT; Conto di opere impiegate per il
campanile 2-8-1849 Tit. XVII, fasc. 4, a. 1849 ASCT.
177
comunale e se ne discusse per la prima volta il 31 gennaio valutandoli 25 scudi. Il
guardiano si rivolse anche al definitorio provinciale, ma il 3 febbraio gli rispose che non
doveva intervenire. Si parlò più diffusamente del problema nei consigli comunali del 12
agosto 1851 e 29 settembre 1853. In quest’ultimo intervennero i consiglieri Lorenzo
Benedetti e D. Pietro Scappini, affermando che il comune doveva intervenire per
accomodare l’altare maggiore ed il loggiato del chiostro perché le cisterne servivano per
venire in contro alla popolazione in periodi di siccità, durante l’estate. La richiesta
proveniva da una lettera non datata del guardiano di S. Francesco unita al precedente
consiglio. Se ne accennava ancora nel consiglio dell’11-7-1854, ma senza alcuna
discussione. Però il 1 febbraio 1850 il P. Francesco da Corneto guardiano del convento
stipulava un contratto di ristrutturazione di una parte del loggiato con Gregorio Draghi.
Questo era il segno che il lavoro era urgente. Esso doveva iniziare il 4 febbraio col costo di
50 scudi e dove indicava il P. guardiano. Il Procuratore Angelo Francesco Marzoli non
poteva pagare senza un permesso scritto del P. guardiano. Il saldo sarebbe avvenuto solo a
lavoro compiuto anche con la revisione dei tetti del convento e della chiesa. Ciò avvenne il
9 maggio con la spesa di 72 scudi e 66 baiocchi. Alcuni benefattori concorsero nell’offrire il
materiale, altri con la moneta. Vi è da ricordare che in questo periodo lo Stato Pontificio
era in serie difficoltà, perché il 9 febbraio 1849 era stata proclamata la Repubblica Romana
e solo il 2 luglio si era dovuta arrendere ed il 3 Roma era occupata dai Francesi e Pio IX vi
ritornava solo il 12 aprile del 1850. Questa situazione fluttuante si notava anche negli
interventi politici in questo campo ed il guardiano giustamente faceva leva sulla sua buona
disposizione della popolazione per gli interventi più urgenti.
Così
egli
pensò
a
saldare gli impegni col lanificio dei frati dal 1849 al 1850 il 22-11-1850, i fabbri Luigi
Ghignoni ed il figlio Giuseppe il 3-12-1851. Non gli mancarono tuttavia delle rogne per il
marchese Carlo Calcabrini domiciliato in Civitavecchia, denunziato da Luigi Polsini,
andandoci di mezzo P. Francesco Giacchetti che secondo il diritto canonico non poteva
comparire in giudizio, ma il 7 maggio 1851 egli veniva condannato a pagare 5 scudi e 38
baiocchi e mezzo, pur essendo difeso dall’avvocato Benedetto Blasi.
All’inizio del 1849 Giuseppe Falzacappa dava il permesso di accomodare il tetto
della cappella di S. Brigida di cui aveva il patronato, come egli dichiarava il 10 agosto 1851.
Il muratore Francesco Contadini aggiustava il tetto della cappella centrale detta
“cappellone” per 2 scudi e 80 baiocchi che gli venivano saldati il 4-9-1851. Allo stesso l’113-1852 veniva saldato il conto per il lavoro sullo stesso luogo di 3 scudi, 45 baiocchi per 75
canali, 30 tegole e la calce ridata dove occorreva. Lo stagnaro Evangelista Pasquini riceveva
178
2 scudi e 69 baiocchi il 20 dicembre 1854. Non mancava il conto della lavandaia Teresa
Zucchetti, che veniva pagata dal guardiano il 31 giugno 1851 con 5 scudi 34) .
Il 29 settembre 1853 il P. guardiano faceva presente al consiglio comunale che una
parte del loggiato del chiostro era tutto rovinato e questo incideva sulle due cisterne che
raccoglievano l’acqua per la popolazione. Se ne discusse nei consigli del 29 settembre e 17
novembre.
Si presentò il problema dei legati di messe, che non sempre venivano pagati dagli
interessati. Così era avvenuto con Costantino Costantini. Per questo vi erano stati degli
anni in cui le messe non furono più celebrate e ripresero solo quando egli le pagò di nuovo.
Così i frati cercarono di ricostruire la storia di altri legati, come fece il P. Secondiano da
Corneto. Il P. Francesco da Corneto ricorse alla Congregazione che impose la celebrazione
di 10 mesi entro tre mesi per le messe dimenticate.
Il 26 giugno 1855 intervenne il Provinciale P. Antonio da Cipressa con una lettera al
P. guarrdiano che imponeva di rinunziare a tutti i legati nelle mani dei fondatori o loro
eredi o in quelle del vescovo. In particolare si trattava di quelli che erano stati al centro di
controversie, cioè quello di Bruschi Costantino, quello di Costantino Costantini, Petrighi,
Compagnore e Maglione. Era una decisione saggia 35) .
Il Provinciale P. Giuseppe da Velletri il 31 maggio 1856 comunicava al guardiano di
Corneto il privileggio concesso da Pio IX ai sacerdoti dell’Ordine Francescano di celebrare
ogni sabato la messa votiva dell’Immacolata. Era una delle notizie liete, dopo la
proclamazione del domma dell’Immacolata nel 1854.
Il 18 aprile 1857 fu sepolto nella cappella dell’Immacolata Concezione Carlo Zerbini
con il permesso di D. Ippolito Bruschi, Michele Bruschi Querciola e fratelli, Giuseppe
Avvolta e fratello Lorenzo, Pietro Bruschi e fratello Filippo con il benestare del provicario
generale Tommaso De Sanctis. Non era poca la trafila per essere sepolti in una cappella
gentilizia. Eppure ogni tanto coloro che ne erano i titolari cercavano di farsi restringere gli
34)
Atti definitoriali 1830-1862 APA Ms. 57 ff. 63, 96; Consigli 31-1-1850, 12-8-1851 Tit. IV, fasc. 9, Consigli 18501851, Conto del muratore Francesco Contadini 4-9-1851 Tit. XVII, fasc. 4 a. 1851 ASCT; Contratto di Gregorio
Draghi e P. Francesco Giacchetti da Corneto 1-2-1850 (tre copie), Materiale occorso per il restauro dei tetti del
convento e della chiesa, doni e saldi 1850, Conti del P. Antonio da Cipressa a P. Francesco da Corneto 25-2 e 6-61850, Petizione di riduzione di oneri di Giuseppe Falzacappa e responso 9-7-1850, Conti di Fra Carlo da Livorno 22-11
e 3-12-1850, Conto di Fra Francesco da Camaiore 31-12-1850, Causa Polsini contro il sindaco apostolico marchese
Calabrini e il guardiano P. Francesco da Corneto 16-5-1851, Conto della lavandaia Teresa Zucchetti 31-61851,Attestato di Giuseppe Falzacappa per riparare il tetto della cappella di S. Brigida nel 1849 10-8-1851, Conto del
ferraro Luigi Ghignoni 31-12-1851, Conto di Gregorio Draghi 10-1-1852 ASFT.
35)
Consigli 29-9 e 17-11-1853, 11-7-1854 Tit. IV, fasc. 9, Consigli 1853, 1854, Lettera del delegato apostolico
Gramiccia 11-11-1853 Tit. XVII, fasc. 4, a. 1853 ASCT; Supplica del P. Francesco da Corneto per il legato Costantino
Costantini e responso 10-2-1853, Supplica del P. Francesco da Corneto per gli altri legati e responso 23-7-1853, Lettere
del P. Secondiano da Corneto 16-8-1854, 1855, Lettera del prosindaco apostolico Francesco Angelo Marzoli 29-8-1855
ASFT.
179
obblighi. Così Giuseppe Falzacappa che avrebbe dovuto fare celebrare 10 messe annue
all’altare della cappella di S. Brigida a 20 baiocchi l’una dal 1830 non aveva più soddisfatto
all’impegno e vi restavano 190 messe dal 1830. Il 9 luglio 1850 gli fu concesso di
restringersi a sole 2 messe.
Il 4 aprile 1860 il Provinciale P. Bernardino da Caprarola scrisse al guardiano P.
Michelangelo da Caprarola di giungere ad un accomodamento con Sisto Maglioni di
Civitella di Subiaco (Bellegra) che fin dal 1843 progettava di estinguere una cifra di 183
scudi del 26 giugno 1827 con due rate di 50 e 58 scudi 36) .
Nel 1858 si ripresentava il problema del restauro dei tetti e del mattonato del
loggione del chiostro. L’ingegnere Giuseppe Ortis veniva pregato di recarvisi per
un’ispezione. Egli vi andò il 4 e 10 settembre, chiedendo come compenso 3 scudi e 45
baiocchi. Il 10 settembre egli redasse la perizia dei tetti delle navate della chiesa e
cappellone per la superficie di metri quadri 1363 per la spesa di 99 scudi e 32 baiocchi. Il
lavoro fu affidato al muratore Pietro Pacchelli, ma a lavoro finito venne a costare 105 scudi
e 23 baiocchi, secondo la perizia dello stesso ingegnere del 13 giugno 1859 più 3 scudi e 45
baiocchi per la stessa perizia il 17-6-1859. Non vi si parlava del loggiato.
Il 13 marzo 1861 fu discussa in consiglio comunale la necessità di riparare
urgentemente la conduttura interna del bottino di S. Francesco che conduceva alla fonte
pubblica ed il 27 gennaio 1862 si disponeva che la chiave di tale bottino fosse tenuta solo
dal custode e chi chiedeva l’acqua per smorzare la calce doveva pagare al fontaniere 20
baiocchi per l’incomodo.
Il guardiano P. Anacleto da Velletri il 23-9-1862 scrisse una lettera al gonfaloniere
Giuseppe Tommaso Dasti, perché nella cappella dello Sposalizio di Maria, patronato della
famiglia De Sanctis vi era umidità. Egli vi aveva mandato ad ispezionarla il mastro
muratore Francesco Contadini, che vi aveva trovato 3 travicelli rotti con avvallamento,
dove scorreva liberamente l’acqua. Vi salì anche Pietro Pacchelli, che oltre i 3 travicelli vi
notò 20 filagne rotte ed un paradosso. I De Sanctis erano disposti a collaborare alla spesa,
ma richiedevano una perizia dell’architetto comunale. Il gonfaloniere lo faceva presente
all’ingegnere Francesco Dasti, che il 15 ottobre redigeva la perizia ed esortava ad eseguire i
lavori perché il tempo era ancora buono.
Il 5 aprile 1863 il gonfaloniere faceva sapere al delegato di Civitavecchia che il P.
guardiano aveva intenzione di rifondere la campana della Palestrina, rotta da molti anni,
36)
Lettera del Provinciale P. Giuseppe da Velletri 31-6-1856, Sepoltura di Carlo Zerbini nella cappella dell’Immacolata
Concezione 18-4-1857, Lettera del Provinciale P. Bernardino da Caprarola per l’accomodamento del legato Maglioni
17-4-1860 ASFT.
180
con il concorso popolare ed un’offerta di 25 scudi. Il delegato gli rispondeva il 6 aprile
rilevando l’importanza storica di essa e quindi conservarla e fonderne una nuova.
Egli
però dimenticava che essa non era più l’originale, perché era stata nuovamente fusa nel
1697. Il problema fu sottoposto ai consigli comunali del 16 e 26 aprile ed ottenne 8 voti
favorevoli e 2 contrari 37) .
Un problema molto più urgente si presentò il 14 novembre 1863, quando per
mancanza di scoli adeguati le piogge penetrarono nella chiesa dalla parte del campanile. Il
17 il P. Anacleto lo fece presente al gonfaloniere Giuseppe Dasti che pregò l’architetto
comunale di rendersene conto e concesse al P. guardiano 6 scudi e 80 baiocchi per i lavori
più urgenti. L’architetto Francesco Dasti redigeva il preventivo di spesa per il lavoro
completo attorno al campanile di 25 scudi e 84 baiocchi, con uno scavo di mq. 7,50. egli ne
lasciava un interessante disegno che è l’unico pervenutoci. Il delegato apostolico di
Civitavecchia il 14 dava il suo consenso, dopo qualche osservazione dell’architetto
pontificio, assegnando lo sterro agli “Aquilani”, che dovevano essere gli specialisti tra gli
abitanti di Corneto. per la perizia dell’architetto Dasti venivano assegnati 2 scudi e 40
baiocchi 38) .
Alessandro Ciuffoletti di Corneto aveva lasciato un legato di 500 scudi per la
celebrazione di messe per sé e per i parenti defunti col fruttato del censo, con tante messe
secondo la tassa diocesana. Questo fu discusso in Aracoeli dal definitorio provinciale il 13
ottobre 1865 ed il delegato provinciale P. Bernardino da Moriano firmò il decreto di
approvazione lo stesso giorno. Il guardiano del convento di Corneto P. Anacleto da Velletri
lo accettò con i suoi discreti e consiglieri P. Francesco da Farnese, P. Liberato da
Tessennano, P. Casimiro Mola da Orsogna. Era il 19 ottobre ed il documento era munito
del nuovo sigillo del convento in cui era rappresentato S. Francesco che riceveva le
37)
Perizia per il restauro dei tetti di S. Francesco dell’ing. Giuseppe Ortis 10-9-1858, Lettera dell’ing. Giuseppe Ortis al
gonfaloniere 13-9-1859, Lettera dell’ing. Giuseppe Ortis sulla perizia dei lavori, eseguiti da Pietro Pacchelli 17-6-1859,
Nota di competenze dell’ing. Giuseppe Ortis 17-6-1859, Lettera del delegato Domenico Guardalupi per aiuti allo scavo
del corpo di S. Chiara in Assisi 20-9-1862, Lettera del P. Anacleto da Velletri al gonfaloniere Giuseppe Dasti per la
cappella dello Sposalizio di Maria 23-9-1862, Lettera del segretario Giacomo Pampersi 1-10-1862, Lettera del
gonfaloniere Giuseppe Dasti 2-10-1862, Lettera del gonfaloniere Giuseppe Dasti e Domenico De Sanctis 15-10-1862,
Lettere al delegato apostolico per la rifusione della “Pelestrina” 5 e 7-4-1863, Lettera del delegato apostolico per la
rifusione della “Pelestrina” 5 e 7-4-1863, Lettera del delegato apostolico 6-4-1863 Tit. XVII, fasc. 4 aa. 1858, 1859,
1862, 1863, Conto di lavori di Pietro Pacchelli 11-10-1862, Stato di lavori di Pietro Pacchelli per il tetto della navata
destra della chiesa e cappella De Sanctis dell’architetto Francesco Dasti 31-10-1862 Tit. XVII, fasc. 14, a. 1887,
Consigli 13-3-1861, 27-1-1862, 16 e 26-4-1863 Tit. IV, fasc. 9, aa. 1861, 1862, 1863 ASCT. Mecocci P. Luigi Sergio,
S. Francesco di Tarquinia nel secolo XVII in Bollettino dell’anno 1991 STAS 130.
38)
Lettera del P. Anacleto da Velletri 17-11-1863, Lettera del gonfaloniere Giuseppe Dasti 17-11-1863, Rapporto e
perizia del campanile dell’ing. Francesco Dasti 26-11-1863, Lettere del gonfaloniere Dasti per il P. Guardiano, per
l’architetto, per il delegato apostolico (sono tre lettere diverse, due del 28 ed una del 29-11-1863, Lettera del delegato
apostolico 14-12-1863, Disegno del lavoro di scvo dell’architetto Francesco Dasti 1863, Conto per il lavoro urgente dei
tetti della chiesa e coro di Giovanni Pilastri 20-11-1863 Tit. XVII, fasc. 114 a. 1887 ASCT.
181
stimmate e non vi era più il martire S. Agapito, come si è osservato altrove. Attorno alla
figura del santo vi era l’iscrizione: SIG. CONV. MIN. OBS. S. FRANCISCI CORNETI.
Il 25 maggio 1866 Giuseppe Ghignoni chiese la sepoltura in S. Francesco,
succedendo ad Antonio Litardi e la famiglia De Sanctis chiedeva il possesso della sepoltura
già concessa dal P. Clemente da Farnese.
Nella chiesa di S. Maria in Castello venivano demoliti gli altari laterali ed il
guardiano di S. Francesco chiedeva al vescovo Mons. Camillo Bisleti la statua di S. Antonio
che gliela concedeva l’11 maggio. Appena un secolo prima questo sarebbe stato l’assurdo
per le polemiche tra Osservanti e Conventuali per la novena e festa di S. Antonio da
Padova.
Sempre riguardo ai legati di messe il 25 gennaio 1867 il prosindaco e procuratore
dei fatti Francesco Angelo Marzoli col procuratore Giuseppe Bruschi citavano davanti al
vicario generale della diocesi l’amministratore canonico Vincenzo Lastrai, perché Luigi
Petrighi ed Antonia difesi da Nestore Toscani e Luigi Pirri, non avevano pagato il censo al
13 per cento su 500 scudi negli anni 1864, 1865, 1866. Il processo si concluse il 14 giugno
con la condanna del Petrighi a pagare 45 scudi e 36 baiocchi più 10 scudi per le spese
processuali.
Il 7 aprile 1867 il P. Bonaventura da Roma richiese al comune un contributo per la
proclamazione della santificazione di S. Leonardo da Porto Maurizio da parte di Pio IX il
29 giugno. Intervennero in favore il commendatore Giuseppe Dasti ed il consigliere
Giuseppe Ghignoni e gli concessero 25 scudi, considerando il santo comprotettore della
città, perché vi aveva predicato una missione nel 1725 (1735). Naturalmente si celebrò la
festa nella città ed il guardiano di S. Francesco il 9 settembre ottenne 30 scudi 39) .
Il 17 giugno 1868 si discuteva in consiglio comunale la richiesta del P. guardiano di
essere risarcito dei danni arrecati nell’orto del convento dalle truppe francesi. Il comune
stabilì che gli venissero pagati 12 scudi al mese dal momento dell’installazione. Nel 1864 il
comandante della guarnigione era Lacarcet. Con la caduta dello Stato Pontificio questo fu
considerato un sopruso.
Il 29 settembre 1868 il guardiano chiedeva un aiuto per restaurare l’organo della
chiesa. La magistratura offriva 110 scudi, ma nel consiglio comunale del 4 ottobre si
parlava di 110 lire. Vi era differenza di concorso alla spesa, se non vi era un errore. Si
39)
Atti definitoriali 1862-1905 APA Ms. 58 ff. 15, 17; Lettera del P. Bernardino da Moriano 13-10-1865, Atto di
accettazione del legato Alessandro Ciuffoletti 19-10-1865, Richiesta della statua di S. Antonio di S. Maria in Castello,
Concessione della statua di S. Antonio 11-5-1866, Sentenza della causa di Luigi Petrighi e Antonia e convento S.
Francesco 14-6-1867 ASFT; Consigli 7-4 e 7-9-1867 Consigli 1867-1870 ASCT. Mecocci P. Luigi Sergio, S.
Francesco di Tarquinia nel secolo XVIII in Bollettino dell’anno 1992 STAS 190-193.
182
ebbero 14 voti a favore e 3 contrari. Era l’ultimo consiglio comunale che si interessava in
senso positivo dei problemi dei frati prima dell’occupazione dello Stato Pontificio anche sul
luogo.
Esistono in questo periodo altri conti pagati dal P. guardiano come quello del
ferraro Giuseppe Ghignoni il 29 gennaio 1869 di scudi 22 e 6 baiocchi. Vi sono quelli del
muratore Giovanni Piastri di 6 scudi e 25 baiocchi per il 1868 e 19 scudi e 25 baiocchi per il
restauro della chiesa nel 1869 e pagati il 6 maggio.
Qualcuno pensava ancora ai diritti di sepoltura in chiesa come Secondo Musa che
affermava di essere l’erede di Mario Martellacci. Il 16 novembre 1869 lo testimoniavano i
domestici Giuseppe e Calogera Rainoni che firmavano con la croce avallata da Gaetano
Ciccolini 40) .
I rapporti con lo Stato Italiano
Il 20 settembre 1870 con l’occupazione di Roma da parte dello Stato Italiano
terminava il potere temporale dei Papi. Le ripercussioni si fecero sentire prima in una
forma blanda, poi più drastica anche nel convento S. Francesco di Corneto.
In questo periodo di transizione il guardiano del convento era P. Angelo (Luigi
Zaccaria) da Subiaco. Egli era anche cappellano degli ergastolani che lavoravano alle saline
e curava la cappella di S. Firmina al Porto Clementino, che aveva alcune stanze per il
cappellano e gli arredi sacri. Chi aveva la responsabilità si mostrava già poco generoso, non
dando le chiavi delle poche stanze od occupandole con biancheria. Nel convento vi era
qualche frate ospite di altri luoghi come il P. Enrico, raccomandato dal P. Generale al P.
Angelo il 1 aprile. Lo stesso P. Generale gli richiedeva i testi di teologia morale usati
nell’anno precedente come Perrone e Scavini il 20 aprile. Questo significava che neanche la
curia generale era in buone condizioni per gli studenti dell’Ordine che erano allora in
Aracoeli a Roma. Lo stesso P. Angelo chiedeva alle autorità dell’Ordine di poter sostituire il
sindaco apostolico che non funzionava più con un sacerdote o fratello laico capace di farlo.
Il prefetto della Congregazione dei Religiosi il cornetano Angelo Quaglia lo
concedeva il 3 maggio 1870.
40)
Consiglio 23-10-1864 Consigli 1864 Tit. IV, fasc. 9, Consigli 17-6, 29-9 e 4-10-1868 Consigli 1867-1870, Lettera
del guardiano di S. Francesco per il restauro dell’organo 1868, Lettera del gonfaloniere Francesco Angelo Marzoli al
delegato apostolico 10-10-1868, Lettera del delegato apostolico Ferdinando Scapitta al gonfaloniere 17-10-1868 Tit.
XVII, fasc. 7 a. 1868, Statistica 1869 Tit. XV, fasc. 5, Conto del muratore Giovanni Piastri 6-5-1869, Tit. XVII, fasc. 4,
a. 1869 ASCT; Conti del ferraro Giuseppe Ghignoni 29-1-1869, Attestato di diritto di sepoltura in S. Francesco di
Secondo Musa 16-11-1869 ASFT; L. Dasti, Notizie storiche 392.
183
Con lo Stato Italiano il 1870 fu senza traumi particolari, ma nel 1871 cominciarono
le prime difficoltà. Il 15 febbraio furono richieste le stanze della cappella di Porto
Clementino per alcune brigate di guardie di Finanza. I frati lasciarono loro i locali al piano
terra consistente in una cucina e due al piano superiore, riservandosi una stanza per il
cappellano, come scrisse il vicario del convento P. Bonaventura da Castelmadama il 1
marzo 1871. Il 15 i frati furono pregati di predicare gli esercizi spirituali agli ergastolani in
preparazione della confessione e comunione pasquale. Ci furono però delle restrizioni,
perché gli ergastolani potevano essere confessati solo mezzora prima della messa e la
preparazione alla Pasqua poteva avvenire prima di Pentecoste. Ai frati fu tolta la
retribuzione mensile e solo dietro le insistenze del P. Angelo, si decisero a pagare le 35 lire
mensili e 80 centesimi da febbraio ad ottobre 1871. Dopo ogni volta che facevano un
servizio festivo, venivano date 4 lire dal sottocapo. Non venivano più offerte le 100 libbre
di sale annuale. Il P. Angelo se ne lamentò ed il governo provvide a concederle per il 1871 e
1872. Con tutte le restrizioni imposte specialmente nella libertà di assistere gli ergastolani,
i frati continuarono a prestare il loro servizio. Il P. Angelo ne centrava il problema in una
sua lettera dicendo: “a sola ragione di non lasciare quei condannati abbandonati in mezzo
ad una vasta campagna, senza verun regno di Religione, e privi di Dio che può renderli alla
società moralizzati, ed ancor non giovando a questo fine la sola forza fisica, senza più la
morale”.
Il sottoprefetto A. Lipari il 31 luglio rispondeva da Civitavecchia, affermando che il
servizio religioso era mutato e che i Minori Osservanti non erano più riconfermati
cappellani come antecedentemente. Era la logica premessa della decisione del direttore di
Civitavecchia Guglielmo Gizzi, che esonerò dal servizio il P. Angelo da Subiaco, prendendo
a motivo che egli era stato condannato a 5 giorni di carcere, perché aveva reclamato per il
comportamento scorretto di un trombetto del comune, durante un funerale nella chiesa di
S. Francesco.
I frati furono così esonerati da cappellani di Porto Clementino, dopo 50 anni di
servizio continuo verso gli ergastolani delle saline, senza nessun riconoscimento, anzi
vituperati. Erano evidenti i mutamenti politici e religiosi che pesavano su questa soluzione.
Il 10 gennaio 1873 il P. guardiano riconsegnò gli arredi della chiesa del bagno penale
di Porto Clementino. Ed altrettanto logica era la risposta negativa della direzione delle
saline per la concessione delle 100 libbre di sale per il 1873 41) .
41)
Lettere del P. Angelo da Subiaco 18-3, 22-3-1870, 3-10, 5-12-1871, 10-4, 12-4, 3-7-1872, Lettere del direttore delle
saline Salvatore Francesco Calamia 21-3-1870, 4-2-1871, Lettera del sottotenente delle guardie doganali P. Fucini 152-1871, Lettere del capoposto serg. Gamberini 15-3, 5-4-1871, Lettera di D. Bizzarri 23-3-1871, Dichiarazione del
184
Come è possibile osservare da quanto sopra, per il convento di S. Francesco il 1871
era stato un anno di amarezze edulcorato da qualche gioia. Una di queste era quella di
voler impiantare un parafulmine sul campanile di S. Francesco e sulla torre cittadina
dell’orologio per i danni causati dai fulmini. L’idea era sostenuta dal sindaco Luigi Dasti e
dal consigliere Luigi Fontanarosa. Essa fu discussa in consiglio comunale il 16 aprile ed
accettata.
I guai però cominciavano nel marzo 1871, quando il governo richiedeva gli
accertamenti di ricchezza mobile secondo il modello B N°118 art. 41-44. Fu incaricato a
prepararlo il procuratore del convento Francesco Angelo Marzoli, in assenza del sindaco
apostolico Francesco Bruschi Falgari. Egli stilava il resoconto in 864 lire e 37 centesimi per
i vari censi ricevuti, più 429 lire e 60 centesimi per la cappellania del mare e 100 lire per le
elemosine. Vi era una spesa di 1364 lire e 22 centesimi per una comunità numerosa, e
restavano di utile solo 29 lire e 25 centesimi. Molto interessante però era l’osservazione che
faceva il procuratore: “Si fa osservare che i mendicanti non hanno beni stabili, e vivono di
Elemosina; e la loro amministrazione, è sotto la direzione del Sindaco Apostolico, ed i censi
Numerati nella categoria A sono considerati come legati di messe. Il censo poi di Petrighi,
non più si riscuote perché decaduto il Proprietario”.
Questo tuttavia non era sufficiente per un governo che voleva imporre la tassa
dell’asse ecclesiastico, spogliando le comunità religiose che non avevano reddito, togliendo
loro prima anche il minimo che avevano per vivere, consegnando poi una pensioncina
irrisoria.
Nei secoli precedenti il convento in realtà era solo in uso dei frati, ed il comune farà
leva proprio su questo per appropriarsi del convento contro l’indemaniamento.
Nella dichiarazione dei beni immobili dello stesso anno si ha una nota interessante
per capire il criterio di estimo e per sapere come era in realtà il convento con le sue
pertinenze. Essa è denominata:
“Assegna del fabbricato richiesto dal Governo nel 1871.
1 - Natura e destinazione. Convento de MM Osservanti. Piazza S. Francesco. Uso
d’abitazione P. Angelo da Subiaco guardiano del Convento: antica data in Corneto, sotto la
lettera S: Piano terreno vani N°7;
I° Piano N°24. Superficie metri 650, estimo lire 400.
vicario P. Bonaventura da Castelmadama 18-3-1870, Lettere del direttore del bagno penale G. Gizzi 13-4, 16-11, 9-121871, 9-1-1873, Lettere del sottoprefetto di Civitavecchia A. Lipari 10-11-1871, 31-7-1872, Lettere di A. Poggi 2-51872, 28-1-1873, Lettere del direttore delle saline I. Zuntini 15-4-1872 ASFT.
185
2 - Chiesa di S. Francesco etc come sopra sotto la lettera T metri 1860 pianterreno
N°2.
3 - Campanile della Chiesa N°1207 metri 80 come si rileva dal Catasto Pontificio.
Osservazione: Il dichiarante fa osservare che il convento denunziato è di proprietà
del Comune di Corneto.
Nel governo passato si doveva pagare scudi 80 ma si era esente”.
Queste dichiarazioni furono presentate il 30 marzo 1871. Il P. Angelo il 7 luglio vi
aggiunse che i frati avevano un orto con scarsa produttività, perché esposto ai venti e senza
acqua, con reddito presunto di 50 lire. Il fabbricato del convento aveva 26 vani piccoli al
primo piano, 7 al pianoterra, un piccolo fienile, con un reddito di 400 lire. Vi erano gli
assegnamenti del comune di 644 lire annue, 107 e 50 centesimi dal marchese Sacchetti per
due magazzini, il censo Petrighi 80 lire e 62 centesimi, il legato Compagnoni di lire 32 e 25
centesimi per il totale di lire 864 e 37 centesimi.
Lo Stato Italiano cominciava ad applicare le sue tasse sopra i beni dei frati, dopo la
loro denunzia dei redditi. Così nel 1872 vi fu un piovere di tasse a nome di P. Angelo da
Subiaco. Il 12 giugno 13 lire e 68 centesimi per mano morta, 1 lira e 17 centesimi per la rata
di 7 lire e 8 centesimi annui il 18 giugno, 154 lire e 44 centesimi di ricchezza mobile il 13
luglio, 27 lire e 36 centesimi per il primo semestre 1872 per mano morta il 4 agosto, 30 lire
e 96 centesimi il 30 novembre per mano morta, la stessa parte di ricchezza mobile del 1872
di lire 28, 14 invece di quella completa di lire 168,84 (senza data). I frati si rivolsero al
comune per avere la riduzione di tasse da 1.000 lire a 600, ma l’esattore si oppose ed il 15
maggio l’estimo dei beni immobili fu innalzato da lire 400 a 450. L’agente Muzio il 23
luglio 1872 comunicava che l’appello fatto il 19 giugno per la riduzione di ricchezza mobile
veniva annullato.
Le tasse erano costanti, ma il comune cominciava a non pagare ai frati una rendita
di 8 scudi e 23 baiocchi da esso amministrata e pagata fino al primo semestre 1871. Il 10
aprile 1872 il P. Angelo da Subiaco se ne lamentò ed il 25 fu trattato l’argomento in
consiglio comunale, ottenendo 9 voti favorevoli ed uno contrario.
Nel computo delle tasse veniva considerato anche il legato Petrighi, rogato dal
notaio cornetano Antonio Forcella nel marzo 1781, che era stato al centro di notevoli
discussioni giuridiche. Il P. Cosma Neri da Cori (non di Corneto come nel documento),
residente a Civitavecchia ne richiedeva il rinnovo dei diritti contro Giovanni Petrighi fu
Agapito ed i figli Luigi ed Antonio del defunto Giovanni. Si trattava di una quota di 500
scudi pari a lire italiane 2.687 e 50 centesimi, corrispondenti ad un reddito annuo del 3 per
cento. Il documento veniva richiesto a nome del P. Cosma da Fra Antonio da Corneto l’11
186
novembre 1872. Era una delle ultime controversie giuridiche per i legati della chiesa di S.
Francesco di Tarquinia. Nel 1873 continuarono le tasse perché il 20 marzo il P. Angelo
dovette pagare una “tassa a doppio decimo di mano morta” di 27 lire e 36 centesimi. Si
cercava di ridurre i frati alla completa miseria per poterli poi cacciare definitivamente dal
loro convento 42) .
Intanto il comune sulla scia politica del tempo cercava di decurtare le sovvenzioni
verso i frati. Il 15 settembre 1872 il consigliere Angelo Falzacappa richiedeva l’abolizione
dei sussidi al convento di S. Francesco “a causa del contegno avverso alla cittadinanza, ed
alla Nazione, spiegato dai Religiosi di quel Convento come meglio si legge nel foglio
inserito”. Nel consiglio comunale del 29 ottobre fu portata avanti tale proposta. Si trattava
solo della richiesta dei frati su quello che già amministrava il comune da parte loro, cioè di
120 scudi pari a lire 645 affidati al comune con rescritto di Benedetto XIII. Falzacappa,
Lucidi, Grispini e Calamia erano per l’abolizione. Il consigliere Rispoli chiedeva di formare
una commissione. Il consigliere Calvigioni invece diceva che il comune non aveva diritto di
fare questo. Per l’abolizione dei sussidi 9 votarono a favore e 7 contro. Per la formazione di
una commissione 10 furono favorevoli e 6 contrari, dopo essere uscito dal consiglio il
Calvigioni. Questo era segno della divisione che vi era nello stesso consiglio e che la
proposta in realtà non era secondo giustizia, ma faziosa e solo rispondente alla politica del
tempo. In realtà il guardiano del convento P. Angelo da Subiaco, si era mostrato
comprensivo verso il comune facendo allargare la strada dei magazzini, cedendo una parte
di orto, dopo avere chiesto la dovuta autorizzazione. Questo non era poco in un periodo
così difficile.
Nel 1873 le relazioni si complicano maggiormente per la pressione politica del
governo. Il 19 maggio infatti il commissario governativo E. Novelli prese possesso della
biblioteca del convento a causa del decreto prefettizio del 27 aprile. Egli si fece consegnare
le chiavi dal guardiano P. Angelo che dovette farlo, protestando però che era contro il
diritto canonico. Il commissario vide gli indici delle opere contenute nella biblioteca ed il
P. guardiano gli spiegò che alcune mancavano, perché i frati che ne erano proprietari le
avevano portate via, quando erano dovuti andarsene dal convento. Il commissario
riconsegnò poi le tre chiavi al P. guardiano. Egli prese possesso anche del quadro del coro
rappresentante la Vergine col Bambino al centro e ai lati S. Francesco, S. Lorenzo (S.
Agapito) ed alcuni santi. Oltre il commissario firmarono l’atto il P. Angelo da Subiaco
42)
Dichiarazione dei redditi 30-1-1871 (sono sei fogli ed in uno vi è riassunta la quota dei redditi dal procuratore
Francesco Angelo Marzoli), Denunzia di rendite del convento S. Francesco del guardiano P. Angelo da Subiaco 30-7-
187
guardiano del convento, Salvatore Calamia facente funzione di sindaco e testimone, ed
Egisto Toscani anche egli testimone.
Il comune decise di trasportare il bollettino di acqua dentro il convento di S.
Francesco ed il Provinciale P. Mariano Greco da Velletri chiese il permesso alla
Congregazione dei Vescovi e Religiosi, perché non si poteva fare altrimenti ed il cardinale
Angelo Quaglia diede l’approvazione il 2 marzo 1873. Sempre in questo periodo così
difficile il P. guardiano Angelo da Subiaco chiese alla stessa congregazione che potesse
fungere da sostituto del sindaco apostolico un fratello laico e gli fu accordato dal prefetto
della congregazione il cardinale A. Bizzarri il 9 giugno 1873.
La legge di soppressione degli Ordini Religiosi applicata in altre parti d’Italia dal
1866 entrava in funzione anche nella Provincia Romana dei Frati ed il generale dell’Ordine
P. Bernardino da Portogruaro il 10 agosto 1873 sintetizzava le disposizioni già prese dalla
Congregazione dei Vescovi e Religiosi anche per il convento di Corneto ed il nuovo P.
Provinciale Giuseppe da Caprarola ne confermava il contenuto il 1 settembre 1873.
Il sindaco Luigi Dasti l’11 agosto 1873 dichiarava al P. guardiano del convento che il
busto storico di S. Agapito apparteneva al comune. Il P. Angelo da Subiaco il 13 agosto
1873 richiedeva al sindaco Luigi Dasti di poter usufruire dell’annuo assegno, come era
stato discusso nei consigli del 20 settembre 1872 e 3 maggio 1873, mostrandone i titoli. Ed
il 16 agosto 1873 lo pregava di intervenire in aiuto economico per la festa del patrono S.
Agapito, che avveniva il 18 agosto. Questo era perché “Non facendo una tal festa s’incontri
senza meno l’indignazione del Paese sempre a nostro danno”.
Vi erano quindi delle
complicazioni religiose, data l’importanza della festa patronale ancora in vigore, pur con
tante restrizioni.
Il comune però ormai aveva tutti altri problemi da tutelare, sotto la spinta della
politica imperante. Vi era il problema di prelazione, anzi di patronato su alcuni enti
ecclesiastici soppressi come i conventi di S. Francesco, di Valverde, del Ritiro dei
Passionisti e del Beneficio del Rosario. Se ne discusse nel consiglio comunale del 25
settembre 1873.
Fu nominata una commissione per studiare il problema e furono eletti
Ildebrando Lucidi con 10 voti, Giuseppe Panzani con 10 voti, Angelo Falzacappa con 6 voti.
Furono esclusi Secondiano Cesarini con 5 voti, Giuseppe Bruschi con 1 voto e Alfonso
Grispini con 1 voto.
1871 (minuta della denunzia per le molte correzioni delle singole voci), Tasse 2-11 e 24-12-1871. 14 e 16-5, 12 e 18-6,
13 e 23-7, 4-8, 30-11-1872, 20-3-1873 ASFT; Consigli 12-11-1871, 25-4-1872 consigli 1871, 1872 ASCT.
188
L’11 ottobre sotto la presidenza di Salvatore Calamia fu esaminata la richiesta dei
frati sul legato Angennes, cioè dell’antico cardinale del 1500 e la risposta fu positiva per il
1873, perché già vi si era provveduto per il 1872 il 25 aprile di tale anno.
Il 26 ottobre il sindaco Luigi Dasti sottopose al consiglio comunale la richiesta dei
frati di essere compensati dal comune per avere concesso fin dal 21 dicembre 1872 due
corridoi del chiostro per gli “stalloni di monta del governo e per i cavalli di truppa di
passaggio”. La risposta ai frati fu negativa. Tuttavia quest’argomento servì al comune per
dimostrare che aveva diritto alla proprietà del convento, come è ricordato in una minuta
del 15 dicembre 1873 al ricevitore del registro e bollo di Civitavecchia.
La commissione
comunale fece il suo rapporto sui vari enti ecclesiastici soppress il 1 dicembre. Il presidente
Luigi Dasti sindaco lo comunicò ed il consigliere Giuseppe Benedetti disse di presentare
subito gli atti legali per avere il possesso dei locali e dei beni. La proposta ottenne 12 voti a
favore ed 1 contrario. Con tutta facilità è di questo periodo una nota sul convento
contenuta in una minuta (pur non essendo datata). Essa è interessante perché fotografa la
situazione del convento: “Le piccole Cammere abitate nel piano superiore dai Religiosi
della famiglia sono nel N. 12 quali sono fornite pressochè egualmente con un letto, un
tavolino, o scrivania, una scanzia da libri e 3 o quattro sedie communi.
L’altre stanze per Forastieri sono anche meno fornite solo avvi due stanze una da
letto, e l’altra da ricevere che servono al Superiore Locale, e visitatore, nelle quali avvi per
mobilio un Canapè imbottito di Damasco, di noce una sedia parimenti imbottita, con altre
sedie di legno in N. 10, nella stanza del Superiore due tavolini, una scrivania, due
candoniere (cantoniere), un Canapé di paglia ed altre sedie con scanzia.
La stanza che serve di Biblioteca, quale, fu esaminata, ed inventariata nel suo Indice
dal Sig. Novelli a tale scopo mandato dal Governo. Un’altra stanza piccola che serve per
contenere parati. Nel piano inferiore una Cantina con grotta, con due botti di 12 barili
l’uno, ed altri 3 vasi di piccola mole, con N. 10 barili di valore 100.
Un Refettorio, con stalli di legno e tavole un pulpito etc. Una Cucina con attrezzi di
rame e ferro sul 10 ad uso della famiglia. Altri due locali servono per conservare roba di
uso”.
Come si può osservare, non vi era segno di ricchezza nel convento e chi lo occupava
si accontentava di quello che era solo necessario alla vita in comune di almeno 12 persone
religiose. La stessa suppellettile della chiesa era molto semplice: due croci di ottone
argentato, un incensiere d’argento, una statua di S. Antonio, 4 lampade d’argento, 130
candelieri di legno, una muta di candelieri indorati per l’altare maggiore. Vi erano alcuni
189
parati in terzo, ma erano stati cancellati, forse non interessavano 43) .
Un altro problema interessante invece era quello dell’uso delle biblioteche
ecclesiastiche confiscate. Nè parlò nel consiglio comunale del 18 aprile 1874 il sindaco
Luigi Dasti, esponendo i principi della sottoprefettura di Civitavecchia del 22 febbraio:
obbligo al comune di aprire una biblioteca pubblica con i libri ex claustrali, avere un
bibliotecario e remunerarlo, primo assetto del materiale librario entro tre mesi dalla
consegna, nuovi acquisti di opere, non cambiare le opere assegnate senza permesso del
Ministero della Pubblica Istruzione. Gli articoli furono accettati con 11 voti favorevoli
contro uno. Per il bibliotecario fu assegnato lo stipendio annuo di lire cento con lo stesso
numero già ricordato di voti 44) .
L’anno 1875 fu uno dei più duri per i frati perchè il 6 luglio l’ingegnere del Demanio
Muratori li espulse dal convento, applicando le leggi di soppressione. Essi furono accolti
generosamente nella casa del canonico D. Lorenzo Ramaccini in Via Porta Tarquinia 12.
Era superiore P. Leonardo da Gallinaro che rimase rettore della chiesa col fratello laico Fra
Giuseppe Zanchini da Monterolo. Però il P. Leonardo dovette recarsi a Pisa per motivi di
salute e morì giovane a Civitavecchia a 38 anni il 13 marzo 1884. Gli successe come rettore
della chiesa il suo vicario P. Francesco Giacchetti da Corneto, che mantenne tale ufficio
sino alla sua morte nel 1895. Proprio a costui nel mese di dicembre 1875 si rivolgeva il
conte Francesco Bruschi Falgari per le funzioni nella chiesa del 1876: funerale per i defunti
Bruschi Falgari e Quaglia, funerale per la contessa Giustina Bruschi Falgari, messe e messa
cantata per la stessa, contributo per la festa di S. Antonio di lire 12,50, novena della festa di
S. Bonaventura, elemosina per il presepio lire 2,50 e l’offerta per l’ultimo dell’anno di lire
5.
Per un tempo così difficile era un aiuto non indifferente.
Il comune però si trovava a risolvere i problemi col Fondo per il Culto riguardanti
l’ospedale maschile, il convento S. Francesco, l’eremo e terreno dei Passionisti della
43)
Petizione del P. Angelo da Subiaco al S. Padre e rescritto 22-6-1872, Stima dell’ing. Francesco Dasti 12-6-1872,
Decreto del vicario generale Domenico Sensi 26-6-1872, Decreto del procuratore generale del re Ghiglieri 5-8-1872,
Presa di possesso della biblioteca del convento di E. Novelli 19-5-1872, Petizione del Provinciale Mariano da Velletri
al S. Padre per un bottino di acqua nel convento per il comune e responso 2-3-1873, Petizione del P. guardiano e
responso della Congregazione dei Vescovi e Religiosi 9-6-1873, Lettera del P. Generale Bernardino da Portogruaro sul
comportamento per la soppressione del convento 10-8-1873, Lettera del Provinciale P. Giuseppe da Caprarola 1-91873, Lettera del sindaco Luigi Dasti e busto di S. Agapito 11-8-1873, Lettera del P. Angelo da Subiaco al sindaco
Luigi Dasti per l’assegno annuo e festa di S. Agapito 13 e 16-8-1873, Nota sul convento (s.d.., ma di questo periodo),
Nota dei medicinali del farmacista Vulpiano Volpini 25-2-1873 (da agosto a novembre vi è segnato “solfato chinico”
segno della malaria) ASFT; Consigli 15-9, 29-10-1872, 25-9, 11 e 26-10, 12-12-1873 Consigli 1872, 1873, Minuta al
ricevitore del registro e bollo di Civitavecchia 15-12-1873 Tit. XVII, fasc. 114, a 1873 ASCT.
44)
Consiglio 18-4-1873 Consigli 1874 ASCT.
190
Bandita S. Pantaleo e quello dei Serviti S. Maria di Valverde. Il sindaco Luigi Dasti ne
parlava nel consiglio comunale del 5 dicembre 1875. Le trattative erano portate avanti,. ma
non raggiungevano una soluzione. Veniva proposta una transazione votata con 10 voti a
favore e 1 contrario. La questione però non si sbloccava. L’Intendenza di Finanza di Roma
sosteneva che il Fondo per il Culto non poteva cedere il convento S. Francesco al comune,
perché esso “apparteneva al Municipio prima della cessione (1550),la quale è stata fatta
alla casa religiosa puramente e semplicemente senza alcuna riserva.
La intestazione in catasto è legittima presunzione di proprietà a favore della
disciolta corporazione un giorno ad oggi”.
Il Fondo per il Culto portava quindi come prova il possesso del fabbricato da parte
dei frati. La diatriba tra il comune ed il Fondo per il Culto seguitò ancora senza giungere a
nessuna conclusione utile fino a che il comune non si fosse deciso a pagare.
Nel 1876 venivano richieste informazioni sulla presenza dei frati nel convento. Il
sindaco Luigi Dasti rispondeva chiaramente che i frati si erano trasferiti in casa Ramaccini.
La chiesa era restata aperta al culto e vi provvedevano prima il P. Leonardo Farina come
rettore, coadiuvato dal fratello laico Fra Giuseppe Zanchini da Monterolo. Il P. Francesco
Giacchetti da Corneto succedeva come rettore della chiesa nel 1875 al P. Leonardo. I frati
vivevano in casa Ramaccini, conservando l’abito religioso e vivendo una vita di comunità.
Essi erano nove persone il 26 dicembre 1876. Essi vivevano della modesta pensione
accordata dal governo italiano e dalle offerte per le loro prestazioni religiose ai fedeli. In
realtà nel convento di S. Francesco e nel Ritiro dei Passionisti non vi erano più i frati, come
asseriva lo stesso sindaco il 31 dicembre 1875 alla sottoprefettura di Civitavecchia. Allo
Stato Italiano interessava che i conventi soppressi non avessero più i religiosi e coloro che
vi rimanevano dovevano vestire da preti ed in numero limitato 45) .
Il 30 marzo 1877 fu presentato in consiglio comunale il solito problema dell’acqua
per la città con la costruzione di un grande serbatoio presso la chiesa di S. Francesco. Tutto
doveva essere ormai facilitato, perché i frati non vi erano più e qualsiasi loro impedimento
sarebbe stato impossibile. Tuttavia non si sbrogliavano i litigi giudiziali del comune col
Fondo per il Culto riguardanti il convento, la chiesa ed i beni di S. Francesco, dell’eremo
45)
Lettere del registro di Civitavecchia 1-2-1875, 29-3-1876, Lettera del sindaco Luigi Dasti 26-12-1876, Lettera del
sindaco Luigi Dasti al sottoprefetto di Civitavecchia 31-12-1876, Lettera della sottoprefettura di Civitavecchia 24-121876 Tit. XVIII, fasc. 14 a. 1876, Consigli 5-12-1875, 12-3-1876 Consigli 1875-1877 ASCT, Lettera del conte
Francesco Bruschi Falgari al rettore di S. Francesco P. Francesco da Corneto dicembre 1875, Atti di deposito e prelievo
del P. Francesco Giacchetti al canonico D. Lorenzo Ramaccini 1-1-1878, 5-8-1890, Atto d’intimazione e diffida di
Gustavo Scotti 3-3-1889 ASFT; P. Andrea da Rocca di Papa, Sunto storico dei conventi, case e monasteri appartenenti
all’Antica Provincia Romana dell’Ordine dei Minori (Roma 1898) 22; Mecocci S., I Francescani a Cori (Cori 1986)
188.
191
dei Passionisti e della chiesa di Valverde.
Dal 30 maggio 1877 il comune si rivolse
all’avvocato Filippo Pacelli, padre del futuro Papa Pio XII, residente a Roma in Vicolo della
Vetrina 12 al terzo piano, ma di origine onanese. L’avvocato si prese cura della questione,
suggerendo al comune ciò che era opportuno. Vi è una corrispondenza intensa
sull’argomento fino a quando il 12 luglio 1881 il comune stipulò un contratto col Fondo per
il Culto. Rogò l’atto il notaio archivista Pietro Pampersi. Esso fu stipulato tra il sindaco
Luigi Dasti ed il ricevitore del registro e conservatore delle ipoteche Erminio Berzio. Il
sindaco accettava la chiesa ed il campanile, il fabbricato del convento, il terreno ortivo e
seminativo confinante con Rispoli, Sacchetti, Falzacappa e Sbrinchetti. Egli si obbligava a
tenere aperta la chiesa ed a provvedervi per le spese di manutenzione ed ufficiatura e
prendendo in consegna gli arredi sacri e mobili della chiesa, secondo un inventario a parte.
Firmarono come testimoni Federico Mirabelli fu Gaetano nato a Perugia e Vincenzo
Caccone di Giacinto nato a Napoli, domiciliati ed impiegati a Civitavecchia. Il P. Francesco
Giacchetti stilò l’inventario municipale dei mobili ed arredi di S. Francesco il 2 maggio
1881. Il prosindaco Angelo Falzacappa ricevette l’elenco il 3 e lo inviò al ricevitore del
registro di Civitavecchia 46) .
Nel 1882 si nota qualche mutamento nell’amministrazione comunale riguardo ai
frati. Infatti il sindaco il 30 giugno si oppose perchè fosse asportato il quadro degli Avvolta
e degli altri titolari delle cappelle. Nella chiesa veniva introdotta la nuova confraternita di
Nostra Signora del S. Cuore, aggregata all’arciconfraternita di S. Andrea della Valle di
Roma. Se ne era interessato il P. Francesco da Corneto, facendo fare una petizione al
vescovo diocesano dal provinciale P. Anacleto Chiccaro da S. Felice Circeo. Anche il priore
dell’arciconfraternita scrisse il 19 settembre 1882 al P. Domenico Temporini del convento
per illustrarne i benefici agli iscritti.
Il sindaco Luigi Dasti il 20 marzo 1883 comunicò al consiglio comunale di affittare i
terreni del convento di S. Francesco con due locazioni separate con ricavato di 150 lire
annue per ciascuna, secondo la perizia del signor Secondiano Cesarini. Ciò fu accettato
all’unanimità per la durata di 6 anni dal 1 maggio.
46)
Consigli 20-3, 30-5-1877 Consigli Pubblici 1875-1877, Lettere del sindaco Luigi Dasti all’avvocato Filippo Pacelli
4-6-1877, 24-10-1878, 14-4-1881, Lettere del prosindaco Angelo Falzacappa all’avvocato Filippo Pacelli 10-8-1877,
15-10-1878, Lettere dell’avvocato Filippi Pacelli 8-3-, 2-5, 18 e 27-6, 21-7, 9 e 18-10 (due lettere), 1878, 30-4, 6-5, 7 e
11-7, 14-9, 1, 5, 10, 13, 30-11-1879, 16-4-1881, Lettere dell’Intendenza di Finanza 14-5, 23-11-1879, 23-3-1881,
Lettere al Ricevitore del Registro di Civitavecchia del sindaco Luigi Dasti 2-12-1879, 11-1-1881, del prosindaco
Angelo Falzacappa 3-4, 3-5-1881, del sindaco Angelo Falzacappa 8-6-1881, Deliberazione del comune di Corneto
Tarquinia 29-5-1879, Nota dei mobili ed arredi di S. Francesco del P. Francesco Giacchetti 2-5-1881 (copia) Tit. XVII
fasc. 14 aa. 1877, 1878, 1879, 1881, Contratto del Fondo per il Culto e Comune di Corneto Tarquinia 12-7-1880
Istromenti 1791-1801 ASCT; Inventario municipale dei mobili ed arredi di S. Francesco del P. Francesco Giacchetti 25-1881 (originale) ASFT.
192
Il 25 luglio 1883 il nuovo sindaco Angelo Falzacappa scriveva al rettore della chiesa
di S. Francesco P. Francesco Giacchetti che poteva riscuotere l’assegno dei legati, il
sussidio per la festa di S. Agapito e che la statua di S. Antonio potesse essere collocata in
una cappella senza nessuna spesa per il comune e per eventuali lavori vi fosse una
ricognizione del comune. Questo era sicuramente una certa apertura alle continue
restrizioni verso i frati, in modo particolare riguardo al personaggio in questione per le
precedenti occasioni ricordate.
Nel 1884 il marchese Urbano Sacchetti fu Girolamo, abitante a Roma in Via Giulia,
chiedeva di affrancare il canone per la parte dei magazzini dell’antica Annona sia per le
leggi di soppressione in atto che per quelle canoniche. Egli si rivolse alla Congregazione dei
Vescovi e Religiosi. Il Provinciale Alessandro da Grotte di Castro in una lettera del 15
maggio 1884 era favorevole ed il provicario diocesano Luigi Calvigioni ne chiedeva
delucidazioni al P. Francesco da Corneto. Il permesso tuttavia fu concesso perchè la parte
anteriore del convento rimase della famiglia Sacchetti fino a tempi recenti 47) .
Il 9 maggio 1888 il P. Francesco Giacchetti inviò una lettera al sindaco per ottenere
le spese di culto in tanti anni di lavoro senza avere mai percepito nulla. Egli chiedeva che
gli fossero versate 200 lire annue per le spese di culto e per uno o due dei suoi coadiutori, e
fosse permesso ai suoi coadiutori di essere alloggiati nella sua abitazione. Nel consiglio del
13 maggio veniva accettato che fossero offerte 200 lire per il culto, senza accollarsi le spese
di altre persone. Le istanze però non erano solo dei Francescani, ma anche dei rettori
dell’Addolorata (Serviti), di S. Marco (Agostiniani). Il consigliere Pontani si pronunziò a
favore dei frati di S. Francesco ed ottenne l’approvazione di tutti. Questo significava un
cambiamento importante. Il P. Giacchetti ringraziò il sindaco il 24 settembre.
Era ormai imminente il fallimento del canonico Lorenzo Ramaccini a cui si erano
affidati i frati per la parte economica e che li aveva generosamente ricevuti nella sua casa.
Il P. Antonio (Agostino Nicolini) da Marino il 22 settembre 1888 metteva in evidenza di
essergli creditore di L. 12.000 lire. Il P. Antonio era certamente il procuratore provinciale.
Proprio l’anno seguente i frati abbandonarono la casa del canonico Lorenzo
Ramaccini, perchè il nuovo proprietario pretendeva da loro l’affitto fino dal febbraio 1889.
Il 22 novembre venivano attribuite al P. Francesco 200 lire annue da pagarsi nell’anno
47)
Lettera del sindaco Luigi Dasti al rettore della chiesa S. Francesco per il quadro Avvolta 30-6-1882, Lettera del P.
Francesco Giacchetti al vesovo per la devozione a Nostra Signora del Sacro Cuore, Lettera al vescovo del Provinciale
P. Anacleto Chiaccaro da S. Felice Circeo (1882), Lettera del priore della confraternita N. Signora del S. Cuore di Gesù
Mariano Fontecedro al P. Domenico Temporini 19-2-1882, Nota dei privilegi di S. Francesco (1882), Lettera del
prosindaco Angelo Falzacappa al rettore di S. Francesco 25-7-1883, Lettera al S. Padre di Urbano Sacchetti, Lettera del
Provinciale Alessandro da Grotte di Castro 15-5-1884, Lettera del provicario Generale Luigi Calvigioni a P. Francesco
Giacchetti 12-5-1884 ASFT; Consiglio 20-3-1883 Consigli Pubblici 1881-1885 ASCT.
193
seguente. E chiaramente viene accettata l’idea dell’alloggio per gli altri frati. Infatti nella
lettera è detto: “Rapporto all’alloggio che il Consiglio concesse a Lei ed ai Suoi coadjutori,
la Giunta in detta adunanza decise che questi coadjutori, compresi i laici, ossia non
Sacerdoti, non debbano superare il numero di sei abituali”. Si tratta della seduta del 18
novembre. Questo sarebbe stato molto importante specialmente per l’anno seguente ed è
un grosso merito del P. Francesco Giacchetti 48) .
Nel 1890 il guardiano di S. Francesco era P. Maurizio Scattone da Subiaco, P.
Francesco Giacchetti invece restava rettore della chiesa, vicario ed economo.
Il 20 ottobre 1890 il conte Francesco Bruschi Falgari si rivolgeva al P. Guardiano di
S. Francesco P. Maurizio chiedendogli di poter avere una messa nella cappella per il
periodo della sua dimora, ed una quotidiana. Il P. Maurizio gli rispose lo stesso giorno,
accettando la celebrazione della messa per il periodo della presenza del conte a qualsiasi
elemosina, ma rifiutando quella quotidiana ad una lira perchè i frati vivevano
principalmente delle elemosine del sacro ministero e le messe avventizie erano celebrate a
25 o 30 soldi ed i superiori non lo avrebbero accettato.
Questa
risposta
giusta,
sarebbe stata molto difficile qualche tempo prima. Lo stesso guardiano cercò di mettere
maggiore ordine nella questione dei legati. E’ vero che il Provinciale P. Antonio da Cipressa
li aveva fatti rinunciare tutti nel 1855 e giustamente perché erano sempre fonte di litigi. Vi
era però uno fondato per il testamento di Alessandro Forcella senior e rogato dal notaio
Vittorio Benenghi il 5 settembre 1648, consistente in 112 scudi e 50 baiocchi con l’obbligo
di recitare 12 messe (una al mese) e 2 messe semplici cantate per sè ed i suoi discendenti,
una messa cantata in terzo nell’anniversario della sua morte ed altro. Il 30 maggio 1752
Leonardo Querciola con atto rogato da Giovanni Antonio Claverio da Tolfa vi creò un censo
a 5 scudi annui, avendo solidale il canonico D. Ippolito Bruschi. Da Leonardo passò alla
figlia Anna Maria Querciola che fu morosa e passò a Costantino Bruschi per l’avallo del
canonico. Solo dopo tanta non curanza nel 1890 si rifecero vivi gli eredi di Girolamo Celli
con 140 lire. Il P. Maurizio si rivolse al vescovo di Civitavecchia e Corneto Tarquinia
Angelo Rossi che il 23 maggio 1891 disponeva che fossero dette 12 messe lette dal mese di
giugno e 4 messe cantate solenni con integro ufficio dei defunti ed una terza parte del
rosario per i fratelli laici. Per il futuro ci si doveva attenere a quanto stabilito nel legato.
Il P. Maurizio ricorse anche alla S. Sede per la riduzione, ma non ottenne nulla ed il
15 gennaio 1892 attestava di essere stato alle disposizioni, che erano certo gravose.
48)
Consiglio 13-5-1888 Consigli segreti 1884-1891 ASCT; Lettera del sindaco Angelo Falzacappa al rettore P.
Francesco Giacchetti 19-9-1888, Lettera del P. Francesco Giacchetti al sindaco 24-9-1888, Lettera del P. Antonio
(Agostino Nicolini) da Marino 22-9-1888, Lettera del prosindaco Calisti 28-11-1888 ASFT.
194
Nel 1890 la chiesa di S. Francesco godeva di alcuni privilegi come quello di poter
recitare l’ufficio proprio del martire S. Agapito il 18 agosto dal 1666, di poter ascrivere alla
Pia Unione dell’Immacolata Concezione di Maria eretta in Aracoeli dal 1856, di poter
cantare due volte la settimana la messa solenne da Requiem escluso i doppi di I e II classe
e feste di precetto, ferie, vigilie privilegiate dal 1854, di poter cantare la messa solenne
votiva nell’ultima domenica di aprile per la festa di N. Signora del S. Cuore dal 1880, di
differire fino a 6 mesi le messe avventizie senza giorno fissato dal 16 agosto 1890. In ciò
compaiono alcune devozioni in voga nella chiesa di S. Francesco.
Il 29 settembre 1890 il sindaco Falzacappa scriveva al rettore P. Francesco che
avrebbe pagato un canale di latta verniciato messo nel tetto della chiesa verso il chiostro,
ma che altre volte avrebbe dovuto chiedere il permesso.
Nello stesso giorno Odoardo Rispoli chiedeva di poter trasferire nella sua cappella
del cimitero suo padre Raffaele della chiesa di S. Croce, sua madre Margherita Pasquali e le
sue sorelle Elena, Serafina ed Anna Maria dalla chiesa di S. Francesco, suo nipote Orazio
Perrini e suo fratello Mons. Francesco Rispoli dal cimitero comunale. La missiva era
inviata al P. Giacchetti, al camerlengo della confraternita di S. Croce Lorenzo Pontani ed al
cappellano del cimitero canonico D. Lorenzo Cherubini 49) .
Il 5 novembre 1890 Cesare De Cesaris a nome del conte Francesco Bruschi Falgari
richiedeva un funerale solenne in terzo per la casa Bruschi e 22 messe lette da celebrarsi lo
stesso giorno od il seguente a lire 1,50. Per la festa di S. Bonaventura stabiliva la regalia
solita, un litro di vino a ciascuno dei frati, mezza libbra di carne e due pagnotte. Questa
pure era una forma benevola verso di essi.
Nel 1893 il terrazzo del chiostro doveva essere in pessime condizioni, se il sindaco
Angelo Falzacappa il 16 febbraio si rivolse all’architetto comunale Camillo Grispini perchè
provvedesse a farlo di nuovo ammattonare, per non far crollare le volte. L’architetto stilò la
relazione il 28 febbraio con un preventivo di spesa di 210 lire. Il 28 giugno il lavoro fu
affidato al capomastro Giuseppe Pagliardini. Il restauro della gradinata della chiesa lo
eseguì il muratore Giovanni Molinari.
Il 2 maggio 1895 nel convento morì il P. Francesco Giacchetti da Corneto, che si era
tanto prodigato per il convento e la chiesa nella sua vita giovanile e nella vecchiaia in
condizioni spesso difficili, ma sempre superate. Il Provinciale P. Maurizio Scattone da
Subiaco eleggeva come successore nel rettorato della chiesa il P. Raimondo (Filippo
Paglialunga) da Onano superiore del convento, uomo di larga esperienza e di provata virtù.
195
Egli veniva presentato il 6 luglio. Il 25 era ricevuta la nomina in comune e discussa il 18
dicembre e comunicata all’interessato il 26 dicembre.
Il 18 ottobre 1895 un vento impetuoso rovinò i vetri ed i telai della sagrestia e della
camera del rettore. Il P. Raimondone ne chiedeva la riparazione al comune il giorno 18.
I terreni del convento li avevano presi in affitto altre persone.
Necessariamente i danni che vi erano dovevano essere pagati dal comune.
Il 15 settembre 1896 vi erano da riparare i casotti ed il cancello d’ingresso al terreno
affittato a Sante Innamorati. Il sindaco conte Francesco Bruschi Falgari esponeva il caso al
consiglio comunale e dava lettura del capitolato dell’ingegnere comunale Camillo Grispini
per la somma di un primo lotto di lire 240,10. L’assessore anziano Antonio Perrini il 19
dicembre 1896, tenuto conto del consiglio precedente vistato dalla sottoprefettura di
Civitavecchia nel mese di ottobre, dichiarava che per il portone d’ingresso al terreno della
chiesa posto a levante si erano presentati il muratore Giovanni Molinari ed il falegname
Sante Mencarelli ed erano possibili concorrenti con altri. Il consiglio approvò all’unanimità
per alzata e seduta.
Nel 1899 vi erano dei lavori di riparazione nel convento senza alcuna specificazione
ed il sindaco Francesco Bruschi Falgari ne dava l’approvazione al rettore P. Raimondo.
Certamente vi erano i preventivi di spesa ed il tipo di lavori, ma da me non trovati. Sempre
al P. Raimondo egli fece cambiare la chiave della serratura, perchè i signori Marzoli,
Trionfetti e Nucci dichiaravano di avere perduto la chiave dei locali nel convento di S.
Francesco già della banda Cittadina e della Società del Tiro a Segno. Era anche questo un
atto di benevolenza verso i frati del convento 50) .
Il convento resterà in queste condizioni fino al 1928, ed i frati lo occuperanno solo
per una piccola parte e vi saranno poi estromessi per ritornarvi nel 1934, dopo l’esperienza
dei Giuseppini.
****
49)
Supplica al S. Padre per la procrastinazione delle messe avventizie a sei mesi e risposta 16-6-1890, Lettera del conte
Francesco Bruschi Falgari e lettera del P.
50)
Lettera del prosindaco B. Boccanera 16-2-1895, Lettere del sindaco Angelo Falzacappa all’ing. arch. Camillo
Grispini 16-2, 28-6, 3-7, 10 e 13-8-1895, Preventivo dell’architetto Camillo Grispini 28-2-1895, Lettera del P.
Provinciale Maurizio da Subiaco per l’elezione del rettore della chiesa P. Raimondo da Onano 6-7-1895, Ricevimento
della nomina in comune 25-7-1895, Sua elezione in comune 18-12-1895, Partecipazione della elezione 18-12-1895,
Accettazione dell’ufficio del P. Raimondo 18-10-1895, Lettera del rettore P. Raimondo da Onano per la riparazione
della finestra della sagrestia e della stanza del rettore 18-10-1895, Annotazione del sindaco Angelo Falzacappa
provvedendo con lo stagnaro Mencarelli 19-10-1895 Tit. XVII, fasc. 14, aa. 1895, 1896 Consigli 15-9 e 19-12-1896
Consigli Pubblici 1895-1896 ASCT; Comunicazione della nomina al P. Raimondo Paglialuna da Onano di F. Benedetti
26-12-1895, Accettazione della nomina da parte di P. Raimondo da Onano 5-2-1896 ASFT.
196
I molti documenti ancora esistenti sul convento di S. Francesco ed i suoi abitanti ci
hanno condotto a conoscere molti personaggi di questo secolo che non sono mai stati
studiati o di cui nulla o quasi era stato scritto. Tra gli altri si è accennato al P. Giacomo
Maria Latini da Corneto deportato in Corsica nel 1811 e morto a Bastia in chiara fama di
santità il 16 agosto 1812, ed a P. Raimondo Paglialunga da Onano, vissuto molti anni nel
convento, che vi morì nel 1911 in odore di santità. Basterebbero già questi due esempi per
dire che almeno qualcuno dei frati fece sul serio nel seguire il Signore ed essere a
disposizione del popolo. In realtà però furono molti che si prodigarono al bene degli altri
compresi i fratelli laici col loro buon esempio ed apostolato spicciolo nella questua e nella
carità operosa verso i poveri bisognosi. Alcuni frati occuparono posti di responsabilità
nell’Ordine Francescano e nella Chiesa. Il P. Gioacchino da Caprarola divenne Custode
della Provincia Romana. P. Bernardino da Caprarola oltre essere buon predicatore, fu
Custode di Terra Santa, e due volte Provinciale. P. Maurizio Scattone da Subiaco fu
Provinciale. Ben tre vescovi vi furono: Mons. Luigi Moccagatta da Castellazzo missionario
in Cina e vicario apostolico, Mons. Sebastiano Pifferi da Castelmadama vescovo in Bolivia e
missionario, Mons. Giacomo Ghezzi vescovo di Orte, Civita Castellana e Gallese ed ex
Custode di Terra Santa. Tra i superiori del convento P. Francesco Giacchetti da Corneto si
interessò dei problemi nei periodi facili ed in quelli difficili nella sua lunga permanenza e
fu veramente encomiabile. L’interesse continuo dei frati per la buona conservazione della
chiesa e del convento presso le autorità costituite è certo un loro merito. Non meno
interessante è la loro opera verso gli ergastolani che lavoravano alle saline. I predicatori
intervenivano presso il popolo diffondendo la verità evangelica. Gli stessi lettori di teologia
e filosofia curavano la formazione umana e religiosa dei loro studenti. I confessori erano a
disposizione della gente che si avvicinava alla chiesa dei frati.
Salvo
qualche
raro
esempio circoscritto nelle mura del convento, i frati dettero sempre esempio di vita
religiosa seria e questo fu certo uno dei motivi principali della simpatia che godevano tra il
popolo. Tutti questi elementi che hanno sempre fatto parte della vita del popolo di
Tarquinia e della sua storia, è bene che siano conosciuti.
P. LUIGI SERGIO MECOCCI
Fondi Archivistici
AF
Archivio Falzacappa presso Società Tarquiniense di Arte e Storia
(STAS)
197
APA
Archivio Provinciale Aracoeli
ASBO
Archivio S. Bernardino Orte
ASCT
Archivio Storico Comunale Tarquinia
ASFT
Archivio S. Francesco Tarquinia
ASGT
Archivio S. Giovanni Tarquinia
ASMT Archivio S. Margherita Tarquinia
AVT
Archivio Vescovile Tarquinia
Bibliografia
P. Andrea da Rocca di Papa, Sunto storico dei conventi, case e monasteri appartenenti
all’antica Provincia Romana dell’Ordine dei Minori (Roma 1898)
Dasti L., Notizie storiche archeologiche di Tarquinia e Corneto (Corneto-Tarquinia 1910)
Corteselli M. - Pardi A., Corneto com’era (Tarquinia 1983)
Mecocci L.S., P. Giacomo Maria Latini da Corneto Minore Osservante deportato in Corsica
e morto in odore di santità (11-11-1779 - 16-8-1812) in Bollettino dell’anno 1989 Società
Tarquiniense di Arte e Storia (STAS) 117-155.
Mecocci L.S., P. Giacomo Maria Latini da Corneto (Tarquinia) 1779-1812 in Archivum
Franciscanum Historicum 84 (1991) 407-449.
Romanelli E., S. Francesco di Tarquinia (Roma 1967)
Zucconi G., La Provincia Francescana Romana (Villalba di Guidonia 1969)
198
LA “SOCIETAS GEORGICA TARQUINIENSIS” ED IL SUO FONDATORE, FILIPPO LUIGI
GILII
La folla si era radunata un po' incuriosita, nella zona della Clementina; non sapeva
bene cosa aspettarsi, certamente però qualcosa di sorprendente.
Quelli che erano stati più vicini a coloro che, nei giorni precedenti, erano stati
occupati a preparare un grande, misterioso involucro, cercavano di dimostrare la loro
superiorità agli altri: parlavano di certi Mongolfier, degli esperimenti che avevano fatto in
Francia 1) , di una fantastica ascensione che era stata fatta a Milano pochi mesi prima 2) e di
tante altre cose, ma le loro parole piuttosto che spiegare non avevano altro risultato che di
accrescere la curiosità degli ascoltatori.
Di una cosa però tutti erano consapevoli, che in quel giorno, 17 ottobre 1784, si stava
per assistere ad un avvenimento che sarebbe rimasto, senza dubbio, memorabile per la
tranquilla vita cittadina.
All’improvviso il globo di carta rasata, intorno al quale fino a quel momento si erano
agitati tanti uomini, cominciò a muoversi, e, poco alla volta, mollemente si alzò verso il
cielo.
La folla restò senza fiato: ciò che stava vedendo sembrava quasi la vittoria dell’uomo
sulle leggi di gravità. D’altronde anche un poeta come Vincenzo Monti, aveva celebrato con
una sua ode 3) , nel febbraio dello stesso anno, il pallone aerostatico ed i coraggiosi che si
erano innalzati con esso nel cielo, come la massima espressione alla quale poteva arrivare
la scienza.
Ciò che si era svolto sotto gli occhi ammirati dei cornetani, dunque, era veramente
qualcosa di nuovo e di entusiasmante. Centri più grandi di Corneto avrebbero aspettato
ancora del tempo per assistere a qualcosa di simile.
Il merito di tutto ciò era di un giovane cornetano, già distintosi tra i suoi
contemporanei, come uno dei più promettenti ingegni scientifici, Filippo Luigi Gilii, il
1)
Joseph ed Etienne Montgolfier idearono e realizzarono i primi palloni ad aria calda (sistema che da questo momento
contraddistinguerà le “mongolfiere”), in grado di fare dei voli di una certa durata. Nel giugno del 1783 i l loro
aerostato, di 12 metri di diametro, costruito di carta e stoffa, nella piazza principale di Annonay, grazie all’aria calda si
staccò da terra raggiungendo l’altitudine dei 1.800 m. La mongolfiera rese possibile il primo volo libero realizzato
dall’uomo. Il 21 novembre 1783 Jean Pilatre de Rozier e il marchese d’Arlandes, a bordo di una mongolfiera si
innalzarono dal Bois de Boulogne a Parigi e dopo 26 minuti di volo, atterrarono ad 8 chilometri di distanza.
2)
Paolo Ardeani fu il protagonista della prima ascensione italiana, il 3 marzo 1784, a Milano.
3)
Monti scrisse l’ode “Al Signor di Montgolfier” in occasione del primo volo in aerostato, compiuto il 1 dicembre
1783 da Giacomo Charles e Stefano Robert. La dedica ai Montgolfier perchè per primi avevano fatto salire al cielo un
pallone (la mongolfiera). Il poeta canta il suo entusiasmo per la nuova audacia dell’uomo.
199
quale aveva voluto in questo modo celebrare la nascita di una accademia agraria a Corneto,
la “Societas Georgica Tarquiniensis” da lui fondata.
Filippo Luigi Gilii è un personaggio che, a torto, è stato un po' dimenticato dai suoi
conterranei, mentre invece ebbe un certo rilievo nella vita scientifica del suo tempo e godè
della stima degli stessi pontefici. Vale quindi la pena di riproporre questa figura
all’attenzione dei tarquiniesi. Ecco quindi qualche notizia sulla sua vita, prima di trattare
dell’accademia da lui fondata.
Era nato a Corneto il 14 (per qualcuno il 12) marzo del 1756, da Lucidonio e Angela
Troiani. Considerato che il ragazzo dimostrava interesse verso gli studi, i genitori lo
mandarono, per approfondirli, al Collegio Romano della Società del Gesù. Era questo, per
quel tempo, il posto adatto per un giovane che voleva affinare sia la mente che lo spirito. Lo
attraeva tutto il sapere sia letterario che scientifico; poco alla volta però il suo interesse si
focalizzerà sulle nuove teorie scientifiche.
Non bisogna dimenticare che nella seconda
metà del settecento la vita culturale è determinata da quella corrente di pensiero che
risponde al nome di Illuminismo. E’ un periodo quindi in cui la ragione umana è vista
come l’unica guida validata data all’uomo per risolvere i problemi della vita, quelli sociali e
quelli economici. Si assiste dunque ad una ventata di rinnovamento e, per quanto riguarda
il nostro argomento, hanno una particolare importanza le accademie, specialmente quelle
agrarie. Sorgono specialmente per impulso delle nuove dottrine economiche (fisiocrazia) 4)
che come fonte primaria e unica della ricchezza vedevano l’agricoltura e quindi
intendevano sperimentare nuove tecniche agricole ed anche liberarle da quei vincoli, quali
i dazi sia d’entrata che di uscita, i divieti di esportazione, la manomorta 5) ecc; che ne
condizionavano l’esercizio. Volevano quindi uno svecchiamento delle pratiche agrarie ed
anche una migliore diffusione delle idee liberiste.
Anche se l’ambiente in cui il Gilii si muove è quello dello Stato Pontificio,
notoriamente poco propenso ad accettare idee innovative, pur tuttavia anche in quel
territorio c’erano state e c’erano tentativi di modificare qualcosa. Tentativi che non sempre
avevano avuto o avranno fortuna, ma sempre importanti perchè, spesso, promotori erano
4)
Nel Settecento nel settore agricolo si erano verificate trasformazioni fondamentali, non a caso quindi la dottrina
economica più diffusa sarà la fisiocrazia i cui fondamenti, schematicamente, furono questi: la vera fonte della ricchezza
e della produzione è la terra che, grazie all’attività agricola da’ all’uomo un prodotto nuovo, creato dal nulla. Per questa
teoria l’industria e il commercio sono sterili, perché si limitano a trasformare ciò che già esiste. Per i fisiocratici,
dunque, per agevolare l’espansione economica era necessario incrementare la produzione agricola.
5)
Manomorta. La parola indica attualmente il patrimonio immobiliare degli enti civili o ecclesiastici, la cui esistenza è
perpetua, e quindi beni restano immobilizzati, cioè morti. Sono sottratti dunque alla normale circolazione. Alcuni fanno
risalire l’origine del vocabolo al fatto che questi enti sono simili alla mano di un morto che non lascia la presa dopo la
morte, altri invece, ad una discutibile usanza feudale, secondo la quale ad un vassallo che moriva senza lasciare alcuna
200
stati proprio gli stessi pontefici, non per amore delle modernità, ma per desiderio di venire
incontro alle necessità della popolazione. Da ricordare, a questo proposito, Clemente XIII,
Carlo Rezzonico, che, dopo la carestia degli anni 1763-1764, una carestia che aveva colpito
principalmente l’Italia centrale e quella meridionale, per accrescere la produzione agricola
dello Stato, cercò di costringere i grandi signori a praticare la coltura intensiva; le sue
buone intenzioni rimasero tali per l’inerzia e l’apatia dei latifondisti, ma già il semplice
fatto che c’erano state era degno di essere annotato.
E ancora: quando a Corneto si stava festeggiando, nel modo ricordato, la fondazione
della “Societas Georgica Tarquiniensis”, era Pontefice, con il nome di Pio VI, il cardinale
Giovanni Angelo Braschi, la cui opera più grandiosa nel campo temporale fu il
prosciugamento delle Paludi Pontine. Un’opera questa che era stata vagheggiata già da
altri pontefici, ma nessuno, prima di lui, vi si era dedicato con la stessa risolutezza. Per
raggiungere il suo scopo e vedere quel terreno ritornare coltivabile, Papa Braschi in meno
di dieci anni spese una cifra astronomica per quei tempi: un milione e mezzo di scudi
d’oro. Peccato che l’opera non fu portata a termine. I contemporanei però furono colpiti
dalla grandiosità di tale progetto e Vincenzo Monti la ritenne degna di essere cantata nella
“Feroniade” 6) . Un papa quindi, Pio VI, propenso a seguire con benevolenza le iniziative
atte a migliorare la situazione agricola.
Quando il Gilii fonda la sua “Societas”, ha solo 28 anni, ma già, come detto, il suo
nome gode di rispetto tra gli studiosi dello Stato Pontificio, e tale prestigio lo mantenne
anche nelle molteplici vicissitudini che condizioneranno la vita politica di quello Stato, fino
alla morte, avvenuta nel 1821.
La sua dunque, fu una vita densa di soddisfazioni e di riconoscimenti. Eccelse nello
studio della storia naturale, dedicandosi alla classificazione delle piante secondo la
metodologia linneiana 7) anzi, su questa scrisse nel 1786 l’opera “Delineazione dei generi
naturali a norma del Sistema Naturale di Linneo”, in due volumi. Impiantò anche un
orto-botanico denominato “Vaticano-indico”, in una zona prossima alla Basilica di San
Pietro. Secondo le testimonianze del tempo, numerose furono le piante esotiche da lui
studiate.
ricchezza, si tagliava la mano destra per portarla al suo signore, a testimonianza del fatto che non avrebbe più potuto
servirlo.
6)
“Feroniade”: poemetto di Vincenzo Monti, scritto per esaltare il prosciugamento delle paludi pontine iniziato da Pio
VI. Narra gli amori di Giove per Feronia (la ninfa di Terracina). Amori che suscitano l’ira di Giunone che fa sì che i
luoghi, dove viveva la ninfa, diventino malsani e paludosi. Giove preannuncia però a Feronia, che verrà un giorno in
cui i suoi campi torneranno fecondi (epoca della bonifica).
7)
Carlo von Linne’ (Linneo 1707-1778), naturalista svedese, fondatore della sistematica moderna e introduttore della
nomenclatura binomica in botanica e zoologia.
201
Con grande cura, poi, fece degli erbari nei quali annotava, con precisione ed
impegno, tutto quello che osservava o che era inerente alle piante in essi contenute.
Queste sue osservazioni saranno pubblicate dal 1788 al 1790, nei tre volumi delle
“Osservazioni filologiche sopra alcune piante esotiche introdotte in Roma”.
Questa sua attività non poteva non portarlo a studiare i modi più idonei per
migliorare l’agricoltura della sua città natale, un’agricoltura che ancora era strettamente
legata ad una tecnica ancorata al passato.
Filippo Luigi Gilii, dunque, abbracciava tutto il campo delle scienze e cercava di
vedere in esse un rapporto, un legame che aiutasse a comprendere ed a giustificare
fenomeni altrimenti difficilmente spiegabili.
Un’attenzione tutta particolare, ad esempio, fu quella che dedicò ai fenomeni
meteorologici visti in relazione alla loro influenza sulla botanica.
Ma il cielo lo attirava anche per le sue manifestazioni più eclatanti: eclissi solari,
eclissi lunari, comete ecc. ecc. 8) .
La stima che godeva in questo campo è testimoniata dal fatto che il pontefice Pio
VII, lo nominò direttore della Specola Vaticana, l’Osservatorio Vaticano, che era stato
voluto da Gregorio XI, il riformatore del calendario 9) .
Non sarà però questo il solo incarico chiamato a ricoprire e non sarà l’unico nel
quale si metterà in luce per le opere da lui promosse.
Nominato beneficiato della Basilica Vaticana, lascerà nella stesse testimonianza,
ancora oggi riscontrabili, della sua azione.
Quella che appare più facilmente agli occhi di tutti i visitatori della Basilica,
interessa il pavimento della navata centrale, sul quale, per suo desiderio vennero scritte, a
lettere dorate, le misure delle chiese più lunghe del mondo, oltre alle misure di San Pietro;
ma senza dubbio quella che rese più sicuro il sacro tempio fu l’istallazione di un
parafulmine sulla cupola dello stesso (il Gilii infatti aveva fatto approfonditi studi sugli
esperimenti di Beniamino Franklin).
Ma non fu solo questa Basilica ad avere da lui tale protezione. Nel Dizionario
Biografico Universale si legge: “... Difese con parafulmini la Chiesa della Madonna degli
8)
Gilii osservò le eclissi solari del 24 giugno 1797, del 17 agosto 1803, dell’11 febbraio 1804, del 16 giugno 1806 e del
29 novembre 1807; le eclissi lunari del 20 marzo 1801, del 22 luglio 1804, dell’11 luglio 1805, del 29 aprile 1809, del
2 settembre 1811, del 12 agosto 1813, del 21 giugno 1815 e del 21 aprile 1818; le comete visibili nel cielo dal 3 ottobre
al 26 novembre 1801, e dall’8 settembre al 9 novembre 1811; i passaggi di Mercurio sul sole del 7 maggio 1799 e
dell’8 novembre 1802.
9)
Papa Gregorio XI ordinò la revisione del calendario. Soppresse dieci giorni dall’anno 1582 (dal 4 ottobre si passò
subito al 15 ottobre), perché con il precedente calendario giuliano si era già dieci giorni in ritardo sulle stagioni.
202
Angeli presso Assisi, quella di San Giovanni de’ Fiorentini di Roma e la Basilica Vaticana, e
qui fece opera veramente insigne ed ardita; anzitanto grande che fu giudicata temeraria;
ma l’effetto ha provato con quanto senno fosse concetta ed eseguita, perocchè col mezzo di
un solo conduttore isolò la grande cupola; e così alla più ardita opera di Michelangelo volle
far difesa dal folgore con pari ardimento, acquistando una bella lode al nome suo.
Quest’opera fu eseguita al tempo della commissione de’ cavalieri romani creata sotto il
governo napoleonico”.
E di una protezione simile la cupola aveva proprio bisogno, almeno a dare fede a
quanto accaduto a Pio VI, avvenimento ricordato da Costantino Maes nelle “Curiosità
Romane”: “...Un giorno festivo del mese di ottobre Pio VI usciva dal Museo Pio
Clementino, ove erano giunti nuovi pezzi rarissimi inestimabili, dei quali altamente si era
compiaciuto il Santo Padre, la cui inclinazione per le belle arti invece di illanguidirsi con gli
anni, andava sempre in esso aumentando al grado di una violenta benchè lodevolissima
passione. Scese, secondo il solito, in San Pietro. La giornata era delle più tempestose e
spaventevoli: nell’atto appunto di mettersi in ginocchio dinanzi alla confessione un fulmine
fece cadere un lastrone da una finestra della cupola. La vampa elettrica fu veduta scaricarsi
poco discosto dalla persona del Pontefice, e il lastrone gli cadde davanti saltando in mille
frantumi. I presenti nel tempio, vista la terribile fiamma, e sentito il colpo così a lui vicino,
lo credettero ucciso. Sua Santità per altro diede prova di una serenità di spirito, che non si
sarebbe aspettata. Non si sbigottì nè punto nè poco; confessò per altro di riconoscere come
un prodigioso effetto la sua salvezza; attesochè, oltre la scossa ricevuta dallo scoppio del
fulmine, i rottami e i pezzi di grossissimi materiali caduti arrivavano fino presso al cuscino
su cui stava genuflesso. Non volle usare di veruna precauzione nè prendere bevanda
d’acqua o di qualche liquore ristorativo, tornando lieto e imperterrito a Monte Cavallo,
ossia al palazzo del Quirinale, come se niente fosse avvenuto; si contentò di dire al
cardinale de Bernis, e tosto se ne diffuse la voce: Che considerata la tempesta che
rumoreggiava contro l’Italia e contro Roma, comprendeva bene, che gl’impercrutabili
eterni decreti esigevano da lui de’ sacrifizi forse di maggior costo della vita medesima”.
La tempesta alla quale si riferiva Pio VI era quella della rivoluzione francese e dopo
poco tempo da questo fatto l’albero della libertà e la bandiera della repubblica tiberina, si
sarebbero alzati sulla piazza del Campidoglio, ma prima ci sarebbe stata l’uccisione a Roma
di Bassville da parte del popolo romano, infuriato per le idee rivoluzionarie che
Gregorio XI ridusse anche l’estensione media dell’anno. Il calendario gregoriano è talmente accurato che non avrà
bisogno di essere modificato se non tra varie migliaia di anni.
203
professava 10) , e, subito dopo, la decapitazione di Luigi XVI a Parigi. In suffragio
dell’infelice re di Francia, Pio VI celebrerà una messa pontificia per esprimere il suo
cordoglio per quella esecuzione. Inutile dire che tutto ciò non piacque affatto al governo
francese. Il Pontefice che si era salvato dal fulmine, concluderà la sua vita, prigioniero dei
francesi nella fortezza di Valence il 29 agosto 1799. La sua salma prima venne deposta nel
sotterraneo della cittadella di Valence, poi, dopo la conclusione del concordato tra Pio VII e
Napoleone, fu trasferita a Roma per essere collocata nelle grotte Vaticane nel febbraio
1802 11) .
** ** ** **
In un periodo come la fine del settecento, in cui nascono tante associazioni, Filippo
Luigi Gilii venne chiamato a partecipare ad un discreto numero di queste, infatti lo
troviamo inserito tra i “Soci Agrari” di Torino 12) , tra i “Volsci” di Velletri, tra i “Georgofili”
di Treja, tra gli “Apatisti” di Firenze 13) e gli “Ergo-geofili” di Foligno, tra gli “Arcadi” e gli
“Aborigeni”, tra i soci della “Società Geografica” di Montecchio, e di quella “Italiana” di
Pisa, ed anche della “Società dell’agricoltura e delle Manifatture” di Roma e della “Società
di Scienze, Lettere e belle Arti” del Portico del Campidoglio.
Sin dal 1 luglio del 1802, poi, era stato nominato membro ordinario dell’Accademia
dei Lincei 14) .
La creazione a Corneto di una “Societas Georgica”
era stata accuratamente
preparata dal Gilii e l’anno precedente alla sua inaugurazione, il 14 ottobre 1783, c’era stata
già una riunione della quale Saverio Avolta, segretario della stessa, ha lasciato un fedele
verbale; “Congregati e coadunati in casa Dasti a distanza del sig. Ab. Filippo Luigi Gilj da
Corneto. L’Illmi SS.nri D. Ludocivo Can.co Chiocca - D. Giovanni Can.co Dasti - D.
10)
Nicolas Jean Hugon de Bassville, diplomatico francese, segretario della Legazione di Napoli, in missione presso la
Santa Sede (1793). La sua carrozza venne presa a sassate dal popolo romano, infuriato per le sue manifestazioni
rivoluzionarie; raggiunto, mentre i suoi compagni si mettevano in salvo, fu colpito da un ignoto popolano con una
pugnalata al ventre, per cui morì il giorno dopo. L’episodio ispirò al Monti la “Bassvilliana”, un’opera fortemente
reazionaria, in cui l’autore immagina che l’anima di Bassville sia condannata nell’aldilà a contemplare gli orrori del
regime rivoluzionario e in particolare la decapitazione di Luigi XVI.
11)
La statua di Pio VI, ultima opera di Antonio Canova (1822), rappresenta il Pontefice in ginocchio e si dice che sia
stata fatta dallo scultore in quell’atteggiamento proprio per volere della casa Braschi, in quanto doveva ricordare quello
in cui Pio Vi si trovava nel momento della caduta del fulmine.
12)
Fondata a Torino con decreto di Vittorio Amedeo III il 24 maggio 1785. Il suo scopo fu quello di promuovere la
migliore coltivazione dei terreni e di diffondere la conoscenza, nelle campagne, delle nuove tecniche e dei nuovi
strumenti, e di studiare i problemi relativi all’agricoltura onde poter proporre al sovrano riforme mirate.
13)
L’Accademia Apatista fu fondata a Firenze nel 1631.
14)
Fondata a Roma nel 1603 da Federico Cesi l’incremento e lo studio delle scienze naturali, matematiche e filosofiche.
Aveva come simbolo la lince con allusione alla vista acutissima, indispensabile per la ricerca scientifica. Spentasi nel
1630, rinacque nel 1801 e assunse nel 1847, per volere di Pio IX, la denominazione di Pontificia Accademia dei Nuovi
Lincei.
204
Giuseppe Alessi - Federico Avolta - Saverio Avolta - Paolo Nardeschi - Vincenzo Garrigos, e
Dr. Pietro Bernardini, fu alli medesimi riferito dallo stesso Sig. Ab. Gilj, come Egli, animato
dall’amor della patria, erasi determinato, e voleva stabilire in Corneto un’Accademia
Scientifica, che avesse avuto per principale oggetto l’Agricoltura, senza escludere le altre
facoltà per sè medesime di ornamento, o utili, o necessarie, sotto i felici Auspicj del
Regnante Sommo Pontefice PP. Pio VI e sotto la valevole protezione di S.E.R. Mons.
Giuseppe Garampi Nunzio Ap.lico in Vienna e Vescovo vigilantissimo di questa Città di
Corneto e Montefiascone. E siccome una tale proposta, riscosse meritatamente l’applauso
universale dei Congregati suddetti, perciò di unanime Consenso fu risoluto di intitolare la
nascente Accademia, si’ per l’oggetto principale, e proprio di un Terreno assai fertile, sì
ancora per l’antica Città di Tarquinia di cui si osservano tutt’ora non molto lungi da
Corneto gli Avanzi “Societas Georgica Tarquiniensis” sotto l’Insegna dell’Aratro Etrusco
da copiarsi diligentemente dal Museo del Gori. Inoltre il sudd.o Sig.r Ab. Gilj lesse ad
ognuno dei congregati suddetti le Leggi da osservarsi inviolabilmente da tutto il ceto
Accademico, ed a norma delle medesime essendo state accettate si passò concordamente
alla Distribuzione delle Cariche per il buon regolamento di questa nascente Accademia
nella maniera come appresso, cioè:
Istitutore,
Sig. Ab. e Filippo Luigi Gilj
Presidente,
Sig. D. Giuseppe Alessi
Assessore,
Sig. D. Luigi Dasti
Censore,
Sig. Domenico Avolta
Segretario,
Sig. Saverio Avolta
Bibliotecario e Custode del Museo Sig. Can.co D. Giovanni Dasti
Sotto Bibliotecario e Sotto Custode del Museo Sig. Federico Avolta
Bidello,
Sig. Agostino Ercolani
E siccome si tratta di Accademia nascente, fu perciò rimessa ad altra opportuna
occasione l’Elezione dell’Intendente e Custode del Campo pubblico e del Depositario della
Cassa Economica.
In terzo luogo per rendere più numerosa l’Accademia sudd.ta, si passò
all’Aggregazione di molte altre Persone, tanto Cornetane, che Forastiere conforme al
paragrafo 9 delle Leggi sopra descritte. Furono intitolate le prime Soci Nazionali e le
seconde Soci corrispondenti come ben può vedersi nel Registro delle medesime.
Quindi in conformità delli paragrafi 3 e 10 delle med.e Leggi si passò dalli SS.ri
Presidente e Censore a fissare i Giorni delle Adunanze Accademiche che furono appunto i
205
seguenti, cioè Li 17 Ottobre del prossimo futuro anno 1784, giorno destinato all’apertura di
d.a. nuova Accademia e stabilito alla pubblicazione degli enunciati ufficiali ed alla
dispensazione delle Patenti ai respettivi Aggregati Accademici:
L’ultima Festa del Santo Natale - L’ultima Domenica di Carnevale - La quarta
domenica dopo Pasqua - Il Giorno di San Pietro Apostolo - San Secondiano M. Protettore
principale di Corneto, e della presente Accademia. il Lunedì della Fiera. E nel rid.o Giorno
di Ottobre, quanto l’altra dell’ultima Domenica di Carnevale devono esser pubbliche, e le
rimanenti private in conformità dell’enunciato paragrafo 10 che ordina due Accademie
pubbliche. Fu risoluto ancora che detta Apertura debba farsi in Lode del regnante Sommo
Pontefice PP. Pio Vi attesa la ben fondata speranza del Sig. Istitutore che il prelodato
Pontefice sia per accettare il sostegno della stessa Accademia in ogni sua inaspettata
indigenza. E siccome in detto paragrafo 10 si ordina ancora l’annuale Estrazione di otto
Socj per otto respettive Dissertazioni, da recitarsi nell’Anno, vale a dire nelle 8 destinate
sessioni in conformità dell’enunciato Paragrafo, perciò detta Estrazione fu concordemente
rimessa al giorno della prima Apertura, in cui si darà principio all’Epoca della nascente
Accademia. - Saverio Avolta, Segretario 15)
C’erano già, dunque, tutte le basi per la nuova associazione, ma importante era per il
Gilii anche il consenso del Vescovo di Corneto e Nunzio Apostolico a Vienna, eccellenza
mons. Giuseppe Garampi.
Era bene metterlo al corrente della cosa nel modo migliore. Le parole che scrive Gilii
nella lettera del 27 luglio 1784, sono volte proprio ad attirare ed accattivarsi la benevolenza
dell’alto prelato. Dopo aver puntualizzato l’importanza e l’utilità per una città di avere delle
“persone consacrate allo studio delle belle arti e delle scienze”, e la dottrina e “penetrazione
di spirito” del Garampi, Gilii prosegue così: “...come Pastore vigilantissimo, onorato dal
Cielo di tutte quelle prerogative, che l’Apostolo delle genti vuole compagne indivisibili del
vostro sublime carattere, avrete piacere, che animato io dall’amor della Patria siami
determinato di stabilire in Corneto, un’Accademia Scientifica, che abbia per principale
oggetto l’Agricoltura, e non isdegni di ammettere insieme altre facoltà per se medesime o
di ornamento, o utili, o necessarie” 16) .
Nella lettera, poi il Gilii seguita spiegando anche come ha preparato la nascita
ufficiale dell’accademia: “.... Sembrava, non lo dissimulo, a miei compatriotti ardua, e
difficile a primo aspetto simile impresa. Ma la scelta di persone idonee, ch’io feci l’anno
15)
Da “La Società Georgica Tarquiniese” - fondata in Corneto il 17 ottobre 1784 da mons. Filippo Luigi Gilii cornetano
- pag. 5 e segg.
16)
Id. pag. 8.
206
scorso di Ottobre cola’ portatomi a bella posta, la distribuzione degli Uffizj proporzionati
alla capacità di ciascuno, lo stabilimento di alcune Leggi da osservarsi inviolabilmente,
soprattutto però il comune desiderio di concorrere in parte alle premure d’un Prelato
presso i dotti meritatamente accreditato nella letteratura, fu quello stimolo, che dando
animo, e coraggio fe’ svanire qualunque difficoltà.
Si è pertanto d’unanime consenso risoluto d’intitolare la nascente Accademia si’ per
l’oggetto principale, proprio d’un terreno assai fertile, si’ per l’antica Città Tarquinia, di cui
si osservano tuttora non molto lunghi da Corneto gli avanzi, Societas Georgica
Tarquiniensis ed avrà per insegna l’Aratro degli Etruschi copiato diligentemente dal
Museo del Gori, che ho già fatto incidere in Rame.
Resta solo che si degni l’Eccellenza Vostra R.ma gradire questo nostro qualunque
siasi letterario impegno: ci permetta di decorare la nostra Società col nome, e protezione
della Sua persona si’ rispettabile, non men per Noi, che per la Repubblica delle scienze: e
voglia in fine colla Pastorale benedizione felicitar per sempre le nostre premure e fatiche;
con che pieno del dovuto ossequio, e profonda venerazione ho l’onore di essere.
Dell’Ecc.za V.ra R.ma
Umiliss. Dev.mo Serv.
Filippo Luigi Gilii 16) .
Inutile dire che la risposta del vescovo Garampi è più che positiva: “... Non potevo
provare consolazione maggiore quanta nel ricevere gli Stimatissimi Carateri di V.S. Ill.ma.
Mi è gratissima la riunione di persone che vogliono consacrarsi al ben pubblico della Città
di Corneto: e combinate tutte le circostanze, niuna ve n’ha per mio avviso più interessante,
e insieme più eseguibile, quanto l’ulteriore promozione dell’Agricoltura o di altre arti
relative alla causa pubblica, specialmente se s’intraprenda da persone, le quali siano
animate da vero zelo per la Società, e che insieme siano istrutte dei talenti, e delle
scientifiche cognizioni necessarie a tal’uopo... Come Pastore Spirituale della Chiesa mi
faccio un debito di promuovere tutto ciò, che può contribuire a sollevare l’indigenza del
Popolo: e fra tutte le opere di cristiana carità quelle sempre preferisco le quali tendano a
un sollievo universale a tutte le altre, che sogliono esercitarsi verso l’uno o l’altro, o anche
molti individui in particolare” 17) .
E’ proprio il vescovo, poi, nel prosieguo della lettera, a parlare del modo in cui
ancora veniva vista l’agricoltura dai più: “... Nelle nazioni Straniere un tale studio viene con
16)
Id. pag. 8
207
assai maggiore diligenza, e apparecchio di scienza trattato, che presso di Noi, dove il Volgo
lo reputa, non come Scienza, ma come esercizio meccanico di Fattori di campagna. Ma
tutte le dette Nazioni ne hanno ben’altra idea e ne hanno riportati i più copiosi e validi
effetti. Non dico già che tutto quello che si pratica utilmente altrove, possa convenire
egualmente a Noi, nè avere gli stessi effetti. Le diversità del Clima, dei Terreni, e di più
altre circostanze, esigono mature considerazioni: ma importa appunto al ben pubblico, che
sienvi in ogni luogo fervorosi Cittadini, i quali prendano compiuta cognizione
dell’osservazione fattesi altrove, le esamino, le esperimentino, e le riducano infine alla
Utilità patria. Quantunque io sia in vero fuori del caso di poter dare in ciò lumi opportuni,
non avendo mai coltivata una tale Scienza, nondimeno ho sempre avuta grandissima
opinione della necessità ed utilità Sua; ed ora il Ministero mio pastorale me ne risveglia per
i motivi sopraenunciati ogni più fervido impegno. Quindi per vieppiù promuovere lo
Studio, e gli effetti, sono anche pronto a concorvi con Stabilire a tempo e luogo dei premj;
onde venga così animato vieppiù il Pubblico, e in specie l’indocile Agricoltura a megliorare
le sue Iperazioni, e attenzioni, giusta le Riflessioni e l’esperienza, che la nuova Società sarà
loro per indicare...” 17) .
Era anche importante però, che il giorno dell’inaugurazione della “Societas”, fossero
presenti tutti i soci di un certo livello. Per questo il loro invito doveva essere articolato in
modo da non poter essere dimenticato. Ecco, ad esempio, quello fatto in distici latini, al
socio Ab. Luigi Riccomanni, che oltre ad essere un valido letterato, era anche Principe
dell’Accademia dei Georgofili di Montecchio. Agli occhi di noi moderni risulta un po'
retorico ed ampolloso, ma era proprio quello che ci voleva per quel tempo.
“O nostros inter, Princeps memorande, Sodales,
Inclita Romulei fama decusque soli.
Eje meum, quaeso, propere Te transfer in hortum
Nec pigeat patriis cedere limitibus.
Hic varios cernes positos ex ordine flores,
Hic arbusta Tibi mitia poma dabunt.
Hic Tibi populea vitare licebit in umbra
Phobeos aestus ignivomumque Canem.
Hic Zephyri spirant molles per amoena vireta
17)
17)
Id. pag. 10.
Id. pag. 10.
208
Irrigat et plantas, garrula fontis aqua 18) .
(“O Principe illustre tra i nostro soci/ O inclita fama e decoro del suolo romuleo /
Orsù di grazia trasferisciti presto nel mio orto / Ne’ ti rincresca passare i confini patrii /
Qui vedrai i vari fiori posti in ordine / Qui gli alberi ti daranno dolci pomi. / Qui ti sarà
lecito evitare all’ombra dei pioppi / I calori febei e dell’infocata costellazione del Cane. /
Qui i leggeri zeffiri soffiano per gli ameni verdi / e la garrula acqua della fonte irriga anche
le piante”).
Ad un invito simile non si poteva dire di no, e quindi, quel fatidico 17 ottobre del
1784, anche lui era presente ed ascoltò la dotta prefazione accademica tenuta dallo stesso
mons. Filippo Luigi Gilii, agli intervenuti.
Una prefazione che vale la pena di ricordare, in quanto vi sono espresse le finalità e
l’impostazione dell’Accademia, oltre a riflessioni su come veniva concepita l’attività
agricola in quel tempo, non tralasciando riferimenti alle altre nazioni europee. Vi si nota
inoltre la sua preparazione nel campo della veterinaria.
Prefazione di Mons. Filippo Luigi Gilii
Crederei di farvi un torto, riveriti Accademici, se in questa mia breve allocuzione,
che non è se un semplice preliminare ai varj Eruditi componimenti, che dan principio
quest’oggi alla nostra Georgica Società, mi accingessi ad esporre i vantaggi, che da un ceto
di Persone consacrate allo studio sono per derivare alla Patria, qualora risguardando Esse
come per primo, e più interessante oggetto, il ben pubblico, conspirino col valore e
coll’ingegno ad assicurarlo, ed accrescerlo. In un secolo quale è questo, sì illuminato, non
v’è persona che di ciò non sia abbastanza persuasa; nè voi certamente dotati d’un ottimo
discernimento, vi darete a credere, che lo Stabilimento di questa Nuova Accademia,
fondato sia piuttosto sù debole, e momentanea idea di giovanile fervore, che sù matura e
stabile riflessione di chi debitore a questa Città de’ suoi Natali ne ha per gratitudine
concepiti e determinati i vantaggi. Che ciò sia vero, piena fede ne fanno i Popoli
dell’Inghilterra, della Francia, e quante altre colte Nazioni vantar può oltre i Monti la
nostra Europa, le quali riconoscono l’estenzione mirabile de’ proprj dominii da quelle
scientifiche Accademie, che nei loro principii non furono dissimili dalla nostra, ma a guisa
di piccol Ruscello, che vieppiù ingrossando degenera finalmente in rapidissimo Fiume,
18)
Id. pag. 12.
209
giunsero poi a quei stupendi e maravigliosi progressi, che oggi giorno ammiriamo. L’Italia
stessa facendo eco alle voci delle estere Nazioni potrà darci conto di quanto siano debitori i
suoi Popoli alle Adunanze in varie parti erette, per l’accrescimento e del commercio o
dell’Agricoltura, o delle manifatture ad insinuazione di queste introdotte.
Tale ancora sarà il Frutto della nostra Goergica Società, se voi, generosi
Concittadini, deposto ogni timore, e superata qualunque difficoltà sia per nascervi in
mente al nome di Scientifica Accademia, vestirete quel forte, ed invincibile impegno che io
provo di giovare alla Patria, impiegherete in prò di essa la nostra opera, e di buon grado
accompagnerete alle mie, qualunque Esse sieno, le utili vostre fatiche.
Appena insorse in me l’idea di stabilire questa nuova Accademia che subito ebbi di
mira un qualche utile oggetto. Stabilii perciò di appigliarmi all’Agricoltura, come cosa,
secondo me, più al proposito attesa la fertilità dell’Agro Cornetano, e come cosa che andata
quasi in decadenza, ha bisogno di risorgere di nuovo per poter emulare con quei tempi ne’
quali soprammodo fioriva. Quai vantaggi non ritraeva dall’Agricoltura l’antica Romana
Repubblica, allorchè le più ragguardevoli persone, e gli stessi Consoli, non isdegnavano di
dedicarvisi, e d’incallire le proprie mani a guisa de’ nostri concittadini col continuo
adoperar l’aratro, e gli altri rurali strumenti inventati fin dai primi tempi per rivolgere, e
disporre il terreno destinato alla coltivazione d’ogni sorta di vegetali. Ma tosto mancò
quest’utile alla Repubblica, allorchè introdottosi in questa il lusso, e l’idea di signoreggiare,
furono abbandonati i Campi, e deposte le Agrarie cure. Queste adunque devono esser
l’oggetto delle nostre sperienze, ed osservazioni, ad essa principalmente devono
consecrarsi le nostre industrie, e fatiche, e a ciò fare con genio, ed impegno siamo oltre
modo animati dal sempre ambabile nostro sovrano, il Sommo Pastore, e visibil Capo di
Santa Chiesa, Pio VI che ad una mente ben vasta, accoppiando insieme un gran Cuore non
chè meditare il bene de’ Suoi Sudditi, ne cerca, e promuove i mezzi, e però vi esorto a dar
mano, ed applicarvi indefessamente alla cultura, bonificazione, ed aumento de’ vostri
Terreni.
Quando però si tratta d’Agricoltura non dee essere questa ristretta in quei limiti
angusti di essere intenti alla coltivazione delle solite comuni semenze. Tante altre ancor ve
ne sono assai utili, ben conosciute da altre Nazioni, e che posson pur quivi introdursi. Non
dico già (servendomi delle parole stesse del chiarissimo Mons: Garampi Nunzio Apostolico
in Vienna, e Pastore vigilantissimo di questa nostra Città) Non dico già che tutto quello che
si pratica utilmente altrove, possa convenire egualmente a Noi, nè avere gli stessi effetti.
Le diversità del clima, dei terreni, e di più altre circostanze esiggono mature
considerazioni: ma importa appunto al ben pubblico, che sienvi in ogni luogo fervorosi
210
Cittadini, i quali prendono compiuta cognizione delle osservazioni fattevi altrove, le
esaminino, le esperimentino, e le riducano infine all’utilità Patria.
Vi sono ben note le premure di questo insigne Prelato, e nostro ragguardevolissimo
Protettore per una lettere a me diretta sotto il dì 12. Agosto in riposta di altra mia de’ 27.
Luglio che non ho mancato di fedelmente comunicarvi. Ed ancora questo dee servirvi di
stimolo per intraprendere coraggiosamente la carriera delle rustiche nostre osservazioni.
La Veterinaria è ancor Essa una parte che vi esorto a non distruggere. Risguarda
come Voi ben sapete, le malattie de’ Bestiami, generi estremamente necessari per
l’Agricoltura. Si veggon questi ogni anno mancare con rincrescimento de’ proprietarj,
senza che vi si presti un’opportuno riparo; e questo sarà un’altro non piccol vantaggio per il
publico Cornetano, che perciò osservando gli Agricoltori quei segni che potranno rinvenire
nella mortalità dei Bestiami, potranno tosto riferirli all’Accademia, o lasciare il carico ai
Socj di esaminare se ciò provenga o dalle acque che beono, o dai pascoli, o da altre cause
estrinseche, con ripeter quindi da Essi quei necessarj provvedimenti che si saranno
giudicati opportuni da tutta quella parte del ceto Accademico che sù tal facoltà averà il
diritto di ragionare. Quanti Armenti, e Greggie veggonsi nelle nostre campagne talvolta
perire alla giornata che non più, che il di innanzi vedeansi tardi al moto per la pinguedine.
Credesi ordinariamente questo un’effetto epidemico, o che dall’uno all’altro passi
quest’istesso malore; Ma il fatto si è che il più delle volte è un mero abbaglio. Chi potrà
contradirmi se io dico che in quel dato pascolare assegnato ai proprj Bestiami vi possono
essere dell’erbe, tra le altre che ivi nascono per essi venifiche, e produttrici di morte
allorché mangiate. E perchè se effetto fosse di una vera epidemia soltanto a questo, e non a
quell’altro Agricoltore dee accadere simil disgrazia, che non lungi da quello, tiene ancor
Esso a pascolare i suoi Bestiami? Non v’è a mio credere, persona che versata alcun poco
nella Storia Naturale, o almeno in una fondata prattica della Campagna, non sappia che
moltissime piante che trovansi in un dato pezzo di terreno, non veggonsi punto in un’altro
da quello non molto lungi, per la qualità principalmente della Terra affatto l’una dall’altra
differente, e che non egualmente in tutte due alligna, e può vivere quella stessa Pianta. Chi
potrà pur negarmi, che specialmente nella fervida stagione d’estate abbeverati gli Armenti
o nei fossi sparsi per le Campagne, o in altri luoghi di Acque perenni no sien quest’acque da
Essi sorbite capaci di apportargli la morte, perchè pregne di minerali sostanze non
confacenti alla loro costituzione? Questo peraltro è un’inconveniente che almeno in gran
parte doverà mancare qualora voi gentilissimi Accademici sarete per fare con occhio
veramente da Fisico le predette osservazioni. Nè dovete voi giudicare tanto difficile
quest’impresa, e quasi impossibile a conseguirsi, fissati sulla frivola ragione di non esservi
211
mai dedicati a simili studj. Quante cose uno nei tempi andati non ha fatto, e venuto poi il
momento di doverle fare, benissimo vi è riuscito, e grandissimi encomj ne ha riportato dal
pubblico letterato, per esservisi occupato con tutto quell’impegno, e con tutto quello zelo,
che è proprio d’una persona assenata cui sia principalmente a cuore la propria stima.
Ecco adunque miei Signori qual’esser deve il principale scopo della nostra
Accademia, che perciò col nome di Georgica ad immitazione di alcune altre che ve ne sono,
ci è piaciuto chiamarla. Io intanto potò dirmi fortunato, se vedro da voi eseguita con
impegno quell’idea da me concepita a prò della Patria, e Voi felici, se dalle vostre letterarie
occupazioni vedrete in questa prodotti quei vantaggi, che è nostro assoluto impegno
diconseguire 19) .
Il modo in cui si svolse l’inaugurazione della “Societas Georgica Tarquiniensis”, fu
adeguato all’importanza che si dava a tale associazione, e non c’è nulla di meglio per
seguirne i vari momenti che leggere il “Breve Ragguaglio” che lo stesso Gilii fece
“sull’Apertura della nuova Accademia dei Georgofili” al Pontefice Pio VI, nominato
protettore della stessa:
Breve ragguaglio del Gilii sull’Apertura della nuova Accademia dei Georgofili fatta il 17
Ottobre 1784 in Corneto sotto gli Auspici di S.S. Papa Pio Sesto.
ALLA SANTITA’ DI NOSTRO SIGNORE
PIO PAPA SESTO
FELICEMENTEREGANTE
Filippo Luigi Gilii
Il dovere, e la gratitudine di un suddito risguardato dal suo Principe con occhi di
singolare clemenza, esigon da me, Beatissimo Padre, che prostrato a’ piedi della Santità
Vostra, umile vi presenti un breve, e succinto ragguaglio dell’apertura, che si fece in
Corneto nel dì 17. di Ottobre p.p. della nuova Accademia da me istituita col nome di
Società Georgica Tarquiniense, dopo che Voi colla solita Vostra connaturale bontà vi
degnaste accettarne la dedica Offerta invero assai tenue, se ponesi mente a quella Sovrana
19)
Id. pag. 12 e segg.
212
Maestà che vi circonda; ma non disgradevole ad un magnanimo cuore accompagnato da
uno spirito sublime, che da principj sebbene angusti argomentando progressi mirabili, ha
voluto approvare un’impegno nascente, da cui molto promettesi il pubblico bene e
vantaggio.
Giunto io la mattina dei 15, in Corneto impiegai quel giorno e il susseguente insime
coll’abate Luigi Riccomanni a prepare e disporre quanto stimai necessario all’imminente
funzione, e feci inoltre varie utili ricerche, ed osservazioni, che a suo tempo, e luogo avro
l’onore di comunicare ed a voce, ed in iscritto alla Sanità Vostra, qualora si degni
accordarmelo.
Ai 17. prima di dar principio ad un’Adunanza, ch’alle sole persone intelligenti riuscir
possa di soddisfazione, di gusto, e di tripudio, perchè gli altri ancora coi loro evviva
celebrar potessero nel modo suo un giorno sì lieto, volli premetere un’esperienze fisica, che
riuscì felicissima, e di piacere universale.
In questa l’esperienza del Globo Aerostatico non ancora veduta in Corneto,
esperienza dall’occhio de’ Fisici mirata diversamente, che da quello del volgo, esperienza di
cui vantano giustamente la riproduzione i popoli della Francia. La virtù di sollevare sulla
nostra Atmosfera i corpi per se stessi gravi, o sottraendo dai medesimi l’azione del fuoco
quell’aria che in se contengono o introducendo in essi una data quantità di aria flogistica
che gli renda specificamente più leggieri del nostro comune elemento, siccome fu sempre
lo scopo di curiosità cui collimarono gli studj di tante Nazione, così mi diedi a credere, che
ne’ miei Concittadini ancora si nudrisse la brama di vederne gli effetti. Che però in un
prato situato a sinistra fuori la porta così detta Clementina, si portò felicemente in alto un
globo di carta rasata, il cui diametro era di sei piedi parigini, e di sei piedi e sei pollici
l’altezza.
Dopo questo spettacolo ritornato in città mi portai cogli Accademici nella Sala del
Palazzo Serlupi, che in difetto di una propria ci fu da questa nobilissima Casa gentilmente
accordata. Era quella ben parata, ed illuminata a placche: sotto un baldacchino era
collocato il ritratto della Sanità Vostra, ed intervenuto il Magistrato, il Vicario generale, ed
oltre a primarj Cittadini, un’immensa moltitudine di popolo, si diè finalmente principio
alla lettura di varj eruditi componimenti.
Prima però stimai un mio preciso dovere quale Istitutore di quell’Accademia
esortare con un breve preliminare discorso i Membri della Società a procurarsi collo studio
e coll’impegno l’acquisto di quelle cognizioni, che risguardano l’Agricoltura, la Veterinaria,
e il miglioramento del Clima, come principale oggetto delle nostre cure, e fatiche;
partecipando poi loro in appresso un foglio di Mons. Garampi, da cui potessero facilmente
213
dedurre il genio grande di questo nostro vigilantissimo Pastore per gli studj, e per gli
amatori di essi, se sono singolarmente diretti, e consecrati ai sodi vantaggi del suo
amatissimo gregge.
Fu di poi recitata una memoria istorica sulla Città di Corneto, composta dal
chiarissimo nostro Accademico P. Lettor Flaminio da Latera minore Osservante; e con pari
erudizione recitò l’abate Riccomanni una dissertazione sull’aria maremmana di Corneto,
rilevandone la qualità, ed assegnando i rimedj per migliorarla, con evitare gli abusi
introdotti o mettere riparo a certi inconvenienti, che stimati da poco con riprensibile
indolenza si trascurano.
Dopo queste prime Composizioni altre ne vennero ed in prosa, ed in verso, ed
italiane e latine, per la maggior parte in encomio di Vostra Beatitudine, cui devonsi
giustamente, come a nostro Sovrano, e Padre amantissimo, argomenti di amore,
ringraziamento, ed omaggio.
Resta ora, Beatissimo Padre, che vi degniate di continuarsi la Vostra Clemenza,
affinchè sotto quegli stessi Augustissimi Auspici, all’ombra dei quali abbiamo
incominciato, ci sia lecito felicemente proseguire le nostre qualunque sieno fatiche, e
genuflesso al Trono imploro la Vostra Apostolica Benedizione 20) .
Dopo tanto parlare di questa inaugurazione, è più che lecita una certa curiosità sul
programma e su coloro che ebbero l’onore e l’onere di trattare i vari punti stabiliti:
Si cominciò con una “Memoria storica sulla Città di Corneto” del P. Lettore
Flaminio da Latera Min. Oss., e si seguitò con una “Dissertazione sull’area maremmana di
Corneto”, letta dall’ab. Luigi Riccomanni, e poi un Carmen di D. Michele Reboa, un’Egloga
dell’Ab. Antonio Mariotti Romano Benf.o della Basilica Vat.a ed uno dei sotto Custodi di
Arcadia, quindi un Idilio di Gioacchino Pizzi Custode G.le di Arcadia, un Capitolo del
dottore Filippo Pellegrini e infine cinque Sonetti dell’Ab. Gaetano Golt Romano Arcade, ed
uno dei Bussolanti di N.S. ed ancora altri Sonetti di Domenico Avvolta, del canonico D.
Filippo Querciola, di Giuseppe Petroselli, dell’Ab. Perugini Parr. di S. Pancrazio, dell’Ab.
Giuseppe Alessi ed anche del P. Bernardino da Lucca Min. Oss., e poi ancora altre poesie
latine di cui però non sappiamo l’autore.
** ** **
20)
Id. pag. 18 e segg.
214
L’elenco dei soci dell’Accademia Tarquiniense annoverava sia cornetani che
“esterni”, tutti uniti dall’interesse verso gli studi e verso le innovazioni di cui il secolo non
era avaro. Proprio per questa loro apertura mentale, è bene ricordarli:
Elenco dei Georgofili Tarquiniesi 21)
1. Alessi D. Giuseppe.
2. Avvolta Domenico.
3. Avvolta Federico.
4. Bartolozzi Pietro.
5. Bernardini D. Pietro.
6. Bianchi Secondo.
7. Bovi Cañco Ferdinando.
8. Bustelli Antonio.
9. Chiocca Cañco D. Ludovico.
10. Da Latera P. Luigi Flaminio Min: Oss:
11. Dasti Cañco D. Giovanni.
12. Dasti ab. Agapito.
13. Dasti ab. Settimio.
14. Donati D. Luigi.
15. Erasmi ab. Gasparo.
16. Falzacappa Antonio.
17. Falzacappa Luca.
18. Gilii Filippo Luigi, fondatore dei Georgofili.
19. Garrigos Vincenzo.
20. Iacquier P. Francesco de’ Minimi.
21. Momacchi P. Tommaso.
22. Maestri Michelangelo.
23. Nardeschi Paolo.
24. Paluzzi D. Lorenzo Prevosto.
25. Perugini D. Giovanni Curato.
26. Petrosellini D. Giuseppe.
27. Quaglia D. Agostino.
21)
Id. pag. 23
215
28. Querciola Cañco D. Filippo.
29. Ronca Ab. Gio: Antonio.
30. Riccomanni Ab. Luigi.
31. Sacchetti Marchese Scipione.
32. S.E. il Sig.r Senator Clemente.
Soci Corrispondenti
1. De Rossi Mons. Dom.co Istitutore dei Georgofili di Foligno.
2. Lettieri D.r Natale Medico primario in Napoli.
3. Lapi D.r. Girolamo Medico in Roma.
4. Scappini Ab. Vincenzo Cornetano.
Sembrava dunque che tutto fosse favorevole ad una produttiva vita di studi e di
sperimentazioni, ma nella realtà non fu così. Sembrò, all’improvviso, che tutto congiurasse
contro l’Accademia. Gli sconvolgimenti politici e sociali, che interessarono la vita di tutta
l’Europa e dell’Italia, la ventata rivoluzionaria prima e quella napoleonica poi, alle quali
seguì la restaurazione, fecero sì che dell’accademia cornetana, che aveva scelto come suo
emblema l’aratore etrusco, quasi a simboleggiare la continuità dell’attività primaria
dell’uomo, attraverso i secoli, poco alla volta si perdesse anche il ricordo.
Il Gilii, però, seguito i suoi studi ed ancora oggi alcune delle opere da lui volute,
quali le meridiane presenti nel Vaticano, la più grande delle quali è quella di piazza San
Pietro, che si trova a destra di chi guarda la basilica, ed è formata dalla linea di granito che
parte dall’obelisco (che funge da gnomone) e oltrepassa la fontana, oppure quella di Santa
Maria degli Angeli a Roma, sono ammirate anche da chi le osserva solo dal lato turistico,
senza rendersi conto degli studi e delle conoscenze tecniche necessarie per realizzarle.
Anche se, con il passare del tempo, alcune delle idee del Gilii sono state
inevitabilmente superate dal progresso scientifico, pur tuttavia lo studioso cornetano
resterà sempre come un punto di riferimento ben preciso nel mondo scientifico del suo
tempo.
La morte lo colse 65 anni, il 15 maggio 1821, a seguito di un colpo apoplettico. Il suo
corpo venne tumulato nella tomba di famiglia nella Chiesa dell’Aracoeli, e a suo ricordo
venne posta una lapide nella quale vengono presentati tutti i suoi meriti:
216
MEMORIAE. ET. QUIETI
PHILIPPI. ALOISI. LVCIDONII. F. GILII
ORTV. CORNETANI. PATRIA. NVRSINI
A. CVBICVLO. EXTRA. AEDIUM. PENETRALIA
SS. D.N. PII. VII. P.M.
GREGORIANAE. TVRRIS. AD. ASTRA. SPECVLANDA
CVRATORIS
BENEFICIARII. BASILICAE. VATICANAE
QVAM. MIRO. ARTIFICIO. ADVERSVS. FVLMINVM. ICTVS
CVSPIDIBVS. FRANKLINIANIS. CIRCUM. VNDIQUE. COMMVNIVIT
ET. IN. CVIVS. AREA. MERIDIANAM. DELINEAVIT
QVI MVSEVM. HISTORIAE. NATVRALIS
BIBLIOTHECAE. LANCISIANAE. DONO. DEDIT
ATQVE. ARTIS. HERBARIAE. ET. ORNITHOLOGIAE
PERITIA. INSIGNIS
SCRIPTIS. POSTERITATI. MANDATIS. INCLARVIT
VIR. MITISSIMI. INGENII. MODESTIAE. SINGVLARIS
PIVS. VIXIT. ANN. LXV. DECESSIT. APOPLEXI. CORREPTVS
IDIBVS. MAII. ANNO. CIC IC CCC XXI
AGATHA. BALZARIA. EX. TESTAMENTO. HERES
PATRONO. BENEFICENTISSIMO
TITVLVM. CVM. LACRIMIS. POSVIT.
__________
SIDERA PER VITAE STVDIVM CVRA FVERE
SIDERA IAM SEMPER IVRE PHILIPPE COLES
CIVE NOVO O SVPERI MERITO GAVDETE RECEPTO
NAM DATVS HIC BREVIA IN TEMPORA VESTER ERAT.
__________
Per avere poi un’idea più precisa della quantità e della qualità degli studi da lui
affrontati, ecco di seguito l’elenco delle sue opere così come sono riportate da Giuseppe
Lais in “Memorie e scritti di mons. Filippo Luigi Gilii, direttore della Specola Vaticana ed
insigne naturalista del secolo XVIII”.
LILIA GRAZIA TIBERI
OPERE A STAMPA
217
1. Dissertazione sulle macchine igrometriche An. 1775, in 12 Roma.
2. Agri Romani historia naturalis tres in partes divisa, sive methodica synopsis naturalium
rerum in Agro Romano existentium. Pars 1ª Regnum Animale. Tom. I. Ornithologia, in qua
de priori avium classe . . . . An. 1721, in 8 Roma.
3. Memoria fisica sopra il fulmine caduto in Roma sulla casa dei PP. Filippini di S. Maria in
Vallicella, detta comunemente la Chiesa Nuova il dì 26 Nov. 1781. An. 1782 in 8 Roma.
4. Fisiogenografia, ossia delineazione dei generi naturali divisi in sei classi . . . . . . Tom. 2,
an. 1785, in -8 Roma.
5. Dissertazione fisico-storica sui terremoti di Piediluco, accaduti nell’Ottobre 1785 ...... An.
1786, in -8 Roma.
6. Osservazioni fitologiche sopra alcune piante esotiche introdotte in Roma (1788) (1789)
(1790). Vol. 3, an. 1789, in -4 Roma.
7. Breve ragionamento sopra il conduttore elettrico innalzato per ordine di N.S. Pio VI
sulla Basilica di S. Maria degli Angeli di Assisi . . . . . .. . . . An. 1793, in -8 Roma.
8. Memoria sul regolamento dell’orologio italiano colla meridiana . . . . . . . . . An. 1805, in 8 Roma.
9. Risultati delle osservazioni meteorologiche fatte nell’anno 1805, 1806, 1807, 1808.
10. Architettura della basilica di S. Pietro in Vaticano opera di Bramante Lazzari,
Michelangelo Buonarroti ed altri celebri architetti espressi in XXXII tavole da Martino
Ferraboschi con una succinta dichiarazione compilata da Filippo Gilii.
An. 1812, in-fol Roma
(Quest’opera eseguita a spese del Governo Francese è ricordata dal Brunet nel
supplemento al manuale del libraio: è di gran momento per gli artisti e viaggiatori).
MANOSCRITTI
I manoscritti del Gilii insieme a raccolte di erbarî schede e memorie di ogni genere
occupano l’intero armadio vaticano CXVIII, e si conservano in buste e fasci numerati
secondo la serie dei codici.
Serie di erbarî codici: 10236-10237-10238-10239-10240-10241-10242-1024310244-10245-10246.
Serie di appunti e memorie astronomiche, codici: 10247-10248-10249.
Serie di appunti e memorie fisiche, codici: 10250-10251.
218
Serie di storia naturale, codici: 10252-10253-10254-10255.
Serie di ornitologia, codici: 10256-10257-10258-10259.
Serie di appunti varî, codici: 10260-10261-10262-10263-10264-10266-10267
L’intero numero dei manoscritti è formato da 31 codici, nei quali è anche compresa
la corrispondenza epistolare.
METEOROLOGIA
Giornale delle osservazioni meteorologiche degli anni 1800, 1801, 1802, 1803, ....
1814, 1815, 1816, . . . . 1818, 1819, 1820.
Dissertazione sulle macchine igrometriche.
Disegni di atmimetro e sismografo.
Tavole di massimi e minimi assoluti di temperatura osservati in alcune città
d’Europa.
Selva di notizie sulla Specola Vaticana, pubblicate in parte nelle Notizie del giorno
del 1818.
Osservazioni fatte per l’altezza della Specola Vaticana col barometro portatile del
Sig. Cav. Barnaba Oriani.
ASTRONOMIA
Uso e maneggio del circolo ripetitore per le altezze degli astri.
Lettere del Gilii sulla pasqua dell’anno 1802.
Tipi ed osservazioni degli eclissi di sole 31 luglio 1795 - 17 Agosto 1803 - 29
Novembre 1807.
Tipi ed osservazioni degli eclissi di luna 22 Luglio 1804 - 11 Luglio 1805 - 2
Settembre 1811.
Cometa 8 Settembre al 9 Novembre 1811.
In questi manoscritti si ha poi un’abbondantissima raccolta di osservazioni di
ecclissi lunari e solari, passaggi di pianeti con effemeridi del celebre abate Scarpellini: 50
lavori che in gran parte si riferiscono alla Specola Gaetani.
GNOMONICA
Orologio solare antico nella villa di S.E. il Sig. Generale Miollis a Roma sul
monte Magnanapoli.
Meridiana in S. Maria degli Angeli alle Terme Diocleziane.
Zodiaco Gabino.
219
Meridiana di Celso al Palazzo del Quirinale con appunti di pubblicazioni su
questa e su quella di Tyco Brahe.
Carte per lo gnomone dell’orologio solare di S. Pietro, messo in opera il dì 22
Febbraio 1804 nel finestrone delle campane.
Carte sulla meridiana della piazza di S. Pietro in Vaticano fatta l’anno 1817.
Carte relative all’orologio solare situato sul parapetto, del primo viale del giardino
vaticano.
Teorie e problemi di gnomonica.
BOTANICA
Osservazioni naturali fatte nel mese di Ottobre del 1794 in viaggio sull’Appennino
per la Ventusola al Piano del Castelluccio: piante rinvenute... pag. 22.
Osservazioni botaniche dell’anno 1787-2 quaderni.
Catalogus seminum collectorum in horto botanico R. Nosocomî Divae Mariae
Novae. Florentiae anno 1792 e 1790.
Appunti sull’oppio, sui ranucoli, gomma elastica, piante tintorie e metodo per tinger
carta paglia sul guado.
Dimostrazioni botaniche secondo il sistema di Tournefort. - pag. 12 in-folio.
Pratica della coltivazione de’ grani per la campagna di Roma. - pag. 10
Nomenclatura italiana e toscana di varie specie di frumento, pag. 8, con appendice
sul modo di fecondare il frumento e sull’artocarpos incisa, albero a pane.
Trattato sulla coltivazione del grano nelle maremme.
Osservazioni botaniche dell’anno 1787.
Memoria sopra alcune piante oleifere importanti nell’uso economico - pag.28.
Memora 2ª sopra lo stesso argomento - pag. 30
Dissertazione sopra la vegetazione delle piante - pag. 28. Appendice - pag.20
Saggio storico sulle operazioni della manna e piante che la producono - pag.16
Alcuni disegni di 17 piante.
ZOOLOGIA
Metodo per conservare i vermi e le larve degli insetti
8 pagini
Ornithologiae Classis Prima
7 quaderni
Adversaria
5 quaderni
Ornithologiae Romanae
11 quaderni
Dissertazione sulle farfalle
1 quaderno
220
MINERALOGIA
Relazioni del saggio fatto del tufo marnoso del Monte Verde fuori di Porta Portese
pag. 14
FISICA
Dissertazioni di fisica sulla luce
2 quad. in-8 di 32 pag.
Sull’elettricismo artificiale (opera dedicata al Marchese Alessandro Chigi) 1778
pag. 80
Primi esperimenti in Roma sul globo aerostatico
pag. 16.
Sopra i colori della luce e del suono
quad. 1
Dei parafulmini Vaticani
quad. 4
Spese per l’intera condottura elettrica del Vaticano con piante ed elenco dei fulmini
caduti nella vecchia e nuova basilica, scandagli di conduttori per i seguenti edifici: palazzo
di Monte Citorio, accademia di Francia, lanterna di Ripa grande, chiesa di Castel Gandolfo,
chiesa di S. Pietro di Perugia, chiesa di S. Andrea a Monte Cavallo, chiesa della SS. Trinità
dei Pellegrini, chiesa di S. Maria degli Angeli in Assisi, Collegio Celestino di S. Maria in
Posterula, palazzo Caserta a S. Maria Maggiore, casino Azara al Maccao.
Memoria fisica sopra il fulmine caduto in Roma sulla casa dei PP. Filippini di S.
Maria in Vallicella il dì 26 Novembre 1781 pubbl. in-8.
Dissertazione fisico-storica sui terremoti di Piediluco, accaduti nell’Ottobre del 1785
pubbl. in-8.
Breve ragionamento sopra il conduttore elettrico innalzato per ordine di Pio VI sulla
basilica di S. Maria degli Angeli in Assisi.
VARIA
Società Georgica di Corneto ed altre memorie riguardanti la detta città.
Prefazione Accademica
pag.3
Corrispondenza epistolare sul miglioramento dell’agro cornetano.
Rapporto del Gilii a P. Pio VI sullo stato della città di Corneto. Memorie storiche
della città di Corneto estratte dal codice manoscritto valesiano, esistente nell’archivio
segreto del Campidoglio.
Corrispondenza di 23 lettere scritte da diversi al Gilii tra le altre una
congratulazione del Vescovo di Corneto per la fondazione fatta da Mons. Gilii in quella
città di un’accademia intitolata “Società Georgica Tarquiniese”.
221
Memoria letta nell’adunanza dell’Accademia dei Lincei il dì 4 luglio 1805 da Filippo
Luigi Gilii.
Vita dell’insigne meccanico Zabaglia.
Bibliografia
- Società georgica Tarquiniense, fondata in Corneto il 17 ottobre 1784 da mons.
Filippo Luigi Gilii - cornetano.
... Tipografia della pace di Filippo Cuggiani - Roma - 1891.
GIUSEPPE LAIS: Memorie e Scritti di mons. Filippo Luigi Gilii, direttore della
Specola Vaticana ed insigne naturalista del secolo XVIII (estratto dalle Memorie della
Pontificia Accademia dei Nuovi Lincei, vol. VI)
... Tipografia della Pace di Filippo Cuggiani - Roma - 1890.
C. CASTAGLIONI - Storia dei Papi
CANCELLIERI - Storia dei Sommi Pontefici
- L’affascinante Storia delle Invenzioni - Selezione dal Reader’s Digest.
COSTANTINO MAES - Curiosità Romane Ed. del Pasquino - Roma 1885.
CONFERENZA SU CARDARELLI IN OCCASIONE DEL GEMELLAGGIO CON LA
CITTÀ’ DI MANDAS (CAGLIARI)
Io non credevo, non credevo davvero, signori sindaci, consiglieri e ospiti, di dover
cominciare questa rievocazione di Vincenzo Cardarelli, rivangando ancora antiche note
polemiche, che riconducno al rapporto di Cardarelli con la sua città.
Amici miei, i poeti, i grandi uomini, non sono pacifisti, non sono gente tranquilla,
non sono accomodanti, non sono fatti per porgere l’altra guancia.
E’ gente guerriera, ardente, polemica, a volte violenta. Sono, come fu descritto
Cardarelli, “strambi, scortesi, poco socievoli”. Parlando di Dante, Boccaccio lo chiamò
“malgrazioso” che vuol dire esattamente quel che poco fa qui si è udito su Cardarelli. Per
quanto riguarda il rapporto di un grande con la sua città natale, il “borgo selvaggio” di
Leopardi, direi che l’atto cui il figlio respinge la madre per riconquistarla più tardi, sia un
passo obbligato nella formazione della personalità. L’uomo grande deve abbandonare il
luogo natio. Se, poi, vi ritornerà, vivo o morto, questo è un altro capitolo.
Lo deve abbandonare come Dante abbandona Firenze e Leopardi se ne esce dalla
sua Recanati. E che cosa dice, e quanti epiteti e quanti dileggi ha per Recanati, la quale,
222
tuttora, come Firenze, non porta astio a Dante. Firenze, che, anzi, più volte ha chiesto a
Ravenna le amate ceneri. Orgogliosa com’è, ha accettato con orgoglio anche gli scatti
dell’ira inevitabili nell’uomo che si veda circondato da gente che non lo capisce. Perchè il
fatto che i grandi non siano capiti, è inerente alla loro natura di “grandi”. Non sarebbero
loro, se non si trovassero in contrasto con la comunità che li ha generati. Contrasto
alimentato, nel nostro caso, da circostanze terribili come quelle che questo povero ragazzo
ha affrontato per farsi largo nella vita. Naturalmente egli si indusse, come accadrebbe a
chiunque di noi, a identificare il male di vivere col luogo in cui il suo male si manifestava:
la sua Corneto, come si chiamava allora Tarquinia nel suo bellissimo nome medioevale, che
avrebbe dovuto conservare accanto a quello di Tarquinia, restaurato.
Questo esordio imprevisto è diventato una piccola ouverture alla conversazione che
è, invece, scritta, e doveva cominciare con un elogio a Tarquinia, con una di quelle visioni
di Tarquinia, che vennero incantevoli a Cardarelli quando riuscì a riconquistarla, alta e
serena sul suo mare etrusco. Ma bisognava, prima, comporre il conflitto.
Se c’è un inattuale, nel senso di Nietzsche, è il poeta di Corneto. La sua guerra con la
vita cominciò subito, appena ebbe aperti gli occhi. Nato da un legame frettoloso e
disgraziato, visse l’infanzia accanto al padre, un Romagnoli marchigiano che non gli dette il
suo nome; ebbe quello della madre, Caldarelli, femmina disperata e leggera, che presto
fuggì, rabbiosamente rimpianta, mai perdonata. Ad una passeggera violenza, o ad una
incuria di lei, più che alla poliomelite che si disse, dovette il braccio sinistro fiaccato per
sempre, con cui uscì dall’infanzia. “Fai perbenino”, gli disse il padre prima di morire. E lui,
che di scuole aveva visto solo le elementari, si rassettò il nome, intanto. Si tolse quel
ridicolo Nazareno che gli avevano dato, e, quanto al cognome, gli bastò mutare una
consonante per dargli la voluta asprezza tagliente. E’ la prima prova, direi, della sua finezza
d’orecchio in fatto di lingua.
Coi nomi nuovi come solo appannaggio, scese a Roma, a diciannove anni. Era uno
zingaro abbandonato che scopriva dentro di sé i ritmi classici, e d’intorno gli echi dissolti
degli antichi imperi. Dal 1906, si scrisse, la sua vita fu sempre uguale.
Ma
l’anima
cresceva. “Addetto a vigilare l’andamento delle sveglie in un deposito d’orologi, amanuense
nello studio d’un bisbetico avvocato che non riuscì mai ad entrare in parlamento”, finì,
“dopo un congruo periodo di disoccupazione, giornalista”.
Bisogna dirlo? Finì all’Avanti. E quando lasciò quel giornale, cominciò la sua
leggenda.
“Ricordo, nel 1916, l’uscita per così dire storica dei Prologhi, una indimenticabile
vicenda per chi, come noi, era partito dalla sferra dei Vociani. Piccolo e denso di poesie di
223
una classe e timbro insoliti, e di pagine in prosa che aumentavano la qualità terrestre
pietosa e stagionata della poesia”, scrisse il sempre prudente Raimondi, che, quale riflesso
di quel crepitante spirito, visse il solo momento ardito e a viso aperto della sua arida
esistenza quando di Cardarelli fu scudiero nella rivista che “per alcuni anni, durante
l’imperversare della bassa letteratura romanzistica e novelliera, barbussiana e
pornografica, cercò in ogni modo di tenere alto il buon nome dell’arte italiana. Erano gli
anni 1919, tanto per intendersi, 1920, 1921”: quelli che Emilio Cecchi, in un saggio sul
Notturno, rievocò “miserabile stagione letteraria del nostro dopoguerra”, con la sua
“squallida combriccola che ballava le sue sarabande intorno ai pentoli e agli orinali rotti...”.
La rivista si chiamò La Ronda: la pattuglia, la guardia, nella notte della lingua, e
dello stile.
“Ho già detto e ripeto che l’unica benemerenza che io senta di essermi guadagnata
nei riguardi delle patrie lettere e di cui non ho difficoltà a vantarmi, atteso che essa ha poco
o nulla da vedere colle mie più personali ambizioni, è il fatto di aver fondato “la Ronda”,
quella “Ronda”... che “ha contribuito, fra le altre cose, a rimettere in onore Leopardi. Un
Leopardi, beninteso, del tutto o in parte sconosciuto e non ancora, se io non m’inganno,
pregiato come si conviene: quello delle “Operette morali”... che ha imparato a sorridere del
suo dolore e il cui travagliato viaggio di psicologo e di filosofo pratico termina nella
scoperta del mondo greco-latino. Un Leopardi in fiore, per così dire, maestro d’arte, di
storia, di civiltà, non d’accidia o di poltroneria metafisica... un Leopardi classico, che piace
a noi.
L’aver contribuito a rimetterlo in circolazione è motivo per me di non piccolo
orgoglio. Perchè ho idea che nell’opera critica e storica di Leopardi ci sia in germe la
grande Italia spirituale che tanto si vagheggia e nella quale io credo al punto da non poter
immaginare senza di essa alcuna forma d’impero. E quando dico Italia spirituale intendo
un’Italia armata contro i pericoli della coltura e gl’imbrogli della filosofia, un’Italia
artistica, nel senso largo di un’arte che è civiltà, stile, costume in tutto, come fu nei nostri
secoli più belli. Dico quell’Italia a cui la luce dovrà venire non dal nord, nè dal sud, .... ma
dal centro, da <<quel punto di sutura della Penisola>>, come un geniale storico delle
nostre origini, Gioacchino Volpe, definisce la Toscana, e per me chiamerei tutta l’Italia
centrale, che coll’unità cavourriana fu scucito, unico punto e filo omogeneo della nostra
individualità nazionale.
Ho idea che su qualunque strada lo spirito italiano voglia sbucare, torni esso alle sue
tradizioni o vada incontro arditamente alla civiltà europea moderna, si troverà dinanzi
Leopardi prima che Gioberti dovrà fare i conti con lui che fa antico e moderno come ai suoi
224
tempi nessuno, e previde, in mezzo a un’Europa romantica, la brillante e ardua posizione
dell’Italia di oggi, unica erede legittima della civiltà greco-romana e destinata, voglia o non
voglia, a perpetuarla, a difenderla, a custodirla. Un popolo che si getta nell’avvenire,
trascurando, disconoscendo le sue tradizioni è paragonabile ad un esercito che fa
un’avanzata tagliandosi le retrovie”.
Ecco l’inattuale. Queste parole scritte nel 1927, in cui Cardarelli rivendicava
la riscoperta, compiuta sei anni prima, dal Leopardi “classico”, il cui messaggio aveva
affidato, nel 19211, alla più alta e nobile antologia mai tentata dello “Zibaldone”
leopardiano: queste parole in cui si riassume e compendia, ve lo dico con sicurezza
meditata e sicura, il messaggio che di sè e della sua opera, Cardarelli più avrebbe voluto
trasmettere ai posteri; queste parole sono quanto di più estraneo e lontano si possa
concepire rispetto al clima corrente.
L’idea dell’Italia quale si leva da queste pagine è davvero impensabile oggi, sol che la
si confronti, senza volontà polemica e senza acrimonia, all’immagine che tutta l’Italia
rende di se stessa, e non solo quella politica, ma pure quella sociale e artistica, letteraria e
monumentale. A nessuno l’Italia potrebbe suggerire oggi immagini e pensieri di altrettanta
sicurezza, di altrettanta venerazione.
Ci furono poeti e letterati, squisiti poeti, valorosi letterati, che non ebbero bisogno,
per la loro poesia e la loro letteratura, di quel nutrimento unico dello spirito che fu l’Italia
per Cardarelli, uomo aspro e scorbutico, spirito altero, taglia dantesca protesa verso l’alto,
in uno sforzo, in una visione di se stesso e alle altezze a cui tendeva che poteron generare
anche ironia e fastidio.
Ve lo dico con le parole che scrisse, in parte di Cardarelli, il poeta che gli fu opposto
e rappresentò per generazioni il polo etico ed estetico contrario al suo, Eugenio Montale.
Incaricato dal “Corriere della Sera” di commentare la precoce morte dell’involontario
eppur naturale rivale, scrisse dunque il Montale:
“Dovunque egli ha sparso l’alta immagine che egli si faceva di se stesso, dovunque
ha disseminato la sua persuasione che lo spirito risorgimentale avesse adulterato la cultura
italiana, snaturandola del tutto. Formatosi quando un’ondata di prosa commerciale si
abbatteva su un’Italia uscita stremata da una guerra vittoriosa, Cardarelli non era uomo
capace di dare una mano a rimuovere le macerie e di collaborare a una letteratura che
avesse davvero il volto del nostro tempo”. Non c’è simpatia in queste righe, e si stente.
Tanto più autentica, dunque, la conclusione: “Da lui si poté dissentire forse su tutto; ma
non si potè mai disconoscergli il culto di una immagine alta e quasi inaccessibile dell’Italia,
di un’Italia privilegiata, sacra”.
225
Raccontai, in una nuova edizione da me curata, nel 1985, dell’antologia leopardiana,
che Cardarelli intitolò Il Testamento letterario di Giacomo Leopardi, la sconosciuta
stagione in cui una piccola e turbolenta fetta di fascismo, sicura di occupare un posto
speciale nel cuore di Mussolini, s’illuse di mettere stabilmente il vivo Capo in terra sotto un
patrono in cielo, chiamato Leopardi. Fu la grande stagione di Cardarelli, scrittore civile
dopo che poeta.
Anche in questo carattere Leopardi gli era stato buon maestro, nel saper frangere le
categorie e le forme, nella capacità di rifluire continuamente dalla poesia alla prosa e dalla
prosa alla poesia, con la continua dimostrazione che la prosa morale e civile non soltanto
può pareggiare in dignità la poesia, ma perfin superarla.
Fu la stagione in cui nacquero le prose che poi formarono quel libro, davvero
“classico e moderno”, librato fra un passato che faceva rivivere nei suoi umori migliori, e
un futuro ricco di speranze, che intitolò Parliamo dell’Italia.
Ecco, se dovessi indicare a qualcuno desideroso di conoscere l’italiano Cardarelli e il
suo messaggio un solo titolo, gl’indicherei questo, del quale esaurita ormai da decenni
l’edizione originale del 1931, io pubblicai, or sono sei anni,. una ristampa, presto anch’essa
esaurita. Se dovessi raccomandare al Comune di Tarquinia, così sollecito nella tutela del
nome di questo suo figlio, il modo migliore di assicurarne la sopravvivenza, più che statue
o monumenti, consiglierei la ristampa di due volumi congiunti: le Poesie nell’edizione
mondadoriana, e questo libretto che contiene un’acuta, originalissima e profondissima
interpretazione della storia d’Italia.
Naturalmente, non vi troverete l’interpretazione oggi corrente, ammesso che ne sia
rimasta una, dopo che l’impalcatura di bugie su cui si è retto in buona parte il nostro civile
dopo guerra è crollata in frantumi.
In questo libro che ho in mano, vecchio e venerato, di fragile carta consunta, avevo
posto qua e là dei segni, nell’illusione di aver tempo bastante a leggerne qualcosa, ma ora
m’accorgo che dovrebb’esser letto e riletto tutto, per capire la nostra sorte e ritrovare, se sia
possibile, le nostre speranze.
Il mistero di quel continente sommerso, demonizzato e maledetto per ormai un
cinquantennio che si chiama Fascismo riceve in queste pagine illuminazioni che
riusciranno, a più che sessant’anni da che furono scritte, nuove e originali.
Non v’è dubbio che di queste pagine, e di un’adesione schietta, sincera, che non fu
mai premiata da un seggio all’ambitissima Accademia d’Italia, e neppure da una modesta
cattedra, non v’è dubbio che di questa sua stagione di consenso e di speranza, Vincenzo
Cardarelli fu crudelmente punito, e tanto più crudelmente in quanto la fine dell’Italia, la
226
morte delle speranze, la duplice invasione straniera cui aprì le porte l’infame Badoglio,
questi lutti della nazione coincisero in Cardarelli con una perdita di fiducia e di salute che
affrettarono il declino
di una struttura fisica fragile, minata forse fin dalla nascita
disonorata e colpevole.
E allora sgorgarono dall’uomo affranto e piegato nel fisico e nel morale, venuto a
rifugiarsi nella terra natale, le parole terribili.
L’emorragia cerebrale lo colse a Tarquinia, anzi Corneto, così si nomava quando vi
nacqua il 1° maggio 1887, dove aveva trovato rifugio al salir della guerra. <<In casa d’altri,
mangio il pane che sa di sale...”.
Spento, sul mare etrusco, il Sole del mito, livido l’opprimeva il luogo ormai estraneo:
“Io non voglio morire a Corneto. Sono tornato vecchio, cadente, in un luogo abbandonato a
diciannove anni, bellissimo nel ricordo, orribile e sinistro nella sua realtà. Sto per perdere
tutti i denti: non ho dunque né denti, né pane...”.
Tornò nella sua Roma di sempre, ma si portava addosso l’arteriosclerosi cerebrale
che lo consumava. Viveva di radi diritti d’autore, ché sempre aveva svenduto, a forfait, i
manoscritti, per poche migliaia di lire; e d’uno stipendio di direttore, sempre più nominale,
della Fiera Letteraria, che lo salvò dal bisogno: ma non poté redimerlo dall’eterna miseria
delle camere mobiliate, degl’incontri amorosi fugaci e insondabili, dalla rovina d’una
solitudine che, accumulata con metodica sprezzatura negli anni della sua avara fortuna,
franava addosso al vecchio, più che mai indifeso in un mondo ormai incomprensibile.
C’è un lungo passaggio in cui il rifiuto, l’astio, il distacco, mai bene esplorati, di
Cardarelli, rispetto ai nuovi tempi apertisi col 1945, sfociano in una decadenza che di
morale si trasforma in clinica.
La sentenzina di sapore guicciardiano con cui Prezzolini spiegava la straordinaria
sua lucida longevità dicendo che si era saputo ben scegliere genitori e antenati, trova nella
sorte di Cardarelli la contraria dimostrazione.
L’ultima leggenda di Cardarelli non si scrive senza rasentare l’esecrabile pittoresco
dei clochard, il color facile, il souvenir d’enfer del letterato di provincia che su quella sedia
contemplava, da poi raccontare, la lagrimevole immagine del temuto tiranno e acclamato
poeta, mutato in pubblica maceria.
Lo portavano a braccia dal secondo piano della pensione di Via Veneto 147 a
quell’angolo di marciapiede dove, il magro corpo perennemente avvolto nel pesante
cappotto, a difesa del freddo odiato e temuto, guardava scorrere la vita degli altri, quanto a
lui restava della vita. Lo dimenticarono, una volta, sotto un acquazzone.
227
La sua catastrofe è uno sfacelo biologico sovrapposto a un mistero morale.
Misterioso ci riuscì tutto in quella fine, e più di tutto, come l’erompere di viva fiamma da
fredde ceneri, il lampo che da quell’ammasso tremulo e infagottato, di sotto il cimiero
stazzonato della consunta lobbia, ci raggiunse ai primi d’ottobre del 1957, mentre
compilavamo il numero speciale del Borghese in morte di Leo Longanesi.
Toccò a me, allora giovane apprendista di una redazione romana, di ricercare colui
che a tutti sembrava allora ormai soltanto un vecchio rudere solitario accasciato su una
poltroncina di via Veneto, per chiedergli una parola, un pensiero sulla morte dell’estroso
geniale
scrittore,
editore,
disegnatore
polemista
che
trent’anni
prima
si
era
orgogliosamente dichiarato allievo di Ardengo e Vincenzo, ossia di Soffici e Cardarelli.
Diceva, e scriveva, il ventenne Longanesi nel 1926:
“Viviamo di Cardarelli, che ci ha insegnato anche quello che personalmente non ha
imparato”; e quanto ciò fosse vero, non cessa di accorgersi chi ricalchi passi lontani. Chi
trova, nel numero 9, annata seconda (1920) della Ronda, dentro la violenta replica alla
“recensioncina d’un tal Piero Gobetti”, l’accenno ai “detestabili elzeviri zanichelliani”,
intende di dove sortissero gli sdegni e umori longanesiani che andarono poi a sistemarsi
nella “Lettera alla figlia del tipografo”.
E non era un maestro facile e accomodante.
“Per lunghi anni”, rievocò Giovanni Comisso in uno scritto quasi ignoto, “il giudizio
di Vincenzo Cardarelli è stato desiderato e temuto in Italia. La sua cattedra prima della
guerra era nella terza saletta dell’Aragno e qualche tempo dopo la fine si spostò in via del
Gambero, nella trattoria dello stesso nome. Era il suo giudizio sempre estremamente
spinto non solo nel sarcasmo, ma nel tono della voce che diventava canora accompagnata
dal gesto dell’indice puntato contro il presente al quale si riferiva.
La discussione coi compagni letterati della stessa età non aveva più occasione di
accendersi dopo che egli aveva posto quei limiti che permisero l’apperizione della Ronda...
I giovani letterati che erano venuti a Roma in cerca di gloria, tanto dal Mezzogiorno che dal
Settentrione d’Italia, dopo la guerra entravano timorosi, cercando di passare inosservati
pur di ascoltare Cardarelli il quale, più che discutere, recitava il suo abituale e terribile
monologo.
Al suo occhio non sfuggivano quei giovani che aspiravano a un suo riconoscimento e
spesso li aggrediva con apostrofi taglienti che riuscivano indimenticabili per anni. Non
erano solo letterati quelli che gli facevano cerchio, ma pittori, scultori, giornalisti e uomini
politici. La lista sarebbe lunghissima se si dovesse fare il censimento di tutti coloro che si
sono maturati alla sua scuola. E ben pochi oggi hanno il coraggio di ammetterlo; in tempi
228
confusi nel giudicare, fu Cardarelli a stabilire, parlando, nelle lunghe notti romane di
quegli anni, quello che in arte era valido e quello che non lo era”.
Su tanto magistero dilapidato a caffé sparse il suo rammarico anche Luigi Bartolini,
in un affranto, umorale congedo. Ma tutti, allora, erano “da caffè”, gli strateghi, i letterati, i
pittori, i cialtroni. Né mi par che abbia diritto d’insolentirli un’età che a quella tribuna,
poverella di udienza e di guadagni, ha sostituito le soste di letterati e politicanti, giornalisti
e pittori presso le scimmie ammaestrate della televisione, e il pettegolezzo delle tavole
rotonde e dei convegni, dove alla miseria delle idee e dei caratteri è sempre scarso
compenso il tintinnio dei gettoni di presenza.
E ora, lasciate che torni all’ultimo mio ricordo lasciato interrotto, toccava a me
ricercare l’antico maestrro, che appena settantenne a tutti pareva ormai un disfatto rudere,
per averne un pensiero sulla morte di quell’allievo irrequieto, infaticabile, che c’era
strappato, nel settembre 1957, di appena cinquantadue anni.
Da quell’ammasso tremulo e infagottato di vecchi panni, vi dicevo, ci raggiunse
come un lampo di luce gentile, il commiato, degno di un antico eroe!
“Caro Leo, il tuo trapasso era l’estremo dispetto che hai voluto farci. Siamo qui a
pentirci di essere ancora in vita... Sii beato, sii felice, nel regno che certo ti ha destinato la
tua guerriera innocenza”.
Quando chiuse gli occhi, il 15 giugno del 1959, in una camera del policlinico romano,
si suggellarono insieme due agonie: la “piccola”, e la “grande” , come le Passioni
degl’incisori antichi. La piccola agonia di Vincenzo Cardarelli era durata ventisei giorni, da
quando lo raccolsero esanime, la testa china sotto il vecchio cappello, nella poltroncina del
caffé di Via Veneto dove passava ogni stagione.
La grande agonia s’era protratta dieci e più anni; quanti ne misero gli estri del poeta,
l’acutezza dello scrittore e gli spiriti di un uomo tra i più irrequieti e ribelli della sua
generazione, a staccarsi dal povero corpo precocemente avvizzito, di cui avevano pietà il
Sole, quando splendeva, e i pochi amici capaci di varcare la muraglia scorbutica del
solitario mendicante d’affetto: il pittore Amerigo Bartoli, e Raffaella Pellizzi, consorte di
Camillo.
Fa bene Tarquinia a rompere il silenzio, ogni volta che può, sul suo figlio. Se tutti i
comuni, tutte le città, mantenessero vive a questo modo le memorie dei loro figli minori,
noi vedremmo rinnovarsi quel patrimonio di speranza che Jacob Burckhardt, il principe
degli storici, riconosceva nelle vite e negli esempi dei grandi uomini.
“Essi rappresentano, per le loro nazioni, un patrimonio infinitamente prezioso. Essi
offrono una ragione di coesione e di speranza... Il loro ricordo consente a una nazione di
229
mantenere la sua vita spirituale a livelli decorosi anche quando intorno le si distendano
abiezioni e decadenza.
PIERO BUSCAROLI
ATTIVITA’ DELL’ANNO 1993
Come già enunciato nel corso dell’Assemblea Generale dei Soci per l’approvazione
dei Bilanci consuntivo del 1992 e preventivo del 1993, l’attenzione del Sodalizio era rivolta
230
allo scavo di un “butto” individuato alla nostra Sede di via delle Torri da parte dell’ENEL e
dell’ITALMECO, nella messa in opera delle condutture sotterranee. Tale indagine era
scaturita dall’esito dell’altro scavo nel “butto” all’interno del complesso difensivo della
torre di Porta Maddalena, più noto come la Torre di Dante.
Appena ottenuto il nulla-osta della Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria
Meridionale e l’autorizzazione da parte dell’Amministrazione Comunale per la recinzione
di una parte della strada pubblica, è iniziato lo scavo che ha richiamato un notevole
numero di Soci che già si era costituito come “Gruppo Operativo” della S.T.A.S.: lo stesso
che aveva ripulito e messo alla luce un grosso rudere sulla Civita Etrusca, nei pressi
dell’Ara della Regina. Vi lavorarono in molti, sotto la guida dell’archeologo dott.
Alessandro Mandolesi che affidò a ciascuno il proprio compito; alla fine tutto il materiale
vascolare, raccolto in oltre una ventina di contenitori, venne affidato alla Direzione del
Museo Etrusco di Palazzo Vitelleschi.
Fu un vero successo. Tanto è vero che la dottoressa Cataldi, direttrice del Museo,
affidò con disponibilità il materiale scavato al nostro Sodalizio per essere ripulito,
restaurato, classificato in modo da essere successivamente presentato alla curiosità del
pubblico e allo studio dei competenti, perchè si venisse in grado di valutare l’iniziativa e
accertare la volontà di proseguire in questa ricerca altamente scientifica e culturale. Nel
corso dello scavo per lo studio del materiale fittile, avemmo il consiglio autorevole di alcuni
specialisti fra cui l’assessore alla cultura della città di Farnese e il direttore del Museo
Civico di Valentano.
Ma la manifestazione più significativa, come corollario degli scavi precedentemente
avvenuti, è stata la Mostra di una collezione privata di ceramiche antiche cornetane che ci
sono state affidate dal Procuratore della Repubblica di Grosseto dott. Pietro Federico, e
successivamente dati in donazione alla nostra società dai signori Belli Augusto, Belli
Francesco e Belli Luigi. Mostra che abbiamo effettuata alla fine dell’anno 1993, ordinata,
classificata, catalogata ed esposta grazie al lavoro del dott. Alessandro Mandolesi, della
dott. Giovanna Velluti e del signor Romualdo Luzi che hanno suddiviso la Mostra secondo i
periodi di realizzazione e attraverso pannelli illustrativi: e dato alle stampe un elegante
catalogo che è andato veramente a ruba; e che l’Assessorato Regionale alla Cultura ha
voluto che noi inviassimo a tutte le Biblioteche ed i Musei della nostra Regione. Siamo
riusciti ad ottenere dal pittore Sebastian Matta un bozzetto che abbiamo pubblicato sia in
copertina del catalogo sia in un migliaio di manifesti e locandine, grazie alla collaborazione
grafica del socio Marino Ceccarini (Zuccanti).
231
L’afflusso continuo e massiccio alla Mostra, approntata nel salone a piano terra della
nostra Sede, ha confortato l’iniziativa e il non leggero sforzo promozionale ed economico,
in parte confortato dall’ausilio organizzativo e finanziario dei soci, i dottori Giovanni Vasco
Palombini e Massimo Filippo Marzi.
Desideriamo enumerare le altre iniziative culturali, sostenute dal nostro Sodalizio
nel corso dell’anno 1993. Esse comprendono:
- anzitutto il rinnovo delle cariche sociali, avvenute nel corso dell’assemblea
generale del 31 gennaio 1993, con l’approvazione del Bilancio Consuntivo dell’anno 1992;
che è stato approvato all’unanimità. Nello spoglio che è seguito, sono risultati eletti a nuovi
consiglieri i signori Bruno Blasi, Antonio Pardi, Mario Corteselli, Lilia Grazia Tiberi,
Alessandro Mandolesi, Alberto Sileoni e Romano Andreaus. A revisori dei conti, i signori
Carlo Moretti, Lamberto Proli e Lucio Rosati.
Abbiamo organizzato, insieme al Sottocomitato della CRI, un corso aperto a tutti,
gratuitamente, su un tema quanto mai di attualità; la “Medicina Preventiva” con la docenza
di alcuni sanitari del nostro Ospedale, sotto la responsabilità del primario chirurgo dott.
Antonio Maisano.
Il 26 marzo, Assemblea Ordinaria dei Soci per l’approvazione del programma delle
attività relative e del bilancio di previsione per l’anno 1993, con la distribuzione del
Bollettino dell’anno 1992.
Il 27 marzo, in occasione della Festa della Donna, è stato tenuto, con ingresso libero,
un concerto di musica lirica a cui hanno preso parte il soprano Rossana Rinaldi, il tenore
Na Seng Seo, il soprano Simonetta Mattei e il baritono Lee Kyn Sung, accompagnati al
pianoforte dalle maestre Licia Zeppetella e Chae Jiuen.
Il 14 aprile, nella sala G.B. Sacchetti, Mostra di pittura dal titolo “Vis à Vis>> dei
pittori Belli, Ferri, Mandatzis, Spottorni e Tringalli.
Nei giorni 1, 2 e 3 maggio, all’interno della torre di Porta Maddalena, Mostra degli
arazzi eseguiti dagli alunni delle Scuole Elementari Statali “C. e M. Nardi”.
Nei giorni 14, 20 e 29 maggio, ciclo di conferenze nella sala G.B. Sacchetti sul tema
“Archeologia in Etruria e aspetti della ricerca”, estesa a tutti, con ingresso libero. Relatori i
dottori V. D’Ercole, L. Frazzoni, F. Galluccio e P. Brocato, con proiezione di diapositive a
colori.
Il giorno 11 giugno, con la collaborazione del sottocomitato della CRI di Tarquinia,
serata dedicata a musica e poesia, dal titolo “Beethoven Cardarelli ed altri”. Voce recitante
Isa Bellini. Al pianoforte Laura Santi-Ciurluini. Presentazione di Renato Cortesi.
232
Nei giorni 4, 12, 19 e 25 giugno, ripresa del ciclo di conferenze sul tema
dell’Archeologia in Etruria. Docenti i dottori G. Pocobelli, C. Iaia, A. Baragliu e A. Naso.
In giugno, inizio dello scavo di un butto medioevale dinnanzi alla sede della S.T.A.S.,
sotto la direzione dell’archeologo dott. Alessandro Mandolesi e con la partecipazione attiva
del Gruppo Operativo del sodalizio. Tutto il materiale vascolare è stato consegnato alla
Direzione del Museo di Palazzo Vitelleschi.
Nei giorni 7, 10, 15 e 17 luglio, prosieguo del corso di etruscologia. Relatori i dottori
M. Cataldi, R. Luzi, P. Tamburini e A. Mandolesi.
Il 26 settembre, nella sala G.B. Sacchetti, presentazione del libro inedito di
Francesco Valesio, dal titolo “Memorie Istoriche della città di Corneto” nella collezione
“Fonti di Storia Patria”, curato dai consiglieri Mario Corteselli e Antonio Pardi che hanno
aggiunto al libro vero e proprio, un volume con la storia di tutti i personaggi che il Valesio
aveva nominato nella stesura del suo lavoro.
Sono stati tenuti, in collaborazione con l’Associazione “Musica e Tradizione” e la
“Camerata delle Arti”, una serie di concerti di musica classica, denominata come “Concerti
dell’Autunno”, dal 18 novembre al 18 dicembre.
Il 18 dicembre, nella sala a piano terra della Sede, è stata allestita e presentata al
pubblico la Mostra delle Ceramiche Antiche Cornetane, con la presenza di autorità
Provinciali e Comunali. La Mostra è stata aperta al pubblico fino al 16 gennaio 1994.
Il 19 dicembre, per iniziativa nostra e della Confraternita “Amici del Cristo Risorto”,
è stata celebrata una solenne Messa Cantata dal nostro Vescovo Diocesano, mons.
Girolamo Grillo, nella basilica di S. Maria in Castello. Tale celebrazione è stata trasmessa
dalla RAI sul primo canale della Televisione Italiana.
Nel periodo natalizio, come ormai è consuetudine, è stato allestito il XVI Itinerario
Presepistico nella nostra Sede, con la collaborazione dell’Associazione Nazionale “Amici
del Presepio”.
233
APPENDICE AL GLOSSARIO CORNETANO E ALLE STORNELLATE POPOLARI
A
Affiaràto (a.m.- Forma usata anche dal Belli nel sonetto “La pisciata pericolosa”.
Dicesi di colui che si getta in un’azione con tutte le forze per cui diventa arrossato in
volto come quando ci si
mette davanti alla fiamma del focolare. La forma “fiara”,
in loco, sta ad indicare la fiamma.
Ammarvàta (a.f.)- Dicesi dell’insalata quando è appassita e
ridotta simile alla malva (che in dialetto vien
infatti, appena
detta “marva”). La malva
colta, appassisce repentinamente.
Attaccatezza (s.f.)- Forma usata in luogo di attaccamento alle
cose tradizionali di una famiglia o di un popolo.
B
Battilùnta (s.f.)- Tagliere di legno su cui, in passato, si
batteva il lardo (che in dialetto vien chiamato unto”) per approntare i
condimenti dei cibi
giornalieri. Perciò la parola deriva dalla
simbiosi di “batti l’unto>>. L’uso al
femminile si trova anche nella parola
“panunta” che è il pane unto dal grasso della
carne suina cotta sulla graticola.
Bracciòlo (s.m.)
- S’intende con questo vocabolo indicare un
sistema di sicurezza a porte e portoni.
Consiste in un braccio di ferro mobile, una
quale viene fissato con una grappa
interno. L’altra parte
viene inserito in
delle
parte del
al muro dello stipite
termina con un gancio che
un apposito alloggiamento, posto in una
ante. La parola ha un riferimento agricolo per
234
indicare il carciofo o i carciofi che crescono
ai lati per distinguerli dalla primizia centrale,
detta
cimarolo.
C
Cianca (s.f.)
- Viene usata in luogo di gamba. Per cui ne
deriva “cianconata” azione fatta con i piedi
senza l’ausilio della ragione. Proviene
dall’arcaico “zanca”.
Ciarabballàta (s.f.) - Parola onomatopeica per indicare una
sfuriata verbale fatta in pubblico. E’ evidente
la
derivazione da “ballata” che era una
manifestazione
pubblica, chiassosa, fatta in
danza e in canto. Per cui viene
riferita ad un
rimprovero ad alta voce di fronte a molti
per
esporre alla vergogna chicchessia.
G
Guazza (s.f.)
- Usasi nel detto “dare la guazza” ovverossia
rispondere a una provocazione ironicamente,
con
senso mordace e pungente.
I
Incacchiare (v.)
- Irritare, inquietare. Forma purgata dal
verbo plebeo “incazzare”. Perchè in dialetto il
“cacchio” è sinonimo di membro virile, oltre
che
di tralcio della vite.
L
Locco (l.a.)
- Nella forma ripetitiva “locco locco” vuol
significare lentezza con cui una persona si
muove e agisce fatuamente. Derivazione da
“allocco”.
O
Or di notte (l.a.)
- Si usa per significare cose che si fanno sul
tardi, all’ora di notte, quando le campane delle chiese rintoccavano per
invitare la gente
a non sortire di casa e a prepararsi al riposo
notturno.
235
P
Panizzàro (s.m.)
- Colui che si nutre quasi esclusivamente di
pane e di tutto quanto ha attinenza ad esso.
(vedi panizza)
Pappatòria (s.f.)
- Sta in luogo di continua mangeria. Specie in
senso figurato sta per appropriazione di
grossi affari o di più grossi guadagni. Dal
verbo “pappare” che vuol dire mangiare la
pappa,
specie nei bambini per svezzarli dal
latte materno.
R
Ripercorìccio (s.m.) - Cose rimediate alla meglio laddove stava un
giaciglio idoneo alle pecore, perciò sudicio e
maleodorante. Dicesi di cosa vile.
Rimulinare (v.)
- Sta per molinare, specie del vento o della
pioggia quando forma dei piccoli vortici.
Gurgitare.
S
Sbollentire (v.)
- Gettare in acqua bollente ciò che si deve
preparare per la cottura, proprio dei pennuti
o di sostanze vegetali molto coriacee. Vale
anche per chi, per disattenzione, subisce
ustioni con l’acqua bollente.
Schizzarella (s.f.)
- Termine usato da chi, nei pressi dell’acqua,
schizzandosi l’un l’altro, ne fa un
divertimento. Vuol dire anche por termine a
una cosa
seria in modo scherzoso e
superficiale.
Sciacquaiàle (s.m.) - Termine usato dai bifolchi, nell’arare la
terra di un poggio, tracciando un solco
trasversale per impedire, durante il periodo
delle piogge, che l’acqua, scivolando
precipitosamente sul pendio appena
lavorato,
trasporti in basso il terreno e con esso il seme
del grano o di altro erbaceo. E’ un modo di
236
deviare trasversalmente l’acqua senza
provocare troppi danni.
Sgramicciare (v.)
- Strofinare il proprio volto su quello della
persona amata. Anche in senso più lato.
Derivazione da gramigna, che in gergo vien
detta “gramiccia”. Dato che la gramigna
veniva in passato usata come medicamento in
tisane, ed
avendo radici molto profonde, lo
sforzo che si faceva in due o
più persone per
sradicarla, specie se di sesso diverso,
portava
a cadere all’indietro per finire di trovarsi
l’una nelle braccia dell’altro.
T
Trauzzolare o
Travuzzolare (v.)
- Rotolare come una ruzzola a terra per
caduta o per gioco. Probabile derivazione dal
verbo travolgere. Oppure simbiosi della
forma “tra
uzzolo” che è una voglia
capricciosa di fare
qualcosa per gioco, così
come fanno i pagliacci nel circo per
divertire
il pubblico.
Z
Zezza (l.a.)
- Invito ai bambini a mettersi a sedere così
come si usa in gergo, la pappa per minestra,
la sisa per mammella, la ninna per dormire e
‘mbrumba per bere.
STORNELLI CORNETANI
Te vojjo fa ‘na bùcia ner zinale
te vojjo fa strillà: “Mamme me dole,
mamma correte che m’ha fatto male”.
Er core de le donne
è fatto a limoncello
la
237
‘no spicchio a questo e a quello
e el core se ne va.
Quanno l’asino rajja ci ha appetito,
quanno l’omo va in giro è innamorato,
quanno la donna canta, vò marito.
Fiore de ceci
manco San Pietro ha avuto tanti baci
quante nei hai avuto te da li francesi. 1)
Fior de canneto
che ci ha che fà quer povero marito?
Se crede de sta a Roma e sta a Corneto.
1)
Tale stornello ha riferimento al tempo dell’occupazione francese del nostro territorio quando quelle truppe straniere
presidiarono Corneto per difendere lo Stato della Chiesa, che ebbe termine con la presa di Roma il 20 settembre 1870.
238
Per un errore di composizione nel precedente Bollettino 1992 non sono stampate le note di
un articolo. Le inseriamo, ad integrazione, in questo numero: note di “Castrum Ferrariae e
la sua Chiesa” di E. Brunori.
1) O. Toti, La civilizzazione etrusca nel territorio di Allumiere alla luce delle più recenti
scoperte - Coll. Latomus, vol. 103 - Bruxelles 1969; M. Pallottino, Etruscologia, Milano
ediz. 1984; W. Keller, La civiltà etrusca, Monaco-Zurigo 1970; G. Camporale e G. Tanelli in
L’Etruria mineraria, Progetto Etruschi, Milano 1985.
2) T. Tittoni, La ragione trachitica dell’Agro Sabino e Cerite, in Boll. Soc. Geol. 1885.; S.
Bastianelli, Il territorio tolfetano nell’antichità, St. Etr. XVI, 1942.
3) E. Brunori A. Mela, Le risorse minerarie nell’antico territorio di Caere, in “Caere e il
suo territorio da Agylla e Centumcellae, Ist. Poligr. dello stato - Roma 1990.
4) E. Brunori, Ritrovato l’antico Castrum Ferrariae, in Not. VI, Ass. Arch. A. Klitsche de
La Grange - Museo civico, Allumiere 1984.
5) E. Brunori, op. cit. 1984.
6) M. Galimberti, Su alcune monete rinvenute nel territorio di Allumiere, in Not. VI, 1984,
CIT.
239
7) G. Mazza, Le ceramiche medioevali della Roccaccia (Castrum Ferrariae), in Not. VI,
1984, cit.
8) A. Paravicini Bagliani, I testamenti dei cardinali del Duecento, Misc. S.R.S.P. XXV,
Roma 1980; M. Prou, Les registres de Onorio IV - 1888.
9) P. Supino, La Margarita Cornetana - Regesto di documenti, Misc. S.R.S.P. Roma 1969.
10) G. Battelli, Rationes decimarum Italiae nei sec. XIII e XIV, Latium Città del Vaticano
1946.
11) Si tratta di un tronco di legno svuotato all’interno, con una fessura superiore per
l’introduzione delle offerte e chiuso da triplice serratura, le cui chiavi erano in genere
tenute da un prete, un laico ed un regolare.
12) G. Tomassetti, La Campagna romana, antica medioevale e moderna, edz. Banco di
Roma 1975, vol. I, pag. 125. L’autore calcola in 400 il numero degli abitanti di Ferraria agli
inizi del XIV sec. desumendo tale dato dal consumo di sale.
13) E’ in preparazione a cura dell’Ass. Arch. Klitsche de La Grange e dell’Ass. Arch. Civita
Vetula una mostra sull’Antico borgo minerario di Castrum Ferrariae e la sua Chiesa, con
relativo catalogo illustrativo.