BOLLETTINO COMPLETO 1993/a - Società Tarquiniese Arte e Storia
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BOLLETTINO COMPLETO 1993/a - Società Tarquiniese Arte e Storia
1 Un capitolo della paletnologia italiana: 120 anni di ricerche sulla prima età del ferro in Etruria Nell’ambito della complessa vicenda degli studi di preistoria in Italia, il capitolo riguardante la prima età del Ferro dell’Etruria tirrenica assume una particolare importanza, non tanto e non solo per la ricchezza della documentazione che lo caratterizza, quanto piuttosto per lo stretto legame con tematiche di ampio respiro, come il problema delle origini dell’ethnos etrusco, o quello più attuale dell’origine del fenomeno urbano in Italia: da ciò nasce probabilmente l’interesse mostrato per questa materia, peraltro a fasi alterne, da parte di ricercatori appartenenti a diversi indirizzi di studio, e le frequenti contrapposizioni polemiche che ne hanno punteggiato la storia. E’ inoltre noto che tale vicenda si identifica sostanzialmente, per gran parte del suo svolgimento, con la storia delle ricerche nei vastissimi sepolcreti italici, e pertanto con indagini a carattere strettamente funerario, mentre solo in epoca molto recente si è avuto un parziale spostamento dell’interesse verso problematiche insediamentali; ciò costituisce il limite, ma in un certo senso anche il motivo d’interesse, della documentazione disponibile, in quanto essa offre notevoli opportunità per l’analisi delle forme ideologiche delle comunità protosto-riche italiane. D’altra parte, una trattazione a sè stante di questa materia è ampiamente giustificata dall’esistenza di un complesso di manifestazioni culturali estremamente compatto, e diffuso in un territorio vastissimo, compreso grosso modo fra l’Arno a nord, il Tevere a sud e il Tirreno ad Ovest; complesso che si tende a definire riduttivamente, identificandolo con la sola facies villanoviana, ma che certamente presenta un’ampia gamma di situazioni archeologiche e storiche, comprese, tanto per fare un esempio, fra le austere cremazioni del IX secolo iniziale, e le sontuose deposizioni “protoorientalizzanti” degli ultimi decenni dell’VIII secolo (v. considerazioni in PALLOTTINO 1982, p.70). Il discorso che seguirà è un tentativo di individuare, nelle linee generali, le tematiche principali attorno a cui si è addensata la storia delle ricerche, ponendo l’accento su ciò che, di questa vasta produzione scientifica, può conservare nel tempo una certa validità; particolare rilievo verrà dato al momento delle indagini sul terreno e delle scoperte, che costituisce il vero tessuto connettivo di questa storia. In ogni caso, data la 2 considerevole mole della bibliografia esistente, non si pretende certo di aver esaurito l’argomento 1) . 1. I pionieri Com’è ampiamente noto, le origini degli studi sull’aspetto culturale villanoviano sono da collocarsi in Italia settentrionale intorno alla metà del XIX secolo: è del 1853 la scoperta, da parte di Giovanni Gozzadini, del sepolcreto eponimo di Villanova, presso Bologna, seguita dalla prima definizione della “Civiltà di Villanova” (cfr. ZUFFA 1976, pp. 205 ss.). L’ambiente culturale positivista cui il Gozzadini appartiene, quello emiliano di Scarabelli, Chierici, Pigorini e Strobel, mostra già in questi anni uno spiccato interesse per le problematiche preistoriche e protostoriche, e dà inizio ad una tradizione di scavi e di studi all’avanguardia in Italia, confluita nel famoso Congresso Internazionale di Antropologia e Archeologia preistorica, tenuto a Bologna nel 1871. Alla figura pionieristica del Gozzadini si affianca, a partire dal 1869, quella di A. Zannoni, che intraprende gli scavi nelle necropoli e nell’abitato protostorico di Bologna, offrendo alla scienza di allora una inusitata massa di dati sull’età del Ferro emiliana (MORIGI GOVI 1988, pp. 5 ss.). A un clima culturale più ortodosso, fortemente antievoluzionista, dominante negli anni intorno al 1860, si deve al contrario una certa arretratezza degli studi preistorici in Italia centrale; nonostante l’interesse per le reliquie preistoriche mostrato, già nella prima metà del secolo, da alcuni eruditi laziali, come A. Visconti e L. Ceselli (GUIDI 1988, pp. 25 ss.), bisognerà attendere i risultati della riorganizzazione accademica operata dal nascente Stato italiano per avere le prime ricerche di una certa rilevanza sulla prima età del Ferro. In Etruria, il primo rinvenimento dell’antica età del Ferro ad attirare l’attenzione degli studiosi è quello della cosiddetta “Tomba del Guerriero”, scavata a Corneto-Tarquinia nel 1869 dai fratelli Marzi sul colle dei Monterozzi, e pubblicata in seguito dall’archeologo tedesco W. Helbig. Colpito dalla singolarità del corredo, che ancora oggi ci appare di sbalorditiva ricchezza, Helbig (1869) osserva l’assenza di vasellame prettamente greco, e rileva il carattere sostanzialmente arcaico dei manufatti, ipotizzando l’appartenenza della tomba ad un orizzonte archeologico fortemente impregnato di influssi orientali, ma anteriore al periodo ellenizzante della civiltà etrusca; i confronti che egli individua sono comunque tutti della successiva età orientalizzante, e in particolare dalla tomba RegoliniGalassi di Caere , dalla tomba di Iside di Vulci, e dai reperti delle tombe di Praeneste. 1) Una bibliografia aggiornata della prima età del Ferro etrusca in: BARTOLONI 1989 e PACCIARELLI c.s. Una raccolta completa della letteratura di argomento funerario fino ai primi decenni del secolo in: VON DUHN 1924. Per la 3 Peraltro, lo studioso tedesco non sembra ravvisare nella sepoltura - in parte a ragione alcun legame con la “civiltà di Villanova” del Gozzadini, anticipando l’interpretazione più diffusa ancora oggi di essa, come una sorta di prototipo delle tombe principesche del VII secolo. La prima individuazione di un vasto sepolcreto villanoviano nell’Etruria marittima avviene comunque solo nel 1881 a Tarquinia, in località Arcatelle 2) , nel corso degli scavi condotti dal Comune di Corneto; la supervisione scientifica è affidata inizialmente al giovane archeologo Giovanni Ghirardini (1854-1920), che nel secondo rapporto di scavo pubblicato nel 1882 opera una pregevole sintesi dei dati allora disponibili sull’età del Ferro etrusca. Egli suggerisce la possibilità dell’esistenza di una serie di stadi cronologici successivi, nell’ambito della pur omogenea documentazione offerta dalla necropoli tarquiniese: (I) uno stadio più antico, non documentato a Tarquinia, ma nelle necropoli dei monti della Tolfa che il Klitsche de la Grange viene allora scoprendo, e che verrà molto più tardi definito “protovillanoviano”; (II) uno stadio corrispondente a quello più arcaico documentato a Bologna, e ora anche a Tarquinia, caratterizzato da semplici sepolture a incinerazione contenenti vasi d’impasto fatti a mano, con rozzi ornati geometrici, e pochi oggetti in metallo rilevanti una perizia tecnica ancora modesta; (III) infine uno stadio particolarmente avanzato, di cui è significativa testimonianza la “Tomba del Guerriero” ed altre sepolture della necropoli dei Monterozzi, caratterizzato dalla diffusione del rito inumatorio e da elementi di una “civiltà nuova”, di origine orientale. Ghirardini è comunque cauto sulla possibilità di definire una rigida sequenza temporale - compito peraltro estremamente arduo per l’archeologia del tempo - e mette l’accento su spiegazioni alternative a quelle di tipo meramente cronologico: la presenza, nell’ambito di uno stesso nucleo sepolcrale delle Arcatelle, di sepolture differenziate per rituale, struttura tombale, tipologia e materiale degli oggetti di corredo, viene ad esempio spiegata in base a considerazioni sociologiche, come l’appartenenza a diversi strati sociali, o a diversi gruppi all’interno della comunità. Molto interessanti, a tal proposito, sono alcune considerazioni circa le strutture tombali a custodia cilindrica e quadrangolare, di cui il Ghirardini sottolinea il legame con corredi più ricchi della norma, anticipando una problematica oggi particolarmente sentita. Nonostante la presenza di un valido studioso come Ghirardini, gli scavi alle Arcatelle, sostanzialmente nelle mani del sindaco di Corneto L. Dasti, procedono fin discussione di alcune problematiche molto specialistiche, fra cui ad esempio quella riguardante gli studi di cronologia, si rimanda al lavoro, peraltro da aggiornare, dello Zuffa (1976). 4 dall’inizio in maniera alquanto disordinata e convulsa; solo fino al 1882 vengono scavate non meno di 300 tombe, prevalentemente ad incinerazione, che risultano comunque in gran parte già violate (GHIRARDINI 1882, p. 136). Negli anni successivi, rallentatisi i ritmi di scavo, vengono alla luce decine di tombe a fossa, ed un numero limitato di pozzo con “ziro”. Complessivamente le tombe scavate alle Arcatelle superano dunque certamente le 350: il modo febbrile con cui vengono condotti gli scavi in un arco di quindici anni, e la grande estensione dell’aerea esplorata, suggeriscono infatti di non considerare del tutto attendibili le stime divulgate nei rapporti di scavo. La documentazione risultante da questi recuperi ottocenteschi è estremamente frammentaria, ma comunque non priva di interesse; nonostante la continua alternanza di approssimazione e rigore che caratterizza i rapporti (dovuta in buona parte) alla non continuativa presenza degli archeologi sul luogo dello scavo), un lavoro di collazione e confronto degli scritti di G. Ghirardini, A. Pasqui e W. Helbig (bibliografia in HENCKEN 1968) consente di raccogliere numerose informazioni sul rito funerario di Tarquinia villanoviana, altrimenti irrecuperabili. Alla esegesi degli scavi del Ghirardini, e ad un’ampia e ben documentata sintesi sul problema cronologico dell’aspetto Villanova è dedicato un lavoro di I. Undset (1885), rappresentante, assieme al più celebre O. Montelius, della scuola scandinava di preistoria. L’autore tenta una prima organizzazione in termini di cronologia assoluta dei dati della protostoria italiana, collocandolo nell’VIII secolo a.C. le più antiche tombe a pozzo tarquiniesi, e nel VII secolo le tombe a pozzo più recenti e quelli che venivano allora definiti “depositi egizi”, ovverosia le tombe a fossa della prima età del Ferro avanzata e dell’orientalizzante. Fra la fine degli anni ’70 e il corso degli anni ‘80 del secolo scorso la paletnologia italiana è quasi assorbita dalle polemiche, inizialmente moderate poi via via al più violente, sulle origini dei popoli italici 3) . Si creano così due schieramenti contrapposti; il più nutrito, capeggiato dall’Helbig con il fondamentale appoggio di L. Pigorini, propugna la tesi della provenienza transalpina degli Italici e degli Etruschi, collocando agli inizi dell’età del Ferro il definitivo stabilirsi di questi ultimi nelle loro sedi storiche, e identificando le manifestazioni culturali “villanoviane” come sostanzialmente etrusche; l’altro, facente per lo più capo a E. Brizio, pur ammettendo la provenienza dal nord degli Italici Umbri 2) Per una sintesi sulla storia degli scavi alle Arcatelle, con una riconsiderazione dei dati d’archivio, v. D’ATRI 1977 e DELPINO 1991. 3) Una esauriente sintesi sulla complessa vicenda della diatriba fra auctonisti e assertori della provenienza settentrionale da una parte, e assertori della provenienza orientale dall’altra, con particolare riferimento al problema “villanoviano”, è in ZUFFA 1976, pp. 224-241; più in generale, con riferimento anche agli studi linguistici, v. PALLOTTINO 1984, pp. 85-110. 5 incineratori, identificati con i portatori della “civiltà di Villanova”, rivaluta la tesi erodotea della provenienza dall’oriente degli Etruschi, fondandosi inoltre sulle evidenze di influssi orientalizzanti presenti nelle più antiche manifestazioni culturali propriamente etrusche. Entrambe queste posizioni, nonostante il frequente uso dei sottili strumenti della filologia germanica, sono il frutto di un atteggiamento estremamente disinvolto, che non esita a sovrapporre astratte ricostruzione storiche al tessuto, ancora piuttosto esile, delle conoscenze archeologiche. Questi anni sono comunque estremamente fruttuosi per l’archeologia protostorica dell’Etruria: uno dei migliori giovani archeologi italiani, Angelo Pasqui (1857-1915), conduce scavi nelle necropoli di Vetulonia, in Toscana centromeridionale, e Bisenzio, nel Lazio settentrionale, scoprendo numerose sepolture della prima età del Ferro, e aprendo nuove prospettive d’indagine. A Vetulonia gli scavi sono promossi da I. Falchi, studioso il cui nome, come vedremo, resterà indissolubilmente legato a quello dell’importante città etrusca. I primi scavi estensivi nelle necropoli vetuloniesi, diretti dal Falchi ma condotti materialmente dal Pasqui nel 1884 in località Poggio alla Guardia (FALCHI 1885), portano alla luce un vastissimo sepolcreto di tombe a pozzetto le cui caratteristiche rituali e materiali sono impressionantemente simili a quelle della necropoli delle Arcatelle a Corneto-Tarquinia, con la differenza che i corredi sono tutti ad incinerazione, e nel complesso più poveri. La relazione di scavo redatta dal Pasqui, anche se non corredata di un’apparato consistente di illustrazioni, è estremamente ricca di dettagli descrittivi sui caratteri delle strutture tombali, sulle modalità di deposizione degli oggetti di corredo e sul loro grado di conservazione, mostrando un approccio molto rigoroso allo scavo di contesti funerari; da segnalare è anche la presenza di una planimetria dell’intera area scavata, uno fra i pochi esempi del periodo. Altrettanto fine osservatore delle particolarità rituali presenti nelle sepolture ad incinerazione si mostra il Pasqui nella relazione sugli scavi condotti nelle necropoli di S. Bernardino e Polledrara a Bisenzio (PASQUI 1886), tanto che, dopo la perdita di gran parte delle associazioni tombali, la sua pubblicazione costituisce a tutt’oggi la più viva testimonianza delle pratiche funerarie di questo centro. In località S. Bernardino il Pasqui individua i precisi limiti dell’area sepolcrale, e rinviene un probabile ustrinum ed una fossa contenente abbondanti residui di roghi funebri: quest’ultimo elemento viene collegato, con notevole acume, all’assenza di terra di rogo all’interno dei pozzetti, differentemente da quanto si riscontra costantemente a Tarquinia, Vetulonia e in altre necropoli villanoviane minori. Al termine della ricca relazione il Pasqui rinuncia ad operare una sintesi dei 6 numerosi elementi emersi dagli scavi, rivelando un atteggiamento meno paludato dei suoi colleghi, anche di poco più anziani (si pensi al Ghilardini): tutta la sua attività iniziale appare in effetti dominata da una visione fortemente pragmatica, che lo conduce a privilegiare l’analisi topografica sul terreno, rispetto alle grandi trattazioni accademiche. In questi anni egli è infatti impegnato, assieme ad A. Cozza e sotto l’illuminata guida di G.F. Gamurrini, nella pionieristica impresa della Carta Archeologica d’Italia, ovvero nel primo tentativo di elaborazione di una dettagliata carta topografica dell’Italia antica. Si tratta di un progetto ambiziosissimo, ma nato decisamente sotto una cattiva stella, tanto che, dopo i primi anni di intensa attività di ricognizione e scavo in Etruria meridionale e Sabina 4) , grosso modo fra il 1881 e il 1890, l’impresa si arenerà tra il disinteresse generale delle autorità dello Stato, e solo una piccola parte della eccezionale documentazione raccolta verrà data alle stampe. Su questo straordinario episodio della ricerca archeologica italiana, altrettanto rilevante per la antichità protostoriche che per quelle classiche, torneremo comunque fra breve. Di tutt’altra natura è il ponderoso compendio degli scavi nelle necropoli vetuloniesi che Isidoro Falchi pubblica nel 1891. L’opera è importante per il suo apparato documentario, sebbene per lo più di tipo descrittivo; Falchi non è certamente uno scavatore attento come il Pasqui, ma si sforza di essere il più possibile oggettivo nelle descrizioni: tuttavia, quando il contesto scavato sfugge alla sua comprensione - ed è soprattutto il caso delle tombe a cremazione di VIII-VII secolo - le annotazioni diventano alquanto confuse. Pur non entrando approfonditamente nel merito della cronologia, Falchi opera inoltre un’utile classificazione delle sepolture vetuloniesi dell’età del Ferro, in base alla tipologia tombale e alle caratteristiche dei corredi: (I) pozzetti con cinerari tipici, cioè sepolture del “tipo Villanova” classico, le cui caratteristiche sono così sintetizzate (1891, p. 33); “uniformità e semplicità nella costruzione dei pozzetti; uso esclusivo della cremazione; gran frequenza di cinerari a capanna della medesima forma; mancanza di difesa laterale al deposito sepolcrale (cioè assenza di custodia litica; n.d.r.); miseria costante in tutte le tombe senza segno alcuno di distinzione”. (II) ripostigli stranieri: ovvero fosse irregolari contenenti terra di rogo ed oggetti di corredo, per lo più vaghi di collana ed altri ornamenti, collocati generalmente all’interno di una tazza intorno a dei denti umani. Il Falchi, sorpreso dal complesso rituale 4) Una ricostruzione della tormentata vicenda della Carta Archeologica d’Italia è in COZZA 1972. Agli scavi privati controllati da Cozza e Pasqui nell’Agro Falisco seguì, nel 1890, l’inaugurazione del Museo di Villa Giulia in Roma, 7 di queste deposizioni e dalla raffinatezza dei manufatti, e non rinvenendo tracce di ossa bruciate, avanza timidamente l’ipotesi che si tratti di sepolture simboliche di individui stranieri inseriti, ma non integrati, nella comunità degli italici incineratori di rituale villanoviano; riaffiora qui la tendenza, mai del tutto sopita, a dare un valore etnico alle differenze culturali. (III) circoli interrotti di pietre rozze con pozzetti e cinerari tipici: sul Poggio alla Guardia il Falchi scava alcuni recinti circolari di pietre appena sbozzate e disposte con ampi intervalli, all’interno dei quali sono in genere numerosi pozzetti di tipo villanoviano canonico, con biconici o urne a capanna. (IV) circoli interrotti di pietre rozze con buca centrale, senza cinerari e con suppellettile d’importazione: si tratta di recinti analoghi ai precedenti ma con un’unica deposizione al centro; nonostante il rituale sia ancora di tipo crematorio, l’assenza del cinerario tipico di Villanova, e i caratteri evoluti degli oggetti corredo (per lo più del tardo VIII secolo a.C.), fra cui non mancano elementi di provenienza orientale, inducono Falchi a considerarli deposizioni di stranieri di età villanoviana. (V) circoli continui di pietre bianche: in quest’ampia categoria lo studioso inserisce tutti i recinti circolari continui della tarda fase recente del primo Ferro e dell’orientalizzante, caratterizzati per lo più dall’unica deposizione entro fossa centrale, e dalla particolare sontuosità dei corredi; essi sarebbero comunque, secondo lui, una forma più evoluta dei cosiddetti circoli “stranieri”. Anche se il valore di quest’opera è a tutt’oggi notevole laddove costituisce testimonianza pressochè unica di una civiltà rituale di grande complessità 5) , i limiti del suo autore appaiono in tutta evidenza quando egli tenta di inquadrare storicamente i dati di cui dispone; l’interpretazione in chiave etnica delle differenze di rituale e di tipologia dei materiali che viene così esposta, sia pure con malcelato imbarazzo, sembra vanificare in un certo senso tutti gli sforzi fatti in quegli anni da studiosi come Undset, Ghirardini, Helbig, nel definire uno schema di cronologia relativa ed assoluta dell’età del Ferro etrusca. Nello stesso anno, il 1891, viene pubblicata un’altra monografia di grande impegno dedicata dal francese Stephane Gsell agli scavi da lui stesso condotti nelle necropoli di Vulci, importantissima città etrusca della Maremma laziale. Le sepolture della prima età con l’allestimento di una sala dedicata in gran parte ai corredi di Narce, che dette origine a violente polemiche e ad una nota inchiesta giudiziaria: v. BAGLIONE-DE LUCIA BROLLI 1990, pp. 63 ss. 5) Per dare un’idea della vastità degli interventi operati a Vetulonia in quegli anni è sufficiente forse ricordare che solo nella necropoli di Poggio alla Guardia il numero di tombe scavate ammonta, a detta dello stesso scavatore, a circa 800, cifra destinata ad aumentare in seguito; nella necropoli di colle Baroncio, dove gli scavi furono eseguiti da privati, le sepolture della prima età del Ferro portate alla luce sembra fossero state circa 700; numerose sono anche le sepolture a circolo e a tumulo indagate, della seconda metà dell’VIII e del VII secolo a.C. Ci resta comunque una grande massa di reperti, sparsi per numerosi musei d’Italia, che attende una sistematica edizione. Una preliminare presentazione dei dati è stata offerta da M. Cygielman nel convegno “La presenza etrusca in Campania meridionale” (Pontecagnano-Salerno 1990). Una bibliografia completa sui vecchi scavi di Vetulonia in DELPINO 1981, nota 1. 8 del Ferro hanno qui un certo rilievo, anche se sono complessivamente scarse (poco più di 40), soprattutto in confronto ai numeri a due zeri degli scavi di Vetulonia. L’approccio di Gsell è comunque decidamente improntato alla sistematicità e ad una certa chiarezza tutta francese: i contesti tombali vengono presentati attraverso schede complete, comprendenti un’esauriente descrizione della tomba e della disposizione degli oggetti, il catalogo dei materiali, e spesso piante d’insieme e di dettaglio. Data l’elevata qualità di questa edizione, è da rammaricarsi che gli scavi del francese abbiano riguardato settori alquanto limitati delle necropoli villanoviane di Vulci: in questo senso, il quadro che emerge da essi costituisce appena un prezioso spiraglio di luce sulle pratiche funerarie di questo centro nella prima età del Ferro. Nel 1894 viene edito dall’Accademia dei Lincei un volume interamente dedicato alle ricerche condotte da Gamurrini, Cozza e Pasqui nell’Agro Falisco, con l’ausilio di tecniciarcheologi poi divenuti celebri come R. Mengarelli ed E. Stefani (BARNABEI et alii 1894). Si tratta dell’unica pubblicazione ufficiale del gruppo di ricerca della Carta Archeologica d’Italia, a cui si affiancherà, solo nel 1972 e 1981, l’edizione dei documenti d’archivio inediti, per certi versi ancora più significativi. Particolarmente importanti per gli studi sulla prima età del Ferro etrusca, oltre che per l’orientalizzante, sono gli scavi condotti a Monte S. Angelo, Narce e Civita Castellana-Falerii. Nel primo sito Cozza e Pasqui individuano, forse per la prima volta nell’Etruria propria, un complesso abitativo villanoviano (con precedenti del Bronzo finale), di cui mettono in luce la doppia cinta fortificata ed alcuni fondi di capanna, peraltro di dubbia datazione; ad esso sono attribuiti inoltre alcuni piccoli nuclei di tombe ad incinerazione posti sulle colline antistanti. Il Barnabei, nel capitolo introduttivo, sottolinea la particolare antichità di questo centro, attribuendolo, con una sorprendente anticipazione delle ricerche future, ai tempi immediatamente anteriori all’VIII secolo a.C. A Narce i recuperi sono condotti per lo più da privati e controllati per conto dell oStato da Cozza e Pasqui, che redigono un’esemplare rapporto di scavo, con precise descrizioni delle singole tombe e numerose piante e sezioni: vengono documentate svariate piccole necropoli “primitive” di tombe a pozzo e a fossa, attribuibili ad un centro fino ad allora sconosciuto, ma che i ricercatori riconoscono di notevolissima importanza. A Falerii, oltre alla necropoli protovillanoviana di Montarano sud, viene scavato nelle vicinanze un piccolo sepolcreto di VIII-VII secolo in tutto analogo a quelli di Narce: gli appunti manoscritti da questo scavo lasciati dagli autori, editi solo in anni recenti (COZZA-PASQUI 1981), appaiono corredati di un apparato grafico che, nonostante l’incompiutezza, ha scarsi confronti in quest’epoca. 9 Le ipotesi di tipo storico avanzate su questo complesso di rinvenimenti dal Barnabei (BARNABEI et alii col. 5-32), grazie anche alla possibilità di disporre di una documentazione del tutto inusuale, sono nelle grandi linee ancora oggi valide. Lo studioso sottolinea giustamente che le più antiche tombe a pozzo di Narce e Falerii, per il loro carattere sostanzialmente non villanoviano (assenza di cinerari biconici), e per contro la raffinatezza dei manufatti che contengono, non possono risalire all’età delle più antiche sepolture di Tarquinia e Vetulonia, ma si datano piuttosto ad un’epoca immediatamente anteriore a quella del pieno influsso ellenico. La nascita di questi due centri sarebbe dunque avvenuta dopo l’abbandono dell’arcaico sito di Monte S. Angelo, di cui avrebbero raccolto la popolazione, come quella di altri piccoli abitati fortificati analoghi (fra cui i “castellieri” di Turona e monte Cimino, allora individuati da Cozza e Pasqui), attraverso un fenomeno di tipo sinecistico. Infine, tra VIII e VII secolo a.C., dai primitivi villaggi di capanne ubicati rispettivamente sul colle di Narce e su quello di Montarano (in realtà su quello del Vignale), si sarebbe passati, per accrescimento progressivo, ai veri e propri centri urbani di Falerii e Narce Fescennium. 2. La prima metà del XIX secolo Gli anni a cavallo fra ‘800 e ‘900, come esemplarmente testimoniato dalla vicenda della Carta Archeologica, vedono l’inasprirsi del centralismo statale nelle attività di ricerca archeologica; ciò è particolarmente evidente in campo preistorico con lo strapotere intollerante di L. Pigorini, ormai capo incontrastato della paletnologia italiana (GUIDI 1988, pp. 52 ss.). Gli studi sulla protostoria etrusca subiscono dunque un certo decadimento, che si farà particolarmente sentire nei primi decenni del nuovo secolo: ciò è forse in parte da imputare ad una perdita d’interesse per problematiche, come quella sull’origine degli Etruschi, che avevano esaurito gran parte della loro attualità, dopo le accese polemiche degli anni ‘70 e ‘80. D’altra parte, è anche da rilevare in questo periodo l’assenza di archeologi di forte personalità operanti nell’Etruria propria, differentemente da quanto avviene a Roma con Giacomo Boni, in Italia meridionale con Paolo Orsi, e in Sardegna con Antonio Taramelli. Non mancano, comunque, nel campo delle attività di scavo, eventi di notevole importanza. Tra il 1904 e il 1906 vengono condotti scavi sistematici nell’ambito delle necropoli dei cosiddetti “poggi orientali” di Tarquinia, che ci restituiscono la più completa raccolta di contesti funerari delle fasi iniziali della prima età del Ferro etrusca (PERNIER 1907; HENCKEN 1968). Nella logica e negli intenti di questi scavi si evidenzia una sensibile maturazione dell’archeologia funeraria italiana, con una notevole attenzione 10 prestata alla composizione dei singoli corredi tombali e una certa sistematicità nel procedere sul terreno, ma d’altra parte uno scarso interesse per la problematica complessiva della “civiltà di Villanova”; il rapporto di scavo pubblicato dal Pernier nel 190’7, basato prevalentemente sulle annotazioni del custode agli scavi e su rare osservazioni proprie, benchè preziosissimo come documento, è un arido inventario di 369 tombe, accompagnato da scarne osservazioni sulle strutture tombali, e raramente sulle modalità di deposizione dei corredi. Il 1908 è l’anno d’inizio degli scavi sistematici nelle necropoli protostoriche di Populonia, il cui principale promotore sarà nei decenni successivi Antonio Minto; è tuttavia soprattutto negli anni 1914-1921 che si ha la scoperta dei primi consistenti nuclei di sepolture villanoviane di questo centro, nelle necropoli di S. Cerbone e Piano delle Granate. Già nella monografia del 1922 il Minto è in grado di prospettare un quadro estremamente chiaro della facies funeraria populoniese del primo Ferro, sottolineandone la peculiare complessità: in particolare, la coesistenza, da epoca piuttosto remota, del rituale della cremazione in urna biconica di classica foggia villanoviana, e dell’inumazione in fossa, o addirittura in tomba a camera a pseudo-cupola. Tale classificazione dell’evidenza, condotta con grande onestà, sarà la base per la più completa versione del libro, edita nel 1943, in cui è da segnalare, accanto alla tradizionale rassegna delle classi di materiali e delle tipologie tombali, un capitolo dedicato al problema delle coltivazioni minerarie etrusche della Toscana marittima, che il Minto fa risalire già ad età villanoviana. Gli anni ‘20 e ‘30 costituiscono un periodo di grande fioritura degli studi cronotipologici di matrice nordica sulla protostoria italiana. Dedicata in gran parte al primo Ferro dell’Etruria è l’opera dello scandinavo Sundwall, che si occupa ampiamente (in particolare SUNDWALL 1928) del problema delle decorazioni geometriche degli ossuari villanoviani, e pubblica in seguito un’imponente classificazione delle fibule italiane (1943), a tutt’oggi strumento prezioso per gli specialisti; N. Aoberg (1930) dal canto suo, rifacendosi principalmente a O. Montelius, inserisce le facies protostoriche dell’Etruria in un ampio quadro europeo di correlazioni cronologiche relative ed assolute. Diverso è tuttavia il clima che si respira in questi anni fra gli archeologi italiani che si occupano di problemi paletnologici (cfr. GUIDI 1988, pp. 78 ss.): di pari passo con la reazione anti-positivista dell’idealismo crociano, si sviluppa un rifiuto dell’atteggiamento empirico e sistematico diffuso presso una parte dei paletnologi italiani a partire dalla seconda metà del XIX secolo; soggetto a forti critiche è il concetto di evoluzione dei tipi archeologici, propugnato in particolar modo dalla scuola scandinava di Montelius, a cui 11 viene contrapposto uno sviluppo multilineare delle facies archeologiche, con un forte accento sulla diffusione geografica sincronica dei tratti culturali. Il rappresentante più equilibrato e coerente di questo indirizzo di pensiero è M. Pallottino, giovane cultore di antichità etrusche, i cui interessi spaziano dalla linguistica storica all’archeologia. Nel 1939 viene pubblicato il più importante contributo di questo autore alla protostoria etrusca, in cui egli si richiama esplicitamente alla scuola etnologica storico-culturale tedesca per motivare un rifiuto degli “artificiosi sistemi di classificazione cronologica” di Montelius e Aoberg. Nell’ambito dell’Etruria arcaica il Pallottino distingue quattro facies, o aspetti culturali, la cui successione cronologica si verificherebbe quasi esclusivamente nell’area di prima elaborazione delle stesse, ovvero per lo più nell’Etruria meridionale marittima, mentre nelle aree periferiche ed interne, grazie a fenomeni di stagnazione economica e sociale, esse tenderebbero a coesistere. Particolarmente rilevante, in questo scritto, è la lucida definizione del-le singole facies operata anche attraverso l’ausilio di carte di distribuzione dei tratti culturali. Le cosiddette facies “sub-énee” (o protovillanoviane), documentate dai sepolcreti di Tolfa e Allumiere, vengono considerate come manifestazioni culturali attardate dell’Italia interna, sostanzialmente contemporanee delle facies del Ferro. La I facies, o “periodo villanoviano” in senso stretto (l’attuale fase antica del primo Ferro), è definita invece in base al ricorrere, in un’area molto ristretta corrispondente per lo più alla zona costiera, di elementi tipici come gli elmi-coperchio, mentre nelle aree periferiche si assiste ad un progressivo decrescere di questi elementi via via che ci si allontana dal centro d’innovazione; nell’Etruria interna e in Emilia, in centri come Chiusi, Volterra, Firenze e Bologna, la I facies, con caratteri parzialmente diversi dall’area costiera (ad es. assenza di elmicoperchio), presenta invece una durata più lunga, coesistendo in parte con la II facies marittima. Di quest’ultima, o “periodo di transizione fra il villanoviano e l’orientalizzante” (coincidente con l’VIII secolo avanzato), Pallottino sottolinea giustamente la sostanziale diversità rispetto alla I facies, e ne localizza l’origine in un’area ancora più ristretta della precedente, corrispondente con l’Etruria meridionale costiera e sub-costiera; anche per questa facies egli individua delle aree di persistenza nell’Etruria interna in particolare a Veio, Capena, Narce, Bisenzo, Chiusi. Segue poi una ricca delineazione delle facies III (grosso modo l’attuale orientalizzante antico-medio) e IV (orientalizzante recente), con cui l’autore completa il quadro delle fasi formative della civiltà etrusca. Anche se alcune delle affermazioni fatte in questo articolo, dettate da una certa foga polemica, sono apparse infondate nel procedere delle ricerche (in particolare l’idea di una 12 coesistenza di aspetti sub-énei e del Ferro), molti spunti sono ancora oggi validi e stimolanti: in particolare, sul piano metodologico generale, la precisa distinzione, fra il concetto di facies e quello di fase, resta basilare negli studi di protostoria. Per quanto riguarda invece lo specifico argomento che qui ci interessa, va segnalato l’accento posto dal Pallottino sugli aspetti locali delle facies protostoriche dell’Etruria, che fanno di questa regione nell’età del Ferro una realtà ben più variegata e complessa di quanto non sembri a prima vista; lo stesso concetto di “persistenza”, non inteso in maniera rigida, può essere ancora utile per illuminare alcuni aspetti delle aree più conservatrici sul piano culturale e socio-economico, e segnatamente di quelle interne. 3. Il dopoguerra e gli sviluppi recenti I due decenni compresi fra l’inizio del secondo conflitto mondiale e la fine degli anni ‘50 costituiscono un periodo di grande rinnovamento di alcuni settori della paletnologia italiana interessati alla preistoria e alla protostoria più antica: basterà ricordare, in questo ambito, l’eccezionale attività di scavo e sintesi di L. Bernabò Brea. E’ comunque solo a partire dalla fine degli anni ‘50 che si ha un ritorno alla ribalta delle problematiche della prima età del Ferro italiana, soprattutto grazie all’interessamento di singoli studiosi e gruppi di ricerca stranieri. Un nuovo corso degli studi di cronologia sulla tarda età del Bronzo e la prima età del Ferro italiana è inaugurato nel 1959 dall’opera imponente dell’archeologo tedesco H. Mueller-Karpe, che raccoglie, tra l’altro, una vastissima documentazione grafica sui contesti funerari villanoviani di Bologna, e, in misura minore, dell’Etruria propria. Lo schema cronologico elaborato dall’autore per l’Etruria, articolato nelle fasi Tarquinia I (IX secolo a.C.) e Tarquinia II (VIII secolo a.C.), nonostante l’incompletezza della documentazione, appare fondato su basi metodologiche estremamente solide, nel cui ambito assume particolare rilevanza la correlazione con altre sequenze italiane, come quelle di Bologna, Terni, Cuma e Roma-Colli Albani. Torna dunque a ripresentarsi, con l’attività di Mueller-Karpe, ma in una forma di gran lunga più perfezionata, l’impostazione ampia e sistematica di Montelius e Aoberg, già fortemente criticata dall’archeologia di ispirazione storico-culturale. Su un versante differente, e affatto nuovo per l’Etruria, si collocano le ricerche di superficie e i saggi di scavo condotti dalla British School di Roma, sotto la direzione di J.B. Ward Perkins, nell’area della città etrusca di Veio (WARD PERKINS 1961), nell’ambito dei quali viene evidenziata per la prima volta l’esistenza, sull’ampio pianoro veiente, di alcune aree di affioramento di materiali della prima età del Ferro. Basandosi sulla distribuzione 13 estremamente rada di tali aree di frammenti, e sulla apparente distribuzione dei sepolcreti villanoviani in corrispondenza di esse, il Ward Perkins avanza un’ipotesi che avrà molto fortuna fra gli studiosi italiani: il pianoro di Veio sarebbe interessato, in età villanoviana, dalla presenza di alcuni piccoli villaggi dotati di sepolcreto proprio, e intervallati da ampie aree libere. Alla diffusione di questo modello contribuirà probabilmente la suggestione storica della Roma del Septimontium (cfr. PALLOTTINO 1993, pp. 146 ss.) in cui la città primitiva appare articolata in più nuclei abitativi, forse originariamente pertinenti ad altrettante comunità autonome, ma in cui comunque esiste un certo condizionamento della accidentata morfologia locale, a differenza di quanto sui vasti rilievi tabulari dei centri sudetruschi. Nello stesso periodo, ad opera della British School e dell’Istituto di Studi Etruschi e Italici di Roma, si ha l’inizio degli scavi sistematici nella necropoli dei Quattro Fontanili a Veio, che continueranno quasi ininterrottamente fino agli inizi degli anni ‘70. La pubblicazione di questi scavi, avvenuta a più riprese (bibl. in TOMS 1986), costituisce un evento fondamentale nell’ambito degli studi di protostoria italiana: l’edizione, particolarmente valida per il suo ricco apparato grafico, fornisce agli studiosi un repertorio ineguagliato di materiali della fase recente della prima età del Ferro (VIII secolo a.C.), e soprattutto una documentazione completa dei vari aspetti del rito funerario, fondata su diverse centinaia di sepolture. Sulla base di un discreto campione di corredi veienti, J. Close Brooks (1965) costruisce una sequenza cronologica che avrà una certa fortuna negli anni successivi, utilizzando metodi propri della scuola centro-europea, come le tabelle di associazione e la stratigrafia orizzontale, già applicati a contesti italiani dal Peroni e dal Mueller-Karpe. Altrettanto importante, ma di gran lunga meno “moderna” sul piano metodologico, è la monografia dedicata allo studioso americano H. Hencken alla Tarquinia villanoviana e orientalizzante (1968). L’opera è divisa in due parti, nettamente distinte per impostazione e qualità. Il primo volume è costituito dall’edizione di una gran parte dei corredi degli scavi Pernier nelle necropoli orientali di Tarquinia, a cui si aggiunge la collazione di tutti i dati disponibili sugli scavi comunali alle Arcatelle, altrimenti dispersi in una miriade di piccole pubblicazioni ottocentesche; il lavoro è condotto con un certo scrupolo filologico, ed è di per sè sufficiente a collocare il libro fra i più importanti riguardanti il primo Ferro dell’Etruria. Nel secondo volume Hencken si lancia in un discutibile tentativo di elaborazione di una sequenza cronologica delle sepolture tarquiniesi, in cui mescola con spregiudicatezza metodi desunti dalla “statistica combinatoria” di Mueller-Karpe, come le tabelle d’associazione, ad elementi di cronologia assoluta, come le datazioni incrociate con 14 l’Egeo o con altri contesti in rapporto con l’Egeo (in particolare Pantalica, in Sicilia): il risultato finale, del tutto privo di fondamento, è una espansione cronologica della fase antica del primo Ferro, da lui definita “Villanoviano I”, tra il X e la metà dell’VIII secolo a.C. e una contrazione della fase recente, o “Villanoviano II”, nell’arco della seconda metà dell’VIII secolo. Imbarazzanti sono poi le conclusioni di ordine storico, in cui l’autore, fondandosi su una serie di generici confronti tipologici con altre aree europee, ipotizza l’origine dei presunti “Villanoviani” da un innesto di gruppi centro-europei portatori della cultura dei “campi d’Urne” in un substrato locale “appenninico”. Gli studiosi che si occupano della prima età del Ferro etrusca nel corso degli anni ‘70 si trovano ora nella stimolante situazione di dover interpretare l’enorme massa di dati raccolta nel libro di Hencken e nell’edizione degli scavi veienti, oltre che in altre pubblicazioni relativamente minori, qui non citate per motivi di spazio. La protostoria è una disciplina ancora relativamente giovane in Italia, e sta faticosamente affidando i propri metodi d’indagine, con il tentativo, da parte degli studiosi più avvertiti, di affrancarsi da approcci tradizionali: in tal senso, questi anni sono caratterizzati da un ampio dibattito sulle metodologie, e da un confronto molto costruttivo fra studiosi di varia estrazione. Ad archeologi classici italiani e stranieri si deve un notevole impulso allo studio delle produzioni ceramiche di tipo greco-geometrico, sia d’importazione che d’imitazione, abbondantemente presenti nei contesti etrusco-meridionali delle fasi avanzate dell’VIII secolo, con forti ripercussioni sulle problematiche della circolazione dei beni e delle prime forme di acculturazione. A tale tematica è dedicato nel 1969 un importante incontro di studi (AA.VV. 1969), nel corso del quale si svolge una vivace discussione fra esperti di ceramica geometrica da una parte e di protostoria italiana dall’altra (fra gli altri G. Vallet, D. Rydgway, W. Johannowsky, B. d’Agostino, R. Peroni), incentrata sullo spinoso problema del rinvenimento di tazze euboico-cicladiche, o presunte tali, in alcune sepolture veienti e campane della prima metà dell’VIII secolo, e dunque della possibilità dell’esistenza di contatti commerciali fra indigeni e Greci antecedenti alla fondazione delle prime colonie d’occidente. Sull’onda di questi approfondimenti, non mancano contributi ad una migliore definizione culturale e cronologica dell’età del Ferro tirrenica: fra questi si ricordano alcuni articoli dedicati ad aspetti culturali locali dell’età del Ferro, dovuti a specialisti di 15 protostoria etrusca, fra cui in particolare F. Delpino e G. Bartoloni 6) , in cui si osserva una prudenza estrema nell’uso dei sistemi statistico-combinatori di seriazione, in accordo con le forti perplessità ripetutamente espresse da M. Pallottino su queste metodologie (da ultimo PALLOTTINO 1993, pp. 52 ss.). Maggiormente legato ad indirizzi di studio mitteleuropei è invece lo studio in cui R. Peroni (1979), basandosi in particolare sulle associazioni di fibule e rasoi, elabora una proposta di articolazione in sottofasi delllo schema cronologico di Mueller-Karpe per l’Etruria, agganciata ad altre importanti sequenze dell’Italia continentale 7) . Mario Torelli, in un ampio articolo dedicato ad aspetti della storia etrusca (19741975), dedica alcuni cenni all’inquadramento socio-economico e politico delle comunità villanoviane. Per la prima fase villanoviana (IX secolo a.C.), l’autore, facendo riferimento alle ricerche del Ward Perkins sullo sviluppo topografico di Veio, osserva che l’accoglimento o meno dell’ipotesi dell’esistenza di una pluralità di villaggi sull’unitario pianoro della città etrusca non esclude che si debba pensare a una sostanziale integrazione di tali comunità in un organismo politico unitario: “In questo senso la ‘città’ già esiste fin dal primo manifestarsi della presenza villanoviana, esiste nella sua realtà di struttura fitta di interrelazioni economiche, anche se non può dirsi risolto il problema della sua unità in termini politici”. In una monografia apparsa alcuni anni dopo (TORELLI 1981), il Torelli riprende ed articola alcune osservazioni del lavoro precedente, definendo con chiarezza la gradualità del processo di formazione delle aristocrazie etrusche, come appare nel corso dell’VIII secolo a.C. in base ai dati della necropoli dei Quattro Fontanili a Veio (p.55): “Subito dopo, però: attorno alla metà del secolo, l’opposizione povertà-ricchezza non si configura più come realtà polare (alcuni - patresfamilias - connotati come ricchi, gli altri come uguali), ma come realtà stratificata, in cui esiste una articolazione dei livelli di ricchezza e dunque una complessa situazione di classe”. Secondo lo studioso i primi indizi di questo processo sarebbero presenti già nei primi decenni dell’VIII secolo, e comunque in un momento immediatamente precedente all’esplosione dei rapporti di scambio con il mondo greco (cfr. intervento alla discussione in VULCI 1977, p. 281). 6) Vedi in particolare: BARTOLONI-DELPINO 1970, in cui si propone una revisione della cronologia dell’Hencken per il “Villanoviano I”, peraltro fondata su un numero assai ristretto di corredi; in DELPINO 1977 viene data per la prima volta una corretta definizione culturale del complesso ideologico di Bisenzio, elaborandone una proposta di seriazione; in DELPINO 1981 lo stesso autore fa una rassegna dei caratteri culturali dell’Etruria settentrionale marittima nel primo Ferro, con particolare riferimento ad aspetti della metallurgia. 7) In liena con lo studio del Peroni, ma con terminologia differente, si colloca, alcuni anni dopo, la revisione della sequenza cronologica della necropoli dei Quattro Fontanili a Veio di J. Toms (1986), ottimo punto di riferimento per la problematica della cronologia relativa etrusca dell’VIII secolo. 16 Nell’ambito di un convegno tenutosi nel 1975, G. Colonna (1977)analizza il problema della nascita della città di Vulci, e della sua affermazione politica nel territorio circostante: il centro si formerebbe agli inizi del IX secolo a.C., in seguito ad un fenomeno di tipo sinecistico, comportante l’abbandono dei numerosi villaggi fiorenti nel corso della tarda età del Bronzo nelle valli del Fiora e dell’Albegna; agli inizi, tale centro appare caratterizzato da un tessuto abitativo “pseudo-urbano”, con il coesistere sullo stesso pianoro di più nuclei abitativi separati, e da un’organizzazione sociale ancora di tipo egualitario, mentre in epoca immediatamente successiva, nell’avanzato VIII secolo a.C., si assiste all’affermazione di un’aristocrazia dedita ad attività di scambio e predatorie, che promuove la fondazione di centri-satellite nel territorio. E’ in questo periodo che si ha secondo il Colonna, la maturazione di un organismo politico di tipo protourbano, e dunque la prima affermazione della “città”. Verso la fine degli anni ‘70, l’età del Ferro dell’Italia centrale tirrenica, ed in particolare del Latium Vetus, è al centro di un notevole dibattito scientifico, che vede una stretta collaborazione fra studiosi di varia formazione, come storici, archeologi classici e paletnologi. I risultati più interessanti di questo approccio interdisciplinare sono costituiti dalla grande mostra sul Lazio primitivo tenuta a Roma nel 1976, e dal seminario sulla formazione della città del 1977 (AA.VV. 1980). Sebbene per l’Etruria propria non si possa parlare di un’analoga fioritura di studi, questi due eventi avranno un influsso decisivo sulle ricerche successive di argomento protostorico anche di questa regione, orientando l’interesse degli studiosi verso problematiche in gran parte nuove per l’archeologia italiana, come l’analisi dei contesti funerari e l’interpretazione complessiva delle società. Un bilancio degli sviluppi più recenti della ricerca in questo campo è probabilmente ancora prematuro, e comporterebbe una discussione lunga e noiosa, fuori luogo in questa sede: ci si limiterà pertanto a citare alcuni studi che hanno introdotto, a nostro avviso, elementi di una certa novità. Una novità è costituita certamente dall’intensificarsi delle ricerche di superficie, e in misura minore degli scavi, sui pianori delle città etrusche e nel territorio circostante, con un ritorno d’interesse per le problematiche insediamentali. Le indagini si concentrano in Etruria meridionale e sono dovute sia a gruppi di studio che a singoli ricercatori. Ricerche sistematiche condotte dall’Istituto di Topografia antica dell’Università di Roma sull’ampio pianoro della città di Veio (GUAITOLI 1981) consentono di registrare una distribuzione relativamente densa delle aree di frammenti fittili di età villanoviana, in contrasto con quanto rilevato nel 1961 dal Ward Perkins: inizia dunque a farsi strada l’idea, certo non nuova in assoluto, ma finora non dimostrabile, di un’occupazione pressochè 17 continua, già nel corso della prima età del Ferro, dei pianori delle grandi città sudetrusche, in alternativa all’ipotesi dei villaggi posti ai margini del rilievo. In un articolo del 1982 F. di Gennaro fa un primo consuntivo dei dati riguardanti gli insediamenti del Bronzo finale e della fase antica del primo Ferro (XII-IX secolo a.C.) in Etruria meridionale; per gli insediamenti villanoviani ubicati sul luogo delle maggiori città di età storica (Vulci, Tarquinia, Cerveteri, Veio, ecc.) l’autore individua un modello orografico ricorrente, costituito da pianori con netta difesa perimetrale, e ampi in media intorno ai 150 ettari. Un metodo grafico mutuato dalla geografia, e ampiamente diffuso negli studi di preistoria anglo-americani, quello dei poligoni di Thiessen, viene applicato a tali insediamenti per ricostruire l’ipotetica estensione del loro territorio: si configura così in termini teorici, secondo di Gennaro, un dominio territoriale embrionalmente analogo a quello dei centri urbani dell’età successiva, con siti minori subordinati politicamente all’insediamento più grande. La problematica delle origini del fenomeno urbano in Etruria è stata riconsiderata e ulteriormente articolata, alla luce sia dei dati insediamentali che di quelli funerari, in alcuni contributi apparsi di recente ad opera di M. Pacciarelli (1991 e c.s.). Il punto di partenza è costituito dalle ricerche di superficie sistematiche condotte dall’autore stesso sul pianoro della città di Vulci e nelle aree sepolcrali circostanti, che mostrano l’esistenza, almeno a partire dal IX secolo a.C., di un vasto insediamento unitario, sostanzialmente analogo a quello di Veio; il tessuto interno di questo abitato non andrebbe comunque immaginato come un blocco compatto, ma piuttosto come un aggregato relativamente rado, in cui a ciascun nucleo di abitazioni corrisponde uno spazio libero adibito alle coltivazioni, secondo un modello di pianificazione riconoscibile in una delle più antiche colonie greche d’occidente, Megara Hyblaea. Tale modello può sostanzialmente valere, secondo l’autore, per tutti i maggiori centri villanoviani dell’Etruria meridionale. Un elemento che può modificare notevolmente il quadro dell’origine di questi aggregati, è inoltre lapresenza, in vari punti del pianoro vulcente, di frammenti fittili del Bronzo finale, che farebbe pensare ad una qualche rada occupazione dell’area già in questa fase; il dato ben si accorda con il frequente rinvenimento, avvenuto in passato nell’ambito dei sepolcreti “urbani” di tutte le maggiori città etrusche, di sepolture del tardo Bronzo finale. Pacciarelli avanza dunque l’ipotesi che il noto fenomeno dell’abbandono dei villaggi d’altura del Bronzo finale, verosimilmente avvenuto nel corso del X secolo, sia da interpretare come un effetto, piuttosto che come una causa, della nascita delle grandi aggregazioni costiere: in altri termini, l’abbandono delle sedi tradizionali sarebbe avvenuto per lo più dopo la nascita di questi nuovi centri “protourbani”, capaci evidentemente di 18 operare qualche tipo di pressione sulle comunità circostanti. Sullo sfondo di questa vicenda l’autore, sviluppando alcune proposte fatte a suo tempo da Peroni, pone alcune premesse storiche fondamentali, come la crescita dell’importanza delle attività belliche adombrata dalla composizione dei corredi maschili, già a partire dal Bronzo finale, e il definitivo superamento, almeno dal IX secolo a.C., della vecchia struttura socio-economica fondata sui legami di parentela e sulla proprietà collettiva della terra. L’VIII secolo vede infine l’affermazione di una società pienamente stratificata, documentata nelle necropoli veienti da una netta articolazione delle sepolture in due livelli sociali differenziati, e dall’apparizione di ampi gruppi di deposizioni, forse già corrispondenti a gruppi familiari gentilizi. CRISTIANO IAIA Bibliografia AAVV 1969 . Incontro di studi sulla colonizzazione greca in occidente, Napoli-Ischia 29 febbraio - 2 marzo 1968, in DA 1969, 1. AA.VV 1980. La formazione della città nel Lazio, seminario Roma giugno 1977, DA 1-21980. AOBERG N. 1930. Bronzezeitliche und Fruheisenzeitliche Chronologie, 1. Italien. Stokholm. BAGLIONE M. P., DE LUCIA BROLLI M.A. 1990. Nuovi dati sulla necropoli de “I Tufi” di Narce, in “La civiltà dei falisci” Atti XV Conv. St. Etr. Ital. Civitacastellana 1987, pp. 61-102. BARNABEI F., COZZA A., PASQUI A. 1894. Degli scavi di antichità in territorio falisco, MAL IV. BARTIKIBU G. 1989. La cultura villanoviana, Roma. BARTOLONI G. 19 1970. 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BREVI CONSIDERAZIONI SULLE PRESENZE COSTIERE DELLA PRIMA ETA’ DEL FERRO 23 La stretta correlazione esistente e universalmente riconosciuta, tra le manifestazioni della prima età del ferro e la splendida fioritura dell’orientalizzante, che segna l’affermarsi della “nazionalità” etrusca, con una lenta ma determinante partecipazione degli insediamenti villanoviani alla formazione degli agglomerati urbani di epoca storica, mediante un processo di concentrazione demografica coagulato dalla organizzazione di interessi politico-religiosi e socio-economici, rende utile una riconsiderazione storica delle presenze archeologiche della prima età del ferro, disseminate sulla costiera tirrenica tra Rio Fiume e Mignone, nella prospettiva di fare maggiore chiarezza sul ruolo svolto dagli insediamenti costieri nel processo di urbanizzazione e sul rapporto tra questi abitati e quelli dell’interno, che a mio giudizio non ha trovato ancora una esauriente interpretazione che tenga conto delle emergenze urbane di Tarquinia e di Caere, nonché dell’influenza esercitata dalle risorse economiche locali, nei secoli che preparano questo processo di concentrazione demografica e lo portano a compimento. In questa fascia dei Monti della Tolfa furono individuati per la prima volta da Fernando Barbaranelli 1) ben dodici siti interessati da stratificazioni riferibili ad occupazioni dell’età del ferro villanoviana, alcuni dei quali sovrapposti ad insediamenti dell’età del bronzo medio e recente ed alcuni anche con testimonianze del bronzo finale 2) . La localizzazione di questi abitati costieri, seppure lascia supporre una dipendenza della loro economia dalle possibilità offerte dal mare, relativamente ai prodotti da destinare alla alimentazione e dalla vivacità degli scambi commerciali e dei rapporti intersocietari e interregionali che la via d’acqua permetteva, nonché dal controllo “politico-militare” delle rotte marittime, deve essere integrata da una riconsiderazione quanto più possibile rispondente alla realtà della antica linea costiera e degli approdi che questa poteva offrire, per tentare una spiegazione della loro presenza e della scelta dei siti, che non sia una semplice affermazione di principio o una asidentica elencazione. Il Barbaranelli nel rendere noti i risultati delle sue ricerche, che segnano l’avvio di un diffuso interesse per la protostoria della fascia costiera civitavecchiese, non si discostò tuttavia dalla semplice affermazione che questi abitati dovevano trattare dal mare fonti di sostentamento che alimentavano una economia molto articolata completata dai prodotti della terra e della caccia. 1) F. Barbaranelli, B.P.I., n.s., IX, vol. 64, 1954-55; idem., X, vol. 65, fasc. 2°, 1956; idem., XIII, vol. 69, 1960; idem, Atti VI Congr. Intern. Sc. Pr. e Prot., III, sez. V-VIII, Roma, 1962. 2) Malpasso, Torre Valdaliga, La Mattonara, Torre Chiaruccia. Per il quadro complessivo delle presenze protostoriche nella fascia costiera del territorio, v. O. TOTI, La civiltà protovillanoviana dei Monti della Tolfa, 1986, distr. da L’Erma di Bretschneider, Roma. 24 Nel 1971 Antonio Maffei nel pubblicare gli scavi da me diretti nell’abitato di Torre Valdaliga, partendo dalla considerazione che l’ubicazione costiera in prossimità di approdi naturali postula una preminenza politico-commerciale sul mare, ripropone l’ipotesi della identificazione dei “villanoviani” con i pirati etruschi delle fonti 3) . Ora si tratta di riveder il problema alla luce di altre acquisizioni, di una riconsiderazione dei dati offerti dagli scavi, taluni dei quali non esaurientemente analizzati, altri non ancora pubblicati (Torre Valdaliga 1968 e la Frasca 1965) o poco conosciuti e di una più attenta considerazione del rapporto tra abitati e tra abitati e linea costiera. Ciò che colpisce a prima vista è la maggiore potenza dei riempimenti antropici nei quattro siti ove la linea costiera mette in evidenza ampie insenature con eccezionali possibilità di approdo: Torre Chiaruccia (da 30 a 130 cm.), Foce del Marangone (60 cm.); Torre Valdaliga-La Mattonara (da 60 a 130 cm.); La Frasca (160 cm.). Tutte le stratigrafie risultano fortemente erose dal moto ondoso e in molti siti i fondi di capanna ed i pozzetti d’uso domestico giacciono sommersi. L’uso di pozzetti scavati nella roccia di intonacati di argilla è stato posto chiaramente in evidenza alla Mattonara e a Torre Valdaliga: ritengo tuttora che si tratti della diffusione di un sistema per la conservazione di derrate e per la cottura sotto cenere (come nell’esemplare lenticolare, di Torre Valdaliga) che va ben oltre l’occasionalità per configurarsi come una componente costante delle capanne 4) . A questo proposito va ricordato il biconico di impasto con motivi geometrici dipinti in rosso su ingubbiatura biancastra rinvenuto dal Barbaranelli in un pozzetto assai prossimo ai tre da me pubblicati 5) , che pertanto deve essere considerato come proveniente da area abitativa piuttosto che da area sepolcrale come il Barbaranelli sostenne, senza però che ciò possa escludere che sia stato fabbricato per essere destinato a cinerario (il rinvenimento di forme cinerarie in aree abitate è una conferma delle attività artigianali, diversificate, “in loco” 6) . Uno studio dell’aumento del livello marino 7) calcolato alla luce dei dati altimetrici offerti dalle peschiere romane, indica che dalla fine del I secolo a.C. ad oggi è aumentato di cm. 63 alla Mattonara-Torre Valdaliga, di cm. 72 al Fosso delle Guardiole, di cm. 65 alla Punta della Vipera. 3) A. Maffei, Boll. A.A. Centumcellae, Civitavecchia, 1981. O. Toti, N.S., s. VIII, vol. XVI, fasc. 7-12, 1962. 5) F. Barbaranelli, B.P.I., X, vcl. 65; O. Toti, cit. 6) O. Toti, cit. alla nota 2. 7) G. Schimiedt, Il Livello antico del mare Tirreno, Testimonianze dei resti archeologici, Firenze, 1972. 4) 25 Da tale studio si ricava pure che l’aumento medio dal 600 a.C. al 100 a.C. è stato di mm. 1,7 annui e che la tendenza al valore dell’innalzamento eustatico è di circa 1,5 mm. negli ultimi 100 anni. Se per il periodo che va dal 900 a.C. alla fine del I sec. a.C. abbiamo un innalzamento medio di mm. 1,7 dobbiamo aggiungere ai valori citati 1530 mm. (990x1,7) per cui avremo alla Mattonara-Torre Valdaliga un aumento da epoca Villanoviana ad oggi di mm. 2160, per le Guardiole di mm. 2280 e per Punta della Vipera di mm. 2180. Considerando viceversa un aumento medio di mm. 1,5 per anno, allora avremo mm. 1980 alla Mattonara-Torre Valdaliga, mm. 2080 al Fosso delle Guardiole, mm. 2000 a Punta della Vipera. In complesso dobbiamo perciò ipotizzare un aumento del livello marino di circa due metri dal 900 a.C. ad oggi. Ora se osserviamo le linee batimetriche più vicine alla costa possiamo constatare che proprio in corrispondenza dei principali insediamenti villanoviani, se teorizziamo un livello marino più basso di due metri rispetto all’attuale, ci si offre un quadro assai più evidente delle possibilità che l’antica linea costiera offriva alla navigazione di cabotaggio (tav. 1 e 2) e al riparo delle imbarcazioni. A Torre Valdaliga-La Mattonara la linea batimetrica segue un andamento che pone in risalto una accentuazione delle insenature che fornivano specchi d’acqua assai più riparati di quelli attuali. In epoca tardo romana la località viene ricordata nell’Itinerarium Maritimum con il nome di Algae. Situazione del tutto analoga è quella al fosso Guardiola. In corrispondenza dell’abitato di La Frasca la linea batimetrica evidenzia una insenatura che doveva penetrare per buon tratto nell’entroterra formando una sorte di “porto canale”, se consideriamo un avanzamento medio di 100 metri della linea costiera deducibile dall’aumento del livello marino e dallo stato attuale dei fondali. Nel medioevo tale approdo era chiamato “Columna”: negli Acta Sanctorum si dice: “il beato Sanzio su piccola barca approdò in parvulo portu qui appellatur Columna in finibus Centumcellae”: il nome deriva dalla presenza di una colonna eretta ad directionem nautarum” 8) . Il sito potrebbe corrispondere al porto di Rapinium citato nell’Itinerarium Maritimum. L’attuale nome di La Frasca deriverebbe dall’uso recente di porre un ramo (frasca) a segnacolo per indicare ai pescatori il punto ove dirigere la prora della propria barca evitando di arenare sui bassi fondali 9) . Nell’aprile del 1965 per incarico della Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria Meridionale effettuai con la collaborazione assai preziosa di Franco Capuani e Gianni 8) Acta Sanctorum, VI, p. 72. 26 Taurchini un saggio stratigrafico nell’area della pineta sita in quella località. La scelta di quel preciso punto fu dettata dalla constatazione che a breve distanza dai residui stratarelli archeologici in prossimità della battigia, a poche decine di metri verso l’interno, il livello del terreno si innalza notevolmente rispetto al livello marino e al piccolo fosso che scorre poco più a settentrione. La scelta fu felicemente ripagata, poichè nell’area esplorata, di m. 4 per 2, si è raggiunta una profondità di metri 1,60 ponendo in luce, mediante tagli perfettamente orizzontali, di circa 10 cm. ciascuno, un riempimento antropico senza soluzione di continuità, partendo da un piano di livellamento praticato asportando 22 cm. di humus nell’angolo est e 12 cm. nell’angolo nord. Sotto il XVI taglio è stato posto in evidenza un banco sabbioso ricco di ceneri dello spessore di cm.60, nel quale furono infissi i pali del primitivo impianto capannicolo, che poggia su uno stratarello di circa 5 cm. di argilla giallognola, sotto il quale insiste il terreno vergine ricco di roccia frammentata. A distanza di tre decenni dalla effettuazione del saggio di scavo è esclusa oggi la possibilità di una precisa edizione dei materiali giacchè nei magazzini del Museo Nazionale di Civitavecchia ove gli stessi furono raccolti non è stata curata con le dovute cautele la conservazione, talchè i materiali di alcuni tagli non sono più distinguibili tra loro. Di alcuni frammenti che presento debbo dare genericamente e sommariamente la indicazione come provenienti dal complesso dei tagli 5-9. Qui interessa riconoscere che ci troviamo di fronte ad una serie di pochi ma significativi frammenti con ornamentazione tipica dell’età del ferro villanoviana ed è quanto basta per portare avanti il discorso di ordine generale che desideravo affrontare. La presenza dell’ansa a nastro con attacco inferiore a pistra che ricorda il plasticismo dell’età del bronzo e l’orlo rientrante di citola ornato da “denti di lupo” e “falsa cordicella”, di sapore arcaico, provenienti rispettivamente dai tagli più antichi (14o e 15o), puntualizzano forse il lungo periodo di occupazione del sito; un ulteriore studio delle forme vascolari e delle associazioni potrebbe essere realizzato soltanto tenendo conto di quanto ho sopra precisato (Tav. B, n. 6; Tav. 7, n. 4). Tra le forme sono frequenti olle, dolii e vasi con orlo svasato, non mancano recipienti con orlo rientrante; tra le anse vanno annoverate quelle a maniglia, a bastoncello verticale, a nastro concavo e quella citata a largo nastro con attacco inferiore che si espande un poco a piastra; tra le prese quelle semilunate o semplicemente ricurve; quelle impervie ad orecchietta sull’orlo, nonchè quelle a bugna. 9) A. Maffei, cit. 27 Tra i motivi prevalgono quelli genericamente metopali e tra quelli stampigliati, le bande a zig-zag e la punzonatura a croce raggiata; è presente la croce uncinata, nonché il motivo dei “denti di lupo” con il vertice rivolto in basso su orlo rientrante di ciotola. Il motivo della banda a zig-zag stampigliati (tav. 3, n.5,7; tav.6, n.3) si ritrova a Torre Valdaliga 10) ma anche a Tarquinia 11) e al Sorbo 12) ; quello delle punzonature a croca raggiata, a Torre Valdaliga 13) , ed è frequente a Bologna S. Vitale 14) (Tav. 4 n.3). L’uso di tagli profondi su vasellame grossolano lo ritroviamo alla Mattonara 15) , ove pure ritroviamo la presa semilunata 16) . (Tav. 3 n. 2; Tav. 4 n. 1; Tav. 4, n. 2). Il motivo del rettangolino di linee incise contornato da cuppelle riempito al centro da barrett oblique di linee MM a falsa cordicella viene richiamato alla Mattonara 17) , a Torre Valdaliga 18) ma anche al Sorbo 19) (Tav. 5, n.4). Una suggestiva novità è rappresentata dalla presenza, nei tagli 3-8-9-10-11-14 e 15 pezzi di gesso alabastrino che recano tracce di estrazione e che risultano chiaramente essere stati sottoposti a cottura e manipolazione. L’analisi chimica del gesso alabastrino reperibile in grande quantità nella zona ha dato la seguente composizione media: H2O di cristallizzazione 16, 52 parte scelta H2O 20, 49 SiO2 7, 16 SiO2 1, 32 Al 20 3 2, 01 Al 20 3 0, 14 Fe 20 3 1,07 Fe 20 3 0, 14 CaO 30, 58 CaO 32, 45 MgO 0, 97 MgO tracce SO 3 35, 63 SO 3 45, 59 Ca SO4.2H20 76, 52 10) Argilla 23,48 Argilla 2, 00 CaCO 3 23,48 Ca CO 3 2,00 A. Maffei, cit., fig. 15/9 e 18/4 (dal 7° taglio). H. Müller-Karpe, Beitrage zur Cronologie der Urnenfelderzeit, Taf. 28. 12) I. Pohl, The Iron Age Necropolis of Sorbo at Cerveteri, p. 303, n. 33. 13) A. Maffei, cit., fig. 16/16-17 (dal taglio 7). 14) H. Müller-Karpe, cit., Taf. 60/P; 72/368; 74/F. 15) F. Barbaranelli, B.P.I., 1956, p. 478. 16) Idem., B.P.I., 1956, p. 477 e 479: è pure presente a Torre Valdaliga, B.P.I., cit., p. 485. 17) F. Barbaranelli, B.P.I., 1956, p. 471. 18) A. Maffei, cit., fig. 15/4 (dal 7° taglio). 19) I. Pohl, cit., p. 302, n. 6. 11) 28 Trattasi dunque di un solfato di calcio biidrato che per cottura a 200o C perde l’acqua di cristallizzazione. Quale ne fosse l’uso presso le comunità villanoviane non è dato di sapere con certezza, personalmente ritengo che potesse essere utilizzato, ridotto in polvere anidra, come colorante, per tingere di bianco, utensili, stoffe, pelle, in pratiche rituali; possibile anche un uso medico per via esterna ma anche per la via interna. Resta il fatto, per la prima volta documentato, della raccolta e della manipolazione di un minerale non metallico. La scoperta è di grande interesse anche perché richiama alla memoria i misteriosi “tumuliartificiali” costituiti da tonnellate di frantumi e scaglie di gesso alabastrino concentrati a poca distanza dalla Frasca nelle località di Pantano e Sterpeto, tra i fossi delle Cave di Gesso e della Vite. Oggi questi tumuli artificiali che un tempo si elevavano dal piano di campagna talvolta di parecchi metri non emergono quasi più perché spianati o addirittura asportati a seguito di ripetuti lavori agricoli o dall’Italcementi che li ha utilizzati per la produzione del cemento bianco. La loro prima segnalazione si deve a Fernando Cordelli nell’anno 1924. Successivamente il Mengarelli praticò in alcuni di essi scavi al fine di comprenderne la natura e l’origine, pensando ad una assimilazione con i tumuli di Halstatt 20) . Le indagini risultarono assolutamente negative, come negativi furono i ripetuti sopralluoghi che vi feci tra il 1960 e il 1964, quando per lavori di bonifica fondiaria si procedette alla demolizione di alcuni di essi. L’evidenza è che si tratti di accumuli connessi con una intensa attività di cava dei banchi naturali presenti nella zona, in epoca che non possiamo determinare. I rinvenimenti de La Frasca inducono quanto meno a ipotizzare con questi banchi fossero noti, senza escludere che i tumuli possano essere il risultato di estrazioni più antiche e che alcune proprietà del solfato di calcio fossero conosciute e sfruttate in tempi assai più antichi. La presenza di gesso alabastrino è assai diffusa in altre regioni della penisola, tuttavia prende vigore l’ipotesi della diversificazione di un commercio, mediato dagli approdi protostorici, vivificato dalla esportazione delle più disparate varietà di risorse naturali offerte dalle singolari condizioni geo-minerarie del territorio, che potrebbe esaltare la concentrazione degli insediamenti in questa fascia costiera tra Tarquinia e Caere. A focalizzare il legame con il mare, come fonte di risorse alimentari sovviene il rinvenimento nel livello XI di un osso di seppia: se si esclude una raccolta occasionale, la utilizzazione per scopi alimentari di tale cefalopode presuppone una pratica della pesca 20) R. Mengarelli, N.S., serie VII, vol. II, fasc. 10-11-12, 1941. 29 ben sviluppata, non limitata alla raccolta dei molluschi che pure è testimoniata da valve di patelle. L’economia alimentare era integrata dalla caccia e dall’allevamento come è documentato dal rinvenimento di resti faunistici nei vari abitati noti. L’ubicazione costiera delle presenza villanoviane, correlata alla complementarietà dell’economia e all’interesse per le risorse naturali, delinea una vivacità culturale che non ha eguali per estensione geografica e densità abitativa. Tutto ciò bene si inquadra nella antichità della presenza sul mare dei “Tirreni” che la stradizione storica greca con fantastiche esagerazioni descrive come predoni feroci, a cominciare dagli Inni Omerici ove il dio Dionisio, rapito da questi “uomini predoni” li punisce trasformandoli in delfini. Eforo, citato da Strabone (Strabone VI, 410), Palefato (Epist. XX), Filocoro (5), Eustasio (Connrenti, 83-581), Diodoro di Sicilia (V, 204-9, 3), Plutarco (Aetia Greca, 21); Stefano di Bisanzio (Kyzikos), pongono in evidenza il dominio dei mari da parte dei “Tirreni”, esagerando l’attività predatoria e piratesca che pure deve aver rappresentato una componente della talassocrazia etrusca che la tradizione storica greca fa risalire ad epoca alquanto antica. Tutto lascia supporre che sin dai primi contatti tra colonizzatori greci e popolazioni dell’Etruria storica, cioè almeno dall’IX secolo, si debbono far risalire le origini di queste mitiche e leggendarie descrizioni, sebbene non si possano escludere origini più remote e qui vorrei appena ricordare i rapporti nell’età del bronzo recente e finale instaurati dai bronzisti-girovaghi e dai prospettori minari e che potrebbero non essersi mai del tutto interrotti in un avvicendarsi di incontri amichevoli e di sospettose attese. Un tipo di imbarcazione con la quale i “villanoviani” potevano esercitare il controllo delle vie marittime è possibile ricostruire verosimilmente da alcuni frammenti di un modellino fittile, inedito, giunto fortunosamente in possesso della A.A. Centumcellae, raccolto mi si è detto, nell’area della necropoli dell’Impiccato a Tarquinia. Si tratta di una imbarcazione con prora rostrata, poppa con accenno di ponte, alloggiamento al centro dello scafo per l’alberatura veliera e posti remieri, indicati con fori sulle fiancate. E’ un documento che attesta una ottima conoscenza della imbarcazione riprodotta; sulla base della ricostruzione estemporanea del modellino è presumibile dedurre che l’originale potesse avere una lunghezza di 15-20 metri con dieci-quindici posti remieri per fiancata. Imbarcazioni di tali dimensioni potevano arenare mediante la parte prodiera rostrata, ma per riparare dalle forti mareggiate dovevano trovare rifugio in insenature 30 incuneate nella linea costiera o in acque interne. Esaminando la carta delle linee batimetriche del litorale compreso tra la torre di S. Agostino e Capo Linaro notiamo che più siti potevano offrire queste favorevoli condizioni e che in corrispondenza di questi, come ho già ricordato, più rimarchevole è la testimonianza di impianti abitativi di epoca preetrusca. In questo ipotetico panorama assume interesse speculativo l’evidenza che la stratigrafia de La Frasca è la più consistente tra quelle note. A Torre Valdaliga purtroppo si è perduta l’opportunità di una edizione dei reperti suddivisi per ciascuna delle quattro aree abitative esplorate, nonostante che sia stato possibile evidenziare la loro successione cronologica. Il caotico immagazzinamento nel Museo Nazionale di Civitavecchia difficilmente permetterà una rivisitazione dei dati di scavo per una indagine statistica. Tuttavia in questo abitato lo spessore antropica supera di poco il metro nonostante che la successione citata attesti una occupazione del luogo assai vivace. In questo sito infine, nonostante che fosse possibile, non è stato elaborato un quadro esplicativo della intensità della occupazione per ciascuno degli strati elaborati e per ogni area abitativa individutata, cosicchè soltanto sulla falsariga del materiale pubblicato è possibile sostenere che lo strato più antico è quello che ha fornito un numero più elevato di frammenti e se è vero che questo con la capanna IV, dalla quale provengono pochi frammenti di stili “protovillanoviano” e villanoviano di impronta arcaica, è il più ricco di frammenti, la circostanza contrasterebbe con la densa sovrapposizione di aree abitate. Probabilmente l’area esplorata è marginale rispetto all’insediamento nel suo complesso. Viceversa per la La Frasca il livello più antico è singolarmente povero di reperti. Tutto ciò indica che sarebbe opportuno un riesame dei vecchi dati di scavo per poter comparare, ove possibile, tra loro, statisticamente i vari siti. Sarebbe infatti estremamente interessante comprendere la dinamica della formazione delle stratificazioni archeologici degli abitati dell’età del ferro della costa civitavecchiese, non solo ai fini di più precise definizioni cronologiche bensì anche per valutare la densità della occupazione e quindi la valenza topografico-ambientale. Nel caso dell’abitato de La Frasca, la potenza del riempimento, la pendenza degli strati, il livello dell’impianto primitivo, possono essere assunti a testimoni della relativa distanza dalla linea di costa: in questo caso l’incunearsi della linea batimetrica sull’asse dell’odierno modesto corso d’acqua offre lo spunto a considerare l’eventualità di un approdo incuneato ben oltre la linea costiera, verso l’interno, nel cuore dello stesso abitato. 31 Manca poi uno studio comparato degli abitati costieri per affrontare il problema della loro successione cronologica e della loro contemporaneità. Per il nostro modo di riflettere sui muti avanzi di questo lontano passato, siamo indotti a ritenere che in presenza di esigue stratificazioni ci si possa trovare di fronte ad occupazioni stagionali o temporanee o di breve durata, viceversa che in presenza di potenti riempimenti antropici, come a La Frasca, ci si debba trovare di fronte ad una occupazione o quanto meno ad un interesse per il sito, rinnovato e durevole. La Mattonara, la Frasca e Torre Valdaliga non smentiscono un quadro delle influenze di Tarquinia sul litorale a nord della odierna Civitavecchia, ma soltanto uno studio comparato al quale abbiamo fatto cenno e più fortunata ricerche potrebbero rafforzare questo ulteriore motivo di grande interesse. Si può aggiungere che secondo le nostre attuali conoscenze o richiami stilistici, significativi, tra Torre Valdaliga, La Mattonara e la Frasca, confortano un qualche legame tra questi stanziamenti, d’altronde geograficamente contigui, probabilmente pallida testimonianza di una valenza areale con peculiarità politico-economiche, verosimilmente al servizio del considerevole processo di urbanizzazione di Tarquinia ove si accumulavano le ricchezze mediate dagli approdi costieri nei quali soltanto sparuti frammenti di vasellame dipinto di argilla figulina 21) , ancora non accuratamente studiati, ne segnalano il transito. Sulla costa rocciosa del distretto Tolfetano, compresa tra la foce del Mignone e la foce di rio Fiume, il fatto che gli insediamenti “villanoviani”, rispetto a quelli dell’età del bronzo proliferano in numero sorprendente, consente di ipotizzare sia una politica di appropriazione territoriale fondata su una accresciuta attenzione al controllo della via di transito degli approvvigionamenti minerari, (sia che fossero di origine toscana, come sembra più probabile, sia che fossero tolfetani), ma autorizza anche a prendere in considerazione, tenendo presente quanto si è evidenziato nell’abitato de La Frasca, lo sfruttamento delle risorse naturali del distretto Tolfetano nel loro insieme. Un elemento nuovo, che ora mi accingo a rendere noto, è il rinvenimento da me effettuato, sulla battigia, nell’area di Castrum Novum, a contatto della stratigrafia dell’età del ferro delle Guardiole, di un grosso nucleo di magnetite. Anche in questo caso le analisi ben difficilmente potrebbero chiarire la provenienza del minerale, per i motivi che ho sopra esposto. Nel caso specifico poi la presenza delle strutture portuali del periodo etrusco ivi identificate 22) potrebbe spostare l’interesse di questa presenza ad epoca più tarda, cioè ad 21) A. Maffei, cit.; altri frammenti tuttora inediti, provengono dall’insediamento dell’età del ferro in località Acqua fresca, bucata a nord di Torre Valdaliga. 22) B. Frau, in Caere e il suo teritorio, cit. 32 un momento in cui Caere tramite l’avamposto de La Castellina prende il predominio di questo tratto di costa e del distretto meridionale del territorio tolfetano, come è dimostrato dagli innumerevoli richiami con Cere, offerti dai corredi e delle tecniche costruttive tombali di questa area 23) , per controllare le rotte commerciali con le risorse minerarie Ellene. Per la verità seppure possa sembrare irrilevante, la mole del campione citato, autorizza più una provenienza dal distretto toscano, piuttosto che da quello tolfetano: ma restiamo nel campo della supposizione. Saremmo autorizzati allora a proporre che l’attività estrattiva attestata a La Castellina dal rinvenimento di scorie 24) possa realmente essere messa in relazione a lavorazione ‘in loco’ di minerale giunto attraverso i vicini approdi costieri. Poichè questo campo di ricerche offre molti elementi di incertezza piuttosto che dati sicuramente affidabili, si può quanto meno sostenere che tutte le evidenze che abbiamo tentato di porre in luce, giocano a favore di una partecipazione attiva degli approdi costieri dell’età del ferro al controllo della via marittima di approvvigionamento minerario non solo verso l’entroterra etrusco ma anche verso il sud della penisola e le isole. Quanto sostiene Zifferero 25) che ripropone concetti da tempo enunciati 26) , arricchito dalla prospettiva dello sfruttamento delle sabbie ferrifere del litorale, va tenuto ben presente, sebbene sul ruolo svolto dall’abitato de La Castellina non deve essere dimenticata la posizione, certamente favorevole, per controllare la via naturale che immette nel cuore dell’area a solfuri misti, costituita dal Marangone. Per questo sito ciò che deve essere tenuto presente e che devo necessariamente ripetere, è quanto esplicitamente ho scritto relativamente al fatto che la testimonianza abitativa dell’età del bronzo recente e finale postula una occupazione strategica in quel periodo nel quale, non si può contestare, il bacino minerario della Tolfa, da qui facilmente e rapidamente raggiungibile, nonostante la sua non rilevante potenza, abbia potuto svolgere un ruolo assai importante nella catalizzazione dei prospettori-minerari-bronzistigirovaghi 27) e che sulla scia di questa via di penetrazione tanto antica, si siano cimentati, magari con scarso successo, gli interessi commerciali dell’età del ferro dapprima, e del periodo etrusco arcaico successivamente. 23) O. Toti, Il popolamento e l’utilizzazione del suolo tra il VII e il IV secolo a.C., in Caere e il suo territorio, Ed. Poligrafico dello Stato, 1990. 24) O. Toti, N.S., s. VIII, vol. XXI, 1967. 25) A. Zifferero, in Caere e il suo territorio, cit.; e più di recente in S.E., vol. LVII, s. II, 1991. 26) Per la completa bibliografia sull’argomento da me trattato vedi: O. Toti, La civiltà protovillanoviana, cit. 27) O. Toti, La Civiltà Protovillanoviana, cit.; idem, Protovillanoviani e Villanoviani: le radici di una realtà composita, in Caere e il suo territorio, cit. (purtroppo edito con errori di stampa e privo di una pagina conclusiva). 33 In questo modo a me sembra che il polo costiero de La Castellina, in periodo etrusco, abbia svolto un ruolo di collegamento notevole, affatto marginale, punta avanzata degli interessi di Caere sul territorio, indipendentemente dalla rilevanza del successo economico della iniziativa politica: la Castellina si pone come punta settentrionale più avanzata nell’approvvigionamento minerario e nel controllo del traffico costiero, sia marittimo, sia terrestre (punteggiato dalle necropoli e dai siti abitati di Castelsecco, Piana di S. Lorenzo, Pian Sultano, Monte Tosto) al servizio di Caere. Per concludere, accettando come attendibile l’ipotesi che la scarsità delle testimonianze dell’età del ferro tra i Monti della Tolfa sia imputabile ad una reale perdita di interesse per le risorse minerarie locali a cagione della loro esiguità a fronte delle imponenti richieste sollecitate dalla evoluzione socio-economica 28) alle prese con la coagulazione degli interessi comunitari distribuiti tra centri protourbani di dimensioni scalari cointeressati gerarchicamente allo sfruttamento delle risorse e al controllo delle vie e delle rotte commerciali e non piuttosto ad una, per la verità poco probabile, per quanto possibile, carenza di documentazione, la attestata “evoluzione persistente” che ho ipotizzata in un mio precedente contributo 29) e le più volte ricordate testimonianze archeologiche fornite dai frammenti tardo protovillanoviani di Monte Rovello, dalla fibula ad arco ingrossato di tipo villanoviano della Tolfaccia, dalle tombe ad inumazione di Poggio Ombricolo, dalla sepoltura ad incinerazione di Fontana del Papa ed ora dalle sepolture dell’VIII secolo rinvenute alla base della Tolfaccia in vocabolo La Fontanaccia, non colmano il contrasto con la proliferazione degli stanziamenti villanoviani della costa. Se questo quadro è realmente lo specchio della situazione ambientale di quel lontano periodo, si fa prepotente l’interrogativo del perché si sia verificato un incremento tanto ragguardevole dell’attrazione per questa fascia costiera. Che si sia trattato di un interessamento dettato dalle condizioni assai favorevoli della costa alle esigenze di una organizzazione di scambi pare dimostrato dalla ubicazione stessa degli stanziamenti che attestano una vita assai intensa nel tempo e nello spazio. Il fatto stesso che l’avvicendarsi delle comunità a partire dal bronzo medio, si concluda con un punto di arrivo che vede quelle dell’età del ferro villanoviano consolidate, quasi senza soluzione di continuità su tutta la fascia costiera, con abitati che per estensione superano di gran lunga i precedenti, richiama l’attenzione sulla particolare attrazione esercitata dalle potenzialità economiche offerte dal mare quale rapida via di interscambi, sia quale fonte diretta di risorse economiche. 28) O. Toti, La civiltà, cit. 34 Se riflettiamo sulla circostanza che questo tratto di costa offriva numerosi, facili e sicuri approdi sulla linea di cabotaggio tra le colonie greche dell’Italia meridionale e le fonti minerarie dell’Elba, che a sua volta costituiva la più facile testa di ponte con la Sardegna e la Corsica, allora dobbiamo insistere sulla portata economica e sul peso politico di questi insediamenti costieri nell’età del ferro di cui ci stiamo interessando, riconsiderando la loro esistenza anche in funzione di un preciso disegno politico e non soltanto frutto di una casuale evoluzione da modelli preesistenti. Possiamo allora supporre che la scelta dei siti sia non altro che la naturale fermentazione, anche in senso demografico, delle precedenti occupazioni, che pure, per la verità va detto, attestano l’apertura a correnti culturali assai vivaci, o che piuttosto la nuova realtà sia la concreta manifestazione dello stabilizzarsi del flusso e riflusso del sommovimento culturale che assume contorni decisamente “previllanoviani” nell’età del bronzo finale e di cui la riferita antichità della talassocrazia tirrenica ne è la testimonianza letteraria, e il cui riflesso archeologico è fornito dall’evoluzione della società che vede un progressivo frazionamento della detenzione del potere economico avvertibile nella differenziazione dei corredi tombali delle grandi comunità villanoviane in fase di coagulazione urbanistica ed una organizzazione politica delle stesse 30) che si avverte nella gestione territoriale, in progressiva evoluzione, in tutto l’arco temporale della diffusione dei campi d’urne 31) . Se l’impianto degli stanziamenti marittimi è la risposta di un preciso nesso di causalità tra la talassocrazia tirrenica, le vie di penetrazione commerciale verso le fonti di approvvigionamento dei minerali metalliferi della Toscana, della Sardegna e della Spagna, il ruolo svolto da questi insediamenti nello sfruttamento delle risorse minerarie del nostro territorio sarebbe stato del tutto marginale o quanto meno secondario nell’età del ferro. Per la verità è proprio l’ipotesi di una “evoluzione persistente” nei termini da me proposti 32) che rifiutando l’antistorico quadro di un totale, improvviso e completo abbandono degli stanziamenti protovillanoviani dei Monti della Tolfa, con l’invenzione di una distruzione violenta, come pateticamente ancora taluni fautori dell’ipotesi formulata dal Peroni 33) vorrebbero considerare verità rilevata, conferma paradossalmente il 29) O. Toti, Protovillanoviani e villanoviani, in Caere e il suo territorio, cit. AA.VV., Scavi nella necropoli villanoviana in località “Quattro Fontanili”, in N.S. serie VIII, vol. XVII, 1963, XIX, 1965, XXI, 1967. 31) F. di Gennaro, Organizzazione del territorio nell’Etruria meridionale protostorica: applicazione di un modello grafico, in Dial. Arch., 1982; idem., Forme di insediamento tra Tevere e Fiora dal bronzo finale al principio dell’età del ferro, Bibl. St. Etr., 1986: idem; Il popolamento dell’Etruria meridionale e le caratteristiche degli insediamenti tra l’età del bronzo e l’età del ferro, in Etruria Meridionale-Conoscenza, Conservazione, Fruizione, Ed. Quasar, 1988. 32) O. Toti, cit. 33) Per la verità molte rettifiche va subendo questa vecchia ipotesi da quando resi noti i dati di scavo nell’abitato di Monte Rovello (M. Rovello, Testimonianze dei miceni nel Lazio, Ed. Ateneo, Roma, 1973). Si veda per tutti: F. di 30) 35 mutamento della politica territoriale e il richiamo offerto dalle rinnovate esigenze economiche e commerciali. In altri termini, assume plausibilità l’abbandono del territorio dei Monti della Tolfa nell’età del ferro villanoviana a vantaggio delle realtà costiere, considerandolo frutto di un “calcolo” razionale, attuato con progressività nel tempo e nello spazio, rifiutando l’abbandono assoluto e desertificante come un esodo dalle dimensioni bibliche che d’altronde è posto in dubbio dalle testimonianze più volte ricordate; se così non fosse non risulterebbero razionalmente concepibili le pur sparute testimonianze villanoviane nel cuore del bacino minerario nel suo complesso, cioè nell’area alunitica e in quella a solfuri misti (che pure non è priva di ossidi e sesquiossidi di ferro-ematite e magnetite), tantomeno l’abbandono improvviso, a meno che non ammettessimo un repentino sopraggiungere del fenomeno villanoviano inteso in termini di travolgente ondata demografica e culturale, il che francamente riaprirebbe ben altro discorso sull’origine stessa del villanoviano, quando viceversa a me sembra che l’ipotesi delle “aree di primaria evoluzione” 34) possa ben adattarsi ad una trasformazione culturale e a mutamenti del paesaggio umano non traumatici ma storicamente, archeologicamente, economicamente e socialmente accettabili in armonia con l’ipotesi che il villanoviano sia da correlarsi con un progressivo incremento demografico determinato dal successo che arride alla diffusione delle nuove tecniche introdotte per l’approvvigionamento dei mezzi di sostentamento in campo agricolo e dalle migliori condizioni di vita legate alla diffusione della pianificazione abitativa sicuramente foriera di migliori condizioni igienico-sanitarie, con il che si conclude quella simbiosi di avvenimenti che prepara e accompagna la diffusione della cremazione, determinando profonde trasformazioni culturali e non facilmente valutabili mutazioni etniche, quali l’esplosione del vulcano di Thira, le invasioni dei popoli del Nord e dei popoli del Mare, il crollo dell’assetto politico delle regioni egeo-anatoliche e orientali. Dai dati archeologici è impossibile stabilire con certezza quanta parte della ampiezza del fenomeno villanoviano sia imputabile alla evoluzione provillanoviana, quanta all’invocato sinecismo e quanta al concreto sopraggiungere di nuove correnti etniche e fermenti culturali con queste legati. Questa non è la sede per dibattere l’annoso e per molti aspetti controverso problema che poi in definitiva si ricollega all’origine stessa della nazionalità etrusca. Qui era sufficientemente necessario ribadire il ruolo svolto dagli stanziamenti villanoviani del territorio tolfetano nella prospettiva di fare luce sulle effettive Gennaro, Il popolamento dell’Etruria meridionale e le caratteristiche degli insediamenti tra l’età del bronzo e l’età del ferro, in Etruria meridionale, Conoscenza, Conservazione, Fruizione, Atti del Convegno, Viterbo, 1985; pag. 77, note, 25 e 26, che rende giustizia a quanto da anni andavo sostenendo. 36 potenzialità economiche del territorio e sulle implicazioni politiche insite nel suo controllo nel periodo dei campi d’urne. Lungi dall’avere dato una risposta esauriente certo è che per tutto l’arco di questo periodo sono degne di considerazione le testimonianze di influenze culturali e di rapporti economici concretizzati anche dalla presenza di oggetti di chiara importazione e di imitazione, basti accennare ai ripostigli di Coste del Marano, di Tolfa e di Monte Rovello, al frammento submiceneo di Monte Rovello, al ripostiglio di S. Marinella, al frammento dipinto dell’Elceto, per i quali si rimanda ai molti specifici lavori noti, oltrechè alle tematiche ornamentali di chiara ispirazione geometrica 35) , alle importazioni nuragiche e alla ceramica di argilla figulina precoloniale, di cui Tarquinia e Veio offrono la serie geograficamente più vicina alla fascia costiera del territorio tolfetano. Alfine una particolarità accomuna inevitabilmente gli abitanti villanoviani costieri: il loro eclissarsi segna il trionfo dell’inurbamento del territorio. Ci si allontana dai lidi scegliendo posizioni favorevoli alla novella pianificazione abitativa, al controllo delle vie commerciali e meglio difendibili, con un processo di concentrazione in siti già occupati (La Castellina), o in aree poco distanti già oggetto di attenzione nei secoli precedenti (la Scaglia (Algae?); la Ficoncella (Aquae Tauri?); Punton del Castrato (Punicum?). ODOARDO TOTI CONTRIBUTO ALLA CONOSCENZA DELLE FIBULE DEL BRONZO FINALE RINVENUTE IN ETRURIA MERIDIONALE Sulla base di un lavoro di raccolta dei dati e di analisi tipologica e distributiva, è stato recentemente possibile apportare un ulteriore contributo al quadro delle conoscenze relative alle fibule della facies medio-tirrenica durante l’età del Bronzo finale (XII-X sec. a.C.). In questa sede si presentano alcune considerazioni, che si riferiscono in particolare al territorio dell’Etruria meridionale 1) , ed integrano un altro ampio lavoro di analisi presentato da R. Peroni ed altri nel 1979 2) . 34) O. TOTI, Protovillanoviani e villanoviani, cit. F. Biancofiore- O. Toti, Monte Rovello, cit.; R. Peroni, Inventaria Archeologica; Ripostigli dell’età dei metalli, fasc. I.; V. Bianca Peroni, Le spade dell’Italia continentale, in P.B.F., vol. IV, I. 1970.; S. Bastianelli, Santa MarinellaRipostiglio di bronzi arcaici, in N.S., vol. X, serie VI, fasc. 10-12. 35) 1) Il presente articolo costituisce la sintesi di alcune conclusioni della tesi di laurea dello scrivente (Le fibule dell’età del Bronzo finale nel territorio dell’attuale Regione Lazio) discussa nel dicembre 1992 presso la cattedra di Protostoria 37 E’ utile ricordare come allora, confrontando le aree di distribuzione dei diversi tipi metallici (i quali per alcune peculiari caratteristiche di standardizzazione son più facilmente confrontabili tra loro che non la ceramica), fu possibile osservare come talvolta tali aree si sovrapponessero, determinando unità territoriali caratterizzate sia da tipi propri ed esclusivi, che da particolari combinazioni di tipi. Tali unità territoriali furono denominate facies; ulteriori unità di distribuzione più limitata furono denominate gruppi. La facies medio-tirrenica si articola in cinque gruppi: Tolfa-Allumiere nella Tuscia e in parte nella Toscana marittima; Terni in Umbria meridionale lungo la valle del fiume Nera; Roma-Colli Albani nel Latium Vetus; Fucino in Abruzzo occidentale; Volturno nella Campania settentrionale. E’ da osservare che oggi, rispetto al lavoro pubblicato in AMP, sono disponibili diverse nuove attestazioni che non sono state considerate in esso, ovvero sono venute alla luce successivamente alla sua edizione. Inoltre, la nuova sistemazione tipologica dei materiali elaborata dallo scrivente essendo più dettagliata (o, per così dire, “a maglie strette”) ha permesso di scomporre fogge e tipi già definiti in AMP in numerosi tipi e varietà grazie alla documentazione grafica e all’esame diretto di quasi tutti gli esemplari. Tale analisi tipologica ha reso possibile la definizione di questi tipi e varietà, contraddistinti da un ristretto campo di variabilità che molto spesso rivestono un ben preciso significato ai fini dello studio delle cerchie produttive, dato che un gran numero di essi ribulta distribuito entro ambiti territoriali ben delimitati. Il presente contributo vuole perciò focalizzare alcune conclusioni (da non considerare in questa sede esaustive dell’intero argomento), che riguardano strettamente infatti ben dieci tra unica, tipi e varietà di fibule proprie ed esclusive, che verranno sinteticamente illustrate. Iniziamo con le fibule ad arco di vilino foliato di grandi dimensioni con staffa semicircolare. Principali caratteristiche di queste fibule tutte rinvenute nel ripostiglio di Coste del Marano (Tolfa) - sono le splendide decorazioni a sbalzo dell’espansione foliata e le dimensioni, che oscillano da 23,8 a 27,9 cm. di lunghezza. Sia le une che le altre sono, naturalmente, proporzionate al rango sociale della persona che avrebbe dovuto esibirle. Un Europea dell’Università di Roma “La Sapienza” (relatore Prof. R. Peroni, correlatore Dr. M. Pacciarelli). La tassonomia dei materiali si è avvalsa di riproduzioni grafiche eseguite dall’autore direttamente sull’originale, tranne nei casi in cui l’esemplare non era più reperibile o non disponibile nei Musei (per i quali il disegno è stato ricavato dalla bibliografia). L’argomento oggetto del presente contributo implica un apparato bibliografico assai vasto ed articolato che si è preferito ridurre al minimo per non appesantire il testo. 2) Peroni R. - Carancini G.L. - Bergonzi G. - Lo Schiavo F. - Von Eles Masi P.: per una definizione critica di facies locali: nuovi strumenti metodologici, in Archeologia: Materiali e Problemi 1, Il Bronzo finale in Italia, Atti del Centro Studi di Protostoria (Roma 1978) Bari 1979, pag. 9 e ss. In seguito, nel testo, verrà abbreviato AMP. 38 particolare di rilievo è il fatto che esse non offronto confronti aderenti almeno per quanto riguarda le dimensioni; al contrario le decorazioni (le protomi di uccello, la “barca solare”) presentano stretti paralleli anche con classi diverse dalle fibule. Il tipo rimane esclusivo del ripostiglio di Coste del Marano, datato unanimemente all’XI secolo a.C. Le fibule del tipo ad arco di violino foliato di medie dimensioni due esemplari provenienti dal sepolcreto di Allumiere - sono confrontabili con quelle appartenenti al tipo precedente, al quale si avvicinano per le grosse borchie che ornano l’espansione foliata. La variante del tipo è caratterizzata da cappi a otto dal lato della molla ed è confrontabile con due esemplari, cronologicamente più antichi (fase Hallstatt Al, XII sec. a.C.) rispetto al nostro tipo, il quale si può ascrivere per le relazioni con le fibule del ripostiglio di Coste del Marano, all’XI sec. a.C. Specifico del ripostiglio tolfetano è l’unicum con arco foliato a scudetti alternati a cappi a otto. A questa fibula (considerata esclusiva del gruppo di Tolfa-Allumiere anche in AMP), si avvicina l’esemplare rinvenuto in una località imprecisata del Fucino, che differisce dalla nostra sia per la particolarità di avere al posto dei cappi tre noduli, che per un diverso gusto decorativo degli scudetti. Sempre in base alla cronologia del ripostiglio di Coste del Marano, l’esemplare si può datare all’XI sec. a.C. Tra le fibule ad arco semplice troviamo innanzitutto l’unicum con arco ingrossato e doppia piegatura con staffa a spirale, rinvenuto in una tomba del sepolcreto di Allumiere. La fibula nel suo insieme non trova confronti puntuali; viceversa i singoli elementi hanno qualche riscontro con esemplari di altre fogge. In primo luogo la staffa di filo avvolta a spirale, caratteristica di alcuni tipi di fibule serpeggianti. Anche l’ingrossamento dell’arco è paragonabile con fibule ad arco ingrossato a doppia piegatura appartenenti ad un tipo che possiede una diffusione più vasta. Il contesto di rinvenimento, cioè una sepolture che oltre alla fibula descritta conserva materiali ceramici decorati con un gusto particolarmente elaborato, fa pensare ad una fase cronologica particolarmente avanzata nell’ambito del Bronzo finale (fine X sec. a.C.) Tra le fibule ad arco semplice con doppia piegatura e noduli, l’unico tipo esclusivo del gruppo a nord del Tevere è quello caratterizzato da noduli non rilevati, ma sottolineati in negativo con due o tre profonde scanalature. La decorazione dell’arco è completata con incisioni a spina di pesce e linee anulari. Gli esemplari di questo tipo provengono tutti (tranne uno da una località sconosciuta dei Monti della Tolfa e dunque da un contesto ignoto) da contesti funerari, rinvenuti a Coste del Marano, Sasso di Furbara (Cerveteri), Valle del Campaccio (Allumiere), Montarano Sud (Civitacastellana). 39 Il tipo è distinto in due varietà che, nell’ambito del gruppo Tolfa-Allumiere, rappresentano molto bene due produzioni, una delle quali precisamente localizzabile; infatti la varietà A (Coste del Marano e località sconosciuta dei Monti della Tolfa) è contraddistinta da piccole ma profonde incisioni a zig-zag trasversale presso i noduli (non possedute dalla varietà B), che potrebbero costituire un probabile “marchio di fabbrica”. Cronologicamente il tipo è da porsi in un momento avanzato dell’XI sec. a.C. Un arco molto sottile con una sola piegatura alla sommità dell’arco ed una decorazione a fasci di linee incise alle estremità di quest’ultimo, contraddistinguono un unicum rinvenuto sporadicamente nel sepolcreto di Allumiere. Poiché non esistono fibule con una sola piegatura alla sommità, non si può escludere che l’arco si sia in realtà deformato. Sempre dalla necropoli di Allumiere proviene (questa volta all’interno di una tomba) l’unicum con arco di filo piegato in modo da formare una serie continua di occhielli, all’interno dei quali è inserito un pendaglietto a doppia spirale; la staffa è semplice. Il nostro esemplare appartiene cronologicamente ad un momento avanzato nell’ambito dello sviluppo dei gruppi “protovillanoviani” ma è stato anche rinvenuto in tombe oramai “villanoviane”, come ad esempio a Falerii e a Bologna. Ad un tipo costituito da molte varietà, alla varietà di piccole dimensioni appartengono due esemplari di fibule (entrambi dai tumuli di Crostoletto di Lamone) di un tipo costituito da molti esemplari, e caratterizzato da un arco semplice con una piegatura attenuata alla sommità, gomito sopra la staffa, due gruppi di noduli costolati ai lati dell’arco e decorazione incisa a spina di pesce e linee anulari. Gli esemplari del tipo (siano essi di grandi, medie o piccole dimensioni) mostrano comunque una forte uniformità tipologica, e sono cronologicamente ascrivibili, soprattutto sulla base di numerosi esemplari di grandi dimensioni provenienti dal ripostiglio di Coste del Marano, all’XI secolo a.C. L’ultimo tipo da considerare, è quello rappresentato dalle fibule caratterizzate da grandi e medie (varietà A), e piccole dimensione (varietà B), arco con due piegature e decorazione incisa a zone a spina di pesce e fasci di linee anulari. Soltanto le fibule appartenenti alla varietà A sono proprie ed esclusive del gruppo Tolfa-Allumiere. La loro provenienza è esclusivamente sepolcrale: Sorbo (Cerveteri), Allumiere, Sasso di Furbara (Cerveteri), Montorgano (Cerveteri), Monte Tosto (Cerveteri). Il tipo comunque è alquanto omogeneo e cronologicamente si pone nella fase terminale del Bronzo finale (X sec. a.C.). SAVINO SBARRA 40 LA NECROPOLI ORIENTALIZZANTE E TARDO-ARCAICA DI VILLA BRUSCHIFALGARI A TARQUINIA Preliminarmente è da precisare che la presente relazione nasce dai diversi contributi degli autori. Ludovico Magrini, infatti, individuò l’area archeologica e ne diresse lo scavo; Mirella Milla curò il restauro dei corredi, mentre allo scrivente fu affidato il commento dei reperti e la pubblicazione dei risultati. 41 Questo lavoro era già pronto nell’autunno del 1985 ma, vari ostacoli ne impedirono la stampa. Ora, per evitare ulteriori ritardi, si è preferito mantenere la bibliografia aggiornata fino alla data indicata. Intanto, come è noto, purtroppo, Ludovico è deceduto improvvisamente a Roma l’8 novembre 1991. Egli fu l’infaticabile animatore dei Gruppi Archeologici Italiani, sempre sostenuto da un convincimento di fondo al quale si è ispirato costantemente nella sua poliedrica opera di organizzatore, studioso, pubblicista, conferenziere: che la coscienza civica di un cittadino moderno debba essere fondata sulla consapevolezza delle ‘proprie radici storiche e culturali’ e che soltanto da questa rinnovata convinzione etica e spirituale possa derivare un nuovo senso del Dovere, finalmente capace di superare i meschini egoismi individuali. Pertanto, fedele a questo assunto, fu tenace ricercatore delle varie testimonianze del passato della ‘sua’ Tarquinia, fiducioso che la stessa impostazione potesse essere applicata all’intero patrimonio archeologico - artistico - culturale della Nazione. Contemporaneamente, fu instancabile suscitatore di energie, entusiasmi, consensi nelle più giovani generazioni e nell’opinione pubblica in generale. La partecipazione a questo lavoro, sebbene un segno, è comunque una ulteriore inequivocabile testimonianza del Suo versatile ingegno. Infine, mentre faccio presente che i disegni delle planimetrie delle tombe sono dell’amico Ettore De Giovanni, rivolgo un sentito e vivo ringraziamento a Bruno Blasi, Presidente della S.T.A.S., che mi ha premurosamente invitato a pubblicare questa relazione su una necropoli tarquiniese nel Bollettino della benemerita Associazione, indiciato perciò come la sede più naturale e più appropriata. C.V.P. Chi percorrendo l’Aurelia, proviene da Roma, incontra Villa Bruschi-Falgari immediatamente sulla destra, poco dopo il bivio per arrivare a Tarquinia. E’ ubicata in una ampia rientranza del declivio sud-occidentale dei Monterozzi 1) , dove è localizzabile una delle più antiche sorgenti della Corneto medioevale: la Fonte dei Giardini o dell’Isaro 2) . In questa località fresca ed amena, i Conti Bruschi - Falgari vollero erigere una costruzione in stile classicheggiante che si aggiungeva ad un precedente edificio rustico ed alla Cappella gentilizia. 1) 2) I.G.E., f. 142 I.S.O.: 32TQM281805. Cfr.: POLIDORI 1977 p. 81; MAGRINI 1965 p. 11 sg.; GUERRI 1980 p. 27. 42 Più che una residenza, si tratta di un complesso suburbano, sprovvisto di attrezzature per il pernottamento, da utilizzare nei momenti lasciati liberi dai negotia cittadini. Il parco, ricco di essenze arboree, è ingentilito da resti di capitelli medioevali, plinti e porzioni di colonne, tratti probabilmente dalla demolita Chiesa di S. Giovanni dell’Isaro 3) , nella quale, a sua volta, già in precedenza erano stati riutilizzati materiali romani 4) . Numerose sono anche le casse di sarcofagi in nenfro, alcune delle quali provviste di coperchi con personaggi recumbenti, provenienti dai frequenti scavi archeologici intrapresi dalla Famiglia Bruschi, soprattutto nel secolo scorso, nelle sue ampie proprietà 5) e nell’area dei Monterozzi 6) . Sui poggi che a Nord e a Sud delimitano lo spazio pianeggiante della Villa, il Gruppo Archeologico Romano, nella primavera del 1969, accertava l’esistenza, anche in quest’area contigua al Tumulo Luzi ed alla Tomba del Maestro delle Olimpiadi, di una necropoli orientalizzante e tardo - arcaica, rivelata da alcuni saggi clandestini. Lo scavo di recupero, compiuto in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale 7) , permette di identificare un complesso di sette tombe, scavate nel banco di arenaria, appartenenti ai seguenti tipi: 4 a fossa, 1 a falsa camera del tipo “a fenditura”, 2 a camera. Di queste la prima è stata scoperta isolata, sul poggio settentrionale; tutte le altre sono raggruppate sulle pendici del poggio meridionale, in un’area approssimativamente romboidale, di circa m. 20 di lato, orientata Nord-Sud. Le tombe sono state indicate con una numerazione cardinale progressiva che riflette l’ordine di rinvenimento; ma in questa sede vengono illustrate secondo un ordine cronologico, desunto dalla datazione dei corredi rinvenuti, a cominciare, ovviamente, dalla più antica. Morfologia delle tombe 3) Cfr.: POLIDORI 1977 p. 128; CORTESELLI-PARDI 1976 p. 96; CORTESELLI-PARDI 1983 p. 50; TIZIANI 1984 P. 13. 4) Nei pressi sono stati localizzati i resti di una villa romana di età tardo-repubblicana, cfr.: NOVELLONE 1970 p. 9; BRUNETTI NARDI 1972 p. 78. 5) In questa parte del territorio tarquiniese la Proprietà Bruschi-Falgari si estendeva dalla Villa omonima fino a Porta Clementina e al Calvario, cfr.: HELBIG 1881, p. 47; PASQUI 1885 p. 522; PALLOTTINO 1937 col. 53 nota 2; MORETTI 1959 p. 112. 6) Sugli scavi ad occidente dell’attuale Cimitero, cfr: HELBIG 1869 pp. 193-201; sugli scavi a settentrione nel Cimitero, cfr.: HELBIG 1880, p. 43; sugli scavi a oriente del Cimitero, cfr.: HELBIG 1869, p. 193-201; sugli scavi a settentrione nel Cimitero; cfr.: HELBIG 1880, p. 43; sugli scavi a oriente del Cimitero, cfr.: HELBIG 1869, p. 257; ID. 1870 p. 57; ID. 1874, pp. 236-240; ID. 188. 7) Cfr. MITCHELL 1970 pp. 7-9; CATALDI-MELIS 1971 p. 22 n. 10; BRUNETTI-NARDI 1972 p. 78. Si coglie l’occasione per ringraziare il precedente Soprintendente all’Etruria Meridionale Prof. M. Moretti per l’invito alla cooperazione rivolto all’Associazione e l’Assistente, Sig. A. Coletta che ha seguito le varie fasi del recupero. 43 I) Tomba n. 3 Trattasi di una tomba a fossa, lunga circa m. 1,10, larga m. 0,52, profonda m. 0,70. Interamente presenta, a m. 0,45 di profondità, una risega rettangolare larga mediamente m. 0,15, delimitante un incasso rettangolare lungo m. 0,75, largo m. 0,22, alto m. 0,26, provvisto di un poggiatesta rettangolare, rilevato lungo m. 0,20. Chiusa da una lastra di nenfro rettangolare, con dimensioni di poco inferiori a quelle della fossa, spessa m. 0,18, è orientata ad Ovest. II) Tomba n. 4 E’ una piccola tomba a falsa camera, preceduta da dromos rettangolare, complessivamente lunga circa m. 4, larga m. 2,05 e profonda m. 1,20. Il dromos si articola in una parte gradinata, costituita da tre scalini di varia dimensione per alzata e pedata ed in una parte di pianta rettangolare avente funzione di vestibolo, antistante all’ingresso della camera funeraria. Quest’ultima, di pianta quadrangolare, lunga circa m.1,55, larga m. 1,60 ed alta m. 1,15, presenta le pareti laterali aggettanti all’interno, in maniera da costituire una sezione semi-ogivale. La fenditura rettangolare è, in proporzione, molto larga, misurando circa m. 0,76. Una bassa banchina lunga m. 1,30 larga m. 0,70 ed alta m. 0,25 si stende lungo la parete laterale sinistra, con uno dei lati corti addossati sulla parete di fondo. L’ingresso, ampio m. 0,41, con gli stipiti larghi m. 0,35, leggermente inclinati verso l’interno, era chiuso da un rozzo lastrone non sbozzato. L’orientamento è ad Ovest. In fase di sterro sono stati ritrovati eventuali filari di blocchi che potessero completare o restringere l’aggetto delle pareti, laterali e neppure tracce di piani di imposta. Si è rinvenuto soltanto un unico blocco rettangolare, lungo m. 0,84 e largo m. 0,70, all’interno della piccola camera funeraria che quindi doveva far parte della copertura. La tomba è catalogabile fra quelle del tipo “a fenditura”. III) Tomba n. 6 Trattasi di una tomba a fossa, lunga circa m. 1, larga m. 0,50, delimitata internamente da una risega rettangolare che racchiude un incasso rettangolare lungo m. 0,65 e largo m. 0,35. E’ orientata a Nord-Est. IV) Tomba n. 7 Trattasi di una tomba a fossa, lunga circa m. 2,30, larga m.1,30, delimitata internamente da una risega disposta soltanto su i due lati lunghi e su un lato corto e racchiudente un incasso rettangolare lungo circa m. 2 e largo m. 0,60. E’ orientata ad Ovest. 44 V) Tomba n. 2 Trattasi di una tomba a fossa, lunga circa m. 1,10, larga m. 0,55, delimitata internamente da una risega rettangolare irregolare. Sul lato meridionale, infatti, si nota una rientranza angolare con un lato obliquo e nell’angolo sud-occidentale una ulteriore rientranza semi-circolare, dai contorni molto accidentati. L’incasso risultante, che ne riflette l’anomalia, è lungo m. 0,72, largo m. 0,35. L’orientamento è a Nord-Est. VI) Tomba n. 1 E’ una tomba a camera, preceduta da dromos allungato, complessivamente lunga m. 12, larga m. 3,30 e profonda altrettanto. Il dromos di pianta rettangolare molto allungata, deviante decisamente verso est, è costituito da una parte gradinata, composta da sei scalini, abbastanza ampi in pedata e bassi per alzata. L’area avente funzione di vestibolo è di pianta sostanzialmente quadrangolare. La camera funeraria, di pianta rettangolare, lunga circa m. 4,50 con pareti verticali, è stata rinvenuta priva del soffitto già crollato in precedenza. Internamente si notano una banchina laterale, più piccola (m. 2,00x0,80) collocata sulla parete lunga di sinistra ed una banchina più grande, addossata sulla parete di fondo (m. 3,30x1,10) con il piano di deposizione che si addentra nella parete laterale destra di m. 0,60. Si determina così una rientranza rettangolare che porta la larghezza complessiva della camera funeraria appunto a m. 3,30. L’ingresso rettangolare, ampio m. 0,80 con gli stipiti larghi m. 0, 90 presentava ancora in situ quattro blocchi irregolari posti a sigillo. E’ orientata a Sud-Est. Lo stato di conservazione è pessimo: infatti le pareti laterali si sono conservate soltanto fino all’altezza delle banchine; il dromos mostra un’ampia fenditura che l’attraversa per quasi tutta la sua lunghezza, mentre le sue pareti sono compromesse da lesioni e da vuoti conseguenti al distacco di consistenti frammenti di arenaria. VII) Tomba n. 5 E’ una tomba a camera, preceduta da un corridoio di accesso rettangolare, lunga complessivamente circa m. 5,70 e larga m. 2,60. Il dromos si articola in una gradinata ripida formata da cinque scalini con una alzata piuttosto accentuata ed in un’area con funzione di vestibolo di pianta rettangolare, più larga che profonda. La camera funeraria di pianta rettangolare lunga m.3,00, larga m. 2,60, con pareti verticali, è stata rinvenuta priva del soffitto, crollato in precedenza. Lungo le pareti laterali lunghe sono addossate due banchine rettangolari con uno dei lati corti poggianti sulla parete di fondo, che misurano 45 rispettivamente: quella di sinistra m. 2,15x0,60 e quella di destra m. 2,15 x 0,65. L’ingresso rettangolare largo mediamente 0,70 m. presenta gli stipiti con una leggera strombatura verso l’esterno. E’ orientata a Sud-Ovest. CATALOGO DEI CORREDI dalla tomba a fossa n.3 Ceramica Italo-geometrica I. Oinochoe H. 19,6; Ø bocca 6,8; Ø max. 12,8; Ø base 5,1. Ricomposta da frammenti con integrazioni in gesso. Argilla depurata a superficie nocciola chiara con vaste scheggiature. Bocca trilobata; collo cilindroide; corpo ovoidale con spalla poco arrotondata; base distinta a disco incavato; ansa a doppio bastoncello impostata verticalmente. Decorazione dipinta in bruno - rossastro ed in bruno-marrone: labbro interamente verniciato; sul collo sei linee orizzontali distanziate; sulla spalla zone metopali campite da trattini ondulati, delimitate da gruppi di linee verticali e al di sotto tre linee orizzontali; sul resto del corpo due larghe fasce comprendenti tre linee orizzontali distanziate; sull’ansa tre fasce orizzontali mediane, distanziate, intersecate da tre linee verticali. 2) Kotyle H. 8,2; Ø bocca 10,3; Ø max. 13,6; Ø base 3,9. Ricomposta da 25 frammenti, manca di parte del bordo e di un’ansa. Argilla figulina a superficie nocciola chiara. Orlo assottigliato; bordo curvilineo inclinato all’esterno; vasca poco ampia ma profonda; base distinta ad occhino; anse a bastoncello impostate orizzontalmente sotto l’orlo. Decorazione dipinta rosso-amaranto: sotto l’orlo due sottili linee orizzontali; al di sotto, una fascia campita da una successione di trattini “a sigma” verticali, compresa fra gruppi di linee verticali; sulla vasca, linee orizzontali spaziate; alla base, tre fasce orizzontali di diversa altezza; sulle anse, una fascia orizzontale. Impasti 3) Olpe - Attingitoio H; 12,9; Ø bocca 9,8; Ø max. 13; Ø base 4,5. Ricomposta da numerosi frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte del collo e del corpo. Impasto a superficie brunomarrone-scuro, con ingubbiatura. Orlo arrotondato; labbro inclinato all’esterno; collo tronco-conico; spalla breve ed arrotondata; corpo ovoidale; base distinta a disco incavato; ansa sormontante, a nastro agli attacchi sull’orlo e sulla spalla e a bastoncello schiacciato nella parte più alta. 46 4) Skyphos H. 8,2; Ø bocca 9,8; Ø max. 14,8; Ø base 3,9. Ricomposto da 9 frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte del labbro e del corpo. Impasto a superficie brunomarrone-scuro, con ingobbiatura. Orlo assottigliato; brevissimo collo inclinato all’esterno; corpo ovoidale leggermente allungato; base sagomata ad anello; anse a bastoncello impostate obliquamente sulla spalla. Decorazione incisa: sulla spalla, una successione di triangoli puntinati internamente. 5) Tazza carenata biansata H. 12,3; Ø bocca 15,7; Ø max (in frat.) 19; Ø base 5,8. Ricomposta da numerosi frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte del labbro, del bordo e di un’ansa. Impasto a superficie bruno - marrone con ingobbiatura. Orlo arrotondato; labbro leggermente estroflesso; bordo in risalto inclinato all’interno; breve spalla poco arrotondata; vasca carenata ampia e bassa, a profilo arrotondato; base distinta ad anello; anse a nastro sormontanti impostate verticalmente, margini fortemente rilevati e fessure triangolari allungate all’interno. Decorazione impressa: bordo delimitato da due linee a “falsa cordicella”; sulla spalla, successione di larghe solcature verticali, interrotte da una bugna rilevata sulla carena in posizione mediata, ornata da trattini a “falsa cordicella”. 6) Tazza carenata biansata H. 6,2; Ø bocca 11,2; Ø max. 6,2; Ø base 4,2. Integra, con scheggiature sul labbro. Impasto a superficie bruno - marrone con ingobbiatura. Orlo assottigliato, labbro leggermente estroflesso; bordo quasi verticale; spalla breve e poco arrotondata; vasca con carena accentuata, bassa e larga, a profilo quasi convesso; base distinta a disco; anse sormontanti, a nastro agli attacchi sull’orlo e sulla carena e a bastoncello schiacciato nella parte più alta. Decorazione plastica: sul bordo una nervatura mediana rilevata; sulla spalla una successione di piccole solcature inclinate, interrotta da una bugna sulla carena in posizione centrale. 7) Tazza carenata manoansata H. 9,4; Ø bocca 12,5; Ø max. 15,2; Ø base 4,8. Ricomposta da numerosi frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte del labbro e del bordo. Impasto a superficie bruno - marrone con ingobbiatura. Orlo assottigliato; labbro estroflesso; bordo quasi verticale; spalla breve poco arrotondata; carena accentuata, vasca poco ampia e bassa a 47 profilo rigido; base distinta a disco; ansa a nastro sormontante, margini rilevati e fessura triangolare allungata nella parte interna. Decorazione impressa: alla base del bordo una linea orizzontale a “falsa cordicella”; sulla spalla una successione di larghe solcature verticali. 8) Tazzina carenata manoansata H. 5,3; Ø bocca 6,4; Ø max 7,5; Ø base 2,5. Integro, con scheggiature sul labbro ed integrazioni in gesso della vasca e della base. Impasto a superficie bruno - marrone con ingobbiatura. Orlo assottigliato; labbro estroflesso; bordo leggermente inclinato all’esterno; spalla appena indicata; carena accentuata; vasca bassa e stretta a profilo rigido; base indistinta a disco; ansa sormontante, a nastro in corrispondenza degli attacchi sulla carena e sull’orlo, a bastoncello schiacciato, nella parte più alta. 9) Calice su piede H. 5,4; Ø bocca 10,7; Ø base 5,1. Ricomposto da numerosi frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte del bordo e della vasca. Impasto a superficie bruno marrone con ingobbiatura. Orlo arrotondato; bordo leggermente inclinato all’interno; vasca carenata bassissima e poco larga, a profilo curvilineo; basso piede espanso. 10) Piatto H.4,9; Ø max. 25,1; Ø base 6,6. Ricomposto da 18 frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte della base; vaste scheggiature. Impasto a superficie bruno - rossastra con ingobbiatura. Orlo arrotondato; labbro estroflesso espanso, con due fori passanti e accentuato risalto dell’attaccatura con il bacino ampio, basso a profilo rigido. Decorazione dipinta in bruno - rossastro lacunosa. 11) Fuseruola H.2; Ø max. 3,7. Impasto a superficie bruno - marrone con ingobbiatura. Corpo tronco - conico basso e leggermente incavato; foro passante verticale. 12) Rocchetto H. 4,5; Ø max. 2,6. Impasto a superficie bruno - marrone con ingobbiatura. Corpo cilindrico, espanso alle estremità, con terminazioni leggermente convesse. 13) Rocchetto 48 H. 4,3; Ø max. 3,1. Impasto a superficie bruno - marrone con ingobbiatura. Corpo cilindrico, espanso alle estremità, con terminazioni incavate. 14) Rocchetto H. (in frat.) 3,1; Ø max. 3. Incompleto, mancante della metà. Impasto a superficie bruno-marrone con ingobbiatura. Corpo cilindrico, espanso all’estremità, con terminazione arrotondata. dalla tomba a falsa camera n.4 Impasti 15) Oinochoe a collo tronco - conico allungato L. max 7, L. min. 2 Rimangono 33 frammenti parzialmente ricongiungibili di orlo arrotondato, labbro trilobato, collo tronco - conico allungato, pareti, base distinta a disco e di ansa a doppio bastoncello impostata verticalmente. Impasto a superficie brunomarrone-scuro con ingobbiatura. Decorazione incisa ed impressa: alla base del collo tre file di puntini e al di sotto, tre linee orizzontali; sulla spalla una successione di “denti di lupo” campiti con trattini obliqui. 16) Oinochoe a becco d’anatra L. max. 8,3; L. min. 3,5. Rimangono 7 frammenti parzialmente ricongiungibili di labbro trilobato, con lobo anteriore prominente, orlo arrotondato, pertinenti a tipo non meglio specificabile. Impasto a superficie bruno-marrone-rossastro, con ingobbiatura. 17) Olla H. 13,8; Ø bocca 9,6; Ø max. 16; Ø base 6,2. Ricomposto da numerosi frammenti con integrazioni in gesso, manca di parte del corpo. Impasto a superficie bruno - marrone con ingobbiatura. orlo quasi piatto; brevissimo collo tronco-conico; corpo ovoidale espanso, con spalla ampia e arrotondata; base a disco indistinta; presina triangolare, impostata obliquamente sulla spalla. 18) Skyphos H. 9,3; Ø bocca 11,3; Ø max. 12,4; Ø base 4,7. Ricomposto da numerosi frammenti con integrazione in gesso, manca di parte del labbro, del corpo e delle anse. Impasto a superficie bruno - marrone - chiaro, con ingobbiatura. Orlo assottigliato; labbro verticale; corpo ovoidale con spalla breve ed arrotondata; base a disco distinto; anse a bastoncello 49 impostate con leggera inclinazione sulla spalla. Decorazione incisa: sulla spalla, successione di piccoli triangoli fra due linee orizzontali: al di sotto, un airone stilizzato rivolto verso destra, rappresentato con testa semicircolare, lungo becco triangolare, corpo allungato reso con cinque linee curve disposte in ordine crescente dall’alto in basso, zampe curve a “forcina”. 19) Kantharos a vasca bassa H. 6,6; Ø max. 11,8; Ø base 5,1. Ricomposto da numerosi frammenti con integrazioni in gesso, manca di parte del bordo, della vasca e delle anse. Impasto a superficie bruno-marrone-scuro con ingobbiatura. Orlo arrotondato; labbro estroflesso; bordo inclinato all’esterno; vasca carenata bassa e poco ampia; base a listello inclinato; attacchi delle anse del tipo a nastro sull’orlo e sulla carena. Decorazione plastica: esternamente alla vasca una successione di grosse baccellature. 20) Tazza carenata monoansata L. max. 10; L. min. 2,3. Rimangono 5 frammenti parzialmente ricongiungibili di bordo verticale, spalla breve ed arrotondata, vasca carenata ampia e bassa, ansa a nastro restringentesi verso l’alto e margini rilevati. Impasto a superficie bruno-marrone-scuro, con ingobbiatura. 21) Tazza carenata mononansata L. max. 5; L. min. 2,3. Rimangono 8 frammenti parzialmente ricongiungibili di bordo inclinato all’interno, spalla breve ed arrotondata, vasca carenata ampia e bassa, ansa a nastro restringentesi verso l’alto con margini rilevati. Decorazione: successione di piccole solcature verticali sulla spalla. Impasto a superficie bruno-marrone-chiaro. 22) Tazza carenata L. max. 5,7x L. min. 3,5. Rimane un frammento di bordo leggermente inclinato all’interno, di spalla breve ed arrotondata, di vasca carenata pertinente a tipo non meglio specificabile. Decorazione: alla base del bordo, una linea impressa a falsa cordicella; sulla spalla, una successione di piccole solcature verticali. Impasto a superficie bruno-marrone con ingobbiatura. 23) Ansa 50 L. max. 6; L. min. 3,2. Ricomposta da 4 frammenti ricongiungibili. Tipo sormontante, nastriforme agli attacchi e a bastoncello nella parte più alta, pertinente a tazza carenata. Decorazione impressa a “falsa cordicella”: lungo i margini una coppia di linee verticali; alla base dell’attaccatura sulla carena, quattro linee orizzontali e alla base dell’attaccatura sull’orlo, tre linee semicircolari. Impasto a superficie bruno-marrone. 24) Tazzina carenata monoansata H. (in frat.) 5; Ø bocca 5,9; Ø base 2,8. Manca di parte del bordo e dell’ansa. Impasto a superficie bruno-marrone-scuro, con ingobbiatura. Orlo assottigliato; bordo leggermente estroflesso; vasca carenata bassa e stretta; base indistinta a disco; ansa a bastoncello sormontante, impostata verticalmente, con attacchi sull’orlo e sulla carena. 25) Coppa emisferica su piede L. max. 8,7; L. min. 2,6; Ø base 10,4. Rimangono 13 frammenti parzialmente ricongiungibili di bordo con orlo arrotondato, di vasca emisferica a parete curva, di alto piede espanso. Decorazione impressa a “falsa cordicella”; sul bordo; elementi di meandro verticale in successione. Impasto a superficie bruno-marrone-chiaro, con ingobbiatura. 26) Coppa su piede H.9,8; Ø max. 10,1; Ø base 7,5. Ricomposta da numerosi frammenti, manca di parte del labbro, della vasca e del sostegno. Impasto a superficie bruno-marrone, con ingobbiatura. Orlo assottigliato; labbro inclinato all’esterno; vasca emisferica con pareti curvilinee e bordo leggermente inclinato all’interno; piede espanso con basso sostegno tronco-conico. 27) Calice H. 7,2; Ø bocca 15,3; Ø base 6,2. Ricomposto da numerosi frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte del bordo. Impasto a superficie bruno-marronechiaro, con ingobbiatura. Orlo assottigliato; bordo leggermente inclinato all’esterno; vasca carenata ampia e bassa; base a listello verticale. Decorazione: sul bordo due nervature distanziate. 28) Ciotola monoansata H. 4,7; Ø max. 13; Ø bocca 12,3. Ricomposta da numerosi frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte del bordo, della vasca e dell’ansa. Impasto a 51 superficie bruno-marrone-scuro, con ingobbiatura. Orlo arrotondato; bordo basso inclinato all’interno; vasca ampia e bassa; ansa a bastoncello impostata obliquamente sul bordo. Bronzi 29) Fibula ad arco ingrossato L. 2. Incompleta, mancante di parte della molla, dell’ardiglione e della staffa. Fortemente ossidata ed incrostata. 30) Fibula a sanguisuga L. 1,2. Incompleta, mancante della molla e dell’ardiglione. Fortemente ossidata ed incrostata. 31) Fibula a sanguisuga L. 1,4. Incompleta, mancante della molla, dell’ardiglione e della staffa. Fortemente ossidata ed incrostata. 32) Fibula a sanguisuga L. 1,4. Incompleta, mancante della molla, dell’ardiglione e della staffa. Fortemente ossidata ed incrostata. 33) Fibula a sanguisuga L. 1,6. Incompleta, mancante della molla, dell’ardiglione e della staffa. Fortemente ossidata ed incrostata. 34) Fibula ad arco serpeggiante L. 2. Incompleta, mancante di parte dell’arco, della staffa, dell’ardiglione e della molla. Fortemente ossidata ed incrostata. Decorazione: due coppie di apofisi globulari ai lati dell’arco. 35) Fibula L. 5,5. Un frammento di ardiglione ossidato ed incrostato. 36) Anello Ø 2. Incompleto. Filo a sezione tonda. Ossidato, con incrostazioni. 37) Frammenti Particelle a sezione piatta, ossidati ed incrostati. Ferro 38) Lancia 52 Lung. 35,5; Larg. 4,5; Ø 2,2. Ricomposto da 2 frammenti, ossidati e con incrostazioni, manca di parte del cannone. Lama foliata allungata; cannone cilindrico a sezione circolare, cavo internamente. 39) Puntale Lung. 14,6; Larg. 2,6. Ricomposto da due frammenti ossidati e incrostati. Corpo di forma conica allungata, a sezione circolare, internamente cavo. 40) Lancia Lung. 7,2; Larg. 2,7. Rimane un frammento di cannone a sezione circolare, notevolmente ossidato e con incrostazioni calcaree. 41) Lancia Lung. 5,9; Larg. 2,5. Rimane un frammento di cannone a sezione circolare, notevolmente ossidato e con incrostazioni calcaree. dalla tomba a fossa n. 6 Ceramica italo-geometrica 42) Skyphos H. 13,7; Ø bocca 14,7; Ø max. 16,8; Ø base 6,7. Ricomposto da numerosi frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte della spalla, della vasca e della base. Argilla figulina a superficie nocciola. Orlo assottigliato; breve collo quasi verticale; spalla arrotondata e stretta; vasca ampia e profonda; base distinta a disco incavato; anse a bastoncello impostate obliquamente sulla spalla. Decorazione dipinta in bruno-amaranto, parzialmente evanita e lacunosa; sul collo due linee orizzontali; sulla spalla, fra una coppia di linee orizzontali una fascia campita da una linea ondulata che prosegue sulle anse; sulla vasca verniciatura uniforme. 43) Bacino a tre piedi H. 6,4; Ø max. 20,5. Ricomposto da 16 frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte del labbro e dei piedi. Argilla figulina a superficie giallina. Labbro a tesa, orizzontale, con orlo assottigliato; vasca ampia e bassa con pareti notevolmente curvilinee; fondo leggermente ombelicato; tre piedi a bastoncello schiacciato, posti a distanza simmetrica. Decorazione dipinta in amaranto; verniciatura uniforme del labbro e della parte più alta della vasca; completa verniciatura dell’interno ad eccezione di una fascia risparmiata in corrispondenza del labbro. Bucchero 44) Skyphos 53 H. 6,7; Ø bocca (in frat.) 10,2; Ø base 3,8. Ricomposto da 5 frammenti, manca di parte del labbro, della spalla, della vasca e delle anse. Orlo assottigliato; labbro breve, leggermente inclinato all’esterno; vasca stretta e profonda; base distinta ad echino; ansa a bastoncello impostata orizzontalmente sulla spalla. Decorazione incisa: sulla spalla serie di ventaglietti semi - aperti rivolti verso destra; sulla vasca tre gruppi di linee orizzontali spaziati. Impasto 45) Olla su piede H. 17,5; Ø bocca 14,7; Ø max. 18; Ø base 10,5. Ricomposto da 19 frammenti, manca di parte del corpo. Integrato. Impasto a superficie bruno - rossastro, con ingobbiatura. Orlo arrotondato; ampio labbro estroflesso; corpo globulare, leggermente schiacciato; basso piede espanso. Decorazione dipinta in bruno - rossastro disposta su tutta la superficie; lacunosa. dalla tomba a fossa n. 7 Bronzo 46) Spirale Lung. 2,1; Larg. 1,9. Tipo costituito da sei giri di filo a sezione circolare. Ossidato. 47) Fibula a sanguisuga Lung. 5,8; Larg. 1,7. Composto da tre frammenti, manca della molla. Tipo a lunga staffa. Decorazione graffita: sul dorso dell’arco, gruppi di linee trasversali. 48) Fibula L. 2,2. Rimangono cinque frammenti di staffa lunga pertinenti a tipo non meglio specificabile. 49) Fibula L. 4,2 Rimangono quattro frammenti di ardiglione, pertinenti a tipo non meglio specificabile. 50) Astuccio (?) L. 5,1. Corpo cilindrico leggermente schiacciato e due fascette trasversali distanziate. Ossidato. 51) Anellini Ø. 0,8-0,6. Gruppi con filo a sezione circolare. Ossidati. 52) Chiodo 54 H. 1,2; Ø 1,7. Manca di parte del gambo. Ossidato. Capocchia a sezione semicircolare; gambo allungato a sezione circolare. 53) Chiodo H.1,2; Ø 1,4. Stesso tipo del n. 53. 54) Chiodo H.1,1; Ø 1,3. Stesso tipo del n. 53. 55) Chiodo H. 0,5; Ø 0,9. Stesso tipo del n. 53. 56) Chiodo H. 0,5; Ø 1,9. Stesso tipo del n. 53. 57) Lamina L. 2,4. Rimangono 5 frammenti informi, ossidati. 58) Piastra Lung. 4,5; Larg. 2,3. Rimangono due frammenti di forma irregolare, ossidati. Piombo 59) Anello Ø.3. Costituito da 2 frammenti di filo a sezione circolare. Ossidato. dalla tomba a fossa n. 2 Ceramica etrusco-corinzia 60) Oinochoe H. 21,8; Ø max. 15,8; Ø base 8. Ricomposta da numerosi frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte del labbro, della spalla e del corpo. Argilla figulina a superficie giallina. Orlo assottigliato; labbro trilobato; collo tronco-conico; corpo ovoidale leggermente schiacciato, con spalla ampia ed arrotondata; base a listello inclinato; ansa a nastro sormontante, impostata verticalmente. Decorazione dipinta, completamente evanita. 61) Piatto H. 4,9; Ø max. 25,1; Ø base 11,3. Ricomposto da 10 frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte del bacino. Argilla figulina, a superficie giallina. Orlo arrotondato, ingrossato; piccolo bordo verticale; bacino ampio e profondo rigido; base a listello inclinato; due piccole anse a bastoncello, di forma triangolare, impostate orizzontalmente sul bordo. Decorazione incisa e dipinta: una accentuata solcatura orizzontale sul bordo; tre fasce rispettivamente bruno-rossastro, bruno-verdastro e bruno-rossastro sull’orlo ed 55 internamente sul bordo; al centro del bacino, tre fasce concentriche con la stessa alternanza cromatica. Bucchero 62) Kantharos H. 10,3; Ø bocca 15,7; Ø max. 19,7; Ø base 6,8. Ricomposta da numerosi frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte del bordo. Orlo assottigliato; bordo inclinato all’esterno; vasca carenata poco profonda e stretta; basso piede espanso; anse a nastro sopraelevate, impostate verticalmente. Decorazione graffita ed impressa: sotto l’orlo due linee orizzontali; sulla carena, successione di impressioni a “virgola”. dalla tomba a camera n. 1 Ceramica attica 63) Oinochoe H. 132; Ø bocca 6,1; Ø max. 10,1; Ø base 6,9. Ricomposto da frammenti. Argilla figulina rosata. Orlo arrotondato; labbro trilobato; breve collo tronco-conico; corpo ovoidale con spalla ampia e quasi piatta; base ad echino; ansa a bastoncello schiacchiato, leggermente sormontante, impostata verticalmente. Decorazione: vernice nera omogenea, brillante, disposta sull’intera superficie. 64) Lekythos H. 10,1; Ø bocca 3,4; Ø max. 7,4; Ø base 6. Integra. Argilla figulina rosata. Orlo piatto; labbro imbutiforme; collo tronco-conico allungato, nettamente distinto; corpo quasi globulare con spalla arrotondata; base distinta ad echino; ansa a bastoncello impostata verticalmente. Vernice nera omogenea, brillante disposta sull’intera superficie. 65) Pelike H. 32,8; Ø bocca 16; Ø max. 23,5; Ø base 15,5. Ricomposta da numerosi frammenti e reintegrata nelle parti mancanti. Sulla superficie: minutissime scheggiature e lesioni. Argilla figulina arancione. Vernice nera lucente ed omogenea. Labbro svasato con orlo ribattuto; basso collo cilindrico; corpo globulare leggermente allungato; piede a disco; ansa a nastro impostate verticalmente. Sul collo ramo di alloro verso destra, fra due linee orizzontali risparmiate; sotto le anse kyma ionico; sotto le scene: meandro verso destra, interrotto da quadrati con croce centrale e punti agli angoli. A: Heos sta per rapire Kephalos: al centro, con profilo rivolto a sinistra, Heos alata, con sphendone sul capo e chitone mosso da numerose pieghe, muove con le braccia protese 56 verso Kephalos, che indossa un himation bordato da una fascia marcata, largo petaso sul capo e lancia nella mano sinistra appoggiata sulla spalla; a destra un giovane cacciatore, vestito alla stessa maniera, con due lance nella mano destra, colto da sorpresa. B: Tre giovani ammantati, in posizione stante, conversano: la figura di sinistra, con spalla e braccio scoperti, parla; quella di centro di profilo a sinistra, completamente avvolto nell’himation, ascolta e quella di destra, appoggiata ad un bastone, si copre il volto fin quasi all’altezza degli occhi. Accanto alle figure principali, in alto, i nomi di Heos e di KEPHALOS, sovradipinti con vernice più chiara. 66) Kotyle H. 6,2; Ø bocca 7,1; Ø max. 12,4; Ø base 4. Ricomposta da frammenti. Argilla figulina rosata. Orlo assottigliato; bordo leggermente estroflesso; vasca poco ampia e profonda; base ad echino; anse a bastoncello impostate orizzontalmente sotto l’orlo. Vernice nera omogenea brillante disposta su tutta la superficie ad eccezione di una fascia risparmiata nella parte inferiore della vasca. 67) Kantharos H. 9,3; Ø bocca 8,8; Ø max. 13,4; Ø base 5,7. Ricomposta da numerosi frammenti. Argilla figulina rosata. Orlo arrotondato; labbro estroflesso; bordo verticale; vasca emisferica distinta; base a disco arrotondato, nettamente distinta; anse a nastro impostate verticalmente. Vernice nera brillante ed omogenea. Al di sotto dell’orlo una fascia a risparmio campita da una rete di tre file di rombi con piccole losanghe sovradipinte in vernice evanita e negli intervalli, piccole losanghe a vernice rossa con puntini centrali; nella parte alta della vasca una fascia a risparmio campita da file di trattini verticali e da una di puntini, fra due linee orizzontali. 68) Kantharos H. 8,9; Ø bocca 8,8; Ø max 13,4; Ø base 4,6. Ricomposto da numerosi frammenti, manca di parte del labbro e del bordo; varie scheggiature in superficie. Argilla figulina nocciola chiara. Vernice nera omogenea lucida, disposta su tutta la superficie; sul labbro una fascia sovradipinta in bruno-arancione, campita da una fila di trattini verticali e da una fila di puntini; sul bordo in zona metopale, sovradipinta, con vernice bianca evanita e lacunosa, un ramo di alloro con bacche, rivolto verso destra; nella parte alta della vasca, sovradipinta in bruno-arancione, una fascia campita da una successione di trattini verticali e di puntini. 69) Glaux 57 H.5,8; Ø bocca 6,5; Ø max. 12; Ø base 4,2. Ricomposto da 5 frammenti, con integrazioni in gesso, manca di parte del bordo, della vasca e di un’ansa. Argilla figulina rosata. Orlo assottigliato; bordo leggermente introflesso; vasca poco ampia; base distinta a disco con profilo arrotondato; anse a bastoncello schiacchiato impostate al di sotto dell’orlo: una orizzontalmente, l’altra verticalmente. Impasto 70) Olletta o boccale H. 5,2; Ø bocca 6; Ø base 3,8. Integro. Impasto a superficie marrone-rossastro. Orlo assottigliato; labbro inclinato all’esterno; corpo globulare allungato; base indistinta a disco. 71) Ciotolina H.4; Ø max. 8,2; Ø base 5,1. Integra. Argilla figulina. Piccolo labbro introflesso; vasca bassa e stretta; base distinta a listello inclinato. Decorazione dipinta in bruno rossastro, evanita e lacunosa: sul labbro una larga fascia; sulla vasca una banda verticale, evidente sbavatura di colore, che si ripete anche internamente. 72) Fuseruola H.2,1; Ø 2,7. Impasto a superficie bruno-marrone. Corpo tronco-conico, con terminazione maggiore nettamente distinta, espansa a profilo arrotondato; foro passante e verticale. 73) Fuseruola H. 1,1; Ø 2,3. Impasto a superficie bruno-marrone con ingobbiatura. Corpo troncoovoidale, base leggermente incavata, foro passante verticale. Pasta vitrea 74) Amphoriskos H. 7,02; Ø bocca 2,8; Ø max. 6. Integro con qualche lesione superficiale. Pasta vitrea verdastra. Labbro estroflesso, leggermente espanso; collo tronco-conico; corpo globulare schiacchiato con spalla ampia e bassa; anse a bastoncello, sottili, con profilo ad “s”, impostate verticalmente, con attacchi sotto il labbro e sulla spalla. Decorazione dipinta rosa e bianca: fra gruppi di linee orizzontali rosate un folto gruppo di linee a zig-zag bianche e rosa inframezzate. 75) Spillone Ø.2. Manca il lungo ago metallico. Capocchia a corpo globulare schiacchiato, ricomposto da due frammenti. Faiançe bianca. 58 Alabastro 76) Alabastron H. 13; Ø bocca 4; Ø max. 3,6. Integro. Labbro espanso piatto; breve collo cilindrico; corpo cilindroide allungato con fondo arrotondato; due piccole prese laterali nella parte espansa del corpo. 77) Alabastron L. max. 11,9; L. min. 1,2. Frammentario, incompleto. Rimangono 23 frammenti di labbro, di collo, di pareti, con parti di fondo e presine. Stessa forma nel n. 77. 78) Sassolini Lung. 2,9; Larg. 2,1. N. 9 piccoli ciottoli, con venature. Bronzo 80) Ansa Lung. 10; Larg. 4,1. Forma semicircolare schiacciata a sezione quadrangolare, con terminazioni ripiegate internamente, completate da piccoli globi, nettamente distinti. Decorazione a rilievo: sul corpo tre distinte file di puntini. 81) Ansa Lung. 11,5; Larg. 4,5. Ricomposta da 5 frammenti. Stessa forma del n.80. Un perno ad occhiello. 82) Lamina L. max. 5,8; L. min. 0,8. Rimangono 24 frammenti a sezione fine, alcuni con margine rialzato, e a profilo curvo. 83) Piede Lung. 7; Larg. 5,2. Corpo a forma di giglio stilizzato, con elementi laterali simili ad ali e basetta conformata a zampa palmata. Decorazione incisa: al centro, in alto, un motivo a spina di pesce; ai lati linee sinuose longitudinali, dalle quali si staccano trattini ondulati, verticali, distanziati. 84)Pomello (?) H.4,2; Ø max. 3,8. Corpo cilindrico, alto, con terminazione espansa a profilo globulare schiacciato, nettamente differenziata. Una fascia, ben distinta alla congiunzione del corpo con la terminazione. 85) Pomello (?) H.3; Ø max. 4,2. Stessa forma del n. 85. 86) Pomello (?) H. 2,8; Ø max 4,7. Stessa forma del n. 85. 59 87) Puntale H. 10,6; Ø 1,3. Corpo cilindrico allungato, con terminazione tronco-conica, nettamente differenziata. 88) Chiodo H.5,5; Ø 1,6. Ricomposto da tre frammenti. Incompleto. Capocchia a sezione semicircolare; stelo a sezione tonda. 89) Chiodo H.2,8; Ø 1,8. Incompleto. Larga capocchia a sezione semicircolare fortemente schiacciata; stelo a sezione tonda. 90) Chiodo H.1,2; Ø 1,6. Incompleto. Stessa forma del n. 89; stelo a sezione quadrangolare. 91) Chiodo H.2,1; Ø 1,6. Incompleto. Stessa forma del n. 90. 92) Chiodo H.2,2; Ø 1,4. Integro. Capocchia a sezione semicircolare schiacchiata; stelo a sezione tonda, con terminazione affusolata. 93) Chiodo H.1,2; Ø 1,2. Stessa forma del del n. 90. Incompleto. 94) Chiodo H. 2,7; Ø 1. Incompleto. Stessa forma del n. 90. Avorio od osso 95) Coperchietto (?) H. 0,5; Ø 1,7. Piccolo disco a sezione piatta; al di sopra protuberanza cilindrica bassa, con foro centrale. 96) Coperchietto (?) H. 0,8; Ø 1,6. Stessa forma del n. 95. 97) Vasetto miniaturistico (?) Lung. 1,7; Larg. 1,5. Un frammento di bordo con orlo a mandorla ben distinto, sporgente all’esterno. Legno 98) Frammenti Lung. 3,7-Larg. 1,7; Lung. 3,7-Larg. 1,8; Lung. 3,1-Larg. 0,6. Rimangono tre schegge, coperte da patina verdastra di ossidazione. 60 Dalla tomba a camera n. 5 Ceramica-grezza 99) Lagynos H. in frat. 11,3; Ø max. 13,3; Ø base 6. Ricomposto da 10 frammenti, manca di parte del labbro, del collo della parete e dell’ansa. Grezza terracotta, a superficie marrone. Breve collo cilindroide; corpo carenato, basso e schiacciato, con spalla a profilo rigido; base ad anello; attaccatura sulla spalla dell’ansa a nastro. 100) Boccale H. 17,8; Ø bocca 10,5; Ø max. 16,5; Ø base 6,8. Ricomposto da numerosi frammenti con integrazioni. Grezza terracotta a superficie bruno-marrone. Orlo a fascia, fornito di battente interno; corpo ovoidale, leggermente compresso con spalla ampia a profilo incavato; base a disco indistinto; ansa a nastro, costolata, impostata verticalmente. 101) Bacino a tre piedi H. 10,7; Ø max. 18,4. Ricomposto da 11 frammenti, manca di parte del labbro, del bordo e della vasca. Grezza terracotta, a superficie bruno-marrone. Labbro completamente piegato all’esterno; bordo leggermente inclinato all’interno; vasca ampia e molto bassa; piedini a bastoncello, disposti a distanze simmetriche. Tipologia vascolare I Cer. italo-geometrica 1) Oinochoe n.1 (T.3); 2) Kotyle n. 2 (T.3); 3) Skyphos n. 42 (T.6); 4) Bacino a tre piedi n. 43 (T.6); II Impasti 5) Lagynos n. 99 (T.5); 6) Oinochoe a collo troncoconico allungato n. 15 (T.4); 6a) Oinochoe a becco d’anatra n. 16 (T.4); 7) Boccale n. 100 (T.5); 8) Olla globulare n. 17 (T.4); 8a) Olla su piede n. 45 (T.6) 8b) Olletta n. 70 (T.I.); 9) Olpe - attingitoio n.3 (T.3); 10) Skyphoi n. 4 (T.3); n. 18 (T.4); 61 11) Tazze carenate biansate n. 5 (T.3); n. 6 (T.3); 11b) Tazze carenate monoansate n. 7 (T.3); n.8 (T.3); n.20 (T.4); n. 21 (T.4); n. 24 (T.4); 12) Kantharos a vasca bassa n. 19 (T.4); 13) Calice apodo n. 27 (T.4); 13a) Calice su piede n. 9 (T.3); 14) Coppa emisferica su piede n. 25 (T.4); 14a) Coppa su piede n. 9 (T.3) 15) Bacino a tre piedi n. 101 (T.5); 16) Ciotola n. 71 (T.I.); 16a) Ciotola monoansata n. 28 (T.4); 17) Piatto n. 10 (T.3) III Buccheri 18) Skyphos n. 44 (T.6); 19) Kantharos n. 63 (T.2); IV Cer-etrusco-corinzia 20) Oinochoe n. 60 (T.2); 21) Piatto n. 61 (T.2); V Cer. Attica a figure rosse 22) Pelike n. 65 (T.1); 23) Kantharos n. 67 (T.1); VI Cer. Attica 24) Oinochoe n. 63 (T.1); 25) Lekythos n. 64 (T.1); 26) Kotyle n. 66 (T.1); 27) Glaux n. 69 (T.1); VII Cer. etrusco - attica a figure rosse 28) Kantharos n. 68 (T.1); VIII Tip. di Pasta vitrea 29) Amphoriskos n. 74 (T.1); 62 IX Tip. di Alabastro 30) Alabastra nn. 76-77 (T.1). Cronologia Il corredo della Tomba a fossa n. 3 si compone essenzialmente di due tipi di materiali: gli impasti e la ceramica italo-geometrica. Fra gli impasti, l’olpe-attingitoio n.3, la tazza carenata biansata n.5 e quella carenata monoansata n.7 mostrano un costante confronto con analoghe forme presenti nella Tomba a fossa 8 di Poggio Gallinaro 8) . Il tipo dell’oinochoe italo-geometrica n.1 trova confronto con una identica oinochoe rinvenuta nella Tomba a fossa della Patera di Bronzo e dei Vasi geometrici, datata dal Canciani intorno al 700 a.C. 9) . Questa datazione è confermata dalla kotyle italo-geometrica n. 2 imitante tipi del P.C.A.. Inoltre la tazza carenata biansata n. 6 presenta una forma simile a quella rinvenuta nella Tomba a fossa XVI dei Monterozzi 10) . Un ulteriore indizio di alta datazione è dato dalla skyphos di impasto n. 4, che si rinviene in area vulcente, a Poggio Buco, nella Tomba XXV, associato con un’anforetta decorata con losanghe quadrettate in posizione metopale. Pertanto, sembra probabile per la Tomba a fossa n.3 di Villa Falgari una datazione intorno al 700 a.C.. Allo stesso orizzonte culturale appartengono, fra le altre, anche: la Tomba a fossa XVI dei Monterozzi, la Tomba della Patera di Bronzo e dei Vasi Geometrici e forse la Tomba 8 di Poggio Gallinaro. Il corredo della Tomba a falsa camera n.4 è costituito soltanto da impasti. Fra questi si distingue l’oinochoe a becco, frammentaria, n. 16 confrontabile con quelle caratterizzate da analoga particolarità, rinvenute nella Tomba 8 di Poggio Gallinaro, nella Tomba di Bocchoris e nella Tomba a fossa detta “dell’Oinochoe costolata rossastra” (o Helbig XIII). Qualificante è anche l’oinochoe a lungo collo troncoconico n.15, frammentario, trasposizione evidente in materiale povero delle oinochoai metalliche di importazione fenicio-cipriote. Fra gli esemplari più antichi della serie scoperti in Etruria, oltre probabilmente all’oinochoe a corpo globulare compresso della Tomba di Bocchoris 11) , è da annoverare certamente quella rinvenuta nella Tomba XII di Poggio Buco, associata con una coppa - cratere decorata con metopengattung 12) . 8) Come in questo caso, così anche per i successivi, si veda il commento ai singoli pezzi, indicati con lo stesso numero cardinale usato per elencarli nel catalogo. 9) Cfr.: CANCIANI 1974 p. 29 n. 2 tav. 21,2. 10) Cfr.: CULTRERA 1930 p. 131 n. 3 fig. 17; HENCKEN 1968 p. 383 fig. 373. 11) Cfr.: HENCKEN 1968 p. 368 fig. 362 c. 12) Per il sistema decorativo della metopengattung, cfr.: CANCIANI 1974 pp. 25-26 n. 2; BARTOLONI 1984 p. 107 sg. 63 Per questo corredo dell’area vulcente è estremamente probabile una datazione al I quarto del sec. VII a.C.. Ora, poiché nella Tomba n.4 di Villa Falgari è presente la coppa su piede n.26, documentata anche nella Tomba XII di Poggio Buco, ne consegue la possibilità della stessa datazione. D’altra parte, la tipologia della coppa su piede è ben attestata nell’Orientalizzante Antico 13) . La datazione proposta sembra confermata: dal kantharos a vasca bassa n. 19, con la fibula ad arco serpeggiante n.34, che si rinvengono associate anche nella Tomba dell’Anfora di Bronzo 14) e dalla punta di lancia di ferro n. 38 che si trova, fra le altre, anche nella Tomba 9 di Poggio Gallinaro 15) . Fra le tombe dell’Orientalizzante Antico Tarquiniese, quindi, la Tomba n. 4 di Villa Falgari va collocata dopo la Tomba di Bocchoris 16) , con la quale elemento di relazione può essere costituito dalla citata oinochoe a collo lungo troncoconico. Il corredo della Tomba a fossa n. 6 è caratterizzato dall’olla su piede di impasto n.45, che nell’area vulcente e falisca si rinviene generalmente in contesti dell’Orientalizzante Antico. Lo skyphos italo-geometrico n.42 è decorato da una bansa ondulata sulla spalla, che come motivo ornamentale appare diffuso nell’Orientalizzante Medio. Infatti è attestato su un’olla italo-geometrica della Tomba Giulimondi, su due olle e su un’olpe-attingitoio italo-geometrici della Tomba 75 della Banditaccia 17) , datate dal Colonna fra il 660-630 a.C. 18) . Ma la presenza dello Skyphos di bucchero n. 44, che compare in momento di transizione all’Orientalizzante Recente ed è documentato anche nella Camera degli Alari di Cerveteri e nella Seconda Camera del Tumulo veiente di Vaccareccia, costituisce un elemento cronologico più recente, confermato dall’associazione con il bacino a tre piedi italo-geometrico n. 43, analogo a quello rinvenuto nella Tomba di Casalaccio V, inserita dal Cristofani nella Fase IV veiente 19) . Quindi per la Tomba n.6 di Villa Falgari è probabile una 13) Per le forme di impasto, si veda la nota di commento n. 26. In proposito va specificato che, recentemente, la cronologia della serie I-VI delle tombe di Poggio Buco nel Museo di Firenze è stata rialzata dall’Autrice, cfr.: BARTOLONI 1984 p. 107 nota 25. Nell’ambito della ceramica italo-geometrica ne costituiscono esempi: Vulci, Monte Auto, FALCONI AMORELLI 1971 p. 210 n. 5 tav. XLVIII; BARTOLONI 1984 p. 108 nota 35 n. 3 tav. II, a; Tomba 22 DOHAN 1942 p. 89 e p. 92 n. 10 tav. XLVII. Nel corredo di questa tomba vanno distinte almeno due deposizioni: la prima, costituita dalla ceramica italo-geometrica, dagli impasti e dai bronzi, è da attribuire all’Orientalizzante Antico; la seconda, composta dall’oinochoe n. 6, dall’olla n. 7 etrusco-corinzie, dal bacino a tre piedi di impasto n. 16 e dalla kylix etrusco-corinzia n. 17 del Pittore delle Macchie Bianche (cfr. COLONNA 1961 p. 68 n. 7), è da attribuire, invece, ad un momento finale dell’Orientalizzante Recente; Poggio Buco, Tomba VI, BARTOLONI 1972 p. 66 n. 5 tav. XXXIV a-b; Veio, Vaccareccia, Tomba XI, PALM 1952 p. 66 p. 80 n. 3 tav. XXI. 14) Cfr.: HENCKEN 1968 pp. 353-355 fig. 351 b, g, h; CANCIANI 1974 p. 52 nn. 8-9 tav. 38. 15) Cfr.: HENCKEN 1968 p. 350 fig. 350. 16) Cfr.: PALLOTTINO 1937 col. 181 sg.; HENCKEN 1968 pp. 364-378; STROM 1971 pp. 149-150; COLONNA 1972 pp. 565-569; CANCIANI 1974 pp. 23-24 n. 1 tav. 17,1; tav. 34,10; CATALDI 1985 pp. 93-95. 17) Cfr.: RICCI 1955 col. 491 nn. 25-26 fig. 115,3; n. 31 fig. 115,7; col. 493 n. 63 fig. 115,1. 18) Cfr.: COLONNA 1968 p. 268. 19) Cfr.: CRISTOFANI 1969 p. 68. 64 datazione fra il 640 ed il 630 a.C., leggermente anteriore alla II deposizione della Tomba XXV dei Monterozzi 20) . Per quanto riguarda la cronologia della Tomba n.2 l’oinochoe etrusco-corinzia n.60 ed il kantharos di bucchero n. 62 trovano un esatto parallelo nella Tomba a fossa n. 10 di Poggio Gallinaro, datata dalla Cristofani - Martelli al 630-610 a.C. 21) . Questa indicazione cronologica riceve una conferma dal piatto etrusco-corinzio n.61, che solitamente compare in contesti dell’ultimo quarto del sec. VII a.C. Questo corredo, dunque, rientra a pieno titolo nella Fase dell’Orientalizzante Recente, nella quale si colloca un consistente numero di tombe tarquiniesi. Fra queste: la Tomba “egizia” al Museo di Firenze 22) , la Tomba di Poggio del Cavalluccio 23) , la Tomba 10 di Poggio Gallinaro 24) e le Tombe: III-XIII-XXVI e 3034 dei Monterozzi 25) . Pochi elementi di bronzo costituiscono i resti del corredo della Tomba a fossa n.7; comunque, la parte di spirale allungata ed i frammenti di fibula del tipo a sanguisuga con la lunga staffa sono sufficienti per permettere una generica collocazione nell’ambito del sec. VII a.C. I materiali di corredo della Tomba a camera n.1 costituiscono nel loro insieme una deposizione alquanto omogenea. Punto di riferimento cronologico qualificante è costituito dalla pelike attica a figure rosse n. 65 nella quale si riconosce la maniera sia del Pittore del Deinos, sia del Pittore di Kleophon, per cui la datazione che ne consegue è quella del fine del sec. V, primo decennio del sec. IV a.C.. Con questa cronologia bene concorda il kantharos attico n. 67, appartenente alla classe di “Saint Valentin”, associato con una identica forma, n. 68, di probabile imitazione etrusca. Anche i due alabastra nn. 76 e 77 sembrano appartenere ad un tipo che é maggiormente diffuso nel sec. IV a.C. Il lagynos n. 99, la brocca n. 100 ed il bacino a tre piedi n. 101, che testimoniano la riutilizzazione della tomba a camera arcaica n. 5, indicano una deposizione databile nella metà del I sec. a.C. Osservazioni conclusive 20) Cfr.: CULTRERA 1930 pp. 136-141; HENCKEN 1968 pp. 394-395; RASMUSSEN 1978 pp. 18-19. Nel corredo di questa bomba sono state distinte due deposizioni. Per quella più antica, cfr.: GJERSTAD 1965 p. 52; CANCIANI 1974 p. 43 n. 9; per quella più recente, cfr.: CRISTOFANI 1969 p. 70; CANCIANI 1974 p. 13 n. 1. 21) Cfr.: CRISTOFANI MARTELLI 1971 p. 387 nota 13. 22) Cfr.: CRISTOFANI MARTELLI 1971 p. 379-392 tavv. LXXXI-LXXXIII. 23) Cfr.: PERNIER 1907 p. 347 fig. 74. 24) Cfr.: PERNIER 1907 p. 343 fig. 71; HENCKEN 1968 p. 356 fig. 355. 25) Cfr.: Tomba III, CULTRERA 1924 pp. 401-402 tavv. XX-XXI; SZILAGYI 1972 p. 22 e p. 34; Tomba XIII, CULTRERA 1930 p. 128; Tomba XXVI, CULTRERA 1930 pp. 142-145 figg. 24-28; HENCKEN 1968 p. 386 fig. 65 L’alta datazione del corredo n.4: I quarto del sec. VII a.C. offre lo spunto per alcune considerazioni sulla struttura della tomba, senza, per altro, voler entrare nel complesso rapporto con le tombe del tipo a fenditura 26) con le quali condivide, senza dubbio, alcuni aspetti morfologici comuni quali: la sezione semi-ogivale della camera e la fenditura aperta nel cielo; ma dalle quali si differenzia per la particolare limitatezza delle sue dimensioni, decisamente modeste. Proprio questa caratteristica qualificante permette di indicare meglio un tale tipo di struttura con la definizione che sembra più appropriata di tomba a pseudo-camera o a falsa-camera. Oltre alla Tomba n.4 di Villa Falgari, sembrano rientrare in questa categoria, nel I quarto del sec. VII a.C., altre piccole tombe tarquiniesi, morfologicamente simili, ma strutturalmente differenti che sono: __ tombe semicostruite con ambienti a sezione semi-ogivale, con la parte inferiore scavata nella roccia e con la parte superiore completata con blocchi di riporto 27) ; - tombe ipogee, con camera a sezione ogivale 28) . 375; SZILAGYI 1972 p. 55 n.1 p. 60 nota 52; RASMUSSEN 1978 pp. 32-33; Tomba 3034, RASMUSSEN 1978 pp. 31-32. 26) Con questo termine convenzionale si vuole indicare quelle tombe semi-ipogee con ambienti a sezionie semi-ogivale, scavati in parte nel banco di arenaria a volte attraversate longitudinalmente da larghe fenditure, chiuse con lastroni sovrapposti. Sono ben documentate in area tarquiniese, cfr.: MON INST 1829-1833,1, tav.XL b,8; LENOIR 1832 p. 270; HELBIG pp. 237-240; FIORELLI 1876 p. 38; DASTI 1877 p. 59; GHIRARDINI 1881 p. 364; ID. 1882 pp. 206,208-210; HELBIG 1882 pp. 45,171,211; ID. 1885 pp. 80,120-126; PASQUI 1885 pp. 439-440, 442,457,464,472,510-511; HELBIG 1886 pp. 85-87; ID. 1887 pp. 153, 156; ID. 1888 pp. 181, 184; PASQUI 1900 p. 85; MONTELIUS 1904, II, pp. 296-297; 10,12 e 14,16 p. 294,7; ID. 1912 p. 75 n. 403-404 p. 106 n.485, 487 p. 118 n. 536-539 p. 119 n. 540-542 p. 129 n. 597-598, 600, 602-605 p. 130 n. 607; CULTRERA 1924 p. 401, 404; SCHACHERMEYR 1929 p. 132 nota 1; CULTRERA 1930 pp. 142, 146, 152, 158, 164, 179, 180; ÅKERSTROM 1934 pp. 43-47,49; PALLOTTINO 1937 coll. 187-188 note 1-2, 192 nota 4 tipo b, 195 nota 2; MARCHESE 1944-45 pp. 14 sg.; DEMUS QUATEMBER 1958 pp. 21-22 nota 17 fig.4; GALLINA 1965 pp. 235-240; HENCKEN 1968 pp. 359-363, 380, 382, 386, 393-394 1965 pp. 235-240; MAGRINI 1970 pp. 17-20; BRUNETTI NARDI 1972 p. 76; ID. 1981 p. 159; SPADEA 1982 pp. 109-111 tavv. XLII 2; XLIII-XLIV. Questo tipo di tomba, per il consistente numero di attestazioni è considerato un’espressione tipica della cultura orientalizzante tarquiniese, cfr.: MENGARELLI 1942 p. 41; COLONNA 1967 p. 16 nota 34. Per la diffusione in altre aree, cfr.: COLONNA 1963 p. 157 nota 38, p. 159 nota 41; ID. 1967 p. 16 nota 34. 27) Questo tipo di tomba viene indicata in varia maniera dagli Autori: Tomba semisotterranea, cfr.: MENGARELLI 1927 p. 157; ÅKERSTROM 1934 p. 25; MENGARELLI 1940 p. 5; COLONNA 1963 p. 157; Tomba a camera semiscavata, cfr. RICCI 1955 col. 498 sg.; Tomba seminterrata, cfr.: PRAYON 1975 pp. 14-15. Tuttavia la definizione più appropriata è quella di Tomba semicostruita proposta dal Colonna, cfr. COLONNA 1963 p. 164. Per quanto riguarda la struttura, cfr.: MENGARELLI 1927 p. 157 tav. XIX; ÅKERSTROM 1934 p. 23 fig. 4; MENGARELLI 1940 p. 5 n. 9 tav. I e p. 13 n. 54 tav. XII; COLONNA 1963 p. 157 nota 39; LININGTON 1966 pp. 147-157; PRAYON 1975 pp. 14-16 fig. 3c pp. 48, 52 tavv. 3,85 I-3; PROIETTI 1980 p. 61 fig. s.n. Il tipo della tomba “semicostruita” è particolarmente diffuso in area ceretana, cfr.: MENGARELLI 1940 p. 5 n. 9 tav. I; RICCI 1955 col. 498: Tomba 78 fig. 117; col. 500: Tomba 79 figg. 118-123; col. 505: Tomba 81 fig. 124; col. 508: Tomba 84 fig. 125; col. 512: Tomba 88; col. 570: Tomba 132; col. 643: Tomba 176; col. 644: Tomba 177; col. 648: Tomba 181; COLONNA 1963 p. 157 nota 39; PRAYON 1975 p. 16: tipo AI. Per la diffusione in area tarquiniese, cfr.: HELBIG 1870 pp. 56-58; GHIRARDINI 1882 p. 202 nota 4; PASQUI 1885 p. 439 e p. 442; ÅKERSTROM 1934 p. 43; ROMANELLI 1943 p. 232: Tomba 82 fig. 13; COLONNA 1963 p. 157 nota 39; HENCKEN 1968 p. 595. Per la presenza in altre aree, cfr.: COLONNA 1963 p. 157 nota 39. 66 Questa sostanziale omogeneità delle forme, rappresentata essenzialmente dalle sezioni ogivale o semi-ogivale degli ambienti funerari è così puntualmente ricorrente ed apprezzata in quanto le possibilità tecniche a disposizione consentivano ormai una sufficiente imitazione delle strutture abitative o dei padiglioni funebri, allestiti in occasione delle esequie. Queste simboliche manifestazioni di vita, così riprodotte, avrebbero consentito, attraverso le modalità del rito, la sopravvivenza del defunto oltre la morte 29) . Le differenze strutturali si inquadrano, invece, in un momento di sperimentazione, di ricerca di più ampi spazi da adibire alle accresciute necessità funerarie, utilizzando al meglio le risorse geo-morfologiche locali a disposizione. E’ una ricerca dagli esiti imprevedibili, non scontati e né tanto meno definiti. In tal senso, questa fase di ricerca mostra di essere la prosecuzione di quella della precedente fase tardo-villanoviana, senza soluzione di continuità 30) . Tuttavia deve essere evidenziata una importante differenza: se nella fase antecedente l’accrescimento era rappresentato principalmente dalla qualità e dalla quantità degli oggetti di corredo, ora, in fase Orientalizzante Antica, l’accrescimento è anche costituito dall’ampliamento e dalla macroscopica differenziazione delle strutture 28) A questo tipo corrisponde molto probabilmente la Tomba di Bocchoris, cfr.: HELBIG 1896 p. 15 sg.; ÅKERSTROM 1934 pp. 49-51; PALLOTTINO 1937 col. 189 nota 2, col. 183 nota I; HENCKEN 1968 pp. 364-378; STRM 1971 pp. 149-150; CANCIANI 1974 pp. 23-24 n.2, pp. 46-47 nn. 10-11; CATALDI 1985 pp. 93-95. In proposito Helbig afferma che il famosissimo corredo di Bocchoris è stato scoperto in una tomba con il soffitto a schiena. Ora, con questo termine, i vari Autori ottocenteschi indicano costantemente un tetto a doppio spiovente (displuviato) cfr.: PALLOTTINO 1937 col. 192 nota 6. Infatti Åkeström identifica la camera della Tomba di Bocchoris con un ambiente a pareti verticali, caratterizzato da un tetto di questo tipo e considerata l’alta datazione del corredo: 700 a.C. circa, costituirebbe un esempio isolato nell’ambito dello sviluppo della tomba a corridoio. Tuttavia si ha una qualche esitazione ad accettare la proposta dell’Åkerström sia perché le tombe a camera con tetto a spiovente, in area tarquiniese, appartengono in massima parte ad una fase molto avanzata dell’Orientalizzante e all’epoca Arcaica, cfr. CULTRERA 1930 p. 146 fig. 29; tomba XXXI, p. 155 fig. 35: tomba XLII, p. 162 fig. 42; tomba XLVIII, p. 171: tomba LI , p. 171 fig. 51: tomba LIII, p. 172 fig. 52; tomba LIV, pp. 172-175: tomba LVII, p. 175 fig. 56: tomba LVIII; ROMANELLI 1943 p. 217: tomba 67, p. 225: tomba 75, p. 250: tomba 105; MARCHESE 1944-45 p. 7 fig. I: tomba 115, p. 8: tomba 116, p. 13: tomba B; sia perché, per il periodo considerato: primo trentennio circa del sec. VII a. C., in area ceretana, sono documentate tombe con camera a sezione ogivale, sul tipo di quella rinvenuta nel Tumulo del Colonnello, cfr.: PRAYON 1975 p. 17 nota 26 tav. 85,7. Quindi è possibile che il corredo della Tomba di Bocchoris (cfr.: Hencken), datato 700-690 a.C. (cfr.: Canciani, Cataldi) sia stato rinvenuto in una piccola tomba con caratteristiche analoghe. D’altra parte, Helbig, giunto a Tarquinia troppo tardi, non poté osservare direttamente il tipo di ipogeo già reinterrato; ma una tomba con una sezione a sesto acuto poteva ben apparire agli occhi dei frettolosi e superficiali scavatori, ben poco interessati all’aspetto architettonico, un tipo con soffitto a schiena. Comunque è da escludere che si sia potuto trattare di una tomba a sezione semi-ogivale con fenditura aperta nella volta, come invece è ipotizzato in BIANCHI-BANDINELLI TORELLI 1976, scheda 16, perché la testimonianza dell’Helbig è esplicita in questo senso: si tratta di una tomba a camera con tetto a schiena; in ogni caso, con un soffitto di tipo chiuso. 29) Cfr.: COLONNA 1985 p. 290. 30) Con ciò non si intende aderire alla tesi dello sviluppo delle tombe a fossa in quelle a camera, attraverso le tombe a corridoio, proposta dall’Åkerstrom (ID. 1934 pp. 43-51) e ripresa recentemente dal Prayon (ID. 1975 p. 14 sg. fig.3), sebbene con qualche modificazione. Per la revisione della tesi evoluzionista, cfr.: COLONNA 1963 p. 164 sg. Invece, si vuole porre l’accento sulla dinamica sociale ed economica e sottolineare quelle spinte di rinnovamento e di trasformazione, insite nella Società etrusca tarquiniese, che già molto consistenti sulla fine dell’età del Ferro risultano decisamente potenziate nella successiva età Orientalizzante Antica, cfr.: COLONNA 1975 pp. 5-8; CRISTOFANI 1978 pp. 29-51; TORELLI 1981 pp. 47-71. 67 funerarie. In questo senso, l’area ceretana conserva la testimonianza di un ulteriore tipo di piccola tomba a “falsa” camera, che quindi si aggiunge a quelli indicati precedentemente: è la Tomba 66 della Banditaccia, completamente costruita con blocchi di riporto 31) . Nella Tarquinia coeva, dunque, l’articolazione sociale in notevole incremento, conosce un ulteriore sviluppo che sembra fare da preludio alla successiva definitiva affermazione della più alta Aristocrazia. Quindi, non è privo di significato il fatto che nell’area di Villa Falgari la tomba a falsa camera n.4 si differenzi ed emerga tanto nettamente dal complesso delle altre tombe a fossa di età orientalizzante e che vi sia stato sepolto proprio un guerriero. La persistenza delle tombe a fossa n. 6 e 2 ancora nell’ultimo quarantennio del sec. VII a.C., dopo la straordinaria fioritura delle tombe a tumulo monumentali quali: il Tumulo di Poggio del Forno 32) , il Tumulo di Poggio Gallinaro 33) , il Tumulo Avvolta 34) , il Tumulo I° della Doganaccia 35) , il Tumulo Luzi 36) e contemporaneamente alle tombe a tumulo minori con camere funerarie del tipo “a fenditura” 37) , oltre a documentare il notevole grado di complessità raggiunto dallo sviluppo delle strutture socio-economiche, dimostra l’esistenza di ceti sociali secondari e meno abbienti. Inoltre, a Villa Falgari, la notevole densità di tombe orientalizzanti, quale risulta dal rapporto con l’esigua estensione dell’area sepolcrale esplorata, lascia intravvedere per questo periodo uno sviluppo demografico crescente; mentre, la presenza di tombe di Età Arcaica: nn. 5 ed 1 indica, senza dubbio, la continuità di vita 38) di un abitato, che le eccessive distanze impediscono di identificare con quello della Civita 39) . 31) Cfr.: MENGARELLI 1940 p. 5 n. 8 tav. I, p. 12 n. 53 tav. XII; RICCI 1955 col. 476 fig. III tav. VII, 66; COLONNA 1963 p. 160 nota 43 fig. 6; PRAYON 1975 p. 16; MORETTI 1977 p. 7 tav. III. 32) Cfr.: GUERRINI - SCIARRA 1968 pp. 231-234; BALDO 1977 p. 3; COSTANTINI 1980 pp. 33-38; BRUNETTI NARDI 1972 p. 79. 33) Cfr.: COLONNA 1973 p. 549 tav. CXXI-CXXIIa; RIDGWAY 1973-74 p. 49; TORELLI 1980 p.126; BRUNETTI NARDI 1981 p. 164. 34) Cfr.: AVVOLTA 1829 pp. 95-100 tav. f.t.; FOSSATI 1829 p. 123, 130; PALLOTTINO 1937 col. 25 nota I, col. 67 nota 3, coll. 182-183, 208; HENCKEN 1968 pp. 397-401; STRM 1971 pp. 168-169; PRAYON 1975 pp. 52-53 nota 254 tav. 86, 19. 35) Cfr.: CULTRERA 1932 pp. 100-116; ÅKERSTROM 1934 p. 45; PALLOTTINO 1937 coll. 64, 186-187, 195; DEMUS QUATEMBER 1958 pp. 21-22 nota 17; COLONNA 1963 p. 165 nota 69; HENCKEN 1968 pp. 378-380 figg. 370-371; CATALDI-MELIS 1971 pp. 23-24 n. 23; PRAYON 1975 p. 54 e nota 269. 36) GALLINA 1965 pp. 235-240; MAGRINI 1970 pp. 17-20 tav. III-IV; CATALDI-MELIS 1971 p. 21 n. 7; BRUNETTI NARDI 1972 p. 77. 37) Si veda in particolare i Tumuli detti del Leoncino e dell’Infernaccetto, inediti, ubicati in località “Infernaccio”, a Sud dell’area della “Madonna del Pianto”, cfr.: BRUNETTI NARDI 1981 p. 159. In ogni modo, si rimanda alla nota 26 del presente lavoro. 38) Nella stessa area di Villa Bruschi-Falgari sono state rinvenute consistenti testimonianze dell’Età del Ferro, cfr.: MORETTI 1959 pp. 137-138; CATALDI-MELIS 1971 p. 22 n.9; BRUNETTI NARDI 1972 p. 78. 39) L’inattesa scoperta dell’abitato protostorico in località “Calvario”, nella zona nord-occidentale dei Monterozzi, cfr. LININGTON-DELPINO-PALLOTTINO 1978 pp. 3-24 tavv. I-VI; LININGTON 1982a p. 177 sg.; ID. 1982b. pp. 68 Invece, la posizione topografica della necropoli, collocata quasi alla fine delle propaggini occidentali dei Monterozzi, sul versante che guarda il mare, sembra costituire un’ulteriore prova dell’abitabilità antica del colle di Corneto 40) . Infine non va tralasciato il fenomeno della riutilizzazione rilevato nella tomba a camera arcaica n.5, dove è stata rinvenuta una deposizione tardo-repubblicana. LUDOVICO MAGRINI MIRELLA MILLA CELESTINO VITTORIO PETRIZZI Nota sul restauro della Pelike Attica a figure rosse n. 65. Stato di conservazione: frammentata; alcune lacune sui fianchi ed altre, meno estese, in corrispondenza delle figure e dei giunti. Tracce di un antico restauro sono evidenziate da coppie di fori passanti per l’inserzione di grappe metalliche alla base e su un fianco; una coppia di fori appare iniziata ma non completata; la base fu limata ai giunti per facilitarne l’incastro. Efflorescenze ed inflorescenze saline (in prevalenza nitrati) hanno causato sollevamenti e distacchi della vernice e dello strato superficiale, più diffusi sulla superficie interna e sui frammenti della fascia inferiore. Numerose le deformazioni negli spessori per separazione in strati. Pulitura: lavaggi con acqua distillata e Desogen al 2% alternati a bagni con alcool, proteggendo la superficie con carta giapponese per impedire ulteriori cadute di vernice. Un primo consolidamento della superficie esterna ha permesso ulteriori lavaggi fino ad estrazione totale dei sali. Pulitura con bisturi dei residui calcarei ed argillosi. Consolidamento: applicazioni successive e ripetute di Paraloid B72 in soluzione al 2%. Ricomposizione: mediante resine epossidiche serie trasparente, previa applicazione di un primer reversibile con solventi chetonici per parte dei frammenti, un collante nitrocellulosico è stato utilizzato per i restanti, con scelta di incollaggi per ovviare alla 245-256; FUGAZZOLA 1985 p. 47 se modifica ed amplia il quadro del popolamento sui Poggi tarquiniesi nell’Età del Ferro, induce ad una certa cautela sulla possibile esistenza di abitati anche in età storica. 40) Cfr.: PASQUI-COZZA 1885 pp. 513-523 tav. XV; CULTRERA 1920 pp. 266-275; PALLOTTINO 1937 coll. 86 sg. 99, sg. 103 nota 4. Con ciò, non si vuole riaprire la ormai superate questione dell’ubicazione della Tarquinia arcaica, che è collocata sulla Civita, ma si tratta di dover accertare, in maniera approfondita, le possibilità abitative, in epoca arcaica, sulle estremità occidentali dei Monterozzi, che i dati desunti dalle necropoli circostanti lasciano ipotizzare come notevolmente consistenti. 69 notevole deformazione degli spessori e con successiva infiltrazione di resina epossidica per sostenere i punti di minor aderenza. Integrazioni: stucco cellulosico (Polyfilla) colorato con tempere. Consolidamento delle integrazioni: con metacrilato in soluzione al 2%. ABBREVIAZIONI AC Archeologia Classica. Roma. AIRSS Acta Instituti Romani Regni Sueciae. AJA American Journal of Archaeology. Baltimore. Ann Inst Annali dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica. Ann Ist It Num Annali dell’Istituto Italiano di Numismatica. Boll STAS Bollettino della Società Tarquiniense di Arte e Storia. Tarquinia. 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Per definizione, con il termine topografia si intende la scienza che studia il territorio ed i metodi di rappresentazione grafica di questo; ne consegue che la topografia antica è la materia che studia l’assetto territoriale antico, attraverso l’analisi dei dati archeologici, e realizza una cartografia archeologica adeguata alla ricostruzione del popolamento nei singoli periodi storici. In altri termini, dalla topografia antica ci si attende un’analisi dei dati per stabilire come fosse distribuita la popolazione dalla preistori al medioevo (distribuita in villaggi, concentrata nei centri urbani, sparsa nelle campagne, divisa in piccoli agglomerati rurali, etc.), con quali risorse si mantenesse (agricoltura, commercio, artigianato, traffici marittimi, minerari, etc.) e come fossero organizzate le comunicazioni (strade principali, viabilità secondaria, percorsi fluviali, marittimi, etc.). 81 Questa disciplina trae le sue origini dall’esigenza di riscoprire e localizzare le città antiche ricordate nelle fonti letterarie latine e greche, esigenza sentita a partire dall’Umanesimo, e si affina con il successivo fiorire degli studi cartografici. Va da sé che l’unico modo per appurare l’esattezza delle informazioni antiche era la conoscenza diretta del territorio attraverso la perlustrazione dei luoghi. Numerosi sono gli studiosi che si sono distinti in questo campo e troppo lungo sarebbe elencarli tutti; sono però da ricordare per il loro impegno nell’alto Lazio personaggi come Annio da Viterbo, Filippo Cluverio e Luca Holstenio. Il progresso negli studi archeologici, con la conseguente specializzazione di competenze per la topografia antica, e l’evoluzione delle tecniche cartografiche porò, nel 1881, alla promozione di un programma per il censimento del patrimonio archeologico italiano. Tale programma, realizzato da G. Gamurrini, A. Cozza, A. Pasqui, R. Mengarelli e che prese il nome di “Carta Archeologica d’Italia”, investì principalmente il territorio dell’Etruria meridionale, marittima ed interna, della Sabina e dell’agro Falisco portando alla localizzazione di centri come Luni sul Mignone, San Giuliano, Falerii Novi e Nepi. Il progetto, però, non giunse mai a compimento per la carenza di fondi disponibili ma la messe di documentazione raccolta nei sette anni di ricerche contribuì non solo all’accrescimento delle conoscenze scientifiche sugli abitanti ma anche all’istituzione del Museo Etrusco di Villa Giulia. Nel 1926, non senza polemiche e conflitti accademici, vennero avviati due programmi topografici ancora attuali: la “Forma Italiae” da parte di G. Lugli dell’Istituto di Topografia Antica dell’Università di Roma e la “Carta Archeologica” di R. Bianchi Bandinelli. Il primo - erede diretto della metodologia adottata dal Gamurrini, Cozza, Pasqui, Mengarelli - prevedeva la realizzazione di carte topografiche in scala 1:25.000 (le tavolette dell’Istituto Geografico Militare) con la localizzazione puntuale dei singoli rinvenimenti e la conoscenza diretta integrale del territorio in esame; il secondo consisteva nella raccolta sistematica dei dati bibliografici riportati su base cartografica al 100.000. Negli anni ‘50 J. Ward Perkins e la British School of Rome realizzarono un grande progetto di ricerca di superficie, la “South Etruria Survey”, che investì soprattutto il territorio dell’antica città di Veio. L’iniziativa mirava a raccogliere i dati relativi agli insediamenti abitativi minori (fattorie e ville rustiche), nel momento in cui le trasformazioni agrarie del dopoguerra sconvolgevano l’assetto morfologico, avvalendosi anche di discipline non archeologiche quali la geologia e la geomorfologia per la ricostruzione del paesaggio antico. 82 Finalità e metodologie sostanzialmente simili portarono F. Castagnoli, in quegli stessi anni, a dare un nuovo impulso al progetto “Forma Italiae” che si arricchì di numerosi volumi. L’intento del Castangoli era di realizzare un catasto delle presenze archeologiche che fosse strumento fruibile, in egual misura, dal mondo scientifico e dagli enti preposti alla tutela o alla pianificazione territoriale. Tale scopo, già presente nei programmi della commissione Cozza-Pasquini-Gamurrini e del Lugli, si rese ancor più pressante nel momento in cui il “boom” economico degli anni ‘60 - e la conseguente espansione edilizia, la realizzazione di nuove strade a scorrimento veloce, l’utilizzazione di macchine agricole pesanti - portò alla distruzione e al rapido deterioramento del patrimonio archeologico. Da allora molteplici sono stati gli sviluppi tecnici nell’indagine territoriale, maturati anche grazie all’applicazione di tecnologie geofisiche ed informatiche, ed il confronto delle varie esperienze ha portato ad un notevole arricchimento scientifico nelle metodologie della ricerca topografica. Nuovi indirizzi di ricerca: la scuola anglosassone e la scuola romana. Allo stato attuale delle ricerche, possiamo dire che sostanzialmente sono due le direttrici metodologiche sulle quali sono divii gli studiosi di topografia antica. La prima, in auge dagli anni ‘80, è la c.d. “scuola anglosassone” come è stata definita in un recente convegno tenutosi a Pisa. Questa ha concepito una tecnica di ricerca “estensiva” che si avvale dell’interdisciplinarietà delle materie (geologo, pedologo, paleobotanico, antropologo) e l’elaborazione dei dati su base statistica. Tale tecnica si distingue per la scelta di indagare grandi comprensori regionali accomunati da motivi storici, svincolandosi dunque dalla costrizione geografica determinata dalle tavolette IGM, attraverso la campionatura del territorio oggetto della ricerca con una serie di transetti regolari organizzati in modo da avere una rappresentazione statisticamente valida per l’intero territorio. Un’esemplare applicazione di questo metodo è stata attuata da A. Carandini e dalla sua équipe nel corso del progetto “Ager Cosanus”, esteso dalla valle dell’Albegna al fosso Tafone, che ha portato alla copertura complessiva del 20% dell’intero territorio e alla scoperta di numerose presenze archeologiche ancora sconosciute. Tale metodologia, alla quale va indubbiamente riconosciuto il merito di essere innovativa e di aver costituito riflessione scientifica per l’approfondimento delle problematiche di ricerca topografica in Italia, ha il vantaggio di perlustrare quantitativamente meno territorio dunque con un notevole risparmio di tempo - ma a mio avviso i risultati ottenuti non 83 costituiscono un valido supporto per le proiezioni statistiche sulla ricostruzione dell’assetto abitativo dell’intera regione. Troppe, e spesso imponderabili, sono infatti le variabili relative alle scelte insediative per ogni singolo periodo storico dalla preistoria al medioevo, scelte determinate per esempio da fattori climatici, geologici, morfologici, politici ed economici. A queste variabili si sommano i limiti propri del tipo di ricerca determinati dalla visibilità del terreno al momento della ricognizione, dallo stato di degrado del dato archeologico, dalla conoscenza dell’operatore del materiale ceramico e dalle sue propensioni storico-cronologiche. In ultima analisi, una pianificazione accurata della ricerca ed una compless strategia dei transetti non potrà soddisfare tutte le discriminanti portando, per forza di cose, a risultati parziali e, dunque, statisticamente viziati. Da quanto esposto risulta evidente che la rappresentatività del dato è direttamente proporzionale al territorio coperto: ad una maggiore area perlustrata corrisponde un valore statistico più indicativo, dunque più vicino alla realtà. 1) . La seconda direttrice è quella che trova nella “scuola romana” il suo punto di riferimento e la sua applicazione metodologica nei volumi della collana “Forma Italiae”. Lo spirito in cui si muove l’opera stessa, che come detto precedentemente vanta importanti tradizioni di studio, può essere sintetizzato dalla frase del Gamurrini: “La Carta deve servire come di preparazione e fondamento per gli studi e le scoperte future e, inoltre, per assicurare all’Italia la conservazione dei monumenti”. A tale scopo la metodologia adottata prevede: - la pubblicazione di volumi secondo il criterio di suddivisione geografica per tavolette IGM, ovvero per carte topografiche in scala 1:25.000 comprendenti un’area di 10x10 km.; - l’esplorazione diretta ed integrale del territorio in esame; -la schedatura delle emergenze archeologiche con descrizione sintetica ed analitica dei singoli rinvenimenti, mobili ed immobili; - un’abbondante documentazione grafica e fotografica di supporto alle schede; - la localizzazione puntuale dei singoli rinvenimenti sulla carta topografica, con riporto in scala dell’estensione. E’ fuor di dubbio che tale metodologia, recentemente definita “intensiva”, comporta una conoscenza effettiva delle presenze archeologiche in una determinata area, sempre 1) Tale considerazione potrà apparire lapalissiana ma dimostra quanto sia difficile, o quantomeno azzardato, applicare modelli matematico-statistici ad una disciplina umanistica come la topografia antica. 84 considerando i limiti stessi del tipo di ricerca, ma è altrettanto vero che non consente di avere un quadro di insieme della situazione storica del comprensorio regionale di appartenenza. Inoltre, bisogna aggiungere che in alcuni volumi pubblicati è mancata una dettagliata sintesi storico-topografica sull’evoluzione insediativa del popolamento. Questo, è in parte da imputare alla scarsa conoscenza del materiale ceramico da parte degli operatori - a loro discolpa, però, deve essere considerata la mancanza di approfonditi studi ceramologici fino a non molti anni fa - e dalla propensione della topografia per un tipo di studio che privilegiava preferenzialmente l’analisi strutturale. Tale indirizzo, grazie anche al dibattito metodologico avvenuto in questi ultimi anni, sembra cambiato essendo richiesta anche al topografo una maggiore conoscenza della ceramica - elemento base per ogni periodizzazione storica - e gli ultimi volumi editi, ancor più quelli di prossima pubblicazione, dimostrano una maggiore sensibilità ed un affinamento delle tecniche relative alla ricostruzione dell’insediamento antico del territorio nelle singole fasi storiche. Discorso a parte merita un altro campo di studio che riguarda la redazione di “Carte Archeologiche” in scala 1:100.000 da parte del Ministero della Pubblica Istruzione o, più recentemente, da Regioni e Provincie. Come abbiamo avuto modo di accennare precedentemente, si tratta della compilazione di carte IGM sulla base dei dati raccolti dallo spoglio della bibliografia esistente e degli archivi (Sopraintendenze, Musei, Comuni, Provincie, Archivi di Stato, archivi privati ecc.). I dati, organizzati in schede sintetiche descrittive, sono rappresentati simbolicamente sulla carta e risultano suddivisi per periodi grazie ad una scala cromatica indicata nella relativa legenda. Il lavoro ha lo scopo di costituire la base per lo studio territoriale sia a fini archeologici che per la programmazione degli sviluppi. Va da sé che questi tre campi di indagine, diversi per finalità e metodologie, non si escludono a vicenda ma, proprio per le differenze peculiari delle singole ricerche, sono da considerare basiliari e complementari per ogni tipo di studio territoriale scientifico e non. La realizzazione della carta archeologica: gli strumenti Gli attuali indirizzi della topografia sono, per certi versi, determinati dalla grande “urgenza territoriale” che è stata quasi improvvisamente, certo tardivamente, recepita dalla collettività, trovatasi a fronteggiare le emergenze ambientali derivanti dal forte degrado che ha investito e travolto la quasi totalità del territorio nazionale. Da questa situazione sono scaturite due direttive per gli studiosi di topografia antica: 1) la necessità di catalogare e posizionare su carte adeguate tutte le emergenze archeologiche del territorio, operazione indispensabile per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico; 2) un 85 lavoro di preparazione per lo sfruttamento intelligente del territorio e la programmazione degli sviluppi. Per arrivare ad un così ambizioso risultato devono essere utilizzati molti strumenti di lavoro che insieme concorrono alla strutturazione di un serio metodo scientifico: a) studio accurato della geomorfologia della regione indagata, che si avvalga delle moderne scienze paleoambientali, della pedologia e geologia, per poter ricostruire, almeno in via ipotetica, l’habitat antico (linee di costa, percorsi dei fiumi, paludi, foreste, etc.); b) analisi delle fonti antiche (classiche e medievali), che comprende la raccolta delle informazioni tratte dalle opere letterarie, storiche, annalistiche geografiche, itinerarie, epigrafiche e di tecnica agrimensoria; da questo strumento si possono ricavare utili indicazioni sulla storia socio-politica, sulla viabilità antica, sul popolamento, sulle attività produttive e sui modi di sfruttamento del territorio in oggetto; c) cartografia antica, per individuare tracce riguardanti strutture o percorsi antichi oggi scomparsi ma visibili fino all’inizio del nostro secolo e segnati sulle carte. In tal senso, particolare rilevanza assume l’analisi critica della cartografia storica, ovvero le carte finalizzate alla ricostruzione dell’assetto antico redatte dal XVII secolo in poi, per il carattere documentario dell’opera; d) documentazione d’archivio riguardante la scoperta, spesso inedita, di materiale archeologico; molto utili, a tal proposito, risultano gli archivi degli ordini religiosi o quelli privati di proprietari terrieri; e) toponomastica, strumento estremamente valido negli studi topografici per il carattere conservatore dei nomi delle località; questi forniscono informazioni relative all’ubicazione dei centri antichi e ai tratti viari oppure alludono all’esistenza di resti archeologici. Nel territorio viterbese esemplificativi sono i casi di Bolsena per Volsinii, Via dell’Origlio per Via Aurelia, Pian di Voci per Vulci, Torrente Arrone da Arunth (tipico nome etrusco) oppure Murelle e Muraccioli per indicare strutture murarie; f) ricognizione sul terreno; è lo strumento principale delle ricerche topografiche attraverso il quale si localizzano siti antichi altrimenti sconosciuti. Si tratta di effettuare perlustrazioni per individuare l’affioramento di materiale archeologico in seguito alle arature. Nella grande maggioranza dei casi, per l’effetto distruttivo dei lavori agricoli, il rinvenimento si presenta sotto forma di aree di frammenti fittili; g) fotografia aerea. Quest’ultimo aspetto, anche se entrato a buon diritto a far parte degli strumenti di indagine archeologica da diversi anni, merita di essere approfondito essendo ancora poco sfruttato o, peggio ancora, male impiegato. In questa sede si tenterà di fornire 86 un’esemplificazione delle possibilità offerte dalle fotografie aeree alle ricerche topografiche 2) . L’utilizzazione di termini tecnici, quando strettamente necessari, sarà seguita da una spiegazione sintetica ma - almeno nelle intenzioni - esauriente, demandando la trattazione particolareggiata dell’argomento ai manuali di fotointerpretazione archeologica recentemente pubblicati. Bisogna premettere che tra i numerosi tipi di fotografie aeree esistenti (verticali, oblique, panoramiche, infrarosso, etc.) le più utili ai fini archeologici sono quelle verticali, in considerazione anche del rapporto tra la quantità di informazioni ricavabili ed il prezzo. I vantaggi offerti dalle foto verticali consistono, prevalentemente, nel mostrare il terreno secondo una prospettiva planimetrica - in tutto simile alle rappresentazioni delle carte topografiche - permettendo, dunque, una visione di insieme dell’area che non è possibile con il semplice controllo sul terreno; inoltre, osservate attraverso lo “stereoscopio” (strumento ottico bioculare che consente di vedere contemporaneamente due fotogrammi, uno con l’occhio destro l’altro con il sinistro), è possibile percepire le caratteristiche tridimensionali ed altimetriche del territorio. Altro fattore estremamente importante è che le fotografie aeree verticali possono essere utilizzate per la realizzazione di carte topografiche a scala adeguata per i fini archeologici, ad esempio con isoipse molto ravvicinate per esaltare il microrilievo determinato dalle strutture antiche sepolte. Gli elementi archeologici - siano essi fattorie, strade, divisioni agrarie, tagliate, tombe, cave, etc. - si manifestano nelle aerofotografie sotto forma di tracce che, nella pratica, si distinguono per variazioni cromatiche, andamento del terreno e particolari aspetti del paesaggio. Le variazioni cromatiche, che si traducono in sfumature di colore vero e proprio o di tonalità di grigio nelle pellicole b/n, vengono registrate dal materiale fotografico anche se impercettibili all’occhio umano; tali sfumature possono essere enfatizzate dall’uso di filtri. Lo sviluppo del rilievo dipende, come è ovvio, dalla conformazione geologica sottostante; dunque, un elemento interrato influisce sull’andamento altimetrico del terreno determinando differenze, spesso minime (microrilievo), che possono essere individuate con lo stereoscopio. L’aspetto del paesaggio è determinato da fattori antropici antichi e moderni correlati tra loro; in alcuni casi l’ambiente attuale risulta fortemente caratterizzato da elementi antichi (si pensi al tipico paesaggio della Pianura Padana - con lunghi rettifili ed 2) E’ bene precisare che per fotografie aeree si intendono genericamente le riprese effettuate dall’alto, comprendendo in tal senso sia quelle realizzate da palloni aerostatici che da elicottero e satellite, ma anche da strumenti fotografici 87 incroci ortogonali - determinato dalla persistenza della divisione agraria di età romana), in altri le implicazioni sono meno evidenti. Finora sono stati descritti genericamente gli elementi che manifestano l’esistenza di anomalie sulle aerofografie; passiamo ora ad analizzare, nel concreto, come si riconosce una traccia archeologica ed i principali fattori che determinano la comparsa della stessa. In determinate condizioni, i resti archeologici interrati possono influenzare il grado di sviluppo della vegetazione determinando sulla fotografia una traccia di tono chiaro. Il fenomeno è prodotto dalla differenza di profondità dell’humus in corrispondenza della struttura, minore rispetto all’area circostante, comportando una variazione di nutrimento con conseguenze sulla crescita, sulla densità e sul colore della vegetazione. Ovviamente, completamente invertito è il discorso per quanto riguarda i fossati difensivi, le tagliate viarie, i canali interrati etc.: la vegetazione, insistendo su un maggiore spessore di humus, risulterà più rigogliosa e la risoluzione fotografica sarà una traccia scura. In condizioni ottimali, ad esempio, una strada romana interrata apparità come una fascia chiara - in corrispondenza della sede stradale - delimitata dalle due linee sottili scure delle scoline; più generalmente sarà una traccia chiara. Il fattore “vegetazione”, che potremmo indicare come uno dei più facilmente individuabili e di diretta interpretazione, permette in casi particolarmente felici di distinguere con cura i dettagli degli edifici interrati. Esemplificativi sono i fotogrammi riguardanti le ville imperiali di Centocelle e di S. Palomba, dove è possibile riconoscere minuziosamente la planimetria e l’articolazione interna degli ambienti, o la villa di Pian d’Arcione presso Tarquinia. Va però notato che è possibile ottenere questo tipo di tracce soltanto con strutture murarie non profonde e con vegetazione non eccessivamente matura (con lo sviluppo, infatti, le differenze di crescita e di colorazione si annullano). E’ evidente, dunque, che tali discriminanti condizionano fortemente il lavoro del fotointerprete/archeologo; solo le fotografie scattate in un certo periodo dell’anno, infatti, potranno potenzialmente registrare tracce di questo genere. Anche il fattore “umidità” è da considerare uno degli elementi che causano la comparsa di tracce da ricondurre all’esistenza di strutture archeologiche sepolte. Tali tracce, che compaiono prevalentemente su superfici prive di vegetazione, sono determinate dalle differenze di capacità di drenaggio di un terreno, ovvero dalle caratteristiche pedologiche che permettono l’assorbimento dell’acqua. E’ evidente che alterazioni nel substrato comportano la formazione di aree con permeabilità differenziata e con grado di evaporazione direttamente influenzato dallo spessore del suolo coltivabile: minore è particolari quali “giraffe” o simili. In questa sede, però, si prenderanno in considerazione soltanto le foto eseguite da 88 l’humus più rapido sarà il prosciugamento della superficie. Sulla fotografia, quindi, la colorazione del suolo non apparirà uniforme ma si presenterà con zone di diverse tonalità, dove il tono scuro indica una maggiore presenza d’acqua. Come detto precedentemente a proposito delle tracce da vegetazione, le strutture sepolte implicano una diminuzione di profondità del terreno causando, dunque, una veloce evaporazione dell’acqua assorbita: l’esito fotografico è una traccia chiara in corrispondenza dei resti archeologici. Ovviamente una tagliata stradale, un fossato o un canale sarebbero identificati da una linea scura. In casi particolari, però, si può verificare un’inversione di tono della traccia. Il fenomeno, che dipende dalle caratteristiche della struttura, dalla forma, dalla posizione rispetto alla direzione di deflusso delle acque e dalla conformazione del suolo, si verifica per il ristagno di umidità intorno alle strutture che saranno evidenziate da una linea scura. L’ultimo fattore che tratteremo in questa sede riguarda le tracce da microrilievo 3) , per l’identificazione delle quali è consigliabile l’uso dello steroscopio per la visione tridimensionale dei fotogrammi. Abbiamo già accennato al fatto che un elemento sepolto, in determinate condizioni, può modificare l’andamento altimetrico del rilievo con rialzamenti e depressioni. Sulla foto tali elementi determinano tracce che si apprezzano in particolar modo quando la ripresa sia stata eseguita con sole molto basso all’orizzonte, cioè con luce radente, quando anche i minimi rilievi producono un’ombra. In tal caso, il microrilievo si dimostra particolarmente utile nel caso di identificazione di strade antiche infossate, in cui l’andamento si manifesta per l’ombra proiettata dalle sue pareti e per la depressione compresa tra queste. In questa categoria di tracce sono compresi anche i resti archeologici sommersi, come nel fotogramma che riguarda Pozzuoli dove le strutture, poco conservate in alzato, si individuano per il microrilievo e per le ombre proiettate sul fondo marino. E’ bene aggiungere che i voti più indicati per un lavoro di fotointerpretazione archeologica sono quelli più vecchi, ed in particolare quelli realizzati prima dei grandi processi di trasformazione agraria degli anni ‘50. In questi fotogrammi, infatti, aumenta la possibilità di ricavare informazioni per la ricostruzione del paesaggio antico. Particolarmente utili si dimostrano le numerose fotografie scattate durante l’ultima guerra dalla RAF, anche per il minor grado di distruzione delle strutture archeologiche sepolte. Il risultato finale: la carta sincronica aeroplano per la facilità di reperimento delle stesse e per le possibilità di impiego per fotogrammetria archeologica. 89 Tutte le informazioni ottenute dall’analisi dei singoli strumenti sopra menzionati conducono alla redazione di una carta topografica con la con la localizzazione di tutti gli elementi che contribuiscono alla ricostruzione del paesaggio antico (centri antichi, villaggi, fattorie, ville, necropoli, acquedotti, cunicoli, strade, tagliate, cave, etc.). Come base cartografica è abbastanza diffuso l’uso delle carte dell’Istituto Geografico Militare Italiano in scala 1:25.000 ma, a seconda dello scopo e dell’entità di territorio che si deve abbracciare, si possono utilizzare anche scale più piccole (p. es. le carte 1:100.000 dell’IGMI per le carte archeologiche simboliche) o più grandi (utilizzando cioè le carte realizzate dalle Regioni o dai Comuni). La scelta di utilizzare la cartografia ufficiale è determinata, come precedentemente ricordato, anche dallo scopo “civico” della ricerca: fornire agli enti preposti alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico uno strumento di lavoro utile per la pianificazione degli sviluppi. In tal senso, i requisiti di queste carte rispondono pienamente alle esigenze delle amministrazioni locali in fase di progettazione territoriale. In qualche caso, però, la base cartografica è costituita da una elaborazione grafica schematica, con l’indicazione dei limiti territoriali, delle località e dell’idrografia principale; tale rappresentazione è utilizzata prevalentemente per focalizzare informazioni di carattere generale sulla distribuzione di determinati elementi (carte delle ossidiane, di un certo tipo di anfore, di categorie specifiche di insediamenti, etc.) e, dal momento che non contempla le componenti fondamentali del paesaggio (come l’altimetria), non si può considerare un’espressione propria della topografia. Il limite principale di una ricerca topografica condotta sul territorio, come si è avuto modo di accennare in precedenza, è costituito dall’alta percentuale di dati non recuperabili a causa delle trasformazioni del paesaggio (aree edificate, cave, sbancamenti, lavori agricoli, etc.), degli “occultamenti temporanei” (vale a dire emergenze archeologiche coperte da fitta vegetazione, aree di frammenti fittili non visibili perché in terreni a pascolo, etc.) o dell’impossibilità di indagare certe aree (zone militari, recintate, etc.). Tale limite, come è ovvio, condiziona la corrispondenza tra l’effettiva quantità delle presenze antiche nel territorio e quelle registrate sulla carta. Se, dunque, lo scopo di una carta archeologica è quello di fornire informazioni precise sulla presenza o meno di emergenze antiche informazioni che devono essere utilizzate dallo specialista quanto dalle amministrazioni locali - la mancanza di indicazioni in una zona può essere interpretata, da un non specialista, come assenza di resti antichi mentre il vuoto potrebbe dipendere da uno dei 3) In realtà esistono altri fattori che consentono al fotointerprete di supporre l’esistenza di elementi archeologici ma, per motivi di spazio e perché indicatori indiretti di strutture sepolte, si è optato per una esclusione di questi dal presente lavoro. 90 fattori limitativi precedentemente ricordati. Per ovviare almeno in parte a questa contraddizione, che genera comprensibili perplessità e diffidenze, è stato studiato un espediente grafico per fornire al fruitore della ricerca uno strumento univoco di valutazione. Alla base dell’espediente è un’indagine minuziosa, dettata anche dalla esperienza maturata nell’ambito degli studi di topografia antica, sui fattori che determinano la possibilità di individuare emergenze archeologiche sul territorio. Si è potuto, così, stilare un “indice di visibilità”, riferito alle diverse condizioni del terreno, associato ad una scala cromatica: ogni elemento dell’indice è distinto da un colore. La realizzazione di carte archeologiche cromatiche permetterebbe di visualizzare contemporaneamente l’elemento e le condizioni di visibilità del terreno al momento della ricognizione 4) . Facciamo l’esempio precedente; sulla carta è segnata un’area di color verde scuro (corrispondente ad una zona di visibilità nulla per macchia o folta vegetazione) senza presenze archeologiche: l’assenza può essere determinata dalle condizioni del terreno; cambiando lo stato di questo (messa a coltura del campo), potrebbero emergere resti antichi. Se invece il colore dell’area fosse bianco (condizioni ottimali di visibilità: terreno privo di vegetazione, non polveroso, etc.) la mancanza di indicazioni corrisponderebbe ad una effettiva assenza di strutture archeologiche sul territorio. Ancora; pochi frammenti fittili in un campo contraddistinto dal colore verde chiaro (corrispondente ad una zona a pascolo) non provano necessariamente la presenza di una piccola abitazione, o peggio di una costruzione completamente distrutta dai lavori agricoli, ma solo l’esistenza di un insediamento le cui dimensioni e lo stato di conservazione non sono precisabili per la visibilità appena sufficiente, conseguenza diretta del tipo di coltura dell’area. Da questi esempi si intuisce le potenzialità di lettura della carta e la raffinatezza di interpretazione e di analisi che si cela dietro questi lavori. In molti casi, infatti, è possibile stabilire persino il grado di conservazione dell’elemento archeologico sepolto in relazione al tipo di coltivazione o alla evidenziazione nell’indice dei danni provocati da azionipositive o negative - quali lo sbancamento da aratura, il riporto di terra artificiale o naturale (frane, alluvioni), le cave, etc. L’operatore, dunque, non potrà più essere un semplice appassionato che passeggia per campi cercando materiale antico ma dovrà possedere una seria esperienza di ricerca sul territorio per cogliere anche quelle informazioni non prettamente archeologiche che rendano la carta un serio strumento scientifico. GIORGIO F. POCOBELLI 91 BIBLIOGRAFIA AA.VV., Ricognizione archeologica e documentazione cartografica, in Quaderni dell’Istituto di Topografia Antica VI, Roma 1974. R. Bianchi Bandinelli, Carta archeologica d’Etruria, in Studi Etruschi I, 1926, pp. 449-454. A. Carandini, Settefinestre. Una villa schiavistica nell’Etruria romana, Modena 1985. La Cartografia archeologica: problemi e prospettive, Atti del convegno Internazionale di Pisa (21-22 marzo 1988), Pisa 1989. F. Castagnoli, La Carta Archeologica d’Italia (Forma Italiae), in Quaderni della ricerca scientifica: un decennio di ricerche archeologiche, Roma 1978, pp. 269-280. M. Celuzza, E. Regoli, La valle d’Oro nel territorio di Cosa. Ager Cosanus e Ager Veientanus a confronto, in Dialoghi di Archeologia 1980, 2, pp. 31-62. G.M. De Rossi, La via Aurelia dal Marta al Fiora, in La via Aurelia da Roma a Forum Aureli, Quaderni dell’Istituto di Topografia Antica IV, Roma 1968, pp. 121-154. G.F. Gamurrini, A. Cozza, A. Pasqui, R. Mengarelli, Forma Italiae. Materiali per l’Etruria e la Sabina, (a cura di F. Castagnoli), Roma 1970. M. Guaitoli, La carta archeologica, in Metodologie nella ricerca topografica - Atti del I congresso di Topografia Antica (13-15 maggio 1993) (in c.s.). G. Lugli, Anxur-Terracina, Roma 1927. F. Piccarreta, Manuale di fotografia aerea; uso archeologico, Roma 1987. M. Rendeli, Città aperte, Roma 1993. G. Schmiedt, Atlante aerofotografico delle sedi umane in Italia: parte I, l’utilizzazione delle fotografie aeree nello studio degli insediamenti, Firenze 1964. 4) Carte di questo tipo sono in corso di realizzazione nella sezione di Topografia Antica dell’Università di Roma “La 92 CASTELLI DI CORNETO NEL XIII SECOLO I siti di Civitella, Monte Monastero e Sant’Arcangelo hanno ricoperto un’importanza fondamentale nello sviluppo della potenza politica di Corneto intorno al XIII secolo. Queste tre località sorgevano lungo il corso del fiume Mignone confermando la teoria secondo la quale il corso d’acqua costituì una importantissima via di comunicazione, collegando facilmente Corneto con i centri più interni della Tuscia. Tra Monte Monastero e Sant’Arcangelo il “Passo di Viterbo” 1) testimonia l’esistenza di una strada che attraversava i due centri per raggiungere Civitella, quindi Blera e Vetralla. E’ su questi territori dei monti della Tolfa che si consolidò un lungo attrito tra Corneto e Viterbo, quest’ultima intenzionata ad estendere il predominio verso il Tirreno proprio attraverso Sud. Sant’Arcangelo rappresenta, insieme a Santa Maria del Mignone, la più importante fondazione religiosa del Medioevo sui mondi della Tolfa. Un documento del 976, conservato nell’archivio di Viterbo, ci permette di affermare l’esistenza dell’abbazia già nel X secolo. In esso si fa menzione di un abate di Sant’Arcangelo che acquista da tale Ugone alcuni casali con terreno, individuati nel massiccio montuoso tolfetano. Il luogo, che attualmente si chiama Piantangeli o Pian d’Angelo, è raggiungibile per la strada che dal tempio etrusco della “Grasceta dei cavallari” sale verso est attraverso un fitto bosco. Vicino l’abbazia esisteva un castello con un centro abitato che nel 1061 fu sottomesso al comune di Viterbo dal Conte Farulfo. Nel 1201 l’abate Paltone, in un atto della Margarita cornetana, cede alcuni suoi diritti sul vicino castello a Corneto che ne conserverà il controllo per vario tempo. “.... 1201 marzo” ind. IV, Corneto. Paltone prete, abate della Chiesa di Sapienza”, la pubblicazione delle quali è prevista per i volumi della Forma Italiae di prossima stesura. 1) Attuale strada di campagna. 93 Sant’Arcangelo, col consenso di prete Guido, oblato della medesima Chiesa, dona a Tommaso Ferrario, a Rogerio e a Tagliacozzo, consoli di Corneto il castello di Sant’Arcangelo e Casagnelis, ad pacem et guerram faciendam secondo la loro volontà...” 2) Anche il Polidori, nelle sue “Croniche”, evidenzia il fatto: “... nell’anno 1202 la Comunità di Corneto conquistò il castello di Sant’Arcangelo per via di donatione dell’Abbate d’esso luogo conforme da relativo Instrumento si può ampliamente vedere...”. La vita del castello e del monastero continuò per diversi decenni parallelamente. Nel XIV secolo iniziò il declino. Gli eventi bellici che interessarono anche i monti della Tolfa e soprattutto la peste che sconvolse l’Italia nel 1348, portarono ad una rapida decadenza del monastero e del castello. La proprietà di Sant’Arcangelo fu rivendicata nel 1356 al Sinodo di Montalto dal vescovo viterbese Nicolò. Dopo il trecento non ci sono più documenti che lo riguardano, quindi si può presupporre il suo definitivo abbandono. Oggi dell’abitato non esiste alcun muro, ma sono presenti tracce sotto la superficie erbosa. Approssimativamente il borgo si estendeva per 80 metri con una larghezza di 250 metri. Le tracce della chiesa sono molto più evidenti; lo schema è a tre navate culminanti in tre absidi. Le navate sono ripartite in tre campate con quattro semicolonne addossate alle pareti e quattro colonne centrali. Le dimensioni interne sono di m. 11,75/11,90 di larghezza e m. 19,15 di lunghezza. Della torre campanaria non resta che la base. Moltissimi capitelli sono stati recuperati nel 1974 dalla Soprintendenza e custoditi nel museo civico di Tolfa. Al centro della navata maggiore sono visibili alcune parti di muro formanti un recinto a forma quadrangolare la cui forma e le cui dimensioni fanno pensare ad un probabile spazio per una “schola cantorum”. Del pavimento restano poche tracce mentre l’abside sinistra presenta tracce di uno scavo recente. Sono inoltre chiare alcune tracce di tombe a fossa ricavate nel pancone di tufo. Quel che rimane delle colonne e delle semicolonne addossate alle pareti presenta una tecnica di lavoro con scalpellino molto evoluta. Bisogna segnalare inoltre che in questa località sono state rinvenute una moneta di Federico II del XIII secolo e due monete del XIV secolo. Gli esperti sono concordi nel ritenere che la costruzione fu eseguita nel XII secolo mentre l’abbandono dell’edificio dovrebbe essere avvenuto verso la metà del XIV secolo. La storia di Sant’Arcangelo s’intreccia con altri due importanti borghi medioevali: Monte Monastero e Civitella. Il primo si ergeva sul Monte Monastero, alto 403 metri a sud 2) Margarita Cornetana, p. 54 c. II. “Col diritto di fare la pace e la guerra”. 94 di Civitella Cesi. Dai documenti di riscossione delle decime, risulta che alla fine del 1200 dovevano esserci tre chiese: Santa Maria, San Giovanni e San Leonardo che dipendevano dalla diocesi di Viterbo. Il castello seguì il suo declino nel XIV secolo dopo essere passato agli Anguillara. Di esso non rimane che un residuo di muraglione raggiungibile attraverso una strada di campagna. Civitella Cesi si raggiunge seguendo la strada che da Monteromano porta a Blera. Una diramazione immette in una strada pianeggiante e panoramica che, attraverso verdeggianti campi di olivi, conduce al piccolo centro. Civitella appare in buonissimo stato, arroccata a 190 metri e cinta da mura, un vero e proprio borgo medioevale con un castello recentemente restaurato, quindi in perfette condizioni. Fu edificato nel 1024 dai conti Bovaccini. Fino a poco tempo fa ne era proprietario il duca Don Andrea Torloni. Sembra che attualmente sia stato messo nuovamente in vendita. Cerchiamo ora di seguire, riassumendo, in ordine cronologico le vicende che hanno legato quesi tre castelli alla potente città di Corneto. Secondo un documento datato 1141 ma, secondo alcuni, falso, il conte di Monte Monastero Farulfo cedette al comune di Viterbo alcuni castelli dei monti Tolfetani, tra cui lo stesso Monte Monastero, S. Arcangelo, Alteto e San Giovenale. Nel 1193 il centro fu distrutto da Enrigo di Calandrino, nel corso di una spedizione contro Viterbo. Verso la fine del XII secolo Monte Monastero fu un feudo del conte Guido di Santa Fiora. Nel 1201 i figli di Guido di Santa Fiora chiesero aiuto a Corneto in quanto il conte Ugolino 3) si era impadronito ingiustamente del castello di Tolfavecchia. Ugolino fu sconfitto dai Cornetani e fu costretto ad accettare alcune condizioni: 1) Dover riconoscere il comune di Corneto come signore di diretto dominio di Tolfavecchia, di Monte Monastero e di tutto il territorio che allora possedeva e di quello che avrebbe potuto acquistare in seguito. 2) Dover offrire ogni anno in occasione della festa di San Secondiano un cero del peso di dieci libbre. 3) Dover promettere di dare ai figli del conte Guido “mille libras denariorum paparenorum... currentis monete” 4) e tutto il tenimento che aveva in Cencelle. 4) Dover dichiarare i cornetani esenti da qualsiasi dazio nelle sue terre. 5) Dover giurare il “sequitamentum consulum Corneti” nel tempo in cui giurassero gli altri cornetani e di far giurare allo stesso modo i figli dei figli non appena avessero compiuto il quattordicesimo anno di età. Lo storico Mutio Polidori ricorda l’evento nei suoi Annali di Corneto: “Nel detto anno 1202 Haveva il Conte Ugolino di casa Nicolidi occupato la Tolfa vecchia che 3) Conte e Signore di Tolfa Vecchia. 95 possedeva il Conte Guido, a che il comune di Corneto l’haveva infeudata, in pregiuditio de figlioli di detto Conte Guido, che hebbero ricorso a Corneto come Signore di diretto dominio d’essa Tolfa, affine fosse loro somministrata giustitia. Per lo che li cornetani posti in arme si portarono alla recuperatione della Tolfa, et doppo diversi contrasti, alla fine fu concordato che detto Conte Ugolino riconosca il Commune di Corneto per signore di diretto dominio non solo della Tolfa Vecchia et Montemonasterio, ma anco di tutti gl’altri Castelli, e Luoghi goduti da detto Conte Ugolino et che in avvenire gl’occorresse acquistare. Che dia per tributo annuale nella festa di S. Secundiano 5) un cereo di libbre dieci di cera, et che paghi alli detti figlioli del conte Guido mille lire de denari paparini da pagarsi a raggione di lire cento l’anno nella festa di S. Maria d’Agosto sino all’intiero pagamento di dette mille lire, et che consegni tutte le possessioni loro. Et di più che detto Conte Ugolino sia obbligato dare lire sessanta nel giorno della festa di San Fortunato, che li Cornetani siano franchi d’ogni datio, che si restituisca a detti Cornetani dal detto Conte Ugolino tutto quanto esso o suoi homini ha hauto per la morte del conte Guido. Et finalmente che detto conte Ugolino, et i suoi Vassalli presenti siano tenuti a giurare il Vassallaggio, et il seguito de Ceretani, come anco dovranno giurare li successori tutti doppo che havessero compita l’età di quattordici anni, et altro come in detto Instrumento si vede”. Questo compromesso segnò un lungo periodo di influenza di Corneto sui monti della Tolfa, almeno fino alla seconda metà del ‘400 con l’intervento della Chiesa. Nel 1202 la città di Viterbo si riprese Monte Monastero in seguito ad una guerra contro Corneto, conclusasi con la sconfitta di quest’ultima a Montalto. “... Narra la cronica manuscritta di Viterbo che Janni Cocco, Pietro Forteguerra e Pietro di Polo con molti viterbesi andorno a dannificar Corneto, e che venuti all’arme sopra Mont’alto i cornetani fossero rotti con priggionia de molti che furno condotti in Viterbo... “ (Polidori - Annali). Monte Monastero fu al centro di una contesa anche trra Viterbo e Roma che non poteva lasciare alla Tuscia un nodo di comunicazione così importante nelle vie interne che dal braccianese e dal vetrallese portavano alla Maremma. Per ventitrè giorni il castello fu assediato inutilmente dai Romani difeso strenuamente da trecento viterbesi. Gregorio IX pose fine alla contesa cedendo definitivamente il castello a Roma. Nel 1238 Enrico, abate di Sant’Arcangelo, tentò di sottrarsi alla signoria di Corneto, ma il tentativo fallì cosicchè non solo dovette giurare il solito “sequitamentum” ma porre nel castello, per il comune di Corneto, un Visconte. “... Nell’anno 1238. Si vede un 4) Mille libbre di denari paparini... in moneta corrente. 96 instrumento col quale l’abbate di S. Arcangelo ratifica che il Castello del detto nome di S. Arcangelo spetta a Corneto per raggione del quale promette corrispondere quanto appartiene a detto Publico, et renuntia all’appellatione interposta con obligo di accettare il Visconte che deputerà il Comune di Corneto et di giurare il seguimento d’esso Comune, et altro come in detto Instrumento si vede”. (Polidori-Annali). “Enrico abbate di S. Arcangelo, per ordine di Iacopo di Gepzio console del comune di Corneto, ad computationem di Bonifacio giudice, giura di rispondere a detto Comune per quanto ad esso spetta per il castello di S. Arcangelo, in forza del privilegio fra Rainone da Tolfa vecchia e i suoi fratelli e nipoti e secondo quanto è stabilito nel capitolo del costituto. Giura di rinunciare al processo di appello intentato contro il Comune e presta il sequitamento da molti massari di S. Arcangelo e costituisce nel castello un Visconte. In S. Arcangelo, alla presenza di Angelo di Rollando, Ottaviano da Mastro, Giorgio Malascorte, Gepzio Vitelli, Griffulo, Tommaso notaio e Matteo Humilitis, testi. Rogito di Bonifacio, imp. aule ordinarius atque not. 6) , giudice del comune di Corneto..” (Margarita cornetana, p. 54-55 c. III). L’8 maggio 1251 venne nominato castellano di S. Arcangelo dal Podestà di Corneto “Boccavitellus”, Pietro Bencivenne con l’obbligo di dimorare nel castello, per tutelare i diritti di Corneto. “Boccavitello, podestà e rettore di Corneto, istituisce Pietro di Bencivenne castellano e gastaldo del Comune nel castello di S. Arcangelo. Questi, ad computationem di Bonifacio giudice, giura di conservare la pace in detto castello, dove risiede un conte del Comune e dell’abate, e di rendere conto a questi ultimi dei redditi di S. Arcangelo, versando al Comune quanto gli spetta dei banni, dei plaiti, del terratico, dell’erbatico, del solcatico, delle vigne, della data e di tutto ciò che al Comune medesimo pertiene secondo le disposizioni del privilegio. In S. Arcangelo, presenti Rollando Vitelli, Pandolfo di Vaccario, Berizone di Gerardo di Crescenzio, Ottaviano Mastri, Amatore di Ranieri di Maco, Gepzio di Iacopo di Gepzio, Crescenzio Recuperati, Giovanni barbiere, Giovanni di Paolo banditore, Pietro di Simeone, Simeone di Andrea di Giulia, testi...” (Margarita cornetana, p. 55-56 c.III). L’8 marzo 1256, 102 uomini di Tolfa vecchia, (coloro che avevano compiuto il quattordicesimo anno di età), tramite il Visconte Carnifex giurarono di nuovo il “sequitamentum” di Corneto. 5) San Secondiano, antico patrono di Corneto insieme a San Lituardo. Il giorno della festa di San Secondiano il popolo cornetano veniva benedetto dalla finestra della cappella, situata nell’attuale Palazzo Comunale, con la reliquia del braccio del santo, deposta in una teca argentea. Questa celebrazione con processione ebbe inizio nel 1600. 97 Il 9 marzo 1256 giurarono 57 uomini di Monte Monastero, il 14 aprile giurarono invece i 18 di Civitella. “... Li Tolfetani della Tolfa vecchia et gl’homini di Montemonastero e di Civitella riconoscendosi sudditi di Corneto giurarono fideltà, et seguito de Cornetani, come da relativi Instrumenti nel libro della Margarita”. (Polidori-Annali). “I detti Guglielmo Cappello e Andrea fanno similmente giurare il sequitamento del podestà di Corneto agli uomini di Monte Monastero, ovvero: Pietro Alberie visconte di Monte Monastero, Ricto di Rollando, Salimbene, Benefatto, Rollando Tedesce, Lorenzo Farate, Scambio, Petruccio, Orvetano, Gianni di Stefania, Liuto, Ventura senese, Angelo di Bruna, Giovanni di Nicola, Niccolò, Giovanni di Scambio Arcerii, Guitto, Stefano bifolco, Martino, Simeone Carlii, Girardo catone, Stefano di Benevento, Giovanni, Accursio, Matteo pecoraro, Iacopo di Viola, Plantanello, Gennaro, Iacopo di Ammirato, Bartozio, Angelo di Marsilio, Michele Pulsonis, Leonardo, Giovanni di Pietro, Giovanni di Albertino, Bartolomeo Cerase, Pietro Bucutus, Rainaldo, Pietro, Pietro di Frisa, Roberto di Bartolomea, Giovanni de Bulminensibus, Ranuccio, Ranuccio tolfetano, Pietro di Gianni Mealle, Egidio, Nuto, Gianni, Uguccio, Ricto, Deutaiuti, Getundiano, Giovanni di Pepone, Tedisa, Vuiasclarate, Bartolomeo di Simeone... (Margarita cornetana, p. 57 c. III)... “. Ad computationem di Enrico, giudice, assessore e vicario del podestà di Corneto, Guglielmo di Cappello, sindaco ad Arena notaio fanno giurare a Verardo de Lepti, Serafino de Albona, Pineterus Dainensis, Caniozzo, Pietro, Spinello, Iacopo, Biagio, Salvuccio, Cazato, Iacopo di Neri, Ricculo, Spuleti, Capitano, Nicaleita, Neri, Barone, Pietro di Neri, uomini di Civitella Cesi, il sequitamento di Monaldo di Ranieri di Stefano podestà di Corneto... (Margarita cornetana, p. 58 c.III). Da questi documenti, tenuto presente il numero dei firmatari e il fatto che gli stessi dovevano aver compiuto il quattordicesimo anno di età, si desume che a Tolfa vecchia sarebbero dovuti risiedere dai 350 ai 500 abitanti, a Monte Monastero la metà e a Civitella ancora meno. Nell’estate del 1283 un documento della Margarita Cornetana riporta la nomina di Leonardo Mingardini a procuratore di Corneto il quale ricevette il giuramento di fedeltà delle città di Tolfa vecchia, Civitella, Montemonastero e S. Arcangelo. “Pellegrino da Anagni, giudice del comune di Corneto, in rappresentanza di Roffredo Carsecani, vicario di Niccolò dei Conti, proconsole romano, rettore di detta terra, e Andrea Grassi, console della medesima, per autorità del consiglio regolarmente adunato in palazzo, costituiscono maestro Leonardo Mingardine sindaco e procuratore per ricevere 6) Rogato da Bonifacio giudice ordinario e notaio dell’aula imperiale. 98 il giuramento di sequitamento degli uomini di Tolfa Vecchia, Monte Monastero, S. Arcangelo e Civitella Cesi, per nominare il castellano di S. Arcangelo e per esercitare i diritti previsti dal privilegio del comune di Corneto... (Margarita Cornetana, p. 58 c. IV). “Coronato di Iacopo... in rappresentanza dei consoli del comune di Corneto, fa giurare allo stesso modo gli uomini di Monte Monastero, ovvero: Azzorello di Falcone, Giovanni detto Pica, Petruccio, Gianni di Pietro, Gianni Bernardo, Cola di Gianni, Neri, Gianni di Zozo, Cristoforo Acobj, Iacopello di Pietro, Nardo Iunte, Andrea Rotondecti, Pucio di Gennaro, Gianni di Adinolfo, Simeone Vengne, Pietro Presbiteri, Iacopo de Porta, Bartolomuccio di Leoncino, Guido di Gennaro, Iacopo, Gennaro, Giovanni di Giuliano, Temuccio, Iacopuccio di Gennaro, Francesco, Angelo viterbese, Nuto Fuge, Giovanni Caramani, Marco Talentis, Riccuccio, Bohacculus, Nardo di Giovanni Fladonis, Leuzio di Ranuccio, Bartolomeo di maestro Iacopo, Gianni Bonvini, Nardo Santensis, Pietro calzolaio, Palmerio di Scambio, Iacopello di Alberto, Leonardo di Matteo, Rosso di Giovanni, Scambio di Clavello, Scambio, Puccio di Niccolò, Bartolomeo Strade, Orvetano, Angilello Piparis, Pietro di Leonardo di Ranieri, Pasquale, Muzio di Loffredo, Pietro di Gianni, Giovanni di Pepone, Leonardo di Enrico, Scambio di Florio, Iacopuccio, Nardo di Ruggero, Lonardo di Grazia, Lonardo di Benefatto, Giovanni di Alberto, Tignoso di Normanno, Nardo di Romano, Pietro di Iorio, Vanni di Valentino, Senator, Nardo Montue, Iacopo di Giovanni, Venturozzo, Ranieri di Oddone, Giovanni de porta, Guidarello di Riccardo, Federico, Ugolino di Alberto, Tornabene, Iacopuccio di Pietro, Angelo Lete, Mengulo, Guglielmino, Giovanni Ionte, Nerone, Guittonio, Rollando, Cola di Niccolò, Clemente, Michele di Pepone, Pietro di Verdiano, Iacopo di Giovanni di Albertino, Tomarello di Rollando, Giovanni di Bavoso, Guglielmo Lombardo, Puzio Caulinus, Angilello di Pietro, Biagio di Deutaiuti... In Monte Monastero, alla presenza accettante di Rollando Vitelli, Matteo di Tancredi, Ezalo di Boncambio e Vitaluccio di Giovanni Orvetano, testi... (Margarita cornetana, p.60-61 c. IV). “Nell’anno 1283. Il popolo e Commune di Corneto volendo che li Signori della Tolfa vecchia, Montemonasterio, S. Arcangelo e Civitella riconoscessero esser Vassalli di Corneto, fece procura in persona di Leonardo Mingardini a ricevere il giuramento di Vassallaggio da detti Signori, conforme si vede da relativo Instrumento... Nell’anno suddetto 1283. Leonardo Mingardino Procuratore del Comune e Popolo Cornetano, in virtù della sua procura si trasferì alla Tolfa, e fece giurare il Vassallaggio a Tolfetani come da relativo instrumento si vede”. 99 ... Nell’anno suddetto 1283. Dopo che il Procuratore del Commune di Corneto fece giurar Vassallaggio a gl’Huomini della Tolfa, si conferì a Montemonasterio a far similmente giurare gl’Huomini di detto castello... Havendo il Scindico del Commune di Corneto fatto giurare Vassallaggio a gl’Huomini della Tolfa Vecchia, e di Montemonasterio, deputò il castellano nel Castel di S. Arcangelo...” (Polidori-Annali). Il 3 settembre 1299 i signori di Tolfavecchia e S. Arcangelo giurarono il “sequitamentum Potestatis, Populi et Communis Cornetii nel palazzo comunale cornetano, presente “Consilio speciali et generali” 7) ed “etiam convocatis hominibus terre predicte ad parlamentum predictum”, 8) promettendo di portare ogni anno nella festa di San Secondiano un cero, di dieci libbre di peso, “palam et publice” 9) dalla porta di S. Pancrazio fino alla Camera del Comune, per ivi consegnarlo alla magistratura cornetana; di tenere “cum omni honore et reverentia” 10) il castellano del comune di Corneto in Sant’Arcangelo; e di venire in Corneto ogni anno, “ad petitionem Potestatis” 11) o del suo vicario, insieme con gli altri signori di Tolfavecchia e Sant’Arcangelo che abbiano raggiunto l’età di quattordici anni, a prestare simile giuramento (Margarita, Polidori-Croniche, Th. Wustenfeld). Sempre nel 1299 (dicembre) scoppiarono dei disordini sui monti della Tolfa. Accadde che i signori di Tolfavecchia e S. Arcangelo, comandati da un certo Guastapane, occuparono con la forza Monte Monastero, non prestando fede ad una vecchia divisione. I rappresentanti della popolazione espulsi dal castello, si recarono da Pietro di Ottone di Vico, podestà di Corneto, il quale inviò subito dei fanti e cavalieri a Monte Monastero che fu in breve riconquistato.” ... Essendo la posterità del Conte Ugolino, Feudatario et Vassallo di Corneto, nelli Castelli della Tolfa, S. Arcangelo, Montemonasterio, Civitella e Rota, numerosa assai, et questa havendo fra se diviso detti Castelli, toccando ad alcuni Montemonasterio et Civitella, et ad altri la Tolfa Vecchia, e S. Arcangelo, et havendo li Signori della Tolfa violentemente occupato Montemonasterio contro li Signori di detto luogo, questi sotto li 25 Dicembre 1299 hebbero ricorso alla Communità di Corneto come giudice competente nella causa di detta turbativa, per esser causa di feudo d’essa Communità, dalla quale ottennero esser benignamente uditi, et aiutati nelle loro raggioni. Onde mosso il Populo di Corneto, assieme col suo Potestà, Manfredo di Vico, fratello di Pietro di Vico Prefetto di 7) Alla presenza del Consiglio speciale e generale. Ed anche convocati gli uomini della terra predetta al parlamento (riunione) predetto. 9) Apertamente e pubblicamente. 10) Con ogni onore e rispetto. 11) su richiesta del podestà. 8) 100 Roma, anzi con Pietro d’Oddone de Vico sustituto di detto Manfredo potestà di Corneto deputato da Urso Ursi, Rettore et Capitan generale del Patrimonio, con comitiva di guerrieri Cornetani si transferì al Castello sudetto di Montemonasterio, et ivi fatta la chiamata fece intendere all’Invasore che desistesse dalla suddetta violenza et turbativa. Fu risposto dagli occupatori non essere in loro potestà di lasciar libero il Castello perché si riteneva a nome del Conte Anguillara che vi teneva genti d’arme dentro, oltre che non erano obligati mentre v’havevano raggioni, et pretentioni, attesa l’ingiustitia della divisione fatta fra essi. ... Udita la risposta delli Occupatori di Montemonasterio, con la renitenza di consegnar detto Castello, fu a forza d’armi recuperato detto luogo discacciandone gl’occupatori. Et con consenso delli Signori et habitanti di detto Castello di Montemonasterio fu d’esso pigliato possesso dal Comune di Corneto a li 28 Dicembre... ... Adì 29 Dicembre, doppo che il Populo Cornetano hebbe recuperato dagl’occupatori Montemonasterio, et presone il possesso, pacificò come sopra habbiamo detto. Confirmò l’investitura di detto Castello con nuovo Instrumento, nella persona delli antichi feudatarij, fatta prima da essi recognittione et confessione del diretto dominio a favore di Corneto, tanto di Monasterio et Civitella, quanto d’ogni altro luogo ch’essi acquistassero in avvenire, et quelli tenere a dispositione di Corneto a pace et guerra, et quelli non alienare. Honorar i Cornetani et esantarli da ogni datio... Pagar per tributo ogn’anno nella Vigilia di S. Secundiano un Cero di dieci libre di Cera...” (Polidori-Annali). Il 30 dicembre 1299 furono convocati i Signori di Tolfa che si erano resi colpevoli dell’azione contro Montemonastero. Essi riconobbero i Cornetani come i veri padroni: gli giurarono fedeltà e promisero di non molestare più Montemonastero e Civitella. Il 6 gennaio 1300 “Odunno et Pieraldo a nome proprio et a nome di Simone et Guittarelli fratelli et di Cola loro nepote, Signori della Tolfa vecchia, di S. Arcangelo, di Montemonasterio, Civitella et Rota, per la quarta portione si confessano vassalli et fedeli di Corneto, per raggione della quarta portione che hanno in detti Castelli, et promettono tenere detti Castelli a nome di Corneto a pace et a guerra. Defendere et honorare i Cornetani, et quelli farli esenti d’ogni datio, dare per tributo un palio il giorno avanti la festa di S. Secundiano. et contribuire nel Cereo da darsi per tributo da Signori di Montemonasterio, non alienar detti Castelli di Montemonasterio et Civitella. Ricevere il castellano nella Rocca di Sant’Arcangelo... (Polidori-Annali). Il 7 gennaio 1300 Guastapane, del fu Guastapane, rappresentando anche i Signori di Tolfavecchia e S. Arcangelo, nel palazzo comunale di Corneto, dinanzi a Pietro di Ottone di Vico “milite nobilium virorum domini Petri de Vico Dei gratia alme urbis illustris Prefecti 101 ed domini Manfredi fratris eius” 12) podestà di Corneto per Orso di Matteo Orsini, ratificò tutti i precedenti atti di omaggio fatti dal conte Ugolino e i suoi successori, promise di recarsi a Corneto “cum omnibus fratribus, nepotibus et consortibus suis a quatuordecim anni supra” 13) due volte l’anno, dopo la venuta del nuovo podestà per giurare “ad sancta Dei evangelia in publico Consilio dicti Communis sequitamentum 14) ..., consegnare per festa di San Secondiano, dopo averlo fatto portare in processione da San Pancrazio in Comune alla vigilia di detta festa “ante horam nonam” 15) un Palio di seta del valore di dieci libre di denari paparini invece del solito cero, promise di tenere a beneplacito dei cornetani i suoi castelli in pace e in guerra “cum omnibus personis de mundo... excepta Romana Ecclesia, dominio imperatore et Commune Urbis (Margarita Cornetana) 16) . Abbiamo seguito la cronostoria dei tre castelli e borghi che furono legati a Corneto nel XIII-XIV secolo rifacendoci a quei pochi documenti in nostro possesso. Poche e frammentarie notizie che si interrompono nel XIV secolo quando scompaiono insieme a molti piccoli centri della zona, anche S. Arcangelo e Montemonastero, forse coinvolte nella grande peste. Le loro chiese risultano abbandonate nella procura del clero di Tuscania datata 29 settembre 1356. Anche nelle liste della tassazione del sale di questo periodo i nomi dei due centri non compaiono. Se di Montemonastero non ci sono rimaste che misere tracce, le testimonianze della zona di Sant’Arcangelo sono esposte, e quindi visibili, in un cortile del palazzo municipale di Tolfa, anche se sottoposte all’attività degli agenti atmosferici 17) . Civitella Cesi, sia pur con le naturali modifiche del tempo, si presenta ancora intatta. Un borgo arroccato su un colle, popolato da poche anime che si chiamano tutte per nome. Chi ci capita si accorge di respirare ovunque il profumo della storia. GIULIO CESARE GIANNUZZI Bibliografia F. TRON - I monti della Tolfa nel medioevo - Roma 1982. F. GUERRI - Registrum Cleri Cornetani - Corneto Tarquinia 1908 12) Milite dei nobili uomini del Signor Pietro di Vico per grazia di Dio illustre prefetto della benigna città e del Signore Manfredi suo fratello. 13) Con tutti i fratelli, nipoti e suoi fratelli sopra i quattordici anni. 14) sopra i santi Vangeli di Dio durante il consiglio pubblico di detto Comune. 15) Prima dell’ora nona (tre del pomeriggio). 16) Con tutte le persone del mondo ad eccezione della chiesa di Roma, del dominio dell’imperatore e del Comune della città. 17) Si tratta di una serie di capitelli con lastroni decorati a bassorilievo e da un sarcofago. 102 M. POLIDORI - Croniche F. TRON, R. BERRETTI, M. GORRA, E. PIERI, F. D’ALOIA - L’Abbazia di Piantangeli Roma 1984 P. SUPINO - Margarita Cornetana - Roma 1969 O. MORRA - Tolfa - Civitavecchia 1979 M. CORTESELLI, A. PARDI - Corneto com’era - Tarquinia 1983 SANT’AGOSTINO ALLA FONTANELLA Alcuni storici, fin dal Medioevo, hanno sostenuto che Agostino, subito dopo il battesimo ricevuto in Milano dal vescovo Ambrogio nel 387 d.C. e prima di imbarcarsi per l’Africa nel 388, abbia voluto visitare i monasteri che erano sorti in Toscana e sul litorale etrusco, per osservarne il sistema di vita cenobitico. Tra questi vengono menzionate frequentemente il monastero di Lupocavo sul M. Pisano e quello di Centumcellae. Una diffusa leggenda popolare, riportata anche in scritti di antichi autori 1) , vuole che Agostino mentre era ospite nell’Eremo della SS. Trinità de Centumcellis presso Allumiere 2) , per ristorare il corpo e la mente, soleva a lungo passeggiare, raggiungendo talvolta il mare. Sarebbe avvenuta in una di queste peregrinazioni la famosa apparizione, nota alla letteratura ed all’arte come l’Incontro di S. Agostino e l’Angelo. Mentre Agostino passeggiava appunto sulla spiaggia vicino al Porto di Giano (poi di Bertaldo), meditando sul mistero della Trinità, gli apparve un Fanciullo che con il cavo 1) S. Alberto da Siena (+1181); Alberto di Padova (1269-1323); Pietro De’ Natali (1330-1406 c.); Vincent Ferrer (13501419); Giacomo Gherardi detto il Volterrano (1434-1516); Martin Antonio Del Rio (1551-1608), oltre ai resoconti dei Registri dell’Ordine Agostiniano e delle visite pastorali dei Vescovi di Corneto. 2) Su questo Santuario posto tra i Monti di Allumiere a circa sette miglia dal mare, vedi: E. Brunori, Ricerche archeologiche all’Eremo della SS. Trinità di Allumiere, in Bollettino della Soc. Tarquiniense di Arte e Storia 1991: Catalogo Mostra Documentaria XVI Centenario del Battesimo di S. Agostino (387-1987), Allumiere 1987; Catalogo II Mostra documentaria “Risorge l’Eremo della Trinità”, Allumiere 1991. 103 della mano attingeva l’acqua del mare e la versava in una piccola fossa scavata nella sabbia. Alla richiesta del perché di tale azione, il Fanciullo rispose che voleva versare tutto il mare in quella piccola fossa. Agostino, meravigliato, fece notare l’umana impossibilità dell’impresa; ma il Celeste Fanciullo gli rispose con questo monito: “E’ più facile per me riuscire a versare tutta l’acqua del mare in questa piccola fossa, che per te spiegare l’imperscrutabile mistero della santissima Trinità!”. Detto ciò sparì. Questo prodigioso avvenimento è stato raffigurato in moltissime opere pittoriche da eccelsi artisti di diverse epoche, tra i quali spiccano il Botticelli, il Lippi e il Rubens. Il più antico documento, finora da noi ritrovato, che descrive l’incontro di Agostino con Gesù Cristo, nel Porto di Giano, risale al XII sec., epoca in cui fu scritta “La vita di Guglielmo” da parte del discepolo Alberto, pervenutaci in un manoscritto del XVI sec. 3) . All’incirca attribuibile alla stessa epoca (XII-XIII sec.) è un altro antico documento, venuto alla luce durante il pontificato di Clemente VIII (1593-1605), che descrive l’avvenimento riportandolo nello stesso luogo, cioè nel litorale del Porto di Giano o di Bertaldo. Si tratta di una lapide incisa con “caratteri antichissimi”, ritrovata dal Nobile cornetano Alessandro Degli Atti, proprietario del sito lungo il mare, chiamato in quell’epoca “la Fontanella di S. Agostino” dove era anticamente il Porto di Giano, poi chiamato di Bertaldo, tra la città di Corneto e Civitavecchia, mentre stava fabbricando in detto luogo, come ci attesta Mons. Ambrogio Landucci 4) . Questo eremita e Prefetto della Congregazione di Lecceto, poi Vescovo di Porfirio, nella metà del XVII sec. dopo aver visitato la Chiesa della Sughera a Tolfa e il Romitorio 3) S. Alberto da Siena,, (+1181) Vita di Guglielmo, Ms. KVII 15, datato 1582, Biblioteca Comunale di Siena - sta in Roberto Ferretti, L’immaginario collettivo sui monti di Castiglione, Castiglion della Pescaia 1989. C’è da sottolineare che in questa prima descrizione dell’incontro non si fa cenno alla sorgente di acqua dolce che sarebbe scaturita nella buca scavata sulla spiaggia. “.... sitibundus ad centum cellas et se contulit, avidus cupidine vidende heremitiuncule, in vasta et precavata montium valle illustrata ferar un posite, quas pater communis vitae. et sine proprio diligerat sanctus Augustinus cuius habitum et ipse Gullielmus gestabat; construxerat, dedicaverat, trinitati et habiteravat, cui titulum usque hodie, cultus sanctae Trinitatis a conditore inditus est: eo quod librum de Trinitate didicitur peregisse, et emendasse, ibidem si quidem inceptum nec dum perfectum donec perventum est ad mare Tirrenum, quo solebat animi ricreandi causa sepius se per conferre, ad portum Jani, quem finitimorum incole Bertoldum divit ubi oraculum et videre meritus est, scilicet Jesum Christum exhorientis maris aquam precava concava grande parvamque in foveam immittere conatus. Quo monitus presagio atque correctus didicit ponendum esse finem operi ceteris pretermissis sicque indixit et ad celum redegit ob quam rem commotus..”. 4) Ambrogio Landucci, Sacra Leccetana Selva, Roma, 1657. Vi sono state diverse e imprecise datazioni circa il ritrovamento della lapide: P. Falzacappa indica il 1667, Corteselli-Pardi in “Corneto com’era” p. 18, indicano ... dopo il 1650, a seguito dei lavori di sopraelevazione della Chiesa di S. Agostino, Muzio Polidori invece, in “Croniche di Corneto”, p. 82, scritto tra il 1673 e il 1683, conferma la datazione del Landucci, scrivendo: “ e si comprova da inscittione in marmo inciso in litera gotica, ritrovata nelle ruine d’alcune anticaglie, vicino a detta Torre di Bertaldo, circa ottant’anni fa...”. 104 della SS. Trinità ad Allumiere, fu ospite dei Padri Agostiniani del Convento di S. Marco in Corneto, i quali gli mostrarono quella antica lapide, riportandone poi il contenuto, per la prima volta, in un’opera data alle stampe nel 1657. In considerazione dell’importanza di tale documento ne riproduciamo alcuni brani tratti dall’originale: Purtroppo di questa lapide, incisa con caratteri gotici, ci è pervenuta soltanto la trascrizione, ricopiata lettera per lettera dalla paziente penna di Pietro Falzacappa 5) . Come per le altre due lapidi, esistenti fino all’inizio di questo secolo e fortunatamente ricopiate dalla stessa mano, all’Eremo della SS. Trinità di Allumiere, così anche per questa è possibile una datazione approssimativa intorno al XII-XIII sec. L’identicità dei caratteri e la concatenazione dei loro contenuti, fanno supporre che le tre lapidi siano il frutto di un preordinato piano, predisposto verosimilmente dagli Eremiti Agostiniani dell’area centumcellense, per consolidare nella pietra quella antica tradizione sul soggiorno di S. Agostino tra i monaci della Tuscia e di Centumcellae. Infatti la prima lapide attesta che in quel luogo vi fu un vetustissimo Cenobio nel quale S. Agostino era vissuto con quei monaci, prescrivendo loro la Seconda Regola. La seconda lapide, esposta all’esterno della chiesa, si rivolgeva ai viandanti (viator) spiegando come Agostino avesse quivi iniziato l’opera “De trinitate” interrotta dal monito del celeste fanciullo presso il lido di Bertaldo, quasi rimandando il viandante ad una visita in quell’altro sacro luogo, come in un mistico itinerario. Infatti sappiamo che una “via romana” passava davanti al Romitorio della Trinità e in direzione di Cencelle, conduceva al mare. Qui la terza lapide forse era stata esposta nel luogo dove scaturisce la sorgente di acqua dolce, cui attingevano gli abitanti del posto e gli addetti alle operazioni del piccolo approdo marittimo. Nessuna notizia ci è pervenuta circa l’esistenza in antico di un santuario o di un romitorio. Sappiamo che essa fu ritrovata, come abbiamo accennato, a cavallo tra il XVI e il XVII sec. da un nobile cornetano che possedeva il luogo chiamato allora “la Fontanella di S. Agostino” mentre stava fabbricando nell’ “area del porto di Giano o di Bertaldo. Probabilmente il proprietario, come succedeva spesso, dovendo fabbricare un edificio vicino al mare, aveva scelto un’area con una sorgente di acqua potabile, avvalendosi di preesistenti strutture dirute al fine di riutilizzarne i materiali di costruzione. Tra questi ruderi sepolta sotto terra fu rinvenuta appunto la lapide. Ci conferma questa ipotesi, la relazione della visita pastorale effettuata dal Vescovo di Corneto Cecchinelli il 17 maggio 5) Pietro, Falzacappa (1788-1875), Iscrizioni lapidarie di Corneto-Ms. EF. 24 Archivio Soc. Tarqu. Arte e Storia. 105 1631, in cui si parla di resti di antiche vestigia, come ricorda ancora la visita pastorale del 21 maggio 1652: “... Temporibus S. Augustini istud Castrum Centumcellarum extabat et habeatur via quae ducebat ad mare, apud quod adhuc remanent vestigia magni miraculi, quod avidit Sancto Augustino”. Anche nella visita pastorale del vescovo Paluzzi nel 1667 si fa riferimento a “ingenti rovine”: Ingentibus riunis annies elaphis prope portum seu Turrim Bertaldi repertus fuit lapis marmoreus cum infrascripta inscritione literis goticis...”. Nonostante questi importanti indizi non possiamo tuttavia confermare che quelle rovine appartenessero ad uno di quegli antichi monasteri che esistevano ai tempi di S. Agostino lungo il litorale tirrenico. Una lettera di S. Girolamo a Oceano (Ep. 77) racconta di Fabiola che “peregrinava tra le isole e tutto il mare Etrusco... ed i reconditi seni dei curvi litorali, nei quali risiedono schiere di monaci, ai quali, o di persona o attraverso santi uomini e fedeli, elargiva i segni della sua munificenza” 6) . Enrico de Friemar nel suo Trattato sull’origine dell’Ordine dei frati eremitani, scritto nel 1334, sostiene che applicò la regola di santa vita soltanto al luogo chiamato Centumcellae 7) . Ma forse vi è un qualche riferimento anche da parte di Giordano di Sassonia che nel 1537 così scriveva: “... Ma detto stato dell’Ordine, da quanto è contenuto in lapidi angolari, è conforme in certo qual modo al sistema di vita in cui una volta vivevano i frati, che abitavano nell’eremo de Centumcellis, dalle parti di Roma, dove tuttora si dice esista un monastero dei più antichi che sono in Italia, dove, come si dice, era un duplice sistema di vita e fu sin dai tempi di papa Gregorio IV (827-844). Imperocché molti abitavano nelle loro celle distinte nei dintorni e convenivano in certi giorni in un luogo comune per celebrare e prendere i sacramenti e ritornando alle loro celle portavano con loro sale e pane. E veramente nel luogo comune non stavano generalmente che uomini provati negli altri monasteri, che andavano lì, affinché si trasferissero conseguentemente alla vita solitaria...” 8) . 6) Nella visita pastorale del Vescovo di Corneto alla Chiesa della SS. Trinità l’8 aprile 1656, è scritto: Supra Molas Allumierarum praedictas in distantia duorum milliarum circiter in itinere ad Allumieras habetur Ecclesia Antiquissima excitata in honorem SS. Trinitatis. De ea habetur per traditionem quod mansevit Sanctus Augustinus, dum scribebat de Trinitate. Nam tunc temporis illa via erat Romana, quae ducebat ad Mare... Vedi anche E. Brunori, L’Abbazia di Santa Maria del Mignone, Boll. Ass. Arch. Cult. Civita Vetula - Civitavecchia 1993. 7) Enrico de Friemar di Urimaria, Tractatus de origine et progressu ordinis fratrum eremitarum et de vero ac proprio titulo eiusdem - 1334: (... cum eremo Tusciae multos fratres eremitas invenisset sanctae vitae, demum appkicuit ad locum nostrum qui dicitur Centumcellis, nostris ordinis...). 8) Giordano di Sassonia, Liber vitasfratrum - 1357, Ediz. R. Arbesmann, New York 1943. Da notare che in genere per Eremo di Centumcellis si è inteso indicare quello della SS. Trinità “De Centumcellis”, presso Allumiere. 106 Sappiamo inoltre che nel XIII secolo esisteva sul litorale a ponente di Centumcellae la Chiesa di S. Senzio, soggetta al Monastero di S. Maria di Viterbo, dell’Ordine di Santa Chiara. Probabilmente la chiesa è da mettere in relazione all’avvenimento riportato nell’Acta Sanctorum, secondo il quale il beato Senzio era approdato su di una piccola imbarcazione “in parvulo portu qui appellatur Columna, in finibus Centumcellae”, in cui era eretta una colonna ad directionem nautarum” 9) . Al momento non siamo in grado di sapere se questa Chiesa dedicata a S. Senzio possa aver subito nel tempo un cambiamento di denominazione, come pure il Porto di Columna. In effetti la sua più plausibile localizzazione ci sembra quella indicata in località La Frasca, dove in mare vicino alla riva giacciono due grosse colonne di granito bianco, le quali potrebbero aver dato la denominazione al piccolo approdo, appunto Columna 10) . Forse è da identificare questo porto con Rapinium, approdo riportato nell’Itinerario marittimo a sei miglia da Centumcellae a tre da Algae e a sei da Graviscae 11) , mentre il Porto di Giano o di Bertaldo, è localizzabile nella insenatura compresa tra due alti speroni rocciosi, attualmente denominata le Villette di S. Agostino. Come si vede questi piccoli porti hanno subìto nel corso della loro storia diverse denominazioni. Non sappiamo se Rapinium preceda Giano. Rispetto alle fonti donde sono tratte le denominazioni si potrebbe attribuire maggiore antichità a Rapinium in quanto citato in Itinerari di epoca imperiale romana, forse in ricordo di un rifugio per scorrerie piratesche, fin dal periodo etrusco. Il nome di Giano è invece citato in documenti medioevali, come l’epigrafe ritrovata sul posto di cui abbiamo ampiamente parlato. Si è ipotizzato che la presenza di un tempio o di un porto dedicato al Dio Giano, rappresentato iconograficamente bifronte, sia da attribuirsi al fatto che una faccia guardava verso Tarquinii e l’altra verso Caere, ad indicare nel fiume Mignone, che sfocia proprio il vicino, il confine naturale tra le due Lucumonie 12) . In tal caso questa denominazione potrebbe essere molto antica. E’ invece certa la denominazione di Porto di Bertaldo usata per tutto il medioevo ed oltre. Stessa 9) Acta Sanctorum, 25 maggio VI, p. 72; C. Calisse, Storia di Civitavecchia, Firenze 1936, pp. 142, 165, 207, 218; G. Torraca, delle Antiche Terme Taurine - Roma 1761, a pag. 31 narra l’episodio del B. Sensio che uccise nell’anno 430 uno spaventevole drago sommergendolo nel fiume Mignone (.... e a vista di seguace popolo col proprio cinto legatolo dietro traendoselo nel detto fiume il sommerse...). 10) Antonio Maffei, Civitavecchia ed il suo entroterra durante il Medioevo p. 38 Civitavecchia 1986; Enrico Seri, Gli etruschi sulla costa civitavecchiese alla luce delle ultime scoperte, Civitavecchia 1989; Salvatore Bastianelli, Appunti di campagna, Roma 1988; lib. I, 9; lib. II 1/3; lib. III, 73; lib. VIII, 64. 11) Arturo Solari, Topografia storica dell’Etruria, vol. I, p. 103, Pisa 1915-1920. 107 denominazione è attribuita alla torre costiera distante dal porto qualche centinaio di metri in direzione di località La Frasca. Anche in questo caso, però, non sappiamo se la denominazione di Torre Bertalda (o Bertolda) sia derivata o al contrario possa avere influenzato in un certo periodo anche il porto determinando così il cambiamento del toponimo. La sua struttura muraria è composta di malta biancastra e laterizi di epoca romana, forse riutilizzati in tempi posteriori, attingendo alle strutture di vicini edifici o ville romane. Infatti tutto il litorale da Torre Val d’Aliga al Mignone è interessato da reperti e strutture riferibili a presenze preistoriche, etrusche, romane e medioevali 13) . Una interessante struttura circolare è stata segnalata su uno dei due promontori rocciosi che chiude a destra verso il Mignone il porto di Bertaldo. I segni del fuoco all’interno di questa struttura circolare, testimoniano della sua probabile funzione di faro per segnalazioni notturne, ad uso del sottostante porto, controllato nell’alto medioevo dall’Abbazia di S. Maria del Mignone e nel XIII-XIV sec. da diversi successivi proprietari o condomini del Castello di Marinello (poi chiamato Castel dell’Orso, secondo il Valesio), proprio in quello stesso luogo del Porto di Bertaldo localizzabile. Tra di essi sono citati in documenti dell’epoca, Pietro di Vico, Prefetto di Roma e i figli di Tebaldo dei Signori di Tolfa Nuova 14) , oltre a Francesco Gavelluto e Napoleone Orsini (donde il nome dato al Castello dell’Orso?). Sul vicino sperone roccioso che forma l’altra contigua insenatura, erano visibili, fino ad alcuni fa, tracce di una struttura muraria circolare. 12) Si veda l’ipotesi, inizialmente avanzata dal Mengarelli, ma poi ritrattata, sul fiume Mignone come confine naturale tra le due lucumonie di Caere e Tarquinii; Raniero Mengarelli, Necropoli etrusca detta della Torre Valdaliga ovvero della Cava della Scaglia, Not. Sc. 1942, p. 41. 13) S. Bastianelli, cit.; R. Mengarelli, cit.; A. Maffei, La Villa marittima di Torre Valdaliga, in Notiziario Ass. Arch. Klitsche de la Grange, 1985; E. Seri, cit.; Odoardo Toti, Brevi considerazioni sulle presenze costiere della I Età del Ferro, infra. 14) Il Castello di Marinello viene citato in più atti notarili: quelli dal 7 apr. 1293 e 21 mar. 1297, nei quali Pietro di Vico Prefetto di Roma, dichiara a Nicoluccio di Bonaventura, podestà del Comune di Corneto, che il Castello di Marinello, estendendosi per un lato lungo il mare, per gli altri lungo le terre di Civitavecchia e il fiume Mignone, già di proprietà del fù Magalotto da Corneto, appartiene al territorio, al distretto e alla giurisdizione di Corneto; che detto Castello egli possiede per metà pro indiviso con Francesco di Ugerio, i figli e i nipoti di Pietro Maczamuti e i figli del fù Tebaldo dei signori di Tolfa Nuova; inoltre giura, a nome suo e dei suoi eredi, di non fare donazione, alienazione o vendita di detta metà di Marinello a nessuno se non qualora fosse indotto a venderla, al Comune di Corneto e per il prezzo di 1000 lire di denari paparini...”. In un altro atto del 31 ott. 1304 si parla di compenso per custodia del Castello di Marinello. Infine nell’atto del 4 mag. 1310 si parla esplicitamente di un porto del Castello di Marinello: “Gianni Rabuani, camerario del comune di Corneto, riceve da Pello di Tebaldo dei signori di Tolfa Nuova, il quale ha caricato nel porto del castello di Marinello 54 moggi di grano e ve ne caricherà altri due, 13 fiorini d’oro, prezzo del dazio della merce in detto porto, in ragione di 10 soldi per moggio”. I suddetti atti notarili sono contenuti in Paola Supino, La Margarita cornetana Regesto dei documenti, Roma SRSSP 1969, e in C. Calisse, I Prefetti di Vico, ASRSP - Vol. X, Roma 1887, p. 53 - App. LXVIII. Sulla localizzazione di Marinello vedi anche A. Maffei, cit. p. 38 e p. 51 n. 18. 108 Forse trattasi di un’altra torre costiera, poi distrutta o ricostruita in luogo più idoneo, che potrebbe meglio identificarsi, per la sua forma circolare, con la rappresentazione della Torre Bertalda pervenutaci in un disegno del XVI secolo. Si notano attualmente in questo luogo tracce di muratura e frammenti ceramici di varie epoche. Previene da questo sito anche un denaro paparino in mistura del XIV sec. Fu in questo periodo che la proprietà del porto di Bertaldo e della Torre di S. Inzini (o S. Savino) furono oggetto di transazione da Francesco Gavelluto de Gavellutis al Cardinale Napoleone Orsini, cui seguirono contenziosi da parte del comune di Roma 15) . Se per l’esistenza di un più antico monastero non si possono che fare delle ipotesi, riguardo alla chiesa di S. Agostino si hanno più fonti di documentazione. Finora si conosceva il periodo della sua costruzione “non più antica del 1639”come risulta dal Registro dei Capitoli della Provincia Romana degli Agostiniani all’anno 1639, in cui fu deciso di imporre una colletta straordinaria a favore del costruendo Sacello presso la Torre di Bertaldo, in memoria del miracolo di S. Agostino ed il fanciullo. Un acconto di sc. 14,50 figura pagato a P. Paraclito in quell’anno 16) . Approfondite ricerche presso gli Archivi di Tarquinia ci hanno permesso di rintracciare più precise informazioni. Così dall’Estratto degli atti della Visita pastorale dell’anno 1635, contenente lo stato nominativo delle chiese della città e diocesi di Corneto, viene elencata anche una “Ecclesiola sub nuncupatione S. Augustini prope mare, in loco, in quo dicitur sequutum miraculum tempore S. Augustini”. In un’altra visita pastorale, quella del 21 maggio del 1652, viene confermata l’erezione di una Cappella vicino alla fonte presso il mare, dopo la visita pastorale del 15) C. Calisse, cit. pp. 165, 217, 218; G. Caetani, Regesta chartorum-Archivio Caetani, 1927. Tommaso Bonasoli, Notizie della Religione Agostiniana e della Provincia Romana, 1782 - Ms. Arch. Gentile. Ago.; nel Capitolo del 1639 (Registro Dd/ 9, f. 49, 50) fu deciso: “Decerniitur collecta extraordinaria, imponenda Provinciae, pro extruendo Sacello apud Turrim Bertaldi, prope Civitatem Vetulam, ob memoriam miraculi, quod B.P. Augustino prope mare contigit cum puero, obtente tamen licentia ab eis, ad quos spectatem, per Prem. Provincialem; ad quem effectum applicantur scuta quinquaginta due monetae, cum obolis quadraginta novem cum dimidio, quae supersunt pro introita P. Provincialis absoluti; ita tamen ut ex Provincia colligatur ea pecunia, quae fuerit necessaria, saltim circiter scuta centum”. F.M. Mignanti (a cura di O. Morra), Santuari della Regione di Tolfa, Roma 1936. 16) 109 1631 17) , da parte di Frate Paraclito da Corneto dell’Ordine Eremitano di S. Agostino nel convento di S. Marco 18) . Di grande rilevanza documentale è la visita pastorale del Vescovo Paluzzi, effettuata il 21 febbraio 1667, durante la quale vengono minuziosamente descritte la chiesa e la fonte miracolosa. Ne riportiamo ampi stralci, tradotti dal latino: “La Chiesuola rurale di S. Agostino vicino al Porto o Torre detta di Bertaldo, da pochi anni fu edificata nel luogo dove S. Agostino vide il Fanciullone nel lido del mare, che tentava di versare tutta l’acqua marina in una fossa etc... detto questo scomparve, rimanendo detta fossa piena di acqua perenne e dolce, nonostante spesso venisse raggiunta dai flutti del mare in tempesta. Per proteggerla dai flutti del mare fu rinchiusa dentro la fabbrica. Questa fonte ha grande venerazione presso le nazioni e nei dintorni, vi accorrono quotidianamente a visitare il luogo miracoloso e ad assaggiare e gustare l’acqua, impetrando la salute dalle infermità e di questa fonte scrissero molti storici tra i quali il Volaterrano et... La struttura della chiesa è ad unica navata a volta con pavimento in mattoni. La porta è esposta ad oriente, le finestre sono due soltanto una per lato con due altre finestre senza ante vicino alla porta con due grate di ferro atte a pregare dall’esterno quando la chiesa è chiusa. C’è un unico altare in cui un’Icona rappresenta S. Agostino con il Fanciullo che versa il mare in una fossa... indegni candelabri (!) e l’altare portatile per gli infermi da accomodare. Da uno dei lati dell’altare si va fuori della porta che conduce alla Sacrestia esistente dietro l’altare. Si celebra qualche volta in questa Chiesa da parte degli Eremiti qui esistenti o di un Sacerdote qui portantesi. In Sacrestia c’è un altro altare nel quale non si celebra. C’è un’Icona dipinta nel muro che ripete il miracolo appresso la fonte che è in questa sacrestia sul pavimento: c’è un foro munito di telaio e cateratta di legno per provvedere a bere e gustare l’acqua della fonte miracolosa. Detta fonte è recintata da muro e sotto la Sacrestia, ad essa si accede da fuori la Chiesa, discendendo dove c’è copiosa acqua dolce e l’acqua, attraverso un tubo per bere affisso al muro, esce per provvedere agli indigenti e defluire verso il mare per le alghe del litorale. L’eremita che risiede di continuo 17) Nella Visita pastorale del 16 mag. 1631 dopo la descrizione dell’apparizione del Fanciullo a S. Agostino, sta scritto: “... Hodie etiam apud Turrim quae dicitur de Briltado extat ista fovicella continens semper aquas dulces, et frigidissimas, etiam quod saepius mare redundit et illam cooperiat”. In questa visita quindi non si parla ancora di una chiesa, ma soltanto di una fontanella, o meglio una buchetta da cui sgorga acqua dolce. Soltanto dopo questa visita, fu iniziata la costruzione della Chiesuola, che nel 1635 doveva essere già eretta, come sta scritto nella visita di quell’anno e confermato in quella del 1652 (v. nota seguente). 18) Visita pastorale del 21 mag. 1652: “... Temporibus S. Augustini istud Castrum Centumcellarum extabat, et habebatur via quae ducebat ad mare, apud quod adhuc remanent vestigia magni miraculi, quod accidit Sancto Augustino, iuxta adnotata in dicta Visitatione anni 1631: postquam Visitation Pr. Frater Paraclitus de Corneto Ordinis Eremitarum S.ti Augustini adhuc vivens, et Conventus S. Marci de Corneto localis construere fecit cappellam prope fontem existentem secus mare, in qua Cappella, praecedente benedictione Ordinarii Cornetani, pluries celebratum fuit devotionis gratia...”. 110 qui e vive di questua e di elemosine che fabbricò la Chiesa dedicata a S. Agostino, e fabbrica al presente le celle, è L. Bartolomeo Hispano e dimora qui dall’anno 20 in circa. Sopra la Chiesa e la Sacrestia sta costruendo cinque celle per quegli eremiti che verranno. Da ingenti rovine negli anni passati vicino il Porto o Torre di Bertaldo fu ritrovata una lapide marmorea con l’infrascritta iscrizione incisa con caratteri gotici, la quale fu portata a Corneto e si conserva nel Convento di S. Marco ord. S. Agostino, del tenore seguente: HOC IPSO... In questa Chiesa fatta in onore di S. Agostino con grande concorso di popolo dove ogni giorno molte messe si celebrano, siano spese a sollievo degli Eremiti qui dimoranti, per innalzare un campanile sopra la porta del Convento o Romitorio con sua Campanella”. Abbiamo rintracciato anche una raffigurazione di questa Chiesuola ai margini di una più vasta Pianta dell’Acquedotto Traiano, che dai Monti delle Allumiere portava l’acqua al Porto e Città di Centumcellae. Risale al 1696, quindi trenta anni dopo la visita pastorale sopra riportata ed è opera dell’Incisore Alessandro Specchi su delineazione di Cinzo Florio. Si vede un edificio molto schematico con un campanile (quello da costruirsi con i proventi delle messe, come prescritto nella visita pastorale del 1667) ed un muro di cinta che racchiude un terreno di pertinenza. Il suo posizionamento a poca distanza dalla Torre di Bertaldo in una insenatura, sopra un’alta scogliera, ci ha confermato la direzione ove orientare le ricerche al fine di individuare l’esatta sua ubicazione. Nel XVIII sec. abbiamo un’altra minuziosa descrizione della Chiesa e Convento da parte di un viaggiatore domenicano, Jean Baptiste Labat, in occasione di un pellegrinaggio effettuato nel mese di Aprile del 1710 (circa) insieme al Card. Imperiali. Dopo aver descritto la famosa visione dell’Angelo e S. Agostino, si sofferma nella descrizione della costruzione: “... In memoria di questo avvenimento si è costruita una cappella dedicandola a S. Agostino, con un assai grazioso corpo di fabbrica, che appartiene insieme a qualche terreno adiacente al Convento degli Agostiniani di Corneto città vicina. Non ho potuto scoprire in qual tempo si è cominciato a venerare questo luogo, nè quando è stata fatta la Cappella e gli edifici che vi si vedono. Se questi sono i primi, è certo che essi sono molto recenti e chissà, o che quelli antichi, dei quali non si vede il minimo vestige, siano dopo tanti anni caduti, oppure che si abbia avuta qualche rivelazione che abbia indicato il luogo dove questa apparizione è accaduta. Comunque sia, il lavoro dell’Angelo è stato utile; perchè quantumque scavata ai bordi del mare secondo la storia, si trova al presente una fontana d’acqua dolce. 111 La Cappella e gli edifici annessi sono sopra una costiera di roccia elevata da due a tre tese al disopra della superficie del mare e la buca pretesa che forma la vera fontana di oggi è un po' troppo lontano dal mare per essere stata scavata nella sabbia e ai bordi del mare, come sarebbe stato necessario, perchè il bambino potesse prendere con la mano l’acqua del mare e metterla in quella buca... Vera o supposta, la buca è stata rivestita di pietra da taglio. Essa è in una specie di grotta sotto la Cappella; ci sono dieci o dodici scalini da scendere; ha circa venti pollici di diametro; non ho misurata la sua profondità. L’edificio che è a fianco e sulla cappella ha all’incirca otto tese di lunghezza su quattro di larghezza. E’ a tre piani compreso il pianterreno; noi lo troviamo molto ben mantenuto. Gli Agostiniani non vi trattengono pertanto alcun religioso a causa della cattiva aria a quel che dicono. Io credo che ciò che è più da temere è l’indipendenza e l’ozio, dove si trovassero due o tre religiosi che siano, che causerebbe loro infallibilmente delle malattie più pericolose all’anima che al corpo...” 19) . Dello stesso sec. XVIII è un’altra immagine, molto suggestiva, ma fantasiosa, del Monastero di “Centum cellas”, ai tempi dell’incontro di Agostino con i monaci, lungo il litorale vicino ad una insenatura ove è approdato un naviglio e una torre costiera con sullo sfondo forse la città di Tarquinii 20) . Si deve a Padre Bonasoli la denominazione di S. Agostino della Fontanella usata nelle sue Memorie scritte nel 1782 21) . Per ultimo abbiamo un disegno, eseguito intorno al 1940, da Augusto Orlandi, che rappresenta due prospetti dell’ormai diruto edificio sacro, chiamato spregiativamente il Conventaccio 22) . Di queste ultime scomparse vestigia parla O. Morra in un articolo apparso sulla rivista ROMA nel 1940. Ne riportiamo alcuni brani utili per la sua ubicazione: “... La solitudine della via rende grata la sorpresa della ridente insenatura che ha il nome di Porto di Bertaldo, e che in antico come ci apprende la lapide ora ricordata trasportata al convento agostiniano di Corneto, si chiamò Porto di Giano. Alte scogliere delimitano dai due lati l’insenatura, che ha in mezzo una larga fascia sabbiosa. Alquanto indietro, di qualche poco più alto del livello delle onde, appare il cadente edificio, che ha perduto ormai il suo nome di Chiesa di Sant’Agostino alla Fontanella, come ci appare 19) Jean Baptiste Labat. Voyages en Espagne et en Italie, T.V., pp. 26, 27- Amsterdam 1731. Raffaele Pasino, Iconum S.P. Augustini, XVIII sec. Bibl. Angelica Ms. 1267. 21) T. Bonasoli, cit. “... Quando siasi eretto questo Romitorio chiamato La Fontanella dal detto Fonte, e anche di S. Agostino, non si sa. La chiesetta peraltro non è più antica del 1639. P. Paraclito... edificò presso la Torre di Bertaldo la piccola chiesa di S. Agostino della Fontanella. 22) Il disegno, eseguito da Augusto Orlandi, sta in Ottorino Morra, Dove l’Angelo parlò a S. Agostino, Rivista di Studi e di vita romana “ROMA” - 1940 - XVIII. 20) 112 denominato nei vecchi registri dell’archivio agostiniano, per assumere quello di “Conventaccio”, che ne sottolinea l’odierno stato di squallore. La parte destinata ad abitazione, è, forse, per qualche maggior cura avuta qualche decennio addietro quando fu utilizzata dalla R. Guardia di Finanza, in condizioni meno peggiori della diruta chiesina, che appena si riconosce dalle piccole finestre che, secondo capita frequentemente di vedere nelle chiese campestri, sono a destra e a sinistra della porta d’ingresso. In corrispondenza alla chiesa, in un ripiano sottostante, al quale si accede dall’esterno, vi è come una celletta nella quale si vede, delimitato da un margine di pietra, il pozzetto dell’acqua che pur oggi dicesi di Sant’Agostino, e che corrisponderebbe al luogo preciso dove l’angelico fanciullo attendeva alla sua opera sotto lo sguardo del Santo. E’ da supporre, per quanto lo stato dell’edificio non consenta di affermarlo con certezza, che, poichè la chiesina era stata costruita esattamente al di sopra di questa celletta, una apertura nel pavimento di essa consentisse ai devoti di vedere dalla soprastante chiesa il pozzetto del miracolo...”. Queste scarse ma pur sempre importanti indicazioni, insieme alla descrizione di altri testimoni oculari 23) ci avevano spinto a intraprendere una indagine nel luogo chiamato “le villette”. Durante una ricognizione nell’insenatura corrispondente al Porto di Bertaldo (o di Giano), mentre scrutavamo la fascia di spiaggia alla ricerca di un qualche rivo di acqua dolce che si fosse riversato in mare, e che avemo ritrovato, incontrammo fortunatamente il signor Alessandro Pozzar, membro del Consorzio di S. Agostino, il quale ci ha confermato che quel rigagnolo d’acqua che stavamo fotografando era la famosa acqua di S. Agostino, che fuoriusciva dal pozzo ancora esistente ed in uso dei proprietari dei locali circonvicini. La sua portata attuale è di circa 50 litri al minuto e la profondità del pozzo, al quale si accede dal terreno sovrastante attraverso una scala di ferro, è di circa tre metri e mezzo, l’acqua emergendo per circa due metri. Dice ancora il sig. Pozzar, che una volta, intorno al 1950, quando la sua famiglia era proprietaria del terreno comprendente sia il pozzo che il rudere ancora esistente, l’acqua si poteva anche bere; era fresca e di tipo minerale, ma ora non è più potabile. Alla richiesta se ancora esisteva un qualche rudere nelle vicinanze, ci ha indicato una bassa costruzione ad un piano, una villetta squadrata, posta al di sopra del punto dove sgorga l’acqua dolce. 23) Dalle testimonianze orali rilasciate a A. Maffei dai signori F. Ferrari, V. Boriello, F. Pirani, “la località denominata in vocabolo “Conventaccio di S. Agostino, era ubicata sopra la ripa marina dell’attuale rada di S. Agostino, zona Villette (IGM F. 142 II N.O. 32T1M262720). Il Conventaccio, indicato anche come S. Agostino alla Fontanelle, era costituito da un fabbricato di circa mq. 70-100, articolato su due piani, che conservava ancora il tetto negl anni 1952/53.. L’edificio è stato distrutto nel costruire le moderne villette. Anche la sorgente d’acqua (la Fontanella) che ha dissetato per millenni marinai e pescatori, si è erduta in seguito a questi lavori..”. 113 E’ forse quanto rimabe del vecchio Convento annesso alla Chiesa di S. Agostino, utilizzato, circa gli anni Trenta, dalla Reale Guardia di Finanza e disegnato dall’Orlandi, ormai abbandonato, nel 1940. Riteniamo, tuttavia, che l’aver individuato gli scarsi resti della Chiesa e Convento di S. Agostino alla Fontanella, che si ritenevano ormai completamente scomparsi, travolti dalla urbanizzazione balneare della località, sia motivo di speranza e di auspicio affinchè così importanti memorie storiche e religiose, ritornino a far parte del patrimonio culturale nostro e dei nostri figli. ENNIO BRUNORI 114 GUITTUCCIO DA BISENZO Nella storia dimenticata e intorno alle origini di alcuni nomi propri di persona, tuttora in uso come attributi nel nostro linguaggio famigliare 1) , occorrerebbe a volte soffermare una certa attenzione o, almeno, una nostra curiosità. Perchè, a lungo andare, alcune vicende si ripresentano a noi nell’oscurità più fitta, o per un ritrovamento archeologico o per la rivelazione di un arcano documento o per uno scritto lapideo. Sulla prima pagina del nostro Bollettino abbiamo pubblicato, un anno fa, la riproduzione di una lastra in macco, ritrovata casualmente per la demolizione di un muro in quella che un tempo veniva chiamata - e si chiama tuttora - la “Commenda”, vale a dire l’abitazione del Commendatore che in antico presiedeva alla chiesa di San Giovanni Gerosolomitano, con annesso ospedale per i pellegrini. Tale edificio, di proprietà del Sovrano Ordine di Malta, oggi fa parte del retaggio della famiglia di Massimo Marzi. Su questa lapide - giacchè trattasi di una pietra tombale - azzardammo qualche ipotesi riguardo alla interpretazione della scrittura, senza tuttavia entrare nel merito degli stemmi di difficile interpretazione nell’araldica locale. Un altro punto oscuro, a causa di una parziale effrazione della pietra, il nome della città di provenienza del padre della defunta Bartolomea, andata sposa a un tal Guittuccio da Bisenzo. Non ci siamo arresi di fronte a queste difficoltà. Leggendo, consultando e indagando qua e là, siamo riusciti a individuare, prima di tutto, la provenienza di uno dei casati a cui appartennero quegli stemmi. Il primo, sulla sinistra, simboleggiava l’antica città di Bisenzo, un centro abitato sulla sponda occidentale del lago di Bolsena. Di tale nome, ne fa fede tuttora la presenza di un’isoletta, nel bel mezzo del lago, chiamata appunto “Isola Bisentina”. Dell’altro, non siamo riusciti ad individuarne l’arme: forse di un altro casato presente allora nelle propaggini montuose del nostro territorio, nella cui giurisdizione viveva quel tale Jacopo, padre della suddetta Bartolomea. Il frammento mancante prima della parola “vetula” è riferibile a “Tulfa”, cioè Tolfa Vecchia che, insieme ad altri piccoli 1) Nel comune linguaggio locale, sono ancora in uso gli appellativi di guitto e magalotto, per definire persone poco affidabili. Già nella “Margarita Cornetana” sono frequenti i nomi propri di Guitto o Guittone e Magalotto. Riguardo al primo nome., Niccolò Tommaseo riferisce: “credo che Guittone, accrescitivo di Guitto, significhi propriamente furfante, birbone e uomo di vilissimi concetti”. Altri storici, come il Pannucci, parla di “Guittuccio il ribelle”. Per restare perciò nell’uso comune, questi appellativi, con riferimenti negativi, avrebbero dovuto in passato avere significato di irregolarità, prevaricazione, ribalderia e prepotenza. 115 feudi della giurisdizione cornetana, si estendeva a quel tempo su tutta la zona dei Monti della Tolfa 2) . Chiarito questo aspetto, spontanea è la domanda: “Chi era dunque questo Guittuccio?” Certo il discendente di quel tal Guitto, signore di Bisenzo, che non dovrebb’essere stato, come si diceva poco prima in una nota, uno stinco di santo, se nel nostro idioma tale appellativo viene tuttora riferito a persona di scarsa moralità, di pratiche poco trasparenti, di scaltrezza a fine di malizia. Ne troviamo notizia un po' da per tutto: sulla “Margarita Cornetana”, sulle “Croniche di Corneto” di Muzio Polidori, sulle “Memorie istoriche” di Francesco Valesio, sul “Registrum Cleri Cornetani” e su altre pubblicazioni del Turriozzi, del Calisse, del Campanari, del Giontella, del Pannucci, del Mazza, del De Felice e del Bandinelli. Per averne perciò parlato tanti storici, doveva trattarsi veramente di personaggio di rilievo per cui ne diamo qui di seguito alcune notizie. Già nel 1060, come trascrive il Polidori nelle sue “Croniche” li Viterbesi, Cornetani, Tolfetani et Vetrallesi per causa de dispiaceri riceuti dalli Prefetti di Vico furno astretti a collegarsi, et a prender l’arme contro d’essi Prefetti, et contro li Signori di Bisenzo loro parteggiani et venutosi a fatto d’arme furono astretti Prefetti et Signori di Bisenzo salvarsi con la loro gente in Montefiascone” 3) . Nell’anno 1262, un tal Jacopo, figlio di Guitto, signore di Bisenzo, aveva ottenuto dalla Comunità di Corneto la facoltà di edificare il castello di Montebello, con la promessa di cercar casa in Corneto, di professarsi cittadino e di fornire, in tempo di guerra, due soldati ben armati “et servir esso di persona con quella comitiva, che gli parerà” 4) , e in cambio della concessione di lasciare “gli animali de’ Cornetani pascolare conforme è stato solito per il passato nel tenimento di detto Castello, et altro come si vede da relativo Istrumento” 3) . Di questo avvenimento troviamo altra notizia nel Valesio il quale aggiunge alla suddetta cronaca questo particolare: “...et appunto allora tutto lo Stato della Chiesa era in grandissimo timore a cagione che Manfredo, figliolo naturale di Federico che occupava il reame di Napoli, si era fatto inimico il Pontefice e minacciava d’occupare lo Stato” 4) . Si legge ancora sul “Registrum Cleri Cornetani”: “Nel mese dicembre 1262, Giacomo (o 2) Carlo Calisse, nello Statuto di Veiano, scrive: “I nobili Odduccio e Veraldo, figli di un certo Guitto dei signori di Tolfa Vecchia, Sant’Arcangelo, Monte Monastero e del Castello di Rota...>>. 3) Muzio Polidori “Croniche di Corneto”. Pagg. 165 e 178. 4) Francesco Valesio “Memorie Istoriche della città di Corneto”. Pag. 31. 3) 4) Francesco Valesio “Memorie Istoriche della città di Corneto”. Pag. 31. 116 Jacopo), figlio di un tale signore conte Guitto da Bisenzo compra casa in Corneto per circa 300 libbre di denari pisani di piccolo taglio, e giura di essere cittadino cornetano, di mettere in tempo di guerra a disposizione de’ Cornetani due soldati armati e di prestare occorrendo egli stesso servizio nel loro esercito con quanta gente vorrà, in cambio del permesso di edificare il castello di Montebello, nel cui territorio tuttavia permetterà che liberamente, come per il passato, vada al pascolo il bestiame dei Cornetani liberamente e sicuro per le contrade di detto castello, come è stato fin qui per consuetudine” 5) . Evidentemente il conte Giacomo (o Jacopo) di Guitto, non pago di aver già ottenuto “le altre due vicine tenute di Montevalerio e Monteleone, tutte situate sulla destra del fiume Marta lungo la strada che mena a Toscanella, fece nascere controversia fra Giacomo di Guitto da Bisenzo, i figli Guittuccio e Dragone e la moglie Romana, e il Comune di Corneto: controversia che fu iniziata in data 28 luglio 1294 e differita al giorno di sabato 30 ottobre 1294, dopo le tre pomeridiane 6) , da Falcone di Pietro di Enrico romano, che sentenziò ritrovarsi il territorio di Montebello, Montevalerio e Monteleone nel distretto di Corneto ed essere sottoposto alla giurisdizione di questo Comune” 7) . Avvenne infatti che a quella scadenza “constatata la contumacia di Jacopo (o Giacomo) e Guitto da Bisenzo, il giudice Falcone, confortato dal giudice Bartolo di Bevagna, di nuovo assenti Jacopo, sua moglie e i suoi figli, stabilisce con lodo arbitrale che le tenute di Montebello, Montevalerio e Monteleone appartengono al territorio e alla giurisdizione di Corneto, secondo il confine che è posto sopra la fontana Petrula ed estende i confini della fontana Petrula immettendosi a un fisso confine sopra la valle del Guasso e dal suddetto poggio raggiunge il limite fino alla strada per Tuscania che va attraverso San Lorenzo ed oltre e immette alla morra nella quale si trova la pianta di fico sopra San Martino di Lacolna come s’immette nella via che attraverso la Leona... (omissis) fino alla via Rokisciana verso la fontanella che si trova in detta via Rokisciana 8) . Resteranno a detto Jacopo, alla moglie Romana e ai figli Guittuccio e Dragone le terre colte e incolte che essi possiedono entro detti confini, salvi i diritti dei Cornetani che possiedono terre al di qua e al di là dei medesimi” 9) . Due anni più tardi, nel 1298, al tempo del papa Bonifacio VIII, il nobiluomo Guittuccio da Bisenzo da una parte, insieme a Giusto di Nicola, sindaco della città di 5) Francesco Guerri “Registrum Cleri Cornetani”. Pag. 262. Pare che la validità degli atti pubblici o per altre ragioni di convenienza amministrativa, tutto doveva essere ratificato non dopo la festa di Ognissanti. 7) Secondiano Campanari “Tuscania e i suoi monumenti”. Pag. 187. 8) Le località “il Guasso” (oggi detto il “Ghiaccio”), San Lorenzo come pure il casale e il fosso della “Leona”, sono tuttora presenti nella toponomastica della Roccaccia e di Montebello. 9) Paola Supino “La Margarita Cornetana”. Pagg. 242-243. 6) 117 Tuscania dall’altra, convenne e promise “la sottomissione, già fatta da suo padre, il magnifico signor Jacopo del fu Guitto, al comune di Tarquinia, dei castelli e tenute di Montebello, Contignano e Lagona, nonchè di mantenere ed osservare per sempre tutti i singoli patti, convenzione, contratti intrapresi fra detto Jacopo e altro predecessore e antenato dello stesso Guittuccio... (omissis) e di permettere che i Tuscanesi possano pascolare pacificamente e gratuitamente nei pascoli della tenuta di Castel Marano, le pecore e il bestiame grosso in tempo di estate, vale a dire nei mesi di maggio, giugno, luglio e agosto e permettere per tutto l’anno di far legna e tagliar rami nel territorio di detto Castel Marano” 10) . Da tutte queste documentazioni risulta la mania di espansione dei membri della famiglia di Guitto da Bisenzo che promettono favori e aiuti e concessioni ai Cornetani e ai Tuscanesi, con la costruzione di più castelli, per dominare incondizionatamente tutta la zona della Tuscia; e che il matrimonio di Guittuccio con Bartolomea, che viveva su tutt’altra sponda, non aveva altro fine che di arrivare a dominare anche il territorio di Tolfa Vecchia per aggirare sicuramente le zone di influenza dei Di Vico e degli Anguillara. Evidentemente sia Guitto che Jacopo e Guittuccio avevano in animo di giocare su due tavoli: Corneto e Tuscania, cercando in tutti i modi di mantenere un certo controllo su due territori limitrofi, specie sulla tenuta di Montebello che era forse il centro strategico delle loro mire espansionistiche: da quando specie si erano spinti, attraverso il matrimonio con Bartolomea, fin sulla Tolfa per aumentare l’area d’influenza. Da queste testimonianze storiche risulta il fatto che Guittuccio e Dragone, insieme alla madre Romana, cercarono di arrivare, con il proprio atteggiamento temporeggiatore, a mettere le mani su tutto il viterbese. In precedenza Guittuccio era stato in lotta contro la città di Orvieto che vantava sulle città lacuali di Bolsena un preciso dominio, civile e religioso. Lo dimostra il fatto che dopo il famoso miracolo del corporale nella chiesa di Santa Cristina in Bolsena, tutte le testimonianze vennero trasferite nella città umbra il cui vescovo fece erigere, con le elemosine dei fedeli, quel maestoso duomo che rappresenta oggi una delle meraviglie del mondo. Da notare che Guittuccio, cugino di Galasso di Nicola da Bisenzo, signore di Piansano, imparentato con Guitto II, suo bisnonno e conte di Vetralla, voleva tentare di svincolare, se non il Castello di Montebello, almeno quello di Marano, situato fra Piansano e Bisenzo, dalla ingerenza dei Tuscanesi: cosa che non incoraggiò certamente i rapporti fra 10) Paola Supino “La Margarita Cornetana”. Pagg. 254-255. 118 lui e Tuscania. Precedentemente la città di Canino, ribellatasi alla sottomissione dei Tuscanesi (1259), aveva invocato un esercito dal Campidoglio di Roma per riportare all’annullamento questo tentativo di ribellione. E venne chiesta una tregua per trasferire la disputa su di un piano giuridico. Fu scelto come arbitro Guittuccio da Bisenzo, il quale, considerandosi quasi cittadino tuscanese, pronunciò un lodo arbitrale favorevole a Tuscania. Con tale lodo, stipulato il 6 marzo 1309, si garantiva alla comunità l’uso del pascolo, del legnatico e dello spicatico. Ma tale lodo venne dichiarato, tre anni dopo, nullo da Bernardo di Cucuiaco, vicario papale, il quale volle servirsi di Guittuccio per compiere scorrerie contro gli Orvietani: i quali, per rivalsa, arrivarono a trucidare e tagliare a pezzi i figli di Guittuccio. Alla fine gli Orvietani fecero capire che tutto si poteva appianare se Guittuccio fosse stato messo in condizione di non nuocere ulteriormente. Ai primi di marzo del 1319 l’atto di pace venne sottoscritto fra Orvieto e Tuscania: però Guittuccio non doveva mettere più piede fuori dal territorio tuscanese le cui autorità, in caso di bisogno, avrebbero dovuto dare comunicazione alla città di Orvieto almeno 15 giorni prima. Questa limitazione ai suoi movimenti e alle sue aspirazioni di vendetta e di conquista, fece saltare i nervi a Guittuccio che cercò di trascinare contro gli Orvietani i ghibellini di Tuscania. Ma nel 1323 la città di Tuscania chiese al papa Giovanni XXII di emanare provvedimenti contro Guittuccio che, dopo tale fallimento, pretendeva dai tuscanesi il pagamento del pedaggio sulle merci che dovevano attraversare la località di Montebello. Guittuccio, nel 1330 morì. Ma verso la metà del 1335 uno dei figli superstiti, Giovanni, insieme a Faziolo di Vico, si impadronì con fatti d’arme di Tuscania. Il castello di Montebello, uno dei superstiti dominii della famiglia bisentina, venne distrutto nel 1353 dal Prefetto Giovanni di Vico. Ne dà notizia il cardinale Albornoz in un documento del 1364 dove si legge, nella voce Castello di Montebello: “Era in detto castello una rocca della chiesa di Roma, ma venne distrutta da Giovanni di Vico, prefetto di Roma” 11) . Ora veniamo a interessarci della parte riguardante i fatti di Tolfa Vecchia, dal momento che altri figli di Guittuccio e di Bartolomea del fu Jacopo (o Giacomo), fecero parlare di sè anche in questa parte del territorio “de urbe”, ovverossia del Patrimonio di San Pietro. Dal che si deduce che i figli superstiti di Guittuccio da Bisenzo e di Bartolomea di Tolfa Vecchia, lasciarono in mani paterne tutte le questioni relative ai castelli e le 119 controversie nella zona di Tuscania e di Viterbo, per interessarsi delle proprietà e dei possedimenti siti nella zona di Tolfa Vecchia. Infatti, in un documento della “Margarita Cornetana” all’anno 1300, precisamente il 6 gennaio, si legge: “Odduccio e Veraldo, figli del fu Guitto dei signori di Tolfa Vecchia, Sant’Arcangelo, Monte Monastero, Civitella e Castro Rota, dichiarano a Pietro di Oddone di Vico, podestà del comune di Corneto, e a Giovanni Silvene, sindaco, di essere insieme con i loro fratelli Simone e Guittarello, il nipote di Cola e i loro consorti, cives et fideles, del Comune di Corneto per la quarta parte di detti Castelli loro spettante e per le rimanenti, che amministrano a nome del Comune, promettono di fare pace e guerra secondo il beneplacito di Corneto, di non muovere ostilità contro la Chiesa, l’Impero e il Comune di Roma; di accogliere con onore i Cornetani nei loro territori, di esentarli da qualsiasi gabella e di salvaguardarne l’incolumità; di offrire ogni anno al Comune, a titolo di censo, per la festività di San Secondiano e per la vigilia di detta festa, un palio di zendado rosso del valore di 40 soldi di denari paparini, il quale sarà portato da cavalli in corsa da Porta San Pancrazio fino al Palazzo Comunale; di contribuire per un quarto alla offerta del cero di 10 libbre dovuta ogni anno al Comune dai Signori di Monte Monastero e Civitella e di accettare, per Sant’Arcangelo, il castellano destinatovi dal Comune, al quale renderanno conto di tutti i proventi spettanti al Comune in forza del patto di sottomissione di detti Castelli. A loro volta il podestà e il Sindaco promettono di proteggere detti Castelli da ogni eventuale nemico, a meno che tale non sia la Chiesa, l’Impero o il Comune di Roma, e ricevono da detti Odduccio e Veraldo il giuramento di sequimento del Comune. In Corneto, nella camera del Palazzo Comunale, alla presenza di Rollando di Crescenzio, giudice, Pellegrino, giudice, Coccius giudice, Griffulo di Niccolò, Alberigo di Matteo, Beccuccio di Graziano Vitelleschi, Raboano di Scagno, maestro Antonio, testi. Rogito di Jacopo di Romanuccio da Civitacastellana, ill. pref. alme Urb. not., ora notaio del popolo, del Comune e del Podestà di Corneto. Oddone, Guittarello, Simone e Veraldo, fratelli, figli del fu Guitto, signore di Tolfa Vecchia, Sant’Arcangelo, Monte Monastero, Castro di Rota” 12) . Da tutto ciò si deduce come le mire espansionistiche dei discendenti di Guitto da Bisenzo e i lutti che pesarono sulle rispettive famiglie e su tutti i discendenti, nonostante le disfatte politiche e militari, e il sacrificio di qualche figlio, vittime sacrificali di tanta 11) Paul Fabre “Melanges d’Archeologie et d’histoire publiés par l’Ecole Française de Rome., Tome VII” conservato attualmente nella Biblioteca Nazionale di Parigi col numero 4189. 12) Paola Supino “La Margarita Cornetana”. Pagg. 254-255. 120 arroganza e di una smodata mania di grandezza politica, territoriale e finanziaria, finissero nella polvere del tempo, come tutte le cose umane di questo mondo. Come sia finita a Corneto Bartolomea di Jacopo che forse non sopravvisse a tanti intrighi e a tanti lutti, quasi una Niobe di mitologica memoria, non abbiamo trovata testimonianza. Probabilmente la sua salma sarà stata tumulata nella chiesa di San Giovanni Gerosolomitano, legata all’edificio dell’Ospedale gestito dai Cavalieri di Malta, dal momento che suo marito Guittuccio, fra le tante promesse fatte agli amministratori di Corneto, aveva deciso di mettervi casa e di considerarsi cittadino cornetano. Altre notizie su di lei non si hanno se non quella della pietra tombale, venuta per caso alla luce si è detto più sopra. Forse nel secoli, dopo il crollo di parte della chiesa di San Giovanni Gerosolomitano dov’ella era probabilmente sepolta, si dovette ricorrere ad alcuni restauri radicali per evitare il crollo della parte superstite del tempio; mentre la lapide funeraria sarà stata usata per riparare e ricostruire i muri dell’edificio commendatizio. Per lo stesso mistero e più tardivo evento per cui la lapide tombale dello storico Muzio Polidori, dopo l’incendio della cattedrale di Corneto nel 1643, venne rimossa, rintracciata recentemente all’interno del cortile della stessa Commenda e conservata dal proprietario dell’immobile, all’interno di tutto il complesso che fu già del glorioso Sovrano Militare Ordine di Malta, oggi restaurato e rimesso scrupolosamente in piena luce da Massimo Marzi che ne è il legittimo proprietario. Bruno Blasi Bibliografia Paola Supino - La Margarita Cornetana - Regesto dei documenti Roma - presso la Società alla Biblioteca Vallicelliana - anno 1969. Muzio Polidori - Croniche di Corneto - a cura della Società Tarquiniense d’Arte e Storia Tip. C. Ceccarelli - Grotte di Castro - 1977 a cura di Anna Rita Moschetti. Francesco Valesio - Memorie Istoriche della Città di Corneto - a cura di M. Corteselli e A. Pardi della Società Tarquiniense d’Arte e Storia - anno 1993 - STEG srl di Tarquinia. Secondiano Campanari - Tuscania e i suoi monumenti - anno 1856 - Tipografia del Seminario - Montefiascone. 121 Francesco Guerri - Registrum Cleri Cornetani - Anno 1908 - Corneto Tarquinia Tipografia A. Giacchetti. Francesco Antonio Turriozzi - Memorie istoriche della città di Tuscania - Roma - 1778. Università Agraria di Capodimonte - La castellania di Capodimonte e Bisenzio - Anno 1932 - Tipog. Agostiniana - Roma. Remo De Felice e Angela Carlino Bandinelli - Dell’antico feudo di Rota - a cura della Provincia di Roma - Tip. Rotostampa - 1990. Umberto Pannucci - I castelli di Bisenzo e di Capodimonte dal Medioevo a oggi. Tip. Agnesotti - Viterbo - 1976. Giuseppe Giontella - Tuscania attraverso i secoli - Tip. C. Ceccarelli - Grotte di Castro anno 1980. Guido Mazza - La ceramica medioevale di Viterbo e dell’antico Lazio - Edizioni Libri d’Arte - 1983. Carlo Calisse - Statuto inedito di Veiano - Roma - Tipografia Vaticana - 1886. LAPIDE DI BARTOLOMEA DELLA TOLFA APPUNTI GENEALOGI ED ARALDICI SULLE DUE FAMIGLIE In apertura del n. 21 del “Bollettino” della Società Tarquiniense d’Arte e Storia, si dava notizia del ritrovamento di una lastra tombale, con due stemmi a rilievo, avvenuto durante il restauro del palazzo della Commenda dei Cavalieri di Malta, a Tarquinia 1) . La scoperta costituisce un tassello molto importante non solo riguardo la storia medievale di Corneto, ma ancor di più per i suoi risvolti araldici e genealogici. Il personaggio cui la lapide si riferisce - Bartolomea, figlia del fu Giacomo signore di Tolfa Vecchia 2) , e moglie di Guittuccio di Bisenzo - come anche quello di suo padre, non 122 erano finora conosciuti dalle fonti storiche, a differenza del marito. Lo stesso dicasi per lo stemma dei della Tolfa in quel periodo. E’ dunque questa l’occasione per dare uno sguardo alla storia delle due famiglie, correggendo anche qualche imprecisione più volte ripetuta da storici locali. La famiglia della Tolfa (ovvero Tolfi, Tulfa, Tulphi) prese nome dal castello in provincia di Viterbo, oggi comune autonomo, che venne anche chiamato Tolfa Vecchia. Tale castello apparteneva, nel 1140, a Nicola dell’Anguillara 3) . Un suo erede (?), il conte Guido, ne venne spossessato, nel 1202 dal conte Ugolino 4) , di famiglia non ben precisata 5) ma che, da allora in poi, venne indicata come dei signori di Tolfa. Pochi anni dopo, nel 1211, i viterbesi occuparono il castello e costrinsero gli abitanti a giurare loro fedeltà. Per ritorsione, Gezio della Tolfa ed i suoi congiunti assediarono Respampani 6) , posseduto da quella gente. Ciò dovrebbe essere bastato per rimettere le cose al loro posto, ed a far nascere anche una certa amicizia con Viterbo. Infatti, nel 1291, Rainone della Tolfa fu tra i firmatari della pace tra quella città ed il Senato romano 7) . Subito dopo, nel 1293, Odo di Guitto di Tolfa Vecchia fece atto di sudditanza al comune di Corneto 8) . Si noti che, in tale atto, risulta per la prima volta l’indicazione di “signore di Tolfa Vecchia”. Da ciò, deduciamo la costruzione della nuova o, per lo meno, la divisione della famiglia in due rami, da allora rispettivamente denominati di Tolfa Vecchia e di Tolfa Nuova. Anche Francesco di Ruggero e Pietro di Tebaldo, signori di Tolfa Nuova, circa questo periodo, si sottomisero a Corneto 9) . Negli anni seguenti troviamo periodici giuramenti di fedeltà a quel Comune 10) . Sembra che i signori di Tolfa Nuova assumessero il cognome Baldi, quali discendenti di Tebaldo 11) . I due rami si divisero le proprietà: ai signori di Tolfa Vecchia andò Sant’Arcangelo; a quelli di Tolfa Nuova, Castel Marinello, Monte Monastero, Civitella e Rota. Come spesso è accaduto nella storia medievale, due rami della medesima famiglia si schierarono due 1) M.L.P. e B.B., articolo privo di titolo, in: “Bollettno” della S.T.A.S. n. 21 (1992), pp. 7-8. La lettura data nel suddetto articolo non sviluppava il nome di Tolfa. 3) Sora, “I conti dell’Anguillara”, p. 101 nota 21. 4) Polidori, “Croniche di Corneto”, p. 170. 5) C’è chi parla di una casa Nicolidi (Polidori, “Croniche di Corneto” p. 170), ma credo si tratti semplicemente di figli di un Nicola. 6) Polidori, “Croniche di Corneto”, pp. 171-172; Zippel “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 10 nota 1. 7) Duprè Theseider, “Roma dal comune di popolo”, p. 268. 8) Polidori, “Croniche di Corneto”, p. 181; Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 7 nota 4. 9) Valesio, Falgari, “Memorie istoriche”, p. 35; Polidori, “Croniche di Corneto”, p. 159 - Cfr. anche Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 7 nota 4, che riferisce di una autorizzazione del 1295 a Raniero di Tebaldo di Tolfa Nuova per la vendita di alcuni suoi diritti. 10) Abbiamo notizie di giuramenti nel 1299, 1300 e 1347. 11) Zippel, “L’allume di Tolfa”, p. 9. 2) 123 posizioni politiche diverse, una guelfa e l’altra ghibellina. Così fu anche per i della Tolfa: quelli di Tolfa Vecchia furono dalla parte filopapale degli Anguillara, quelli di Tolfa Nuova furono per i di Vico Ghibellini. Il primo atto del dissidio tra la parentela avvenne a cavallo del 1299-1300. I signori di Tolfa Vecchia occuparono Monte Monastero che, come si è detto, apparteneva a quelli di Tolfa Nuova. Pertanto intervenne Corneto e per esso il podestà della città, Manfredi di Vico, che assediò il Castello. Gli occupanti dissero di tenerlo a nome del conte dell’Anguillara, al quale lo avevano ceduto, ma Manfredi lo riprese ed i cornetani lo confermarono agli stessi feudatari di prima 12) . Le lotte di parte proseguirono ed i signori di Tolfa ebbero una spedizione contro di loro da parte del comune di Roma, nel 1301 13) . ed il loro castello venne occupato, certo temporaneamente, dal figlio di Manfredi di Vico, prefetto dell’Urbe, nel 1322 14) . E’ a quel periodo (1329) che risale la lapide funeraria di Bartolomea di Giacomo di Tolfa Vecchia, definita romana, ritrovata a Tarquinia e che è stata origine di questo articolo. Alcuni certo lievi contrasti con gli Anguillara, vennero composti dai signori di Tolfa Vecchia, nel 1331 15) ; a tal punto che, nel 1363, Puccio di Bove di Tolfa Vecchia nominò suo esecutore testamentario proprio il conte Giovanni dell’Anguillara 16) . Questo Puccio aveva sposato una Agnese, forse della famiglia Farnese 17) . Unico momento di accordo tra i due rami fu nel 1341, quando si ribellarono al papa avignonese Benedetto XII. Mentre i signori di Tolfa Vecchi tornarono subito all’obbedienza, su consiglio di Nicola da Perugia, podestà di Viterbo, gli altri furono attaccati dalle truppe pontificie del vessillifero Guido Orsini che, preso prigioniero Nerio di Baldo di Tolfa Nuova, lo consegnò al rettore del Patrimonio 18) . I signori di Tolfa Nuova si sottomisero completamente ai di Vico, consegnando loro il feudo: un loro membro era tra i cento nobili del Patrimonio che nel 1347 accompagnarono a Roma Giovanni di Vico 19) . Lo stesso Giovanni che nel 1354 prestò giuramento di fedeltà al rettore del Patrimonio per i suoi feudi, tra i quali proprio quello di 12) Valesio - Falgari, “Memorie istoriche”, pp. 35-36. Duprè Theseider, “Roma dal Comune di popolo”, p. 359. 14) Bock, “Roma al tempo”, p. 204. 15) Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 9. 16) Idem, p. 109; Sora, “I conti di Anguillara”, p. 101 nota 4. 17) Idem, p. 109 nota 4. 18) Antonelli, “Nuove ricerche”, p. 143; Antonelli, “Vicende della denominazione pontificia”, p. 301. 19) Duprè Theseider, “Roma del Comune di popolo”, p. 604. 13) 124 Tolfa Nuova 20) . Abbiamo notizia di arbitrati tra Paradiso di Nereo di Tolfa Nuova con Giovanni di Vico, nel 1355, e tra Nerio di Baldo di Tolfa Nuova con Nuccio di Cecco e suo figlio Ventura, nel 1362 21) . Sono queste le ultime testimonianze rintracciate del ramo di Tolfa Nuova; sempre più spesso l’altro ramo viene indicato solo come di Tolfa. Il castello di Tolfa Nuova passò dunque nelle mani dei di Vico; poi in quelle di Francesco Orsini, insignitone da Eugenio IV nel 1435 22) ; di Everso dell’Anguillara, impossessatosene nel 1460 23) ; della Camera apostolica, sotto Paolo II nel 1464; e finalmente di Pier Luigi Farnese, nel 1534 24) . Con l’inizio del secolo XV abbiamo notizia di membri della famiglia stabilitisi a Roma. In particolare di Egidia, sorella di Nerio e moglie di Giovanni “Thomasii”, milite di S. Eustachio che testò nel 1426 e 1429 (con un lascito anche ad un Nicola della Tolfa, dell’ordine dei Predicatori), che morì nel 1452, venendo sepolta nella chiesa di S. Marcello 25) . I fratelli Ludovico e Pietro della Tolfa, ormai sudditi pontifici a tutti gli effetti, furono “scudieri onorari e commensali continui” di papa Pio II (1458-1464), ed a loro si deve la costruzione della cerchia di mura attorno al borgo sorto sotto il loro castello 26) . Nel 1463 avvenne il fatto straordinario che cambiò le sorti di questa famiglia, dello Stato pontificio e di tutto il mondo occidentale. Proprio nel territorio circostante il castello di Tolfa Vecchia, un tal Giovanni da Castro scoprì i giacimenti minerari di allume, che saranno fonte di enormi ricchezze e dell’interesse di tutti 27) . Le tre figlie di Ludovico della Tolfa sposarono tre figli di Giovanni da Castro, il quale stipulò con loro il primo contratto per lo sfruttamento dei giacimenti 28) . Il papa fece subito presenti i suoi diritti sovrani sui giacimenti minerari, nominando Pietro della Tolfa a custode delle allumiere e concedendo a Ludovico, il primogenito, parte dei profitti dell’impresa 29) . Paolo II, appena salito al Soglio, nel 1464, fece una regalia ai 20) Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 8. Jacovacci, “Repertorii di famiglie”, v. 2553 parte IV, p. 430; atti del notaio Cecco di Giovanni Paulini. 22) Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, pp. 8, 8 nota 3, 9, 28 nota 1. Non credo che il castello fu mai del vescovo Bartolomeo Vitelleschi, come afferma Polidori, anche se riporta di una sentenza del 1454 a favore di questo per il diretto dominio sul castello (“Croniche di Corneto”, p. 230). 23) Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 9. 24) Idem, pp. 9 e 30. 25) Jacovacci, “Repertorii di famiglie”, pp. 431-432. 26) Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, pp. 26, 26 nota 1, 27 nota 2. 27) Polidori, “Croniche di Corneto”, p. 259; Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, pp. 9-10. 28) Polidori, “Croniche di Corneto”, p. 261; Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 26 nota 2. Quest’ultimo autore dice di non essere però riuscito a rintracciare il contratto: credo si possa trovare tra gli accordi matrimoniali dei loro figli. 29) Zieppel, “L’allume di Tolfa”, p. 27 note 2 e 3. 21) 125 due fratelli in occasione del matrimonio di una figlia di Pietro 30) . L’anno successivo, Ludovico sposò (certo in seconde nozze) Agnese, figlia del potente Orso Orsini, segnando così l’ascesa sociale della famiglia 31) . Tale matrimonio si rivelò provvidenziale subito dopo, nel 1466, quando il papa abbandonò la linea morbida e desiderò assoggettare direttamente il castello. Tentò prima fomentando una sollevazione popolare contro i signori, fallita sul nascere; poi facendo assediare la rocca ed occupando il borgo. I della Tolfa si rivolsero all’Orsini, occupato in Romagna, che abbandonò immediatamente il campo per correre in loro soccorso. Le truppe pontificie, appena saputo dello spostamento del comandante, e prima ancora che questo arrivasse, si ritirarono 32) . Così venne fatta temporaneamente la pace, in attesa di una soluzione radicale, che arrivò nel 1469. In quell’anno, con l’intervento di Napoleone Orsini, capitano generale delle truppe pontificie, la Camera apostolica acquistò regolarmente il feudo per 17.300 ducati 33) , ed il papa regalò anche a Ludovico un cavallo nero 34) . A questo punto i della Tolfa abbandonarono la loro terra e lo stesso Stato pontificio, nel quale sarebbe stato difficile rimanere. Seguirono il loro parente Orsini nel Regno di Napoli, dove quello era molto potente, ed ormai forti di tale parentela e ricchi, vi si stabilirono, acquistando il feudo di Serino (oggi in provincia di Avellino), tolto a forza dal re a Camillo della Marra 35) . Ludovico della Tolfa lo ritroviamo ancora solo nel 1471, quando ottiene dal papa di poter procedere contro alcuni suoi debitori nel Patrimonio, e con essi chiudere definitivamente i conti col passato 36) . Con l’aiuto degli Orsini, la famiglia si integrò completamente nella nobiltà feudale partenopea: il figlio di Ludovico, Giovanni Battista, sposò Francesca Carafa 37) . Si imparentarono inoltre coi Carafa de Spina conti di Policastro (Vittoria della Tolfa era cugina “ex sorore” di papa Paolo IV), coi Vulcano baroni di Melito, con gli Spinello, coi Capece Galeota, con gli Orsini conti di Manoppello e marchesi di Guardia, coi de Loffredo, coi de Guevara duchi di Bovino, coi Caracciolo principi di Avellino, coi Carafa marchesi di 30) Idem, p. 27 nota 5. Litta, “Famiglie celebri italiane”, “Orsini”, tav. XV; Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 28 e 189. 32) Polidori, “Croniche di Corneto”, p. 260; Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 29 nota 1. 33) Polidori, “Croniche di Corneto”, pp. 260-261; Zippel, “L’allume di Tolfa e il suo commercio”, p. 29 nota 2. 34) Zippel, “L’allume di Tolfa”, p. 29 nota 2. 35) Polidori, “Croniche di Corneto”, p. 261; Ricca, “La nobiltà del Regno”, vol. IV, pp. 427 e 433; Zippel, “L’allume di Tolfa, p. 29 nota 2. 36) Zippel, “L’allume di Tolfa”, p. 29 nota 2. 37) Ricca, “La nobiltà del Regno”, vol. IV, p. 433. E’ a quest’opera che si può fare riferimento per maggiori particolari genealogici. 31) 126 San Lucido, coi de Sangro principi di Sansevero, coi Pappacoda marchesi di Capurso, coi Carbone marchesi di Paduli, coi Caracciolo principi di san Bono (nei quali si estinse il loro ramo principale alla fine del XVI secolo), e con gli Orsini duchi di Gravina (Giovanna della Tolfa fu madre di papa Benedetto XIII), estinguendosi nell’anno 1700, con la morte di Giovanna della Tolfa. Esula dai nostri interessi seguire le vicissitudini in quella terra, solo dobbiamo segnalare la nascita cinquecentesca di favole genealogiche che vedono i della Tolfa discendere dai Frangipane, tanto che spesso si fecero chiamare Frangipane della Tolfa 38) . Il loro feudo di Serino venne prima innalzato al grado di baronato, poi a quello di contea, verso il 1530. Possedettero anche il ducato di Grumo ed i feudi di Santo Stefano, Montebrandoni, Ponte, Monterone, Castelchiodato, Buonalbergo, e Vallata. A Roma, per le sue opere di beneficienza è rimasta famosa Vittoria della Tolfa, moglie di Camillo-Pardo Orsini, conte di Manoppello e marchese della Guardia, sposata prima del 1545 39) . Rimasta vedova, nel 1553 40) , tentò di fondare un monastero di clarisse in alcune sue case, “alla guglia di S. Macuto”. Il tentativo fallì e, su consiglio del congiunto papa Paolo IV, donò le proprietà immobiliari ai neo-costituiti del congiunto papa Paolo IV, donò le proprietà immobiliari ai neo-costituiti Gesuiti, che ne fecero la base per la loro chiesa di S. Ignazio e del Collegio Romano, nel 1561 41) . La stessa Vittoria fece altri lasciti testamentari 42) al convento di S. Francesco a Ripa, verso il 1579 43) , al convento carmelitano di S. Maria in Traspontina (nella cui chiesa eresse la cappella dell’Immacolata, o del Carmine), nel 1581 44) , al collegio dei Gesuiti, nel 1583 45) , al collegio dei Gesuiti, nel 1583 46) , ed all’ospedale di S. Giacomo, nel 1605 47) . La famiglia di Bisenzio (o Bisenti, Bisenzi) prese il nome dal castello sull’isola detta Bisentina (oggi nel comune di Capodimonte, in provincia di Viterbo) 48) , della quale furono signori sembra a partire dal 981, per nomina dell’imperatore Ottone II, di passaggio in Italia 49) . C’è chi dice che costituivano un ramo degli Aldobrandeschi 50) . 38) Borrelli, “Vindex Neapolitanae Nobilitatis”, vol. I, p. 170. Da tali falsità si è arrivati oggi a chiamare “rocca dei Frangipane” quella del centro comunale di 39) Jacovacci, “Repertorii di famiglie”, vol. 2553 parte IV, p. 432; atti del notaio Teodoro de Gualteronibus. 40) Forcella, “Iscrizioni delle chiese”, vol. I, p. 170, nn. 648-649; il marito venne sepolto in S. Maria in Araceli. 41) Negro, “Rione II Trevi”, parte II fasc. II, p. 100; Pietrangeli, “Rione IX Pigna”, parte III, pp. 18 e 37. 42) Jacovacci, “Repertorii di famiglie”, vol. 2553 parte IV, p. 432; atti del notaio Teodoro de Gualteronibus. 43) Pietrangeli, “Rione IX Pigna”, parte IV, p. 132. 44) Gigli, “Rione XIV Borgo”, parte I, p. 104. 45) Forcella, “Iscrizioni delle chiese”, vol. X, p. 102, n. 179. 46) Forcella, “Iscrizioni delle chiese”, vol. VI, p. 356, n. 1111; Idem, vol. VI, p. 400, n. 1227; Barberini, “Rione XVI Ludovisi”, pp. 20 e 22 (dice che il lascito venne fatto al convento della Traspontina). 47) Forcella, “Iscrizioni delle chiese”, vol. IX, p. 134, n. 265. 48) Da segnalare l’esistenza di un comune di Bisenti in provincia di Teramo. 49) Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 32. 127 A partire dal 1080, per più di un secolo, signoreggiarono sulle città di Tuscania (poi Toscanella ed oggi di nuovo Tuscania) 51) . Nel 1188, i viterbesi cacciarono Ildebrandino di Bisenzo dal suo castello, ma poi la famiglia lo dovette rioccupare se, nel 1220, Guido di Bisenzo lo sottomise alla città di Orvieto 52) . Nel 1245, col favore dell’imperatore Federico II, tornarono a dominare Toscanella, e la tennero fino al 1279, quando venne loro tolta da Orso Orsini, andando a far parte delle proprietà di quest’ultimo 53) . E’ in questo periodo che abbiamo notizia di un Guitto, poi detto Guittone, di Bisenzo (morto avanti il 1262) 54) , e dei figli Giacomo (Jacobo), Nicola, Tancredi e Giacoma 55) . I figli maschi sottomisero ad Orvieto i loro castelli di Bisenzo e Capodimonte 56) . Nel 1261, papa Urbano IV, a seguito dell’omicidio di Guiscardo di Pietrasanta, governatore della Provincia, perpetrato da Giacomo di Guittone di Bisenzo, gli tolse i castelli di Bisenzo (che fece demolire) e l’isola Martana 57) . A quel punto, nel 1262 Giacomo si trasferì a Montebello nel territorio di Corneto, al cui vicario e console chiese di poter riedificare quel castello (che era stato distrutto nel 1253), promettendo in cambio varie cose e sottomettendogli il giuramento della cittadinanza cornetana 58) . Giacomo, assieme al fratello Tancredi, nel 1280, ottenne ancora da Orvieto la custodia dei castelli di Bisenzo e Capodimonte 59) . Lo stesso, nel 1294, assieme alla moglie Romana ed ai figli Guittuccio e Dragone, ebbe un contrasto col comune di Corneto per i confini delle tenute di Montebello, Monteleone e Montevalerio 60) . Di Tancredi, fratello di Giacomo sappiamo che nel 1262, assieme a viterbesi, toscanesi e cornetani, saccheggiò Bolsena ed i dintorni di Orvieto, fedeli al papa 61) . Lasciò tutti i suoi diritti sull’eredità paterna alla sorella Giacoma ed al nipote Guittuccio di Giacomo 62) . Ebbe un figlio, Guido, signore di Marta, castello che fece lui stesso incendiare 50) Idem, vol. 78, p. 287; vol. 102, p. 32. Idem, vol. 78, p. 287. 52) Idem, vol. 102, p. 32. 53) Idem. vol. 78, p. 289. 54) “Margarita Cornetana”, pp. 61 n. 17, 197-298 nn. 384-386. 55) Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 78, p. 289; vol. 102, p. 29 - Corteselli, Pardi, “I personaggi delle memorie”, p. 222. 56) Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 33. 57) Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 96, p. 69 - Morghen, “Il cardinale Matteo Rosso Orsini”, p. 281 - Corteselli, Pardi, “I personaggi delle memorie”, pp. 222 e 241. 58) “Margarita Cornetana” pp. 297-298 nn. 384-386 - Valesio., Falgari, “Memorie istoriche”, p. 159. 59) Corteselli, Pardi, “I personaggi delle Memorie”, p. 222. 60) “Margarita Cornetana”, pp. 241-242 nn. 319-320. 61) Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 19. 62) Corteselli, Pardi, “I personaggi delle Memorie”, p. 222. 51) 128 nel 1261 per non lasciarlo prendere dai di Vico 63) , e del quale si ha l’ultima notizia nel 1269 64) . L’altro figlio maschio di Guittone, Nicola, era signore di Pianzano nel 1263, quando lo sottopose alla città di Tuscania 65) . Ebbe un figlio di nome Galasso. Nella stessa epoca, troviamo un Nicola di Ranuccio di Bisenzo, signore di Ancarano, che nel 1263 sottomise anch’egli il suo castello a Tuscania 66) . Guittuccio (o Guiduccio, Guittuzzo) di Bisenzo, figlio di Giacomo, signore di Montebello, per questo castello e per Contignano, Leona e Castel Marano, confermò la “soggezione antica” a Tuscania 67) . Di lui abbiamo notizie ancora nel 1300 68) e nel 1321, quando ha una lite per proprietà con Vanne e Cataluccio, figli del cugino Galasso e signori di Capodimonte, terminata nel 1323 69) . Era lui il Guittuccio marito di Bartolomea della Tolfa Vecchia, della lapide cornetana del 1329. Tra i suoi figli, ebbe un Giovanni. Il cugino di Guittuccio, Galasso di Nicola di Bisenzo, barone di Pianzano, tentò di esentarsi dall’ubbidienza a Tuscania, nel 1300 70) . Come si è detto, sui figli furono Vanni e Cataluccio. Sembra che, nel secolo XIII, i Bisenzo, benchè gibellini, fossero contro i di Vico, 71) , invece nel 1311 li troviamo chiedere aiuto proprio a quella famiglia, quando furono attaccati dai Farnese; quelli inviarono in soccorso alcuni militari di Corneto 72) . L’adesione ai di Vico è dimostrata ancora nel 1347l quando un Bisenzo fu tra i cento nobili del Patrimonio che accompagnarono a Roma Giovanni di Vico 73) . Alcuni figli di Guittuccio di Bisenzo, nel 1313 o poco dopo, vennero fatti prigionieri da Poncello Orsini, che li condusse ad Orvieto o Bolsena, ove li fece uccidere 74) . L’altro figlio, Giovanni, era consignore di Tuscania nel 1336 e signore di Pianzano nel 1338 75) . Per la sua attività antipapale, nel 1341 gli vennero tolti Pianzano ed i suoi diritti 63) Idem. Valesio, Falgari, “Memorie istoriche”, p. 32. 65) Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 78, p. 289: vol. 102, p. 124. 66) Idem, vol. 78, p. 289. 67) Idem. 68) Idem, vol. 102, p. 83. 69) Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 33; Antonelli, “Di Angelo Tignosi”, pp. 3-4; Antonelli, “La dominazione pontificia”, p. 250. Da Cataluccio di Galasso derivarono i Catalucci. Del Fratello Vanni si ha ancora notizia nel 1330 (Antonelli, “La dominazione pontificia”, p. 262 nota 3). 70) Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 124. 71) Corteselli, Pardi, “I personaggi delle Memorie”, pp. 222 e 241. 72) Valesio, Falgari, “Memorie istoriche”, p. 38. 73) Duprè Theseider, “Roma dal Comune”, p. 604; Corteselli, Pardi, “I personaggi delle Memorie”, p. 241. 74) Moroni, “Dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 34 (dice sotto il pontificato di Giovanni XXII, 1316-1334, e che la giustizia si svolse in Orvieto); Corteselli, Pardi, “I personaggi delle Memorie”, p. 241 (dice nel 1313 e che si svolse in Bolsena). 75) Antonelli, “La dominazione pontificia”, pp. 294 e 297. 64) 129 sulla metà di Montebello, che entrarono a far parte dei beni della Chiesa 76) . Nel tentativo di ottenere il perdono dei guelfi, fece sposare la figlia Caterina con Ranuccio di Cola “de Celgiolo” Farnese 77) . Altro figlio fu Giacomo. Questo Giacomo di Bisenzo tentò, però inutilmente, di riavere dalla camera apostolica i castelli di Pianzano e Montebello, con una causa tenuta verso la fine del pontificato di Urbano V (1362-1370) 78) . Anche il castello di Bisenzo nel 1376 venne tolto ad un Catulano di Guelfo da Nicolò Orsini che lo consegnò alla Camera Apostolica 79) . Dovette però tornare nelle loro mani. La famiglia di Bisenzo trasferì la dimora di Orvieto e, nel pontificato di Paolo III (1534-1549), i due fratelli Ascanio e Fabrizio cedettero i loro diritti sul castello avito a Pier Luigi Farnese, parte in dono e parte per vendita 80) . Si estinsero con Guido che, nel pontificato di Gregorio XVI (1831-1846), fu, a Roma, presidente del rione Borgo 81) . CLAUDIO DE DOMINICIS * Alcune considerazioni di tipo araldico consentono di precisare e confermare quanto esposto nella parte genealogica di queste note. Come è evidente sulla lapide cornetana sono presenti gli stemmi di due famiglie. Secondo la descrizione tecnica detta blasonatura vengono così definiti, Bisenzo (scudo di sinistra): Partito d’oro e d’azzurro alla pergola troncata dell’uno all’altro. Della Tolfa: di... a cinque fasce ondate di... Gli smalti (colori), non presenti nella riproduzione lapidaria, ove è stato possibile, sono una nostra integrazione, altrimenti sono stati sostituiti, come di prassi, dai punti. Può tornare utile qualche puntualizzazione araldica premettendo che quella descrittiva è solo una delle funzioni dell’araldica stessa, forse la più limitativa e difficilmente comprensibile a tutti. Essa tuttavia persegue l’obiettivo di fermare visivamente la memoria dello stemma. Descrivere un’arma in modo univoco affinché, anche senza una raffigurazione, sia possibile sapere con precisione come è fatta e quali elementi la compongono, può a volte costituire l’unica traccia della sua esistenza. La 76) Antonelli, “Nuove ricerche”, p. 129. Idem, pp. 129 e 148 app. I. 78) Idem, p. 129; Antonelli, “La dimora estiva”, p. 160. 79) Moroni, “dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 34. 80) Moroni, “dizionario di erudizione”, vol. 102, p. 31-32. 81) Idem, vol. 102, p. 31. 77) 130 scienza che si occupa di questo (l’araldica) potrebbe essere ridotta a mera tecnica di riconoscimento e descrizione delle armi. Più proficuo per un gran numero di ricercatori è comprendere l’apporto scientifico, le implicazioni di carattere storico che questa scienza ausiliaria della storia può fornire. Dare storicamente ragione degli elementi di un’arma relativamente alle figure, al tipo di scudo ed ai vari ornamenti esterni ad esso, registrare le varianti, qualora nel corso del tempo ve ne siano state, significa spesso ripercorrere le vicende della storia di una famiglia di un potentato, o di un comune. Nell’arma infatti è sinteticamente espressa l’immagine che una famiglia, un singolo personaggio o un regno vogliono figurare e divulgare in un determinato momento della propria storia, scegliendo tra le vicende presenti e passate ciò che reputano degno di memoria. Ogni elemento di un’arma viene così a richiamare origini, parentele, eredità, feudi, dignità, fornendo informazioni a volte indispensabili per lo storico, lo storico dell’arte, il genealogista ecc. Dietro la realtà apparente va ricercato un significato in relazione alla mentalità e ai desideri di chi l’alzava. In questo senso le mutazioni che lo stemma subisce nel corso del tempo o il permanere delle medesime forme e figure sono da interpretare come espressione di mutamenti ideologici e politici. Gli elementi necessari alla formazione di uno stemma sono tre: lo scudo, la figura, lo smalto. La forma degli scudi della nostra lapide viene detta triangolare o alla francese, ne conferma l’epoca di esecuzione. Senza leggere il contenuto dell’iscrizione, sembrerebbe trattarsi di documento concepito in occasione di una alleanza matrimoniale tra i Bisenzo 82) e i della Tolfa. La lapide non fu però scolpita in occasione del matrimonio tra Guittuccio e Bartolomea, ma a ricordo di quest’ultima nella sua morte. Analizziamo le figure presenti nei singoli scudi. Per i Bisenzo abbiamo la “pergola”, si tratta di una figura araldica detta “pezza onorevole” assai rara nell’araldica italiana. Essa è frequente nelle armi gentilizie e civili della Francia 83) dove molte famiglie o città il cui nome inizia per la lettera Y, la acquisiscono nel proprio scudo alla stregua di una vera e propria arma parlante. Circa la sua origine alcuni richiamano oggetti presenti nell’ambiente torneario, cioè barriere da torneo, o speroni dei cavalieri o anche supporto per la balestra a cric. Altri osservano la somiglianza con il pallio arcivescovile. Quest’ultima tesi è accolta dal più autorevole araldista della passata generazione, il di Crollalanza che ne 82) Per notizie sulle vicende storiche dei Bisenzo inserite nelle lotte contro la parte guelfa ad Orvieto cfr. i numerosi riferimenti in WALEY D., Orvieto medievale, Multigrafica Roma. 83) Cfr. DE RENESSE T., Dictionnaire des figures héraldiques Bruxelles, 1990, vol. V pp. 703 sgg. 131 osserva la presenza in molte armi dei prelati inglesi. Questa figura per alcuni araldisti potrebbe aver avuto origine dal pallio usato in primis dagli imperatori bizantini 84) ed in seguito entrato nell’uso ecclesiale per i gradi alti della gerarchia. La pergola richiama nella forma quell’indumento: una famiglia che adotta proprio la pergola per rappresentarsi potrebbe collegare le proprie origini a Bisanzio o ad un toponimo locale che lo ricorda, oppure affermare l’alta dignità cui si sente chiamata. I Bisenzo assumono la pergola nella forma troncata, cioè con i tre bracci scissi nel centro 85) , inserendola con una bicromia di grande effetto, in uno scudo partito dagli stessi smalti. Il risultato è di estrema euritmica eleganza. Nello scudo dei della Tolfa è presente la fascia anch’essa figura araldica che si definisce “pezza onorevole”. Le fasce ondate in particolare, secondo alcuni araldisti tra cui il Ginanni 86) , sono alzate per lo più da famiglie di parte guelfa. La lapide cornetana offre un raro esempio dello stemma dei della Tolfa prima della loro ascesa sociale. Di esso non è stato rintracciato alcun esempio nella cittadina di Tolfa, almeno nella parte esterna degli edifici più antichi. Nei maggiori repertori di araldica l’arma dei della Tolfa viene citata nella forma che ebbe dopo il trasferimento della famiglia nel napoletano: cioè d’azzurro alla torre d’argento. Il mutamento dell’arma è contemporaneo a quello della dimora, ma abbandonando l’antica figura (cioè la fascia), viene mantenuto nella nuova insegna il ricordo delle proprie origini. Infatti la torre, assunta nel nuovo stemma, era presente nelle armi di famiglie di antica e grande nobiltà. Ed i della Tolfa non rinunciano a sottolinearlo: il nuovo stemma si pone in rapporto all’antico non rompendo totalmente il legame araldico proprio nei contenuti (torre) e probabilmente anche negli smalti. Di essi non c’è traccia sulla lapide cornetana: l’uso di indicare i colori con particolari tratteggi anche nelle esecuzioni lapidarie è assai più tardo. In questo caso siamo portati a pensare che fossero l’azzurro e l’argento. La continuità sembra essere sottolineata anche dall’adozione dei medesimi smalti o colori dell’arma antica: l’azzurro e l’argento. Un bell’esempio romano della nuova arma dei della Tolfa compare sulla pietra a ricordo dei lasciti di Vittoria Della Tolfa Orsini nella sacrestia di Sant’Ignazio. Vittoria, si è visto nella parte genealogica di queste note 87) , apparteneva alla prima generazione nata dopo il trasferimento della sua famiglia. Il fatto che ella usi già lo stemma con la torre ci conforta 84) Per questo particolare aspetto cfr. PETRUSI A., Insegne del potere sovrano e delegato a Bisanzio e nei paesi di influenza bizantina, in Simbologia e simboli nell’alto Medio Evo. Settimane del Centro Italiano di Studi sull’alto Medio Evo (XXIII). Spoleto, 1976 vol. II pp. 569-593. 85) Cfr. di CROLLALANZA G., Enciclopedia araldico-cavalleresca, Forni, Bologna, 1980. 86) GINANNI M.A., L’arte del blasone dichiarata per alfabeto, Galeotti, Venezia, 1756 p. 128. 87) Cfr., in particolare quanto detto alla nota n. 46. 132 nella tesi dell’immediato cambiamento che esso subiva senza frapporre passaggi figurativi intermedi e periodi in cui veniva utilizzato ancora il vecchio stemma. GIOVANNA ARCANGELI UN AMORE DI...... PAPA “Giulia, figliola carissima. Più la tua lettera è stata lunga e più ci è stata gradita, perchè ho impiegato più tempo a leggere le tue parole che hanno illustrato le bellezze di Caterina Gonzaga, che non è degna però di toglierti le scarpe. Quando ella ti era vicina, era come una lucerna vicino al sole. Noi apprezziamo la tua perfezione, di cui mai abbiamo dubitato, e vorremmo che fosse destinata e dedicata a quella persona che più ti ama”. (Fine giugno 1494). “Giulia, ingrata e perfida. Dichiari di non venire qui contro la volontà dell’Orsini, benchè comprendiamo il tuo animo cattivo, considerando le tue parole finte e bugiarde, non ci possiamo persuadere che ora usate tanta ingratitudine e perfidia con noi, avendoci prima tante volte giurato et assicurato di sottostare ai nostri comandi e di non avvicinare 133 l’Orsini. Ora te ne vai a Bassanello con sicuro pericolo per la tua vita. Speriamo che vi accorgiate dell’errore e ne facciate adeguata penitenza. E ora con la presente, sotto pena di scomunica, e maledizione eterna, ti ordiniamo che tu non lasci Capodimonte o Marta, nemmeno per andare a Bassanello”. (22 ottobre 1494). Queste lettere appassionate e traboccanti d’amore - prima - e gelosia e furore amoroso - poi - furono scritte, insieme a moltissime altre, - a quattro mesi di distanza una dall’altra - da Alessandro 6° a Giulia Farnese. Prima di addentrarci nei meandri di questo amore passionale, vediamo gli attori che vi compaiono. LUI Alessandro 6°. Papa. Rodrigo Borgia nacque il 1° gennaio 1431 a Jativa, nei pressi di Valencia, da don Joffrè e da donna Isabella, sorella di Callisto 3°. Per la sua parentela con questo pontefice nel 1456 Rodrigo fu nominato vicecancelliere e cardinale della Chiesa Romana. Il suo stato di principe della Chiesa gli comportò un ingente arricchimento, tanto da divenire l’uomo più potente di Roma. Condusse una vita dissoluta e, tra il 1462 ed il 1471, ebbe tre figli da donne rimaste sconosciute: Pedro, Geromina, Isabella. Dalla relazione amorosa con Vannozza Cattanei nacquero Cesare nel 1475, Giovanni nel 1476, Joffrè nel 1478 e Lucrezia nel 1480. Rodrigo venne elevato al Pontificato l’11 agosto 1492 e l’elezione fu sicuramente simoniaca. Alessandro morì il 18 agosto 1503 a seguito di un avvelenamento da cibo, complicato da un indebolimento per malaria o dissenteria. Un coppiere - corrotto da Cesare Borgia - doveva propinare del vino “corretto alla cantarella” - il veleno dei Borgia al ricchissimo cardinale di Corneto, Adriano Castelleschi. Per un “disguido” il tossico fu consumato da tutti i commensali ed il Papa, debilitato dall’età e dalla malattia passò... a miglior vita. Di lui è stato scritto: “Alessandro, per tutta la vita, si preoccupò di godere il mondo, soddisfatto di vivere, di appagare i tuoi desideri, la sua ambizione. In questo sembrava diventare ogni giorno più giovane, per vecchio che fosse. Nessun pensiero lo tormentava durante la notte. Pensava a ciò che gli poteva procurare vantaggi, nient’altro mai lo preoccupò. (Von Ranke). 134 “Alessandro, uomo altamente dotato, in cui era viva l’idea del godimento del potere. L’ambizione, la sensualità, l’avidità per la ricchezza erano congiunte con un’indole energica e qualità brillanti”. (Burckhardt) “Alessandro, in tutta la vita, non fece altro che ingannare il mondo. Nessuno meglio di lui possedeva l’arte dell’astuzia. Nessuno confermò promesse con giuramenti più sacri e nessuno non le mantenne meglio di lui. Se riuscì sempre ad approfittare della gente è perché nessuno meglio di lui conosceva i lati deboli degli uomini”. (Machiavelli). Alessandro aveva un temperamento sensuale e ardente ed esercitava sulle donne un fascino irresistibile: fu però conquistato dalla saggezza di Vannozza, per la quale nutrì un pacato amore”. (Gregorovius). Rodrigo scrive poemi, novelle, suona musica, protegge umanisti, aiuta biblioteche e le collezioni d’arte. Possiede un armadio tutto pieno di vasi d’oro e d’argento. Incarica artisti, quali Botticelli, Perugino, Ghirlandaio, Filippo Lippi per la sua villa-castello di Spedaletto, presso Pienza, e per il suo Palazzo (oggi Cesarini) in Via dei Banchi Nuovi, in Roma”. (Attali). Rodrigo appare di una saggezza e di uno zelo singolari, di eccellente preparazione, dimostrando una capacità meravigliosa di convincere e trattando gli affari importanti con una destrezza ed una determinazione incredibili; tuttavia le sue virtù erano largamente distanziate dai suoi vizi”. (Guicciardini). “Simoniaco, infedele, eretico”. (Savonarola). Questo era l’uomo! LEI Giulia Farnese, detta la Bella. Nacque nel 1474 da Pier Luigi e da Giovannella Caetani. Fu sorella del cardinale Alessandro, vescovo di Corneto, poi Papa Paolo 3°. Discendeva da un’antica famiglia di provincia, che signoreggiava su alcune terre intorno al lago di Bolsena: Capodimonte, Marta, Isola Farnese. Terre belle e fertili, ma che 135 non permettevano di condurre una vita agiatissima. Nel castello di Capodimonte si viveva tra il fasto del nome e la semplicità di un’esistenza patriarcale. Il 20 maggio 1489, nella “camera delle stelle” di Palazzo Borgia, alla presenza del notaio borgiano, Camillo Beneimbene, del vicecancelliere Rodrigo e del cardinale di S. Maria in Portico, Zeno, fu celebrato il matrimonio del giovane “monocolus (guercio) Orsinus con la magnifica et honesta fanciulla Giulia”. La coppia abitò il palazzo del cardinale Zeno, sito nei pressi dei Palazzi Vaticani. Questi si era infatti allontanato da Roma per paura di una morte violenta. Quando Orsino, quasi confinato, se ne tornò nel proprio castello di Bassanello, Giulia restò con Lucrezia Borgia e la propria suocera, Adriana Mila, nipote di Rodrigo. E’ di questo periodo la nascita della relazione adulterina con il cardinale - prima - e papa - poi -. L’innamoramento fu rapido, anche per il carattere passionale ed il “sangre caliente” dello spagnolo. La tresca divenne ben presto di dominio pubblico e dette fastidio a molti, non solo a Roma, ma anche fuori d’Italia. Numerose corrispondenze degli ambasciatori delle corti d’Italia parlavano della “Bella”, della concubina del papa. In Germania venne in seguito pubblicamente rimproverato a Paolo 3°, fratello di Giulia, il modo con il quale era giunto al cardinalato. Sicuramente egli si giovò dell’influenza di Giulia per ottenere cariche ed incarichi; forse per questo venne soprannominato “il cardinale della gonnella o il cardinale Fregnese”. La relazione di Giulia con Alessandro continuò sino all’anno 1500: anno in cui ella restò vedova. Il distacco fu dovuto forse a stanchezza di entrambi gli... attori; per Giulia fu determinato al suo nuovo stato di vedova. Ma Alessandro continuò ad esercitare su Giulia una forma di tenerezza protettiva, già sperimentata con successo con Vannozza Cattanei. Si conosce un secondo matrimonio di Giulia con il napoletano Giovanni Capece Bozzato, ma la Bella si dedicò all’educazione della figlia Laura, nata da Orsino, fino al matrimonio di costei con Nicolò della Rovere, nipote di Giulio 2°. Giulia fece testamento nel mese di marzo 1524, morendo dopo pochi giorni (22 o 23 marzo). La sua morte fu pianta con orazioni funebri e con poesie. “Madonna Giulia si è fatta bellissima et in mia presenza si scapigliò e si fece acconciare con i capelli, i quali andavano insino ai piè, et ha i più belli”. (Adriana Mila ad Alessandro) “Ella aveva colorito bruno, occhi neri, viso rotondo, un certo ardore et una civetteria furba e femminile”. 136 Sentiamo il suo parlare: “Al mio unico signore, essendo assente da Vostra Santità et dipendendo da quella ogni mio bene e ogni mia felicità, non posso con nessuna soddisfazione gustare tali piaceri, poichè dove è il mio tesoro, è il cuore mio. Tutto è poca cosa, se non stare ai piedi di Vostra Santità”. (Giulia ad Alessandro). Sicuramente Giulia fu una delle più belle donne del Rinascimento. Vasari riporta che il Pinturicchio la ritrasse allorchè dipinse un volto della Madonna sopra la porta di una camera dell’appartamento Borgia in Vaticano. Dalla scuola del Pinturicchio venne dipinta una S. Caterina d’Alessandria con i lineamenti della Farnese. Giulia viene pure riconosciuta nella statua dell’allegoria della Giustizia, posta sopra il sepolcro di Paolo 3°. Questa era la donna! L’ALTRO Orsino Orsini, signore di Bassanello e Gallese. Nacque intorrno al 1470 da Ludovico e da Adriana Mila (nata a Roma da Pedro de Mila venuto al tempo ed al seguito di Papa Callisto Borgia). Orsino era menomato da uno strabismo o da una ferita agli occhi (monocolus=guercio). Restò orfano nel 1489 ed in quello stesso anno celebrò in Roma le proprie nozze con Giulia. Non si comprende la causa di un matrimonio così... assortito. Ma, strano a dirsi, egli fu amato teneramente dalla moglie e, pur essendo inferiore per ogni verso a Giulia, aveva il fascino della vittima disarmata. A Giulia dovette la propria nomina a comandante delle truppe napoletane ed Orsino condusse quasi sempre una vita lontano da Roma, arroccato nei suoi feudi di Bassanello e Gallese. “Tra Orte e Viterbo, poggiando più a nord-ovest verso Orte, sta Bassanello, feudo degli Orsini, povero borgo di antica origine militare, fondato su una collinetta di poca altezza come su un basamento. A difesa del luogo si eleva un bel castello a pianta quadra, arrotondato negli angoli da robusti torrioni quattrocenteschi. Esso domina le casupole pietrose, la chiesa romanica dal campanile a sei piani, con piccole finestre e la cinta di mura medioevali”. (Bellonci) 137 In questo ambiente ed in questo scenario si muove e vive il marito di Giulia sino all’anno 1500, allorchè morì tragicamente a seguito di un solaio che gli cadde addosso mentre dormiva. Questo era il terzo uomo!! I FATTI Il 12 giugno 1493 Lucrezia Borgia - a soli tredici anni e già alla sua seconda esperienza matrimoniale - viene data in sposa a Giovanni Sforza di Pesaro. Le nozze furono particolarmente solenni e celebrate dal neo-eletto Alessandro 6°, alla presenza di dodici cardinali. Data la giovane età degli sposi e la sospetta virilità di Giovanni, le nozze non vennero consumate e Lucrezia attese pazientemente nel palazzo del cardinale Zeno, in compagnia di Adriana Mila e Giulia la Bella. L’anno seguente, a motivo di una lunga epidemia di peste a Roma e Napoli, Lucrezia si accinge a partire per Pesaro, sua nuova residenza. E perchè questa non sembri alla sposa una terra d’esilio, per indorare la pillola del trasferimento e per evitare il contagio, si uniscono a lei Giulia, Adriana, Girolama Farnese, Lella Orsini, figlia del conte di Pitigliano e moglie di Angelo Farnese, fratello di Giulia. Per questa partenza di bellezze muliebri Roma sembrò senz’altro più povera e più grigia. L’otto giugno la piccola comitiva, debitamente scortata, entrò a Pesaro, sotto un violento acquazzone. Nessuna delle donne ebbe modo di agghindarsi secondo i propri desideri e le dame rimandarono all’indomani la possibilità da abbagliare la piccola corte di Pesaro con vesti, gioielli, grazia e bellezza. A ben guardare, proprio ben piccola cosa appare la corte pesarese. Subito inizia una fitta corrispondenza tra Roma e Pesaro, tra il Papa e le donne appena arrivate. Ad ogni lettera aumenta l’irrequietezza di Alessandro. Egli sente sempre di più la mancanza di Giulia. Pian piano si passa dalla preghiera, agli ordini, alle minacce, alla scomunica. Da dolci nomignoli si arriva ad epiteti quali “ingrata et perfida”. A complicare le cose sono le truppe di Carlo 8°, entrate in Italia, per cui maggiore sarà il pericolo in una piccola cittadina come Pesaro. “Manderò qualcuno a scortare la comitiva massime adesso che vengono li Franciosi per mare e per terram non par bene che in simil tempo vi troviate a Pesaro per moltitudine di gente che si troverà in questo paese”. (Alessandro ad Adriana Mila). Nel frattempo erano pervenute a Giulia altre lettere che annunciavano una malattia mortale del proprio fratello Angelo, capo della Famiglia Orsini di Capodimonte. Egli, 138 sentendosi prossimo a morire, scongiurava la sorella e la moglie di tornare il più presto possibile, se volevano vederlo ancora in vita. Giulia decide subito di tornare nel Viterbese e non la trattengono nè parole, nè preghiere. Il 12 ottobre Giulia con la sua piccola corte cavalca alla volta di Bolsena e non tiene conto della rabbia di Alessandro. Questo vede nella partenza inganni, trascuratezze, false notizie, poco amore. Due giorni dopo la Bella arriva a Capodimonte, assiste il fratello in agonia e conforta il dolore della cognata Lella, già sua compagna di viaggio. La morte del fratello viene presa da Giulia come una punizione celeste per la sua condotta a Roma e solo la quiete del lago mitiga il dolore. Le è comunque di consolazione la compagnia dei propri cari e al Papa che scongiura, protesta e minaccia, Giulia dice per la prima volta un no secco e laconico. Anche Orsino vuole Giulia presso di sè, a Bassanello. Ora non può più tollerare le offese patite, la sua gelosia si acuisce e gli fa giurare ogni giorno vendetta. E’ impossibile pensare che Orsino abbia conosciuto soltanto adesso la relazione di Giulia con Alessandro: l’Italia intera e buona parte dell’Europa conosce l’amore travolgente del Borgia per la Farnese. Si suppone che se ne fosse accorto per ultimo, ma ora Orsino si ribella. Venuto a conoscenza che il papa stava trafficando per far giungere Giulia a Roma, Orsino - al servizio del re di Napoli, - si fermò con l’esercito a Città di Castello, poi, zitto e rabbioso, covando una tremenda furia, tornò a casa e rappresentò per il papa un grosso ostacolo, in quanto ad Alessandro non giovava in quel momento uno scandalo: si diceva che il re di Francia fosse sceso in Italia anche con l’intenzione di deporlo dal soglio pontificio per la sua condotta riprovevole. Il pontefice si rivolge a Giulio Orsini, signore di Monterotondo, affinché metta i suoi buoni uffici con Orsino per convincerlo a permettere a Giulia ed Adriana di recarsi a Roma. Ai primi di ottobre Orsino rompe gli indugi e fa sapere alle proprie donne e al cardinale Farnese di volere Giulia presso di sè, altrimenti avrebbe riempito il mondo di scandali. Il cardinale Farnese inviò allora Adriana a Roma perchè “provasse a salvare l’onore degli Orsini e dei Farnese”, ma costei tornò a Capodimonte “Dio sa quanto stracca e con l’ordine ‘Giulia a Roma’ “. In tutto questo trambusto Giulia si mostra estremamente donna: fa capricci e mostra irritazione per la contesa. E’ incuriosita e commossa per l’ardire di quel marito che, tradito da tutti, ora si atteggia a nemico di un personaggio di quella portata. Ora Giulia si rende disponibile per un uomo coraggioso (Orsino) e non per un prepotente (Alessandro). Non si sarebbe dunque mossa da Capodimonte senza il consenso del marito. 139 Ma il papa minaccia: “Giulia ingrata e perfida. Benchè sin qui comprendessimo l’animo tuo cattivo, non ci potevano in tutto persuadere che usassi tanta ingratitudine e perfidia verso di noi, avendoci tante volte giurato e data la fede di star al comando nostro e non accostar Orsino. Ora vuoi andare a Bassanello con espresso pericolo di vita e speriamo in breve che tu e l’ingratissima madama Adriana vi accorgerete del vostro errore e ne porterete la penitenza condegna. Et ora, sotto pena di scomunica e maledizione eterna, ti comandiamo che non ti debba partire da Capo di Monte o da Marta, nè manco per andare a Bassanello. Si preferisce quella “zimia” (scimmia) di Orsino a nosaltres”. (23 ottobre 1494) Finalmente l’Orsini cede e abbandona la lotta, ottenendo come risarcimento una grossa somma di denaro per il pagamento (si dice) delle truppe restate senza paga. Il 29 novembre la piccola comitiva, scortata da trenta cavalieri, si mise in viaggio per Viterbo, prima, e Roma, poi. Ma una schiera di soldati francesci sbarrò la strada. Non fu tentata alcuna difesa e tutti subito si arresero all’avanguardia delle truppe di Carlo 8°, capitanate da Yves d’Allègre. Le donne furono trasferite a Montefiascone. Si chiese un riscatto di tremila scudi, che vennero immediatamente esborsati. Giunse pure una lettera di Federico da Senseverino che ordinava l’immediato rilascio delle prigioniere. Conosciuta la notizia della liberazione, Alessandro si apprestò a riceverle. Galante e bello, indossò un giubbone di velluto nero a liste d’oro che mascherava la sua pinguidine di sessantenne. Calzò finissimi stivali di Valencia, mise una sciarpa spagnola, un berretto di velluto, pugnale e spada. Ricorse per ultimo al suo fascino latino. Giulia giunse a Roma, scortata da quattrocento cavalieri francesi. Al lume delle torce finalmente Alessandro vide il volto della sua amata, della sua Bella, che le rivolgeva il più malizioso dei saluti d’amore. Sicuramente era l’unica vincitrice. I cronisti che assistettero all’incontro riportano che Giulia passò la notte in Vaticano, con buona pace di tutti. Sic transit gloria mundi! E così sia. MARIO CORTESELLI Bibliografia 140 Pastor - Storia dei Papi - Volumi 3 e 5 Burcardo - La civiltà del Rinascimento in Italia Paschini - Roma nel Rinascimento Nasalli Rocca - I Farnese Gelmi - I Papi Rendina - I Papi Gregorovius - Storia della città di Roma nel Medioevo Guicciardini - Storia d’Italia Pintonello - I Papi Mathieu - Rosay - Dizionario cronologico dei Papi Bellonci - Lucrezia Borgia Corteselli-Pardi - I personaggi delle memorie istoriche della città di Corneto Pecchiai - Roma nel Cinquecento Attali - 1492 Cognasco - Italia nel Rinascimento Hay-Law - L’Italia del Rinascimento 141 S. FRANCESCO DI TARQUINIA NEL SECOLO XIX Il secolo XIX è caratterizzato da lunghi periodi di calma e forti sconvolgimenti politici, che contribuiscono alla formazione di una nazione italiana unita, dopo essere stata per lunghi secoli divisa. Questo travaglio immancabilmente si riflette anche sugli abitanti del convento S. Francesco di Tarquinia o Corneto, come allora si chiamava la cittadina. Per poter capire meglio un periodo così intricato si preferisce esporre la materia in più punti. I frati del convento S. Francesco di Tarquinia. La breve bufera della Rivoluzione Francese importata nello Stato Pontificio alla fine del secolo XVIII aveva prodotto scompiglio nelle case dei religiosi per le restrizioni imposte. Vi erano state notevoli dispersioni e sbandamenti tra loro. Col ritorno di Pio VII a Roma nel 1800 anche le comunità religiose cercarono di riorganizzarsi. Nel convento S. Francesco di Corneto veniva riconfermato guardiano P. Antonio Maria Taloni da Torria o Torrice. Questo indicava che il suo precedente comportamento era approvato dai superiori della Provincia Romana. Il suo mandato durò ancora fino al 1808. Gli funsero da vicari del convento P. Giuseppe da Proceno per il 1800, P. Giacomo da Torrazza per il 1801, P. Bernardino da Gragnana per il 1802, P. Benedetto da Caprarola per il 1803, 1805, P. Giovanni Antonio da Gragnana per il 1804, P. Giovanni Francesco da Gragnana per il 1806 e P. Filippo da Castel Viscardo per il 1807-1808. Mentre per gli anni precedenti abitava il convento una comunità ordinaria con superiore e sudditi, nel 1808 invece diveniva nuovamente una casa di studio, perché vi era presente il P. Francesco da Grotte di Castro come maestro dei chierici studenti di filosofia, cioè di giovani aspiranti al sacerdozio. Nel 1809 lo stesso P. Francesco da Grotte di Castro fu fatto guardiano del convento ed è possibile conoscere per la prima volta tutti i frati della sua comunità. Infatti erano con lui il P. Filippo da Castel Viscardo, confessore e vicario, P. Giustino da Valentano maestro dei chierici, P. Nicola da Valentano lettore di filosofia. Vi sono cancellati P. Vincenzo da Gamalero e P. Lodovico dal Castelferro mandato ad Orte. Vi erano gli studenti 142 di filosofia Fra Cherubino da S. Anna e Fra Luigi da Savigliano, mentre vi erano cancellati Fra Giuseppe da Boscomare mandato a Velletri e Fra Giulio da Milano mandato a Magliano Sabina. Vi erano il fratello laico Fra Diego da Scheggia ed i terziari Fra Angelo da Matelica, Fra Domenico da Arpino e Fra Filippo da Tolentino. Quantunque ormai la situazione politica fosse compromessa con la deportazione di Pio VII il 6-7 luglio 1808, i frati seguitarono a considerarsi liberi nei loro diritti. Nel 1810 fu eletto guardiano del convento P. Giacomo Maria Latini da Corneto e con lui erano il vicario P. Filippo da Castel Viscardo, P. Nicola da Valentano maestro dei chierici, P. Giacomo Maceroni da Valentano, P. Leonardo da Pompeiana e per qualche tempo il suo predecessore P. Francesco da Grotte di Castro ed altri non conosciuti. Ma il 15 giugno la soppressione napoleonica si abbattè sui da Boscomare mandato a Velletri e Fra Giulio da Milano mandato a Magliano Sabina. Vi erano il fratello laico Fra Diego da Scheggia ed i terziari Fra Angelo da Matelica, Fra Domenico da Arpino e Fra Filippo da Tolentino. Quantunque ormai la situazione politica fosse compromessa con la deportazione di Pio VII il 6-7 luglio 1808, i frati seguitarono a considerarsi liberi nei loro diritti. Nel 1810 fu eletto guardiano del convento P. Giacomo Maria Latini da Corneto e con lui erano il vicario P. Filippo da Castel Viscardo, P. Nicola da Valentano maestro dei chierici, P. Giacomo Maceroni da Valentano, P. Leonardo da Pompeiana e per qualche tempo il suo predecessore P. Francesco da Grotte di Castro ed altri non conosciuti. Ma il 15 giugno la soppressione napoleonica si abbattè sui da Boscomare mandato a Velletri e Fra Giulio da Milano mandato a Magliano Sabina. Vi erano il fratello laico Fra Diego da Scheggia ed i terziari Fra Angelo da Matelica, Fra Domenico da Arpino e Fra Filippo da Tolentino. Quantunque ormai la situazione politica fosse compromessa con la deportazione di Pio VII il 6-7 luglio 1808, i frati seguitarono a considerarsi liberi nei loro diritti. Nel 1810 fu eletto guardiano del convento P. Giacomo Maria Latini da Corneto e con lui erano il vicario P. Filippo da Castel Viscardo, P. Nicola da Valentano maestro dei chierici, P. Giacomo Maceroni da Valentano, P. Leonardo da Pompeiana e per qualche tempo il suo predecessore P. Francesco da Grotte di Castro ed altri non conosciuti. Ma il 15 giugno la soppressione napoleonica si abbattè sui da Boscomare mandato a Velletri e Fra Giulio da Milano mandato a Magliano Sabina. Vi erano il fratello laico Fra Diego da Scheggia ed i terziari Fra Angelo da Matelica, Fra Domenico da Arpino e Fra Filippo da Tolentino. Quantunque ormai la situazione politica fosse compromessa con la 143 deportazione di Pio VII il 6-7 luglio 1808, i frati seguitarono a considerarsi liberi nei loro diritti. Nel 1810 fu eletto guardiano del convento P. Giacomo Maria Latini da Corneto e con lui erano il vicario P. Filippo da Castel Viscardo, P. Nicola da Valentano maestro dei chierici, P. Giacomo Maceroni da Valentano, P. Leonardo da Pompeiana e per qualche tempo il suo predecessore P. Francesco da Grotte di Castro ed altri non conosciuti. Ma il 15 giugno la soppressione napoleonica si abbattè sui frati di S. Francesco disperendoli. Il P. Giacomo M. Latini fu imprigionato nel 1811 e deportato in Corsica, dove morì a Bastia il 16 agosto 1812 in chiara fama di santità 1) . Nella città rimase il solo P. Filippo da Castel Viscardo, perché maestro di scuola elementare, cappellano dell’ospedale ed economo parroco di S. Pancrazio. Egli nel 1814 accompagnò il francescano Mons. Bonaventura Gazola, vescovo di Carpi ed amministratore apostolico di Corneto e Montefiascone per la sua visita apostolica al convento di S. Francesco. Era segretario di visita il P. Gaudenzio Patrignani da Coriano, che in quello stesso anno divenne prima procuratore dell’Ordine Francescano, cioè la prima carica dopo il Generale e successivamente Generale dello stesso Ordine e più tardi vescovo di Ferentino. Il convento riprese vita proprio per l’intervento dello stesso P. Generale presso il P. Provinciale Giovancarlo da Roma, che nel 1815 vi mandò come guardiano l’ex deportato in Corsica P. Francesco Maria La Monaca da Viterbo. Componevano la sua comunità l’ex Provinciale P. Filippo Cecchini da Orte, P. Luigi Maria da Roma, P. Serafino da Gradoli, P. Leonardo da Pompeiana, un prete secolare, P. Antonio da Capodimonte, i fratelli laici Fra Tommaso da S. Vito, Fra Giuseppe da Vitorchiano, Fra Pasquale da Caprarola ed i terziari Fra Giuseppe da Orte e Fra Domenico da S. Martino e vi era certamente anche il terziario Fra Innocenzo che, essendo stato mandato al mare per questua, dovette dormire fuori della porta della città, quantunque avesse suonato la campana tanto da spezzarne la corda, senza che nessuno gli aprisse. Il P. Francesco se ne lamentò con le autorità cittadine con una lettera. Questo significava una certa non curanza verso i frati, pur dietro molte insistenze perché ritornassero nella città. Erano mutati i tempi. La svalutazione galoppava. I generi di prima necessità erano aumentati oltre misura. I danni apportati dalla guardia civica al 1) Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54 ff. 106, 115, 116, 122, 123, 130, 131, 140, 1411, 147, 156, 157, 163, 167, 168, 169, Vacchetta 1809-1829 APA; Mecocci L.S., P. Giacomo Maria Latini da Corneto Minore Osservante deportato in Corsica e morto in odore di santità (11-11-1779 - 16-8-1812) in Bollettino dell’anno 1989 STAS 117-155; Mecocci L.S., P. Giacomo Maria Latini da Corneto (Tarquinia) 1779-1812 in Archivum Franciscanum Historicum 84 (1991) 407-449. 144 convento erano stati ingenti ed il P. Francesco aveva dovuto impegnarsi nella ricostruzione del convento con forti spese e pochi contributi. Nel 1816 lo sostituì come guardiano il P. Benedetto da Caprarola ed il 10 maggio 1817 era guardiano P. Gioacchino da Caprarola, che vi fu riconfermato il 16 febbraio 1819 dal Provinciale P. Luigi da S. Vito. essendogli vicario e maestro dei chierici di filosofia P. Luca Antonio da Tivoli. Il P. Gioacchino restò guardiano anche per il 1820-1821, solo che per il 1820 gli fu vicario P. Leonardo da Pompeiana ed il P. Bernardino da Giudice era maestro dei chierici di filosofia, mentre per il 1821 adempiva i due uffici il P. Leonardo, che vi restava pure il 1822, quando divenne guardiano del convento il P. Corrado da Valentano 2) . Nel 1823 diventò guardiano P. Giuseppe da Proceno e vi fu riconfermato per il 1824. Il suo vicario e maestro dei chierici per il 1823 era P. Leonardo da Boscomare. Per la prima volta si hanno gli attestati del convento, ma sono firmati solo dal P. Giuseppe. Per il 1824 la comunità del convento di Tarquinia appare più ampia nella firma dell’inventario del convento del 5 gennaio 1825. Ivi non vi compare il P. Bonaventura da Costaraineria maestro dei chierici filosofici e vicario del convento. Vi sono invece il guardiano P. Giuseppe da Proceno, il vicario P. Giuseppe da Valentano, i discreti cioè consiglieri P. Gioacchino da S. Romolo lettore, P. Michele da Roma, P. Giuseppe da Collodi. Vi mancano i fratelli laici ed i chierici studenti che non avevano diritto a firmare. Vi sono invece il sindaco apostolico Agapito Avvolta Falgari ed il procuratore Domenico Antonio Dasti (due secolari che aiutano i frati nell’amministrazione). Il documento è sigillato col vecchio simbolo del convento. Vi compaiono infatti due figure: S. Francesco a sinistra di chi guarda ed un giovani martire sulla destra, che certamente è S. Agapito, protettore della città e le cui reliquie sono contenute in un busto d’argento nella chiesa di S. Francesco. Il P. Giuseppe da Proceno però commise un errore imperdonabile per quel tempo e certo indelicato anche oggi. Egli non accettò l’invito del cerimoniere della cattedrale a partecipare alla messa ed al canto del Te Deum il 7 ottobre 1823 per l’elezione del Papa Leone XII (Annibale della Genga). Strappò il biglietto d’invito e non vi mandò i suoi frati. Si attirò così le ire del clero diocesano che minacciava di ricorrere alla Segreteria di Stato, ma si rivolse al definitorio dei Minori Osservanti del convento di Aracoeli di Roma. Si sottoscrissero l’arciprete Domenico Lastrai, i canonici Vincenzo Lastrai, Gaetano Cesarei, Sebastiano Forcella, Michele De Domnis, il beneficiario e canonico del capitolo Angelo (Galassi?), Angelo Scappini, D. Giacomo Boccanera ed il cappellano D. Raffaele Flamini in 2) Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Vacchetta 1809-1829 APA; Visita pastorale di Mons. Bonaventura Gazola 30-6, 2-8-1814 AVT ff. 75-76; Lettera del P. Generale Gaudenzio Patrignani al capitano Arcangelo Lucidi 10-11-1814, 145 rappresentanza degli altri assenti. Fu incaricato Luigi De Bernardis di trattare a Roma la sostituzione del P. Giuseppe col P. Filippo da Orte e col P. Francesco da Grotte di Castro. Il De Bernardis però si presentò in ritardo. perché credeva che la questione dovesse trattarsi il 2 aprile ed invece il definitorio avvenne il 2 febbraio ed il P. Giuseppe fu riconfermato guardiano per il 1824. Il Provinciale P. Clemente da Farnese ricevette il De Bernardis il 13 febbraio, quando tutto era stato fatto e per deporre il P. Giuseppe ci sarebbe voluto un processo canonico che avrebbe suscitato scandalo nella popolazione. E la sostituzione col P. Francesco da Grotte di Castro non sarebbe stata possibile, perché egli era impegnato per 3 anni come confessore di un monastero ed il P. Filippo da Orte non poteva essere obbligato perché “padre di merito” (era ex Provinciale). Allora a nome di tutti i canonici il canonico Michele De Domnis chiedeva che il P. Giuseppe domandasse pubblica scusa al Capitolo della cattedrale ed ai pubblici rappresentanti cioè al comune. Diventava così una questione difficile e spinosa. Il 27 gennaio 1825 fu eletto guardiano di S. Francesco P. Francesco da Fibialla invece del P. Giuseppe da Proceno. Suo vicario e maestro dei chierici filosofi era P. Leonardo da Pompeiana. Il problema era quindi risolto 3) . Il 26 gennaio 1826 fu eletto guardiano P. Angelo Benedetto da Pietrabruna e fu affiancato dal vicario e maestro dei chierici P. Giacomo Maceroni da Valentano. Con loro erano P. Gioacchino da S. Remo, P. Giuseppe da Palombarda, P. Emanuele da Villanova ed il sindaco apostolico Agapito Avvolta ed il procuratore Domenico Antonio Dasti. Il 29 gennaio 1827 venne eletto guardiano il P. Giocchino da S. Romolo o S. Remo rimanendovi fino alla sua morte avvenuta l’11 settembre 1830. Collaborarono con lui nel 1827 il vicario e maestro dei chierici di filosofia P. Camillo da Roma, che rimase in quest’ultimo ufficio anche nel 1828, essendo stato sostituito come vicario dal P. Giuseppe da Palombara e nel 1829 anche in quello di maestro. Per il 1829 si ha invece una comunità intera dopo tanto tempo. La componevano il P. Gioacchino da S. Remo guardiano e commissario del Terzo Ordine, P. Alfonso da Grotte di Castro lettore di filosofia, P. Giuseppe da Palombara vicario e maestro dei chierici, P. Camillo da Roma lettore di morale e confessore, i chierici Fra Giuseppe Serafino da Apollosa, Fra Antonio da Castellaro, Fra Luigi e Fra Tommaso da Castellazzo, i terziari Francesco da Cori, Giunipero da Domo all’Irovaglio e Pietro da Lettere del P. Francesco Maria da Viterbo 1815-1816, Lettera del P. Benedetto da Caprarola 20-7-1816 Tit. XVII, fasc. 7, aa. 1814, 1815, 1816 ASCT. 3) Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Attestati 6-5-1823, Inventario 5-1-1825 APA; Lettera dei canonici al definitorio dei Minori Osservanti di Aracoeli 1824, Lettere di Luigi De Bernardis al gonfaloniere di Corneto 7-1 e 142-1824, Minuta di lettera al definitorio d’Aracoeli 30-1-1824, Minuta di lettera di Luigi De Bernardis 11-2-1824, Lettera del Provinciale P. Clemente da Farnese 14-2-1824, Lettera del canonico Michele De Domnis 1824 Tit. XVII, fasc. 7, a. 1824 ASCT. 146 Cantalupo. E’ una delle comunità più interessanti del convento di Tarquinia per i suoi personaggi. Fra Giuseppe Serafino da Apollosa infatti muore a Genova il 1 ottobre 1828. P. Antonino da Castellaro, dopo essere stato molte volte superiore dei conventi della Provincia Romana, si recò in Terra Santa e morì a Nazaret il 15 settembre 1868. Mons. Luigi Moccagatta da Castellazzo visse la maggior parte della sua vita missionario in Cina, dove divenne vicario apostolico e vi morì il 6 settembre 1891. Il P. Camillo Maria da Roma fu per più anni segretario provinciale e definitore. Il P. Gioacchino da S. Remo fu confermato guardiano per il 1830, ma l’11 settembre 1830 vi morì e fu sostituito il 6 dicembre dal P. Giustino da Grotte di Castro. Gli era vicario e maestro dei chierici filosofi P. Alfonso da Grotte di Castro 4) . Il P. Giustino da Grotte di Castro fu riconfermato guardiano per il 1831. Collaborarono con lui il vicario e maestro dei chierici filosofi P. Alfonso Maria da Grotte di Castro, P. Michelangelo da S. Remo, P. Bonaventura d’Olevano, P. Francesco Maria da Viterbo. Il 24 gennaio 1832 fu eletto guardiano P. Luigi da Roma. P. Raffaele da Caprarola era vicario e maestro dei chierici filosofi, occupando tali uffici anche per il 1833. Per il 1832 vi erano pure P. Francesco Maria da Viterbo, P. Bonaventura da Olevano e P. Anselmo da Cavatore. Il 15 gennaio 1833 fu eletto guardiano P. Giuseppe da Valentano. Oltre il P. Raffaele da Caprarola vi era il P. Francesco da Viterbo. Mentre gli attestati dei predecessori sono sempre firmati dal sindaco apostolico, questi invece non lo sono perché non vi è stata una buona amministrazione 5) . Il 24 gennaio 1834 fu eletto guardiano P. Francesco da Vallerano. Il P. Francesco da Caprarola divenne vicario e maestro dei chierici filosofi. Vi furono tra gli altri P. Raffaele da Canistro. P. Raffaele da Caprarola, P. Giovanni da Triora, P. Romolo da S. Remo, P. Michelangelo da Civezza e per la prima volta come discreto P. Francesco Giacchetti da Corneto. Il 27 gennaio 1835 divenne guardiano P. Michelangelo da Civezza e suo vicario e maestro dei chierici studenti di filosofia era P. Francesco da Caprarola. L’anno seguente era guardiano sempre P. Michelangelo da Civezza, ma cambiava indirizzo di scuola, perché il P. Gioacchino da Caprarola veniva scelto come vicario e maestro dei chierici di grammatica, cioè con un grado inferiore agli studenti di filosofia, perché essi studiavano i 4) Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Attestati 8-1-1827, 14-1-1829, Vacchetta 1809-1829; Mons. Luigi (Carlo Antonio) Moccagatta da Castellazzo 1809-1891. Registro dei novizi di Orvieto 1828-1844 APA Ms. 73 ff. 66-66 v; Necrologio S. Bernardino di Orte ASBO (erroneamente + 1-9-1891); Angeletti C., Necrologio della Provincia Romana dei SS. Apostoli Pietro e Paolo (Roma 1969) 591: Acta Ordinis Fratrum Minorum 1 (1882) 24, 6 (1887) 27, 9 (1890) 52, 10 (1891) 152, 199-200, 11 (1892) 29, 50 (1931) 397. 5) Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Attestati ed inventario 31-1-1831, Attestati 7-1-1832, 6-1-1833, 14-1-1834 APA. 147 primi rudimenti della lingua. Tra i sacerdoti presenti nella comunità come discreti vi erano P. Liberato da Tessennano, P. Raffaele da Canistro, P. Bartolomeo Sisti e P. Giovanni da Triora. Il 21 gennaio 1837 fu eletto guardiano del convento il P. Bernardino da Caprarola che occupò tale incarico pure per il 1838. Egli in seguito sarebbe stato due volte Provinciale della Provincia Romana e Custode di Terra Santa. Nel 1837 in convento rimasero gli studenti di grammatica, perché il P. Onorato da Gradoli era vicario e loro maestro. Vi erano anche P. Liberato da Tessennano, P. Francesco da Rocchetta, P. Raffaele da Canistro, P. Vincenzo da Cumazia, P. Giovanni da Triora. Nel 1838 invece ritornarono nel convento gli studenti di filosofia ed il P. Onorato da Gradoli era vicario e loro maestro. Con loro erano P. Luigi da S. Remo, P. Raffaele da Canistro, P. Paolino da Lucca, e P. Francesco da Rocchetta. Vi erano stati quindi dei lievi mutamenti. Il 16 aprile 1839 il P. Liberato da Tessennano fu eletto guardiano del convento e P. Luigi da Poggio era vicario e maestro dei chierici studenti di filosofia, che occupò tale ufficio anche per il 1840. Il 7 maggio dello stesso 1840 fu eletto guardiano P. Onorato da Gradoli e vi rimase fino al 17 febbraio 1843, quando egli rinunziò a questo ufficio e gli successe il 19 il P. Francesco da Corneto, già guardiano di Canino. Per il 1840 vi erano oltre P. Onorato e Luigi da Poggio, P. Francesco da Caprarola, P. Francesco da Rocchetta, P. Lorenzo da Velletri, P. Paolino da Lucca, P. Raffaele da Canistro e P. Michele da Lerida, cioè un spagnolo certamente ospite per le restrizioni nella sua patria. Sono diversi in questo periodo gli Spagnoli ospiti nello Stato Pontificio, alcuni dei quali di una robusta vita spirituale, come il P. Pietro Lopez. Nel 1841 il vicario e maestro dei chierici di filosofia era P. Francesco Giacchetti da Corneto. Vi erano però gli altri padri del discretorio P. Paolino da Lucca, P. Mariano da Velletri, P. Prospero della Spezia. Nel 1842 il vicario del convento doveva essere il P. Tommaso da Cori, ma non firma l’inventario di tale anno. Vi sono invece P. Alfonso da Grotte di Castro maestro dei chierici di filosofia, P. Fortunato da Lucca, P. Giuseppe Maria da Pigna, P. Francesco da Caprarola, P. Mariano da Velletri, P. Paolino da Lucca. P. Mariano da Velletri sarà più tardi guardiano del convento infine Provinciale della Provincia Romana nel periodo dell’occupazione dello Stato Pontificio da parte dello Stato Italiano 6) . 6) Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Attestati 10-1-1835, 11-1-1837, 11-3-1838, 31-3-1839- 31-3-1841, 1-3-1842, Inventari 11-3-1838, 31-3-1841, 1843 APA; P. Bernardino (Paolo Toparini) da Caprarola 1808-1833 fu Provinciale 1846-1849, 1859-1861, Custode di Terra Santa 1856-1857 e buon predicatore. P. Mariano Greco da Velletri fu Provinciale dal 1868 al 1873, scrivendo molte lettere al guardiano di S. Francesco di Tarquinia P. Angelo (Luigi Zaccaria) da Subiaco che meriterebbero un approfondito esame per tale periodo. Egli morì a Velletri il 5-4-1883. 148 Nel 1843 venne eletto presidente del convento il P. Francesco da Corneto, perché eletto fuori capitolo. Maestro dei chierici di filosofia fu eletto P. Giuseppe da Tivoli, che tuttavia non firmò gli attestati del 1843, segno questo che egli non vi era presente. Vi erano invece il vicario del convento P. Paolino da Lucca, P. Alfonso Maria da Caprarola, P. Francesco da Caprarola, P. Mariano da Velletri e P. Fortunato da Lucca. Il 30 gennaio 1844 il P. Francesco Giacchetti da Corneto fu riconfermato guardiano del convento, ma il 23 febbraio rinunziò, perché non voleva riconoscere come suo vicario il P. Celestino da Roma che era anche maestro dei chierici di filosofia. La questione fu portata in definitorio ed il P. Giuseppe da Roma definitore disse: “Comanda più esso ( P. Francesco da Corneto) che i PP. Provinciale del Rev.mo Definitorio”. La sua rinunzia fu accettata e fu sostituito col presidente P. Mariano da Velletri, che vi restò col P. Celestino da Roma, P. Luigi da Olevano, P. Fortunato da Lucca, P. Fortunato da Boscomare, e P. Giovanni da Triora. Il 17 gennaio 1845 guardiano del convento P. Mariano da S. Remo o S. Romolo e vi fu riconfermato per il 1846. Fu vicario del convento e maestro dei chierici di filosofia il P. Celestino da Roma. Nel 1845 i discreti del convento erano P. Mariano da Velletri, P. Fortunato da Lucca, P. Luigi d’Albenga, P. Luigi da Pozzo e prosindaco apostolico era Francesco Angelo Marzoli. Nel 1846 vi era lo stesso prosindaco apostolico, senza il P. Celestino da Roma, ma con altri nuovi P. Alessio da Cerreto, P. Secondiano da Corneto, P. Mariano da Velletri, P. Michele Molleras (lo spagnolo P. Michele da Lerida già ricordato) e P. Fortunato da Lucca. Vi si notano diversi mutamenti di personale tra i sacerdoti. Il P. Mariano da S. Remo fece presentare da Giuseppe Latini, fratello di P. Giacomo Maria, la richiesta di confermare di avere un sepolcro nella chiesa di S. Francesco che il definitorio gli concesse il 9 ottobre 1838 ed ottenne la risposta affermativa il 10 febbraio 1846 7) . Il 27 gennaio 1847 fu eletto guardiano del convento P. Raffaele da S. Romolo, ma rinunziò ed al suo posto il 4 febbraio fu eletto P. Francesco da Corneto. Il P. Fortunato da Lucca era vicario e P. Secondiano da Corneto era maestro dei chierici studenti di filosofia. Vi erano però con loro il P. Michelangelo Detroli, P. Crescenzo da Acquetico, P. Gioacchino da Poggio, P. Fortunato da Lucca, P. Michele da Lerida ed il prosindaco apostolico Francesco Angelo Marzoli. Il P. Francesco da Corneto rimase guardiano fino al 24 gennaio 1855. Fu un guardianato lungo ed in un periodo particolarmente interessante, perché nel 1848 vi fu la Repubblica Romana con tutte le conseguenze che portò nello Stato Pontificio nella sua breve durata. Nel 1848 nel convento oltre il P. Francesco da Corneto vi erano P. 7) Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Atti definitoriari 1830-1862 Ms. 57 ff. 27, 44, 49, Attestati 15-1-1844, 6-11845, 1-1-1846, 16-1-1847 APA; Stati d’anime della parrocchia di S. Leonardo: 1844 12 frati in S. Francesco, 1845 12 frati 4-4-1846 - 12 frati, 27-3-1847 17 frati ASGT. 149 Secondiano da Corneto, P. Crescenzo da Acquetico, P. Guglielmo da Montalto, P. Giovanni Battista da Toscanella (Tuscania). Di questo stesso anno si ha una statistica della parrocchia di S. Leonardo veramente interessante, perché fornisce alcuni dati anagrafici dei frati che non si trovano altrove e gli impegni di ognuno di essi nel convento. Questo credo che sia in relazione alla Repubblica Romana che richiedeva tali note su i frati. E’ indicata come “Statistica del 1849”, ma non corrisponde completamente perché negli attestati del 1 gennaio 1849 al 31 agosto vi sono solo il P. Francesco da Corneto guardiano, P. Giovanni Battista da Toscanella, P. Crescenzo da Acquetico e P. Secondiano da Corneto. Invece in tale statistica vi sono: “P. Francesco Giacchetti da Corneto di anni 36 (guardiano), P. Fortunato Giampaoli da Lucca vicario di anni 38, P. Guglielmo Bianchi da Montalto di anni 28, P. Giovanni Battista Fioroni da Toscanella di anni 30, P. Crescenzo Molinari da Acquetico di 29 anni, Fra Giuseppe Papone da Boscomare chierico professo di 24 anni, Fra Valentino Bianchi da Badalucco chierico professo di 19 anni, Fra Luigi Leoni da Farnese chierico professo di 23 anni, Fra Egidio Orengo da Castelfranco chierico professo di 19 anni, Fra Luca Perna da Crasciana chierico diacono di 26 anni, Fra Basilio Ceccarelli da Ciciliano laico professo di 33 anni, Fra Giuseppe Mattei da Civitellaloreto laico professo di 30 anni, Fra Gaetano Nicolai da Montefiascone terziario di 42 anni, Fra Luigi Gianneschi da Brandelio terziario di 27 anni, P. Secondiano da Corneto di 34 anni”. Il P. Valentino Bianchi da Badaluccio diventerà definitore e confessore delle monache di SS. Cosma e Damiano a Roma, morendo in questi uffici il 16 giugno 1898. Il 21 settembre 1849 fu eletto vicario del convento e maestro dei chierici di filosofia P. Valeriano da Castrocetriolo ed egli nel 1851 aveva solo il titolo di vicario. Questo significava che nel convento non vi erano più i giovani studenti, ma era di nuovo diventato come tanti altri. Negli attestati dal 1 settembre 1849 - 10 gennaio 1851 firmarono il guardiano P. Francesco da Corneto, P. Fortunato da Lucca, P. Valeriano da Castrocetriolo, P. Alessandro da Ciciliano e P. Secondiano da Corneto. In quelli dell’11 gennaio 1851 - 15 gennaio 1852 vi era escluso il P. Alessandro da Ciciliano ed aggiunto solo il P. Francesco da Veroli che era vicario, ed occupò questo ufficio nel 1853. Il 15 luglio 1852 il P. Francesco Giacchetti si era dovuto rivolgere al definitorio provinciale per il comportamento minatorio nei suoi confronti del P. Leonardo da Boscomare. La vecchiaia facilmente gli giocava un brutto scherzo. Al ricorso del P. guardiano venne ad accertarsi il P. Bernardino da Ferentino ed il 17 agosto si discusse il caso in definitorio, mettendo delle restrizioni al P. Leonardo e per la pena rimesso alla clemenza del P. Generale il 20 agosto. Il P. Leonardo morì l’anno successivo nella casa paterna il 7 dicembre. Nel 1823, come si è visto, egli era stato vicario del convento e maestro dei chierici studenti di filosofia, purché non si tratti di un 150 omonimo. Nel 1852 nel convento vi erano anche P. Lodovico Chiappera, P. Alessandro da Acquetico, P. Angelo Maria da Caprarola ed il pro sindaco Francesco Angelo Marzoli vigilava sulla loro amministrazione. Nel 1853 invece vi erano col P. Francesco da Corneto e P. Francesco da Veroli P. Lodovico Chiappera, P. Angelo Maria da Caprarola, P. Antonio Lauro da Perinaldo e P. Luigi da Roma. Proprio di questo periodo e non oltre il 24 gennaio 1854 è un’altro stato d’anime della parrocchia di S. Leonardo perché il P. Francesco da Corneto vi è indicato con la nota “fu Luigi” ed il padre era morto il 14 febbraio 1853 e non vi è il P. Samuele da Farnese che è nel convento dopo il 24 gennaio 1854. Vi erano: P. Francesco Giacchetti (fu Luigi) di anni 40 guardiano di Corneto, P. Francesco Pinciveri di Giuseppe di 28 vicario di Veroli, P. Luigi Lori fu Andrea di 52 da Roma, P. Antonio Lauro di Giovanni Battista di 42 da Perinaldo, P. Lodovico Chiappera di Pietro di 39 da Sillico, P. Angelo Pulcinelli fu Luigi di 34 da Caprarola, Fra Bernardo Barba fu Giovanni Battista di 41 laico da Carpineto, Fra Teofilo Rutini fu Nicola di 41 laico da Concigliano, Fra Cherubino Trenta di Sante laico da Civitella di Subiaco, Fra Giuseppe Lavioso di Giuseppe terziario di 28 da Castellazzo, Fra Luigi Fabriani di Giuseppe terziario da Palombara, Pietro Rigoni di Angelo di 28 garzone del convento di Pieve Carrena”. Chiaramente vi sono tutti i frati del convento senza nessun gruppo di giovani studenti e per la prima volta vi compare un borghese come garzone. Questo non toglie che vi potevano essere anche prima, perché non vi sono state occasioni così chiare nelle precedenti enumerazioni dei frati, in quanto quasi sempre si è trattato dei maggiori responsabili della comunità conventuale, cioè del discretorio o consiglio di essa. Nel 1854 il vicario del convento era P. Samuele da Farnese che collaborava col P. Francesco Antonio da Farnese, P. Luigi da Roma, P. Fedele da Castellazzo; ma nello stato d’anime della parrocchia di S. Leonardo vi sono indicati solo il P. Francesco Giacchetti da Corneto guardiano ed il P. Samuele da Farnese, lasciando altri 11 spazi vuoti per gli altri frati. Questo indicava che la comunità era veramente numerosa anche senza i giovani studenti. Così saranno state le altre comunità del convento pervenuteci solo parzialmente. Negli attestati del 1853 vi è aggiunto il nome del prosindaco apostolico Francesco Angelo Marzoli, mentre in quelli del 1854 non vi è 8) . Il 24 gennaio 1855 fu rieletto guardiano del convento P. Liberato da Tessennano e suo vicario era P. Secondiano da Corneto, ma gli attestati di quest’anno furono firmati solo dal P. Liberato e dal P. Luigi da Roma e dal prosindaco apostolico Francesco Angelo 8) Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Atti definitoriali 1830-1862 Ms. 57 ff. 53, 98, 100, 101, Attestati 10-1 e 3112-1848, 31-8-1849, 10-1-1851, 15-1-1852, 16-1-1853, Dicembre 1853, 21-12-1854 APA; Stati d’anime della parrocchia di S. Leonardo: 16-4-1848 17 frati, 30-3-1849 18 frati, 23-3-1850 18 frati, 12-4-1851 15 frati, 1-4 1852 15 frati, 19-3-1853 12 frati, 1854 P. Francesco Giacchetti da Corneto di 41 anni guardiano e P. Samuele da Farnese più 11 spazi vuoti ASGT; Statistica 1849, Statistica 1854 Tit. XV, fasc. 5 ASCT. 151 Marzoli ed il P. Liberato rinunziò al suo ufficio con la firma degli attestati il 31dicembre 1855. Nel 1856-1858 divenne guardiano P. Fulgenzio da Sugano. Nel 1856 erano con lui P. Francesco da Caprarola, P. Fedele da Castelferro, P. Cesario da Orvieto. Nel 1857 vi erano P. Cesario da Orvieto, P. Girolamo da Farnese, P. Isidoro Maria da Farnese vicario. Nel 1858 vi si aggiungeva il P. Fortunato da Lucca e non vi era più il P. Isidoro Maria da Farnese. Vi era sempre il prosindaco apostolico Francesco Angelo Marzoli. Nel 1859 il guardiano del convento era P. Michelangelo da Caprarola. Con lui fino all’8 gennaio 1860 firmarono gli attestati P. Francesco Antonio da Farnese, P. Bonaventura Cuzzori da Caprarola, P. Liberato da Tessennano ed il prosindaco apostolico Francesco Angelo Marzoli. Il 30 aprile 1860 il Provinciale P. Bernardino da Caprarola ed il definitorio provinciale decisero di aprire un nuovo convento di studio di grammatica ed umanità nel convento di Corneto, inviandovi come lettore il P. Antonio da Ferentino. Simile studio restava anche a Veroli. I conventi erano pieni di studenti e 10 novizi dovevano recarsi a Corneto, dopo la chiusura dell’anno di noviziato nel mese di maggio. Che questo sia avvenuto è certo perché il 12 dicembre 1860 in definitorio “per vista che i Conventi di Tivoli, Orvieto, Corneto e Caprarola erano gravati di Chierici più del consueto, decisero che il nostro lanificio per questa volta pagasse al Convento di Tivoli scudi cento, a quello di Orvieto cinquanta, a quello di Corneto cinquanta e così a quello di Caprarola”. Il P. Antonio da Ferentino però non firmò gli attestati del 1860, mentre li firmarono il guardiano P. Michelangelo da Caprarola, P. Liberato da Tessennano, P. Angelo da Subiaco, P. Francesco di Palma e P. Bonaventura Cuzzori da Caprarola. Il P. Angelo (Luigi Zaccaria) da Subiaco si trovava per la prima volta nel convento di S. Francesco, ma vi sarà in particolare come guardiano durante l’occupazione di Roma nel 1870 e subito dopo 9) . Dal 1861 al 1870 fu guardiano del convento il P. Anacleto Civitani da Velletri. Era il primo ad avere un guardianato così lungo dopo il P. Francesco da Corneto. Nel 1862-1863 erano con lui P. Angelo da Subiaco, P. Francesco Antonio da Farnese, P. Onorato da Gradoli e P. Liberato da Tessennano. Nel 1865 vi erano P. Francesco Antonio Danti da Farnese, P. Casimiro Mola da Orsogna, P. Liberato da Tessennano, P. Domenico Temporini da Castellazzo. Il P. Provinciale Francesco da Lucca compì la visita canonica al convento il 26 maggio. Nel 1866 firmarono gli attestati col P. guardiano Anacleto da Velletri i Padri Giacomo da Castelmadama, Francesco Antonio da Farnese, Domenico da Castellazzo, Casimiro Mola da Orsogna e Francesco da Corneto. Non vi era più tra i discreti 9) Atti della Provincia 1791-1856 Ms. 54, Atti definitoriali 1830-1862 Ms. 58 ff. 160, 161, Attestati 31-12-1855, 1856, 1857, 1858, 8-1-1860, 8-1-1861 APA; Stati d’anime della parrocchia di S. Leonardo 31-3-1855, 12 frati, 1856 10 frati, 4-4-1857 10 frati, 27-4-1858 10 frati, 16-4-1859 9 frati, 31-3-1860 9 frati ASGT. 152 il P. Liberato da Tessennano che rimase ancora per qualche tempo nel convento, ma vi erano nuovi il P. Giacomo Ghezzi da Castelmadama futuro Custode di Terra Santa, Vescovo di Orte, Civitavecchia e Gallese, e P. Francesco Giacchetti da Corneto che si fermerà nel convento sino alla morte 5 maggio 1895. L’8 luglio 1866 giunse visitatore o commissario provinciale, come si diceva allora, P. Giuseppe da Caprarola ed era accompagnato dal P. Francesco da Rom Nel 1867 vi erano gli stessi componenti. Il 14 febbraio 1868 il P. Generale Raffaele da Pontecchio col suo definitorio volle erigere una cattedra sessennale di teologia a S. Francesco di Corneto e vi designò come lettori o professori il P. Casimiro da Orsogna della Provincia Osservante di S. Bernardino e P. Giacomo da Castelmadama, mandando loro la nomina con una lettera del 21 febbraio. Era certo una cosa molto importante per il convento di Tarquinia. Firmarono però gli attestati di questo anno il guardiano P. Anacleto da Velletri, P. Luigi da Farnese, P. Domenico da Castellazzo, P. Francesco da Corneto, P. Casimiro da Orsogna. Vi mancavano il P. Giacomo da Castelmadama e P. Odorico da Casalebordino che forse non appartenevano al discretorio. Nel 1869 firmarono gli attestati col guardiano P. Anacleto da Velletri i Padri Luigi da Farnese, Domenico da Castellazzo, Giacinto da Casabasciana, Francesco da Corneto, Valentino da Valentano, Casimiro Mola da Orsogna, il prosindaco apostolico Francesco Angelo Marzoli. Erano presenti o frequentavano il convento anche P. Giacomo da Castelmadama, P. Luigi da Lucca, P. Mosè da Colle Compito e P. Vincenzo da Fratta. Era l’ultimo anno dello studio sessennale di teologia nel convento. Nell’anno seguente non vi era più P. Giacomo da Castelmadama e P. Casimiro Mola vi rimase solo per breve tempo, poi insegnò a Roma nel collegio di S. Antonio in Via Merulana. Egli successivamente fu accolto nella Provincia di Toscana. Era molto caustico nei suoi giudizi dei teologi o filosofi che avevano la sfortuna di frequentarlo, per cui non lo accettavano volentieri. Queste incomprensioni lo isolarono dalla cultura in voga e ne soffrì molto. Morì in Fucecchio (Firenze) il 28 maggio 1918 con grande esempio di povertà francescana. Le molte presenze di frati in questo anno nel convento si possono spiegare con la presenza dello studio teologico e con il clima politico turbato in altre parti d’Italia con le restrizioni verso gli Ordini Religiosi. Il 5 maggio il Provinciale Mariano Greco da Velletri passò in visita canonica. Questo era segno di eventuali mutamenti di personale 10) . 10) Attestati 8-1-1862, 8-1-1863, 5-1-1867, 31-12-1868, 31-12-1869, Atti definitoriali 1862-1905 APA Ms. 58 f. 27: Registro di messe per i religiosi defunti 1865-1893 (sacerdoti celebrati) ASFT; P. Casimiro Mola da Orsogna Acta Ordinis Fratrum Minorum 37 (1918) 175-176, Necrologium omnium almae Provinciae Thusciae a S. Francisco Stygmatizato religiosorum Adm Rev. P. Francisci a Vinacciano eiusdem Provinciae Ministri Provincialis jussu editum et a R.P. Joanne Maria Montano a Florentia Provinciae chronologum dispositum Floreniae ex Typographia Rinaldi. 153 Nel 1870-1874 fu guardiano del convento P. Angelo Zaccaria da Subiaco. Fu un periodo difficile e delicato, perché di transizione tra lo Stato Pontificio e quello italiano. Con le stesse autorità locali cambiava il rapporto, che prima fu abbastanza conciliativo, poi duro ed ostile. Il P. Angelo cercò di difendere i diritti dei frati nei limiti del possibile, ma cercò anche di essere malleabile e comprensivo in alcuni problemi pratici col comune. Le difficoltà tuttavia non gli mancarono ed il Provinciale P. Mariano Greco gli scrisse molte lettere per i suoi problemi col personale e specialmente per i giovani studenti di filosofia. Queste lettere meriterebbero uno studio particolare. Per i motivi già accennati, gli attestati del 1870-1871 furono ritardati. Li firmarono il guardiano P. Angelo da Subiaco, il vicario P. Bonaventura da Castelmadama, P. Francesco da Corneto, P. Leonardo da Gallinaro, P. Domenico da Castellazzo ed il prosindaco apostolico Francesco Angelo Marzoli che lo faceva per l’ultima volta. Il 13 settembre 1870 il generale Nino Bixio con una divisione di 12.000 uomini, proveniente dal fronte Orvieto-Tuscania-Montefiascone e l’ammiraglio Del Carretto con una flotta occuparono la città. Con tutto ciò nel 1870 furono molti i frati presenti nel convento. Vi furono: il vecchio guardiano P. Anacleto da Velletri, P. Casimiro Mola da Orsogna, P. Valentino Cola da Valentano, P. Giacinto da Lucca, P. Francesco Giacchetti da Corneto, P. Domenico Temporini da Castellazzo, P. Luigi Leoni da Farnese, P. Bonaventura Lolli da Castelmadama, P. Leonardo Farina da Selva Gallinara, P. Raimondo Paglialunga da Onano, P. Ubaldo Ruggeri da Castelmadama, P. Ludovico da Roma, P. Bernardino Grisanto. Il convento di S. Francesco doveva essere ancora una delle poche oasi dei frati scacciati dagli altri conventi per motivi politici. Anche qui però cominciarono presto a sorgere difficoltà d’investigazione fiscale e personale risolte in un primo momento con l’aiuto del prosindaco apostolico Francesco Angelo Marzoli. Il 28 novembre 1871 l’assessore Secondiano Cesarini richiedeva al P. guardiano l’elenco dei religiosi del convento ed il P. Angelo glielo forniva il giorno seguente. E’ così possibile conoscere tutti i nomi dei singoli frati ed i loro uffici occupati nella comunità. Vi erano: P. Angelo da Subiaco guardiano, P. Bonaventura da Castelmadama vicario, P. Domenico da Castellazzo corista, P. Francesco da Corneto maestro dei chierici, P. Leonardo da Gallinaro lettore di filosofia, P. Raimondo da Onano, P. Ivo da S. Donato, P. Maurizio da Subiaco, Fra Ruggero A.D. 1949 p. 162; Cecchi V. Storia del Ritiro Francescano della Vergine presso Fucecchio (Firenze 1937) 265-267; Mons. Giacomo Alessandro Ghezzi 1842-1920 Acta Ordinis Fratrum Minorum 39 (1920) 131-132, Angeletti C., 154 da Ciciliano chierico studente di filosofia, Fra Giuseppe da Palombara chierico studente di filosofia, Fra Giuseppe da Monterola (Marche), Fra Gaetano da Ariccia (Abruzzo), Fra Francesco da Piglio, Fra Francesco da Bagnoli. Vi era ospite per motivi di predicazione P. Ubaldo da Castelmadama. Nel 1872 P. Maurizio da Subiaco diveniva discreto al posto di P. Leonardo da Gallinaro. Vi si aggiungeva il P. Luca Baldi. Il 4 luglio 1873 il definitorio provinciale discusse la richiesta del comune di impiantare nel convento un liceo in cui potevano insegnare due religiosi uno per la matematica e l’altro per la retorica. Questo fu respinto dal definitorio perché non confacente agli usi di allora. Il P. Angelo si mostrò comprensivo per la richiesta di ampliare la strada della Via dei Magazzini per farci entrare con più comodità i carretti col grano. Fu concesso di abbattere un tratto della clausura che fu ricostruita, dopo avere ottenuto i dovuti permessi della Santa Sede e del Regno d’Italia. I frati quindi persero una leggera striscia di terreno, ma tra non molto avrebbero dovuto cedere tutto. Il P. Angelo però dovette intervenire nella chiesa di S. Francesco per le intemperanze di un trombetto del comune durante un funerale. Egli quindi fu citato in tribunale e, dati i tempi che correvano, fu condannato a 5 giorni di carcere a Civitavecchia. Questo scioccò il P. Angelo ed il Provinciale P. Mariano da Velletri gli inviò una lettera veramente fraterna. Però anche costui era al termine del suo mandato, perché fu sostituito dal definitorio generale il 5 maggio 1873 col P. Giuseppe da Caprarola. Il P. Angelo fu sostituito agli inizi del 1874 11) . Nel 1874 successe al P. Angelo il presidente P. Leonardo Farina da Gallinaro che vi restò fino al 1876. I suoi collaboratori in questi anni furono il vicario P. Francesco da Corneto, P. Francesco Antonio da Farnese, P. Maurizio da Subiaco, P. Domenico da Castellazzo, e P. Raimondo da Onano che firmarono gli attestati del 1874, 1875 e 1876. Nel 1874 vi fu in convento anche P. Tommaso da Tuscania. Il 6 luglio 1875 l’ingegnere Muratori, agente del demanio, li cacciò dal convento per l’applicazione della legge di soppressione. Essi si rifugiarono nella casa del canonico Lorenzo Ramaccini, che concesse loro in affitto il primo e secondo piano di essa, situata in via Tarquinia 12. Essi vi restarono fino al 1889 e vi morirono Fra Giuseppe Zanchini da Monterolo il 9 luglio 1877 e P. Necrologio della Provincia Romana dei SS. Apostoli Pietro e Paolo (Roma 1969) 83, Liberati V.G., Presenza del passato - Testimonianze di vita e di fede (Castel Madama 1992) 2-29. 11) Atti definitoriali 1862-1905 Ms. 58 ff. 39-40, Atti della Provincia 1856-1909, Attestati 1870-1871, 1872, Elenco dei religiosi del P. Angelo da Subiaco 29-11-1871 APA; Registro di messe per i religiosi defunti 1865-1893 (Sacerdoti celebranti), Petizione del P. Angelo da Subiaco al Papa, Risposta della Congregazione dei Vescovi e Religiosi 22-61872, Decreto del vescovo di Corneto Mons. Francesco Gandolfi 26-6-1872, Perizia dell’architetto Francesco Dasti 126-1872, Attestato del pretore R. Battaglia 23-7-1872, Decreto del procuratore generale Ghiglieri 5-8-1872, ASFT; Dasti L., Notizie storiche archeologiche di Tarquinia e Corneto (Corneto Tarquinia 1910) 395. 155 Domenico Temporini da Castellazzo il 15-1-1886. Per il fratello laico Fra Giuseppe fu riusata la lapide mortuaria del cardinale Giovanni Vitelleschi. Nel 1876 il P. Leonardo si ammalò e dovette recarsi a Pisa per motivi di salute ed il P. Francesco Giacchetti da Corneto, che era vicario, dovette succedergli nell’officio di rettore della chiesa, che tenne fino alla sua morte il 2 maggio 1895. Nel convento vi era solo il rettore della chiesa ed un fratello laico. In tutto erano però 6 sacerdoti e 3 fratelli laici che vestivano da frati e vivevano del loro lavoro, e delle offerte dei fedeli. Il canonico D. Lorenzo Ramaccini accettò l’incarico di procuratore cioè di amministratore dei pochi beni dei frati o risparmi per vivere, consistenti in 4.000 lire depositate dal P. Francesco da Corneto il 1 gennaio 1878, 650 lire il 3 febbraio 1880, 200 lire il 20 gennaio 1882, ma ritirare dallo stesso padre 1.000 lire nel 1882. D. Lorenzo firmò quindi tutti gli attestati annuali del convento col P. Francesco ed i discreti fino al 31 gennaio 1887. In questi anni difficili per i frati del convento di S. Francesco la comunità rimase quasi costante. Così dal 1877 al 1879 vi erano il guardiano o presidente P. Francesco Giacchetti da Corneto, P. Domenico Temporini da Castellazzo, P. Francesco Antonio Danti da Farnese, P. Raimondo Paglialunga da Onano, aggiungendosi come vecchio superiore P. Leonardo Farina da Gallinaro ed il laico Fra Giuseppe da Monterolo, morto il 9 luglio 1877, come si è già detto, ma che indicava che vi erano anche i fratelli laici. Tra i discreti del 1879 e la prima parte del 1880 vi era anche il P. Cosma Neri da Cori e P. Alipio Capelloni. Dal 1880 non era più tra loro il P. Maurizio Scattone da Subiaco. Nel 1880 vi era il P. Luigi Cesare, nel 1882 P. Costantino Spinelli, nel 1883 P. Luigi Leoni da Farnese, nel 1884 P. Ludovico Garibaldi da Cipressa e P. Cosma Neri da Cori che erano ospiti occasionali. Il 15 novembre 1883 passò il commissario provinciale P. Fortunato Lupori per visita canonica e vi trovò una vita regolare nella comunità in un periodo di sfascio come era allora. Molti erano i conventi soppressi totalmente chiusi. Il 10 novembre 1884 vi passò il P. Provinciale Alessandro da Grotte di Castro. Nel 1885 col guardiano P. Francesco da Corneto vi erano i discreti P. Francesco Antonio Danti da Farnese, P. Ruggero Emiliani da Ciciliano, e P. Ugolino Pomelli da Subiaco. Per qualche tempo vi erano anche i Padri Domenico Temporini da Castellazzo e P. Raimondo da Onano, ma poi se ne andarono via. Il 15 ottobre andò in visita ancora il Provinciale P. Alessandro da Grotte di Castro. Non si nota più con i padri discreti del convento il P. Domenico Temporini da Castellazzo forse debilitato, che muore in casa Ramaccini a 76 anni il 15 gennaio 1866. Il 24 maggio 1866 il definitorio provinciale decise di inviare a Corneto il P. Carlo Felice da Tessennano e proprio esso si sottoscrisse negli attestati di tale anno col guardiano P. Francesco Giacchetti da Corneto, P. Luigi Leoni da Farnese, P. Alfonso Maria da Caprarola, 156 rimanendovi per qualche tempo il P. Ugolino Pomelli da Subiaco, mentre il P. Ruggero era già andato via 12) Il 22 giugno 1887 il definitorio discusse sulla necessità di trasferire lo studio del collegio di Civitavecchia in altro luogo, perché non vi si poteva più mantenerlo e tra le ipotesi di trasloco vi fu pure Corneto, ma non fu realizzato. Il 14 luglio passò in visita il P. Provinciale Bernardino da Ferentino e forse si rese conto dell’inopportunità di realizzare questo disegno a Corneto. In questo anno vi erano discreti P. Luigi da Farnese, P. Carlo Felice da Tessennano, P. Mariano da Viterbo, P. Clemente da Capranica, oltre il guardiano P. Francesco da Corneto. Tra i frati occasionali di tale anno vi furono P. Carlo De Castris da Ferentino e P. Cosma Neri da Cori. Il 3 aprile 1888 firmavano gli attestati col guardiano P. Francesco da Corneto, P. Luigi da Farnese, P. Carlo Felice da Tessennano. Poco dopo vi dovettero essere dei mutamenti, perché gli attestati dell’8 aprile 1889 furono firmati solo dal guardiano P. Francesco da Corneto, P. Luigi da Farnese e P. Giuseppe da Cave. Infatti per qualche tempo vi restò il P. Carlo Felice da Tessennano e se ne andò. Tra i frati occasionali vi furono il P. Cosma Neri da Cori e P. Giacomo Puccica da Capranica. Il 17 settembre 1888 giunse il delegato visitatore P. Evangelista da Piana. Il 9 aprile 1888 il P. Pietro Basili da Rocca di Papa sostituiva come definitore provinciale P. Giacomo Ghezzi da Castelmadama, che era stato eletto Custode di Terra Santa. Nel 1889 i frati del convento dovettero subite ulteriori restrizioni, perché furono costretti da Gustavo Scotti, nuovo proprietario del palazzo Ramaccini, a pagare l’affitto dal febbraio. I Frati se ne tornarono in convento. Firmarono perciò gli attestati del 4 giugno 1890 solo il P. Francesco da Corneto e P. Luigi da Farnese, anche se erano stati con loro il P. Giuseppe da Cave P. Francesco da Farnese ed occasionalmente il P. Valentino da Badalucco. Il 19 giugno 1890 vi giungeva il visitatore generale P. Andrea Lupori. Il 22 novembre compiva la sua visita il Provinciale P. Benedetto Marcelli da Tivoli. Il convento ebbe un nuovo guardiano: P. Maurizio Scattone da Subiaco ed il P. Francesco Giacchetti da Corneto restò rettore della chiesa e procuratore. Con loro era discreto P. Francesco Antonio Danti da Farnese, anche se in questo anno vi furono per qualche tempo P. Luigi da Farnese e P. Giuseppe da Cave. 12) Atti definitoriali 1862-1905 Ms. 58 ff. 53, 68, 70, 95, Atti della Provincia 1856-1909, Attestati 10-5-1874, ed altri mesi, 1875, 1876, 14-1-1878, 23-1-1879, 3-2-1880, 17-1-1881, 23-1-1882, 22-1-1883, 28-1-1884, 20-1-1885, 28-11886, 31-1-1887, 1887, 3-4-1888, APA; Registro di messe per i religiosi defonti (sacerdoti celebranti) 1865-1893, Legati eretti nella chiesa di S. Francesco 1883-1935, Deposito del P. Francesco da Corneto presso D. Lorenzo Ramaccini 1-1-1878, Dichiarazione del P. Antonio (Agostino Nicolini) da Marino 22-9-1888, Atto di intimazione e diffida di Gustavo Scotti 3-3-1889 ASFT; Lettera del sindaco Luigi Dasti 26-12-1876 Tit. XVII, fasc. 14, a 1876 ASCT; De Cesaris C., Considerazioni su una lapide tombale in Bollettino dell’anno 1982 STAS 13-14, 18 nota 1. 157 Il P. Maurizio da Subiaco rimase guardiano del convento fino al maggio 1893 quando egli fu eletto Provinciale dal definitorio generale ed in suo luogo gli successe il 1 maggio P. Raimondo Paglialunga da Onano. Con lui nel 1890 erano P. Francesco Giacchetti da Corneto, P. Giuseppe da Cave, P. Francesco Antonio Danti da Farnese, P. Luigi da Farnese. Nel 1891 vi erano solo il guardiano P. Maurizio da Subiaco, P. Francesco Giacchetti da Corneto e P. Francesco Danti da Farnese. L’11 novembre passò in visita il P. Provinciale Benedetto da Tivoli. L’anno seguente qualche cosa cambiò, perché lo stesso P. Provinciale nella relazione al P. Generale ricordava il convento di Corneto tra quelli che cedevano la pensione ottenuta per metterla in comune. Gli stessi frati erano notevolmente aumentati, essendovi oltre il guardiano P. Maurizio da Subiaco, P. Francesco Danti da Farnese, P. Amedeo Mari da Montorio Romano, P. Francesco Giacchetti da Corneto, P. Carlo Felice da Tessennano, P. Raimondo da Onano 13) . Col provincialato del P. Maurizio Scattone da Subiaco comincia una nuova serie di famiglie dei conventi della Provincia Romana ed è quindi possibile constatare chi fu mandato nei singoli conventi e le possibilità ricevute. Così il P. guardiano Raimondo Paglialunga da Onano che vi resterà fino al termine del secolo sarà casista o solutore dei casi di morale nel 1893-1894, procuratore dal 1895 al 1899, rettore della chiesa dal 1895. Nel 1893-1894 il P. Carlo Felice da Tessennano era vicario, catechista, commissario del Terzo Ordine, procuratore, P. Francesco da Corneto era rettore della chiesa, discreto e confessore, P. Francesco Antonio da Farnese era discreto, organista e confessore, Fra Benedetto da Capranica di Sutri era fratello laico e nel 1894 vi si aggiungeva il terziario Fra Luigi da Terano. Nel 1895 veniva tolto il P. Carlo Felice da Tessennano e sostituito col P. Carlo De Castris da Ferentino, che era in Velletri, ma non si decideva a partire e fu obbligato a farlo il 18 marzo. Egli era lettore giubilato, casista, commissario del Terzo Ordine. P. Francesco Antonio da Farnese era vicario, confessore e catechista. P. Francesco da Corneto era discreto, confessore e rettore della chiesa, ma moriva il 2 maggio e gli succedeva nell’incarico di rettore il P. Raimondo. Vi erano il Fratello laico Fra Giovanni Giuseppe da Roiate che veniva da Velletri ed era il primo curatore empirico di sciatica ed il terziario Fra Luigi da Terano. 13) Atti definitoriali 1862-1905 Ms. 58 ff. 70, 71, 82, Atti della Provincia 1856-1909, Attestati 8-4-1889, 4-6-1890, 7-11891 APA; Deposito del P. Francesco da Corneto presso D. Lorenzo Ramaccini 1-1-1878 5-8-1890, Dichiarazione del P. Antonio (Agostino Nicolini) da Marino 22-9-1888, Atto di intimazione e diffida di Gustavo Scotti 3-3-1889, Registro di messe per i religiosi defonti (sacerdoti celebranti) 1865-1893, Legati eretti nella chiesa di S. Francesco 1883-1935, Amministrazione delle messe 1892-1911 ASFT. 158 Il 13 dicembre 1893 passò in visita canonica il Provinciale P. Maurizio Scattone da Subiaco. Mentre il 13 ottobre 1896 ed il 31 ottobre 1897 vi passò il Provinciale P. Andrea Basili da Rocca di Papa. Nel 1896 non vi era più Fra Giovanni Giuseppe da Roiate e vi giungeva Fra Mariano da Viterbo. Dal 5 febbraio 1897 a tutto il 1899 i sacerdoti erano sempre P. Raimondo da Onano, P. Carlo da Ferentino, P. Francesco Antonio da Farnese ed i fratelli laici erano Fra Egidio da Benabbio ed il terziario Fra Domenico da Caprarola. In realtà non sono pochi i frati che abitarono il convento di S. Francesco in questo secolo, anche se non è stato possibile trovarli tutti. Di essi non si sapeva nulla o quasi perché solo raramente qualcuno ha scritto su loro. Alcuni sono veramente interessanti per la chiesa universale e per l’Ordine Francescano come il P. Giacomo Maria Latini da Corneto, morto con chiari segni di santità nella sua deportazione in Corsica il 16 agosto 1816 ed il P. Raimondo Paglialunga da Onano vissuto molti anni a Tarquinia e mortovi il 23 agosto 1911. Vi vissero dei missionari come P. Antonio da Castellaro, P. Bonaventura Lolli da Castelmadama, i fratelli P. Girolamo Basili e P. Andrea da Rocca di Papa missionari in America Latina e quest’ultimo buon Provinciale della Provincia Romana. Vi studiarono o insegnarono ben tre vescovi Mons. Luigi Moccagatta vicario apostolico in Cina, Mons. Giacomo Ghezzi da Castelmadama vescovo di Civita Castellana-Orte-Gallese, Mons. Sebastiano Pifferi da Castelmadama arcivescovo di Plata di cui non ho trovato riscontro negli elenchi dei frati del convento forse perché vi fu solo studente, ma vi è indicato come uno che vi dimorò 14) . I predicatori. Come nei secoli precedenti i religiosi continuarono a predicare nelle loro chiese e l’avvento e la quaresima nella cattedrale S. Margherita. Dopo la soppressione napoleonica del 1810 vi mancarono i Conventuali di S. Maria in Castello che non vi tornarono più, ma furono suppliti con la partecipazione dei Cappuccini di altri luoghi. Già alla fine del secolo precedente si erano presentate delle difficoltà per la predicazione, perché i Francesi che occupavano lo Stato Pontificio permettevano la predicazione solo ai vescovi ed ai parroci. Così il P. Filippo Antonio da Carbognano che doveva predicare l’avvento del 1798, non poté farlo. Egli ne ottenne la patente solo il 27 14) Atti definitoriali 1861-1905 Ms. 58, ff. 114, Atti della Provincia 1856-1909, Famiglie 1893-1922 APA Ms. 64; Registro di messe per i religiosi defonti (sacerdoti celebranti) 1865-1893, Legati eretti nella chiesa di S. Francesco 1883-1935, Amministrazione delle messe 1892-1911 ASFT; Romanelli E., S. Francesco di Tarquinia (Roma 1967) 86. 159 novembre 1799 ed approfittò per presentare la sua domanda per la quaresima del 1800 con le sue referenze: “lettore già Giubilato in Teologia e predicatore annuale del corrente Avvento in questa nostra Chiesa Cattedrale” (1799). In questo modo era chiaro che qualsiasi altro concorrente veniva messo da parte. Così infatti avvenne per il P. Francesco Antonio da Casabasciana che presentava pure le sue referenze: “già in Filosofia, ed in Teologia Lettor Giubilato” 15) . Per l’avvento del 1801 fu eletto per acclamazione il P. Bernardino da Valentano osservante e lettore. Il P. Giovanni Domenico da Torrano ottenne la patente per l’avvento del 1803. Per l’avvento del 1804 concorrevano il P. Angelo Maria da Caprarola e l’ex Provinciale P. Bernardino da Lucca. Il P. Angelo ottenne 10 voti favorevoli ed 11 contrari e P. Bernardino ne ottenne 19 a favore e 2 contro, vincendo. La quaresima del 1805 la predicò P. Luigi da Porto di Fermo, mentre il P. Giuseppe Maria da Filottrano non fu votato, perché aveva ringraziato il consiglio comunale. Il P. Giovanni Antonio da Lucca si presentò per la predicazione dell’avvento del 1808 ed il cappuccino P. Luigi da Bergamo per quello del 1809. Il primo ottenne 15 voti favorevoli ed uno contrario, l’altro ne ottenne 11 favorevoli e 5 contrari, essendo ambedue eletti. Nel 1819 si presentò per la predicazione dell’avvento il lettore di filosofia del convento di S. Francesco P. Giacomo Maceroni da Valentano e lo predicò. Il P. guardiano di S. Francesco Gioacchino da Caprarola presentò per la quaresima P. Benedetto da Tivoli, che spiegava la Sacra scrittura in Aracoeli e fu accettato per il 1820. P. Reginaldo da Roma invece ottenne l’avvento del 1821 e la quaresima del 1825 con 18 voti favorevoli ed uno contrario. P. Corrado da Valentano guardiano di S. Francesco predicò l’avvento del 1822 e P. Giacomo da Valentano quello del 1824 con 18 voti favorevoli ed uno contrario. P. Mariano da Roma del convento di Aracoeli predicò l’avvento del 1827 con 15 voti favorevoli e nessuno contrario. Il conte Pietro Falzacappa però gli fece una dura critica: “predicatore 26 dicembre 1827. L’avvento è stato predicato dal P. Mariano da Roma Minore Osservante. Cosa dire di lui? Poche parole. Non aveva alcun numero ma è stato pagato, e per questa stessa ragione il frate predicava”. Il P. Reginaldo da Caprarola invece predicò l’avvento del 1829. Lo stesso Falzacappa ne criticò la mimica, pur lodandone il contenuto. Egli ebbe invece parole feroci per la quaresima predicata nel 1830 dal P. Luigi Bartocci da S. Anatolia ex custode della Provincia Serafica: “Predicatore 11 aprile 1830. Il Zoccolante P. Luigi da S. Anatolia che si iubilava ex custode della Provincia Serafica ci ha favorito nella cessata Quaresima. E’ cosa difficile trovare una bestia più rara, ma il frate ha guadagnato un 15) Patenti e benserviti 1733-1806 ff. 93, 93 v, Reformationes 1796-1800 52 v, 54 v, Libro dei consigli 1799-1809 ff. 7, 160 centinaio di scudi, e si vide dalle critiche. Con una voce da energumeno copriva talvolta, anzi spesso i suoi disordinati periodi”. Eppure il P. Bartocci aveva già predicato a Tivoli e per questa predicazione aveva ottenuto 16 voti contro 3. Anzi il P. Luigi fu ripresentato dal P. Provinciale Clemente da Farnese per la quaresima del 1835 con i Padri Giacomo da Valentano e Mariano da Roma. Il P. Luigi ottenne 20 voti favorevoli e nessuno contrario. Questo è segno che essendo indigesto al Falzacappa, era apprezzato dagli altri uditori, perché P. Giacomo da Valentano ottenne 10 voti favorevoli e 10 contrari e P. Mariano da Roma ne ottenne 9 a favore ed 11 contro. Il P. Michelangelo da S. Remo continuò l’avvento del 1830, iniziato dall’agostiniano Muscini e predicò quello del 1831. Anche verso di lui il Falzacappa fece ironia per mancanza di cultura, ma egli invece fece valutare positivamente questa sua predicazione presso le autorità cittadine facendosene fare un attestato. L’avvento del 1834 lo predicò il guardiano di S. Francesco P. Francesco da Vallerano, presentato al consiglio comunale dal conte Falzacappa, ottenendo 21 voti favorevoli e 3 contrari 16) . P. Bernardino da Caprarola guardiano di S. Francesco ottenne la patente per la predicazione dell’avvanto del 1837, dopo la presentazione in consiglio di Giuseppe Falzacappa, ottenendo 14 voti favorevoli e 4 contrari. Il P. Bernardino da Caprarola fu uno dei più apprezzati predicatori del suo tempo oltre che futuro Provinciale e Custode di Terra Santa. Un altro personaggio di particolare spicco nella Provincia Romana è stato il P. Giuseppe Modena da S. Remo che accompagnò in Egitto la B. Caterina Troiani, fondatrice delle Francescane Missionarie d’Egitto ed ora dette del Cuore Immacolato di Maria. Egli ottenne la predicazione della quaresima del 1840 e quella del 1850. Questo era segno della stima che godeva per la sua buona preparazione. Egli morì a Napoli il 25 dicembre 1876 17) . Il 18 ottobre 1844 il P. Generale Luigi da Loreto presentò come predicatori della quaresima del 1845 P. Luigi da S. Remo che ottenne 15 voti favorevoli e 7 contrari, P. Luigi da Orvieto che ne ottenne 7 favorevoli e 7 contrari e P. Celestino da Cipressa che ne ottenne12 favorevoli e 10 contrari. Vinse quindi il P. Luigi da S. Remo. 9, 12, 14 ASCT; Mecocci S., I Francescani a Cori (Cori 1986) 146. 16) Patenti e benserviti 1733-1806 ff. 93 v. 94, Libro dei consigli 1799-1809 ff. 61, 63, 64, 249, 256, 259, 263, 350, 352, 354, Lettera del P. Giovanni Antonio da Lucca Carte Sparse del secolo XIX a. 1809, Lettera del P. Giacomo da Valentano Tit. IV, fasc. 9 a. 1819, Consigli 28-5, 11-7-1819, 13-12-1820, 19-5-1822 Consigli 1818-1823, Consigli 4-71824, 28-10-1827 Consigli 1823-1828, Consigli 13-12-1829, 7-10 e 27-11-1834, 1-4 e 28-10-1835 Consigli 18321835, Dichiarazione per il P. Michelangelo da S. Remo 4-12-1833 Tit. XVII, fasc. 7, a. 1833, ASCT; Pietro Falzacappa, Cronaca Cornetana 1826-1832 AF Ff12 presso STAS, Corteselli M., “Cronaca Cornetana” di Pietro Falzacappa in Bolletino dell’anno 1984 STAS 74, 75. 17) Consigli 28-7-1837, 25-8-1839 Consigli 1836-1839, Consiglio 13-12-1849 Tit. IV., fasc. 9, a. 1849 (si tratta di appunti) ASCT; Cedrone A., Madre Maria Caterina Troiani (Frosinone 1985) 41. 161 Il concittadino P. Isidoro da Corneto, Minore Riformato della Provincia di Assisi, lettore di teologia, fu eletto predicatore della quaresima del 1846. P. Bernardino da Grotte di Castro, lettore giubilato, ottenne la predicazione dell’avvento del 1847 con 11 voti favorevoli e 9 contrari, ma era l’unico concorrente. Egli divenne postulatore generale delle cause dei santi dell’Ordine Francescano e portò avanti la causa della Venerabile Suor Lilia Maria del Santissimo Crocifisso di Viterbo, terziaria francescana fondatrice di ben 5 monasteri 18) . P. Salvatore da Ceriana, predicatore dell’avvento del 1849 “con tanta lode” fu eletto anche per la quaresima del 1851. Per l’avvento invece del 1851 concorsero il P. Costantino Spinelli “lettor giubilato dei Minori Osservanti” ed il cappuccino P. Innocenzo da Bagnaia. Venne preferito il primo con 11 voti contro 6 sul secondo con 10 voti contro 7. Nel 1854 il riformato P. Luigi da Viterbo, lettore di teologia dimorante a Celleno cioè della Provincia di Assisi, ottenne la predica dell’avvento con 13 voti e 10 contrari. Per la quaresima del 1855 furono presentati l’ex Provinciale P. Tommaso da Roma ch ottenne 13 voti favorevoli ed 1 contrario ed i Padri Vincenzo da Arnara e Cesare da Roma che ne ottennero 1 favorevole e 10 contrari. Il P. Bonaventura da Caprarola l’ex lettore di filosofia in S. Francesco ottenne la predicazione dell’avvento del 1859 con 9 voti favorevoli e nessuno contrario. Per la quaresima del 1860 il Provinciale P.Bernardino da Caprarola presentò P. Francesco Ignazio da Roma che ottenne tutti i 9 voti. P. Stanislao da Ferentino che ne ottenne 3 favorevoli e 5 contrari, P. Giuseppe da Fumone che ne ottenne 5 favorevoli e 3 contrari. Nel 1861 si presentarono per la predicazione dell’avvento P. Nicola Conziani Agostiniano, che ottenne 8 voti favorevoli e 4 contrari, D. Nicola Laurenti ne ottenne 4 voti favorevoli ed 8 contrari, P. Liberato da Tessennano già lettore e predicatore del convento S. Francesco con 6 voti favorevoli e 5 contrari. Questa votazione è interessante perché per una predicazione ritenuta di facile attribuzione si presentavano un Agostiniano, un Osservante ed un prete come nelle predicazioni dei secoli precedenti. Il 15 agosto 1859 il P. Costantino Spinelli da Cipressa, già ricordato, si presentava per la predicazione della quaresima del 1861 con molti titoli: già maestro di teologia a Bologna, prefetto degli studi dell’Ordine Francescano, membro dell’8° congresso di scienziati di Genova, accademico degli Ardenti di Viterbo, predicatore di quaresime nelle cattedrali della Liguria, Romagna, Stato Pontificio e dell’Aracoeli nel 1859. Con tutte queste premesse doveva essere il prescelto, ma il 2 novembre 1860 mise in dubbio la sua 18) Consigli 18-10-1844, 29 e 31-8-1845, 31-10-1847 Consigli 1844-1847 ASCT; Tomassini M.A., I Santi Sommersi Venerabile Serva di Dio Lilia Maria del SS.mo Crocefisso (Viterbo 1990) 133, 134; P. Isidoro da Corneto 1808-1881 teologo, definitore, missionario in Libano per 18 anni. Acta Ordinis Fratrum Minorum 1 (1882) 63-64. 162 libertà per il 1861 e rovinò tutto. Infatti egli ottenne 5 voti favorevoli e 7 contrari. Il riformato P. Luigi da Viterbo, lettore di teologia e guardiano di S. Damiano di Assisi ne ottenne 2 favorevoli e 10 contrari. Il cappuccino P. Giuseppe Angelo da Viterbo predicò la quaresima con 10 voti favorevoli e 2 contrari 19) . Per la quaresima del 1865 furono presentati l’ex Provinciale P. Bernardino da Caprarola che ottenne 10 voti a favore e 3 contrari, P. Cesare da Roma che ne ottenne 5 favorevoli e 9 contrari col P. Luigi da S. Remo. P. Anacleto da Velletri presentò per l’avvento del 1867 P. Alessandro Giannarelli che ottenne 8 voti favorevoli ed 1 contrario, ma il 20 ottobre rinunziò e fu sostituito dal P. Francesco Ignazio da Roma che fu approvato con 7 voti contro 3. Lo stesso P. Anacleto presentò il 4 luglio 1869 P. Ubaldo da Castelmadama per la quaresima del 1870 che ottenne 10 voti favorevoli ed 1 contrario, P. Luigi da Monticelli che ottenne 5 voti a favore e 6 contrari, P. Bonaventura da Ferentino che ne ottenne 4 a favore e 7 contrari. Il P. Ubaldo che aveva predicato con plauso la quaresima del 1870 fu eletto per acclamazione per l’avvento. L’avvento invece del 1871 fu predicato dal P. Romualdo da Gradoli con tutti i 7 voti favorevoli. Egli però era l’ultimo predicatore di questo secolo che veniva scelto tra i frati. Le leggi di soppressione si faranno sentire persino in questo campo 20) . La chiesa ed il convento La chiesa di S. Francesco era grande, a tre navate con transetto, ma da stile goticoromanico era trasformata in stile barocco con tutte le sue cappelle. Essa aveva un bel campanile del 1612. Il chiostro del convento era spazioso con arcate duecentesche in un lato e cinquecentesche sugli altri tre, che nella balconata raccoglievano le acque piovane e le convogliavano in due cisterne cinquecentesche, che servivano da serbatoio per i frati e la popolazione. Il convento era recintato con muro di clausura per tutto l’orto che era poco produttivo, perché carente di acqua ed esposto ai venti specialmente alla tramontana. Per l’instabilità politica degli ultimi anni del secolo precedente non mancarono problemi di trascuratezza di manutenzione del grande fabbricato. Il P. Antonio Maria da Torrice lo faceva presente al comune il 25 marzo 1800. Lo difendeva in consiglio comunale Giuseppe Bruschi esponendo di “apprestare un pronto 19) Consigli 30-12-1849, 15-10-1851, 3-10 e 30-12-1854, 30-10 e 28-12-1859, 15-8-1860, 18-10-1861, 23-10-1864 Consigli Tit. IV, fasc. 9, aa. 1849-1864 ASCT. 20) Consigli 2-6 e 20-10-1867, 4-7-1869, 24-4-1870, 15-10-1871 Consigli 1867-1870, 1870-1871 ASCT. 163 sollecito riparo ai Tetti del medesimo, e della Chiesa annessa, scoperti in parte, ed in parte caduti, e fracidi nei legnami e generalmente bisognevoli così detti Legni, che di Canali, Tegole, e Paganelle per così prevenire il nuovo Inverno, che se fosse per ritrovare i detti Tetti nello stato in cui sono attualmente, sarebbe inevitabile la ruina delli Muri, e delle volte, che molto han sofferto di danno per le Piogge fin’ora cadute per la ruina appunto deli suddetti Tetti, che non potevano espellere le surriferite Piogge”. Non viene però spiegato, se questo dipendeva da cattiva manutenzione, come è probabile, o da qualche tromba d’aria, come spesso avveniva. Il danno tuttavia era così evidente che il consiglio comunale accettò la proposta con 14 voti favorevoli. Il 2 luglio eseguì la perizia dei lavori il capomastro Domenico Neri per la spesa di 85 scudi e 42 baiocchi. Il 16 novembre la fece il capomastro Saverio Calvigioni per una spesa di 220 scudi e 66 baiocchi. Nella discussione comunale del 7 luglio si era evidenziato che Pio VII aveva destinato al comune 350 scudi, perciò la disponibilità era maggiore. Il 21 marzo 1803 però il governatore generale di Civitavecchia scriveva al commissario di Corneto che 132 scudi dovevano essere impiegati per pagare le due maestre di scuola ed il restauro di S. Francesco “fattosi peraltro la corrispondenze Perizia, e deliberato il lavoro al miglior offerente giusta le solite Regole”. Questo indicava che ancora non avevano cominciato i lavori di restauro. Intanto la chiesa veniva abbellita con un pulpito in legno con 4 colonnine alte palmi 16 che lo dividevano. Lo aveva costruito il falegname Egidio Pasquini, fornendone le caratteristiche ed il prezzo di 24 scudi e 20 baiocchi. Il capitano Guido Raffi glielo saldò il 30 giugno 1802 con 20 scudi. Il comune continuava a sovvenzionare i frati per le ordinarie necessità, amministrando i legati onerosi di messe come nei secoli precedenti. Così esso concedeva ai frati 100 scudi per il vino e la pietanza il 27 aprile 1801 e 1 dicembre 1802 più 20 scudi del legato Cerrini 21) I rapporti col convento comunque dovevano essere buoni, se il P. Antonio da Torrice guardiano del convento si permetteva di fare osservare che i frati avevano dovuto pagare perfino una botte di vino marinaresca, cosa assurda nei secoli passati e la gente era servita dai frati meglio di quando in convento vi erano “dodici o quindici individui”. Questo era segno evidente che i frati vi erano di meno. 21) Consigli 25-3-1800, 27-4-1801, Consigli 1799-1809 ff. 25, 28, 29, 89, 91, 154, 208, 209, 210, Perizia di Domenico Neri 2-7-1801, Perizia di Saverio Calvigioni 16-11-1802, Esito comunitario 1803 Carte sparse secolo XIX aa. 1801, 1802, 1803, Pulpito di S. Francesco 30-6-1801, Lettera del governatore generale A. Negrete 21. 22) Lettera del P. guardiano di S. Francesco 1806, Erezione della via crucis nel palazzo comunale 3-5-1807, Lettera alla Congregazione del Buon Governo 2-4-1808 Serie chiese e conventi aa. 1806, 1807, 1808, Consiglio 13-12-1808 Consigli 1799-1809 ff. 363, 365, 367, Perizia di Saverio Calvigioni e Lettera ai conservatori 5-3-1809 Carte sparse del secolo XIX a. 1809, Deliberazioni 13-7-1810 Deliberazioni 1809-1810 ff. 13-13 v ASCT. 164 Il 3 maggio 1807 il guardiano P. Antonio da Torrice eresse le stazioni della Via Crucis nella cappella del palazzo comunale con il permesso del delegato generale dei Frati Minori P. Raniero da Lucca, del provicario generale della diocesi Serafino Ronca e del parroco di S. Martino D. Luigi Donati. Nel 1808 le forti tramontane spostarono le tegole dei tetti delle case della città e particolarmente quelle del convento di S. Francesco più esposto ai venti per la sua posizione elevata. Il P. guardiano ed i frati fecero presente al comune i danni subiti ed il pericolo per i muri e le volte del convento e della chiesa. Il consiglio comunale affrontò il problema il 13 dicembre. I frati prospettavano di fare eseguire i lavori in economia da un frate muratore, per risparmiare sui 106 scudi di spesa occorrenti. Il consiglio comunale approvò il lavoro all’unanimità con 13 voti. Il 5 marzo 1809 eseguì la perizia il muratore Saverio Calvigioni, mettendo in risalto che il danno era elevato ed era necessario sostituire 2.000 tegole, 3.000 canali, 1.600 pianelle, ma vi erano dei danni anche sulla cappella di S. Girolamo perché vi era “caduta una pagina di tetto, per cui ha bisogno di quaranta limarelle, ed un travicellone”. Il guardiano era P. Francesco da Grotte di Castro. Fu eseguito il lavoro? Lo Stato Pontificio era già occupato dai Francesi mandati da Napoleone ed il 15 giugno 1810 i frati furono espulsi dal convento, che fu occupato poi dalla guardia civile, che procurò molti danni e la chiesa la ufficiarono sacerdoti secolari fedeli al regime bonapartista. Per i sepolcri gentilizi nella chiesa il 12 ottobre 1810 fu giustamente emanato un decreto che esigeva la muratura con calce alle lapidi 22) . Persino nel periodo napoleonico però furono fatti alcuni restauri, perché il 15 agosto 1811 furono pagati 10 scudi e 70 baiocchi al fabbro Pietro Marzi per la muratura nella chiesa. Flaminio Neri fupagato il 24 agosto 1811 per avere parato la chiesa di S. Francesco per la festa di S. Agapito, che era il protettore della città e per l’incoronazione dell’imperatore e del fantomatico S. Napoleone Martire, che aveva sostituito la festa dell’Assunta il 15 agosto. Per la festa di S. Agapito dello stesso anno fu renumerato anche Pellegrino Uccelletti (P. Filippo da Castel Viscardo), perché vi aveva celebrato la messa cantata ed era stato assistito dai suoi inservienti. Flaminio Neri il 12 dicembre 1812 vinse l’appalto per la manutenzione della chiesa fino al dicembre 1819. Il 20 aprile 1812 gli venne pagato il lavoro, ma non dovette essere consistente, perché il P. Francesco Maria La Monaca da Viterbo giudicò la chiesa un fienile, dopo la caduta di Napoleone. Il convento del resto non era in migliori condizioni, considerando quello che ne scriveva il visitatore apostolico Mons. Bonaventura Gazola il 2 agosto 1814; “conventum accessit, plurimasque 22) 165 ruinas vidit, inter quas ea notanda quae in tectis observantur, quaequae aliter, aliter vidi per tegolarum, et laterculorum raptum a popolaribus exercitum, contignere potuit”. Lo accompagnavano il P. Filippo da Castel Viscardo unico frate restato nella città ed il segretario di visita P. Gaudenzio Patrignani da Coriano, eletto subito dopo procuratore generale dell’Ordine e nello stesso anno Generale. Fu proprio lui a promettere in una lettera del 10 dicembre 1814 al capitano del comune di Corneto Arcangelo Lucidi che si sarebbe interessato del caso presso il Provinciale P. Gian Carlo da Roma. La Congregazione dei Vescovi e Religiosi il 26 novembre annullava tutti i privilegi concessi per la soppressione degli Ordini Religiosi nel 1810, ed il 28 dichiarava apostati tutti coloro che non vi ritornavano. Le premesse quindi vi erano. Allora qualcuno si preoccupò anche della parte organizzativa o economica. Così il vicario generale della diocesi Francesco Garrigos prescrisse che fossero restituiti i paramenti sacri alla chiesa di S. Francesco. Lo stesso fratello di P. Giacomo Maria Latini Giuseppe sottoscrisse la restituzione al P. guardiano di S. Francesco di quel poco che era restato, dopo avere aiutato il fratello nelle dure prove della prigionia. Vi restavano appena 70 scudi dei 130 avuti, ma era sempre un segno di generosità. Il primo guardiano postnapoleonico a S. Francesco di Corneto fu un deportato in Corsica: il P. Francesco Maria La Monaca da Viterbo. Egli accettò l’incarico dopo molte perplessità per le pietose condizioni in cui si trovavano sia la chiesa che il convento, ma fu incoraggiato in questo dall’insistenza di alcuni cornetani. Le difficoltà però non gli mancarono perché per esempio il fratello terziario Innocenzo, mandato da lui al mare forse per la questua, dovette dormire fuori delle mura cittadine, benché avesse suonato la campana della porta della città tanto da rompere la corda e nessuno si mosse in suo favore. Anche per i lavori di restauro della chiesa vi furono belle promesse, ma a pagarne le spese fu lui. Basterebbe rileggersi due sue lettere per rendersene conto. La prima era del 9 settembre 1815 alla Congregazione del Buon Governo che diceva: “Presentemente però la ridetta Chiesa ha bisogno di molti risarcimenti sia nell’esterno, che nell’interno; poiché è scoperta una porzione dei Tetti, che la coprono; per cui allorché piove, cade l’acqua nell’interno della medesima e l’altra porzione dei Tetti, perché mal costruita già minaccia ruina; in oltre l’interno della Chiesa sembra ridotto un Fienile, non è cosa decente, che la Casa di Dio sia ridotta in un così pessimo stato. L’Oratore ha replicato volte interpellato li Pubblici Rappresentanti della Comunità a volersi dar carico di fare eseguire nella ridetta Chiesa li necessari ristauri; ha più volte insistito acciò la Comunità costringesse il surriferito Flaminio Neri nell’adempimento delle sue obbligazioni”. La perizia del restauro del campanile era stata fatta il 2 agosto del 166 capomastro Giacomo Draghi per la spesa di 48 scudi e 48 baiocchi, ma tutta la spesa per la chiesa ed il convento raggiungeva circa 500 scudi e non si riusciva a saldare il debito. Per la chiesa avevano fatto la perizia i capomastri Benedetto Draghi e Domenico Santini. Il delegato di Civitavecchia il 19 settembre esortava il comune di Corneto a concedere il lavoro al migliore offerente come sosteneva in consiglio comunale il 14 il consigliere Giacomo Lucidi Miniati. Il problema del pagamento dei restauri restava tuttavia non risolto. Il P. Francesco in una lettera non datata, ma successiva ai restauri esprimeva l’amarezza del momento e ne faceva la storia che preludeva alla sua partenza dal convento. Egli scriveva: “Cessata la passata invasione (napoleonica) egli fu destinato dai Suoi Superiori a reggere l’incarico di questo Convento. Al giorno dello stato di ruina, in cui era ridotto, ed incerto sulla continuazione di quei sentimenti di attenzione e di benevolenza, per i quali sempre si contraddistinse questa Illma Comunità, e tutta intera la popolazione, andava esitando, non sapeva indursi ad incominciare l’esercizio addossatogli. Opportunamente un formale invito dei Primari Cittadini vennero a destarlo dalla sua perplessità, e si decise a venire a Corneto. Nell’osservare coi propri occhi lo stato materiale del convento, e nel conoscere il prezzo carissimo dei generi di prima necessità avrebbe sicuramente l’Oratore abbandonata l’impresa, se la protezione dell’Illustrissima Magistratura, e le promesse di molti particolari non l’avessero animato ad una cosa per cui ben capiva, che troppo deboli erano le sue forze. Si aggiunge la promessa del Governo, di pagare cioè le spese per i riattamenti occorrenti. L’Oratore non perdé un momento di tempo a mandare la perizia, che l’Amministrazione dei Beni Ecclesiastiti credé di assegnare la somma di scudi 370 giunto il sottoscritto all’illustrissimo Arcidiacono Falzacappa (Giovanni Vincenzo) Recolletor de’ Spogli di Stato però la riduzione ebbe luogo anche sulla somma accordata da S.E. Revma Mons. Tesoriere Generale scrivendo colla propria mano colla posta del 14 scaduto al nomato Illmo Arcidiacono, ordinando di non pagare, che soli scudi 152 compresi scudi 60 che restano da riscuotersi. In questo stato di cose il P. guardiano esponente si trova in grandi angustie per aver fatto una lavorazione di restauri assai maggiore della somma ottenuta sulla fiducia del restritto, e sulla speranza di poter a poco a poco cogli introiti del convento supplire alla maggiore spesa che indispensabilmente occorreva, e pertanto occorre. Ora che la detta sovvenzione gli manca, gli Artisti tutti devono essere pagati, non avendogli potuto dare che poche somme in conto si trova sconcertato in modo che non sa come ultimare i lavori accessori, ne come dare di quello, che è fatto il soldo ai medesimi, essendo troppo giusto soddisfare. A sì enorme vuoto si unisce la scarsezza di tutti i generi 167 di assoluta necessità ed in consequenza il prezzo carissimo, cui si vendono, ed i sussidi non possono essere corrispondenti al buono e caritatevole desiderio di questa pia popolazione... ed anziché far venire i Religiosi ispecie Sacerdoti per completare la famiglia egli si vede nella penosa situazione non meno necessaria d’abbandonare il Convento. “Questa lettera ai conservatori cioè ai responsabili della città di Corneto mette al nudo con forma garbata ma sincera la vera situazione del momento. Il 16 febbraio in Aracoeli a Roma fu scelto il nuovo Provinciale P. Raniero da Lucca. In quei giorni anche il convento di S. Francesco di Corneto dovette avere il nuovo guardiano in P. Benedetto da Caprarola. Il 20 luglio 1816 egli dichiarava al comune che avrebbe restituito il danaro ottenuto “per la sussistenza” del convento, se la Congregazione del Buon Governo non l’avesse approvato. Questo era segno che la situazione economica dei frati era grave. Basterebbe osservare i conti con i creditori che presumibilmente vengono saldati in questo periodo con i muratori ed artigiani Benedetto Draghi, Tommaso Marzoli, Luigi Ghignone 23) . L’11 febbraio 1817 fu eletto guardiano del convento P.Gioacchino da Caprarola. Egli il 10 maggio si rivolse alla Congregazione del Buon Governo perché la chiesa ed il convento avevano subito gravi danni dai forti venti. Il delegato di Civitavecchia pregava il comune di preparare il preventivo di spesa per i tetti e le finestre della chiesa e del convento. Il capomastro Benedetto Draghi lo eseguì il 9 giugno e vi occorrevano 180 scudi e 18 baiocchi, con una descrizione minuta del piano di lavoro. Il problema fu portato in consiglio comunale il 6 luglio, ma per i tetti della chiesa ci doveva pensare Flaminio Neri, che ne aveva vinto l’appalto nel 1812 fino al dicembre 1819. Per il resto se ne sarebbe parlato col finanziamento del 1818. La proposta fu approvata all’unanimità. Nell’estate 1819 tutti i frati del convento andarono soggetti ad un’influenza per 5 mesi. Essi erano tanto debilitati da non potersi servire reciprocamente e dovettero chiedere aiuto ai borghesi. Per questo chiedevano un aiuto economico al comune. Il consigliere Giovanni Petrighi si fece interprete di questa richiesta ed il governatore la fece sua e fu approvata il 2 febbraio 1820 con 15 voti favorevoli ed uno contrario. Il 26 novembre furono concessi ai frati 50 scudi. 23) Mandati 1810-1811 ff. 34, Lettera del P. Generale Gaudenzio Patrignani al capitano Arcangelo Lucidi 10-12-1814, Lettere del P. Francesco M. da Viterbo (episodio di Fra Innocenzo) 1815, alla Congregazione del Buon Governo 3-91815 e 1816, ai conservatori di Corneto 1816, a S. Eccellenza 20-1-1816, Lettera di Lucidi Miniati 14-9-1815, Lettere del delegato apostolico G.A. Benvenuti al governatore di Corneto 19-9-1815, 6-2-1816, Preventivo per i restauri della chiesa dei capimastri Benedetto Draghi e Domenico Santini 1816, Attestato del P. guardiano Benedetto da Caprarola 20-7-1816 Tit. XVII, fasc. 4, aa. 1814, 1815, 1816 ASCT; Visita pastorale di Mons. Bonaventura Gazola a S. Francesco 3-6 e 2-8-1814 ff. 75-76 AVT; Conto di Giuseppe Latini 5-12-1814, Conto di Giovanni Petrighi con P. Benedetto da Caprarola 22-1-1816 (?) ASFT; Vacchetta 1809-1829 APA. 168 Lo stesso P. Gioacchino nel 1818 aveva fatto argentare una muta di candelieri ed una croce dall’intagliatore Giuseppe Franchi di Roma, abitante in Via Aracoeli 56, pagando 54 scudi e 85 baiocchi. Il 18 novembre 1821 fu portato in consiglio comunale il danno causato da un turbine nel mese di febbraio. I danni erano palesi. Presentò l’argomento il consigliere Arcangelo Bruschi ed il governatore lo accolse. Fu approvato di contribuire con 80 scudi del sopravanzo della “Cassa Popolare” di tale anno. Sempre nel 1821 il P. guardiano chiedeva al vescovo Bonaventura Gazola la riduzione dei legati onerosi che la concedeva il 5 maggio 24) . Nel 1823 il guardiano P. Giuseppe da Proceno si rivolse al comune per ottenere il restauro del chiostro. Il 2 marzo l’argomento fu discusso in consiglio comunale. Il gonfaloniere Francesco Ronca prese la parola a favore dei frati. In un nuovo consiglio i consiglieri ecclesiastici D. Giovanni Ronca e Francesco Mariani e tutti i consiglieri assegnarono al bilancio del 1822 la spesa di 60 scudi. Non tutto però era risolto perché intervennero il governatore di Corneto D. Calisti Tiudola e quello di Civitavecchia Serafino Simonetti il 29 novembre. Il 30 si radunò di nuovo il consiglio comunale. Intervennero il gonfaloniere Francesco Ronca ed il governatore, decidendo di attribuire 50 scudi con 16 voti favorevoli e 4 contrari. Il nuovo guardiano P. Francesco da Fibialla nel 1825 richiedeva un sussidio per il restauro della chiesa e del convento. Se ne interessava il governatore Serafino Simonetti il 13 dicembre 1825. Il 23 gennaio 1826 veniva eletto guardiano del convento P. Angelo Benedetto Guasco da Pietrabruna che rinnovava la richiesta ed il governatore Vincenzo Giuliani la ripresentava il 18 dicembre 1826. Finalmente fu discussa in consiglio comunale con l’intervento del gonfaloniere Francesco Maria Bruschi Falgari il 27 gennaio 1827 e fu approvata con 14 voti favorevoli e uno contrario. Essa fu ripresentata il 13 dicembre perché detta smarrita e fu riapprovata con 19 voti favorevoli ed uno contrario per la spesa di 50 scudi. Il 19 gennaio 1827 era eletto guardiano P. Gioacchino da S. Romolo o S. Remo. Egli il 29 gennaio accettò la cappellania di S. Firmina a Porto Clementino, già affidata nel 1815 all’agostiniano P. Agostino Mancini. Essa comportava l’emolumento annuo di 80 scudi, il 24) Lettera del P. Gioacchino da Caprarola alla Congregazione del Buon Governo 10-5-1817, Perizia per i tetti della chiesa di Benedetto Draghi 9-6-1817, Tit. IV, fasc. 9, a. 1817, Lettera del delegato apostolico G.A. Benvenuti al governatore di Corneto 13-5-1817 Carte sparse del secolo XIX, a. 1817, Consigli 1-6 e 6-7-1817 Consiglio 1-2-1820 (epidemia estiva del 1819), 26-11-1820, 18-11-1821 Consigli 1818-1823 ASCT; Conto per duratura di candelieri 23-81818, Legato Giovanni Petrighi 1-6-1819 e 10-2-1821, Elenco dei legati (s.d. ma di questo periodo) Riduzione dei legati di S. Francesco di Mons. Bonaventura Gazola 1-5-1821 ASFT. 169 dovere di celebrarvi le messe ogni giorno festivo, confessare, fare il catechismo, assistere i moribondi, gli ergastolani delle saline e mantenere in ordine la biancheria occorrente. Era un impegno non indifferente per quei tempi ed altamente sociale. Il 28 luglio 1828 lo stesso guardiano richiedeva un sussidio, ma l’oratore Angelo Maria Falzacappa sosteneva in consiglio che ciò non era possibile, perché con la Cassa Popolare vi erano molti debiti da pagare come nel 1827. Era quindi necessario aspettare un tempo più opportuno. Il 29 marzo 1828 il marchese Giulio Serlupi rinunziò al patronato della cappella di S. Antonio e fu affidata ai fratelli Egidio e Luigi Querciola che vi potevano seppellire i loro morti e la custodivano. Il 29 marzo 1829 il governatore di Civitavecchia A. Battistini si interessava per un sussidio “ per il restauro dei tetti della chiesa e del convento rimasti quasi scoperti”, ma il governatore di Corneto T.M. Turdiola comunicava al P. guardiano l’11 settembre che non era possibile perché i debiti della Cassa Popolare non lo permettevano. Altrettanto rispondeva il 4 aprile 1831 Egidio M. Querciola. Doveva essere realmente un periodo difficile. Il 30 giugno 1830 il P. Gioacchino da S. Remo assisté come proparroco di S. Antonio Abate con altri al testamento di Caterina Catalini della stessa parrocchia, che non firmò perché analfabeta. Questo però indicava l’impegno pastorale dello stesso P. guardiano. Non mancarono questioni giuridiche per i frati. Il 1 giugno 1832 il sindaco apostolico Agapito Avvolta richiedeva a Anna Maria Querciola fu Luigi ed erede del fu Leonardo Querciola di pagare il censo sulla somma di 112 scudi e 50 baiocchi al 5 per cento annuo 25) . Il 17 febbraio 1833 veniva presentata al consiglio comunale la richiesta dei frati di un sussidio a causa delle “elemosine minorate in conseguenza dello scarsissimo raccolto dell’ultima stagione” e della decurtazione del legato Cerrini. Si desiderava che gli Osservanti fossero trattati come i Passionisti, accordando loro i proventi dei dazi sulle carni. Il problema fu discusso il 6 aprile e si richiedevano 15 scudi per il 1832 e 15 per il 25) Lettera del governatore D. Calisti Rurdiola al gonfaloniere 22-11-1823, Consiglio comunale 1823, Lettera del governatore Serafino Simonetti al gonfaloniere e anziani 29-10-1823, Lettere del governatore Vincenzo Giuliani al gonfaloniere 18-12-1826, 7-12-1827, 25-9-1828, Lettera di Luigi De Bernardis al gonfaloniere Francesco M. Bruschi Falgari 10-7-1827, Lettera del guardiano di S. Francesco 1827, Lettera del progovernatore Francesco Bruschi Falgari al gonfaloniere 29-10-1828 Lettera del governatore A. Battistini al gonfaloniere 29-3-1829 Tit. XVII, fasc. 7, aa. 1823, 1826, 1827, 1828, Consigli 2-3 e 30-11-1823, 13-12-1824, 13-12-1825, 21-1-1827, 28-7-1828 e 4-9-1829 Consigli 1823-1828 ASCT; Cappellania di Porto Clementino assegnata all’agostiniano P. Agostino Mancini 12-5-1818, affidata al guardiano di S. Francesco P. Gioacchino da S. Remo 29-1-1827, Decreto del Provinciale P. Giuseppe M. Da Civezza per la concessione della cappella di S. Antonio ai fratelli Querciola 28-4-1828, Lettera del P. guardiano al 170 1833. Il discorso del consigliere esortava a non cedere i 30 scudi, ma solo i 15 del 1833. Era intervenuto Francesco Mariani. Il vicegonfaloniere il 4 dicembre 1833 rilasciava al P. Michelangelo da S. Remo la dichiarazione che era stato 5 anni nel convento di S. Francesco, aveva predicato due volte l’avvento nella cattedrale ed era stato proparroco delle chiese S. Antonio e S. Giovanni. Contro le due predicazioni dell’avvento del P. Michelangelo il conte Pietro Falzacappa aveva fatto le sue critiche. Il 16 febbraio 1834 fu portata in consiglio la richiesta di un sussidio da parte del guardiano P. Giuseppe da Valentano. Intervenne il consigliere Casimiro Falzacappa, dicendo che era stata concessa l’elemosina di 15 scudi per il 1833 e criticando duramente l’operato del guardiano che aveva tenuto male l’amministrazione, tanto che “l’attuale sindaco (apostolico) non ha voluto nemmeno sanzionare”. Questo era vero e la conclusione logica fu che la proposta ottenne 19 voti favorevoli e 4 contrari. Il restauro quindi non fu approvato ed il 21 luglio 1834 il nuovo guardiano P. Francesco Maria da Vallerano chiedeva un sussidio per le spese sopportate per i restauri urgenti dei tetti della chiesa e gli furono accordati 25 scudi dal consiglio comunale, intervenendo il gonfaloniere Bonaventura De Sanctis ed il consigliere Raffaele Rispoli. La proposta ottenne 19 voti favorevoli e 5 contrari. Il 3 agosto 1834 il prefetto della Congregazione dei Riti card. Patrizi concesse al convento di S. Francesco che si potessero celebrare le messe per i morti tutti i giorni, eccetto le feste di prima e seconda classe, quelle di precetto e le ferie e vigilie privilegiate 26) . Nel 1836 era guardiano P. Michelangelo da Civezza. Egli dovette risolvere diversi problemi. Vi era quello endemico per Corneto della mancanza di acqua durante l’estate. Egli si rivolse al comune, perché fossero pulite le due cisterne del chiostro del convento che raccoglievano l’acqua piovana per i frati e per la popolazione. Il problema fu discusso in consiglio comunale il 13 dicembre 1836. Era il consiglio più importante dell’anno, perché vi venivano discussi i problemi principali. Nel consiglio era presente il gonfaloniere Egidio Maria Querciola ed intervenne il conte Pietro Falzacappa. La proposta fu approvata pienamente. L’ingegnere Antonio De Rossi fece la perizia e fu portata in consiglio il 27 luglio 1837. Il lavoro lo eseguì Giuseppe Pasquini sotto la direzione di Benedetto Draghi per 183 scudi. Erano presenti al consiglio del 9 luglio 1838 il gonfaloniere Carlo Avvolta e progonfaloniere Turdiola 11-9-1829, Testamento di Caterina Catalini 18-6-1830, Questione con Anna Maria Querciola 1-6-1832 ASFT. 26) Consigli 7-2 e 6-4-1833, 16-2 e 21-7-1834 Consigli 1832-1835, Dichiarazione per il P. Michelangelo da S. Remo 412-1833, Lettera del delegato apostolico L. Giuli Delicato 7-12-1835, Lettera al delegato apostolico 29-12-1835 Tit. XVII, fasc. 7, aa. 1833, 1835 ASCT; Privilegio concesso dal card. Patrizi 3-8-1834 ASFT. 171 Lorenzo Maria Benedetti, che intervenne sull’argomento e fu approvato con 7 voti favorevoli e 4 contrari. Sempre per il problema idrico il 21 giugno 1840 fu presentato al definitorio provinciale il disegno di poter costruire un bottino nell’orto di S. Francesco con nuova clausura per il terreno ceduto. La richiesta proveniva dal gonfaloniere Egidio Maria Querciola, su disegno dell’ingegnere Antonio De Rossi per l’estensione di 182 canne romane, ma che il geometra Giuseppe Crispini le estendeva a 412 canne romane il 18 agosto 1840. Il P. Provinciale Luigi da Lucca firmava il decreto il 7 novembre 1840. Il P. Michelangelo dovette rivolgersi al vicario generale della diocesi, perché la signora Anna vedova di Nicola Lucidi Miniati non pagava il legato perpetuo di scudi 800 a 40 scudi annui. Forse si presentò personalmente ad un incontro, ma si trovò di fronte a minacce e lusinghe, come si nota in una lettera del 6 ottobre. Egli quindi col sindaco apostolico Agapito Avvolta si rivolse al procuratore Vincenzo Pugliesi, consegnando l’atto di comparizione all’interessata il 17 ottobre. Il 26 dicembre la signora Laura Pardi terziaria francescana disponeva che il convento potesse ricevere 200 scudi come legato perpetuo per messe da 20 baiocchi l’una, per i suoi funerali e sepoltura in S. Francesco. Era il modo solito usato dai terziari, che secondo la regola di Nicolò IV, facevano testamento quando entravano nel Terzo Ordine. Le spese minute venivano fatte presso i negozianti di allora ed erano pagate entro l’anno, come si rivela da un conto dal 10 gennaio 1837 - 11 gennaio 1838 presso la pizzicheria Corridi Sbrinchetti con scudi 7 e 67 baiocchi e mezzo 27) . Il 1 gennaio 1838 Eugenio e fratelli Lucidi cedettero la cappella di S. Pasquale loro patronato al canonico D. Angelo Marzi ed al fratello Giovanni Battista. Luigi Petrighi e fratelli invece avevano intentato una causa per un censo al convento, ma l’avevano perduta ed il 20 marzo 1838 egli attestava di essere debitore verso il convento di S. Francesco di 57 scudi e 50 baiocchi, promettendo di pagare 25 paoli ogni prima settimana del mese. Nel 1839 lo stagnaro Evangelista Pasquini aveva eseguito piccoli lavori e veniva saldato dal guardiano con 8 scudi e 57 baiocchi. Si è già parlato più volte dei legati e delle complicazioni per riscuoterli specialmente per le inadempienze degli interessati. In questo periodo se ne ha un elenco completo con i relativi oneri nelle singole cappelle della chiesa. Vi erano da celebrare 200 messe all’altare degli Angeli per il legato Lucidi Miniati dal 1688, 90 messe alla cappella di S. Brigida per il legato Parma Cardini-Falzacappa, 19 messe all’altare di S. Girolamo per il legato 27) Atti definitoriali 1830-1862 APA Ms. 57 ff. 11-12; Consigli 20-5 e 13-12-1836, 28-7-1837, 3-9-1838 Consigli 18361838, Testamento di Lucia Pardi 26-12-1836 Istromenti 1871-1901 ASCT; Lettera del P. Michelangelo da Civezza 8-1- 172 Martellacci, 9 messe all’altare del Terzo Ordine per la novena di S. Pietro d’Alcantara per il legato Falzacappa, 6 messe cantate senza ministri per il legato dei calzolari, 12 messe, una ogni mese all’altare privilegiato per il generale Alessandro Forcella-Costantino Bruschi, 2 messe semplici cantate ed una solenne per il medesimo, la messa cantata semplice all’altare privilegiato nel mese di novembre per Francesco Ronca, 1 messa per chi aveva lasciato dei legati, 25 messe all’altare della Madonna di Loreto per Costantino CostantiniPetrighi Giovanni, 31 messe all’altare di S. Brigida per Margherita Beneghi Rispoli che si celebravano dal 1815. Per i legati abrogati si doveva recitare l’intero ottavario dei morti in coro. Per il legato dei mercanti se ne doveva recitare una volta al mese. Si dovevano recitare 40 uffici in coro ogni mese per il legato dei calzolai. Per il legato Cerrini si dovevano celebrare 2 messe, una il giorno di S. Antonio e l’altra per l’ottavario dei morti per 10 scudi ciascuna. Francesco Mariani nel 1838 lasciava un legato temporaneo per una messa quotidiana nella cappella di S. Francesco o nella sua abitazione a 20 baiocchi l’una nei giorni feriali, a 25 baiocchi nei festivi. Come si può notare vi erano entrate per il convento, ma vi erano pure dei rompicapo non indifferenti. Qualche volta i frati richiedevano ai patroni delle cappelle di poterne usare qualcuna per tutti. Così il P. guardiano richiese quella dell’Assunta al canonico Cesarei per farvi il presepio ed egli la cedé il 22 gennaio 1839 28) . Il 19 febbraio 1839 nel chiostro e nel piazzale di S. Francesco vi erano ancora i detriti del restauro di una cisterna, eseguito da Giuseppe Pasquini. Il lavoro lo aveva appaltato il 27 dicembre 1838 per 185 scudi, lo aveva preventivato l’ingegnere Antonio De Rossi il 17 febbraio, ma al termine del lavoro costava 221 scudi e 39 baiocchi e non era stato ancora saldato. Il 25 agosto 1839 il guardiano di S. Francesco presentava un memoriale per il restauro del campanile che andava in rovina. Era gonfaloniere Carlo Avvolta. Intervenne nel consiglio Eugenio Lucidi, affermando che era bene fare visitare il campanile da persone competenti anche perché le finanze non erano disponibili. Il consiglio approvò la proposta con tutti i voti meno uno. Il 27 ottobre l’ingegnere De Rossi presentò la perizia per il restauro per la spesa di 213 scudi e 70 baiocchi. Intervenne il consigliere Francesco Maria Bruschi, essendo gonfaloniere Carlo Avvolta. Il consiglio approvò con 15 voti favorevoli contro 4. Il 13 dicembre ritornarono sull’argomento per inviare l’ingegnere e due deputati a 1836, Citazione per la signora Anna Maria Lucidi Miniati 17-10-1836, Conto presso il negozio Corridi Sbrinchetti (carne) 11-1-1838 ASFT. 28) Rinunzia al patronato della cappella di S. Pasquale dei fratelli Lucidi Miniati a favore dei fratelli Marzi 1-1-1838, Attestato di Luigi Petrighi e fratelli 20-3-1838, Conto di Evangelista Pasquini 1839, Elenco dei legati 1839, Cappella dell’Assunta ceduta ai frati per presepio dal canonico Cesarei 22-1-1839 ASTF. 173 visitare il lavoro da compiere per “molto economizzare nel progettato restauro, togliendo via così tante spese, che nulla han che fare al mantenimento del Campanile, ma che si possono classificare per abbellimento e comodo”. Sono eletti a questo scopo come delegati Pietro Falzacappa e Costantino Bruschi. Il 16 gennaio 1840 l’ingegnere Antonio De Rossi fu pregato di recarsi a visitare il campanile con i consiglieri Pietro Falzacappa e Costantino Bruschi. Il cardinale desiderava che il restauro fosse portato al termine prima della quaresima, quando sarebbero inizate le missioni. I tempi tecnici tuttavia non lo permettevano, perché era necessario fare un appalto regolare. Il 24 gennaio l’ingegnere Antonio De Rossi redasse una perizia circostanziata dei lavori: accomodare le tre volte del campanile, rifarci il mattonato, rinnovare i cannelli di vetro dove scorrevano le corde delle campane, murare 8 vani di finestre (4 tondi e 4 quadri), rinnovare nel piano superiore gli archetti doppi, rinnovare i medesimi archi con travertino, mettere catene di ferro per legare le colonne agli archi, rinnovare la muratura a scarpa sopra il cornicione fino al capolino, il mattonato murato a stagno, rinnovare le scale per accedere ai piani del campanile legate con staffoni. Era un lavoro veramente considerevole. Vi si erano recati per rendersene conto i deputati Costantino Bruschi e Pietro Falzacappa e gli artigiani Luigi Morelli e Luigi Ghignoni ed i testi Ferdinando Falzacappa e Angelo Corti. Da Pietro Falzacappa fu indicato come appaltatore Filippo Morelli, ma il lavoro fu eseguito da Mario Calvigioni. Il guardiano P. Onorato da Gradoli pagava al fabbro Gaetano Scappini 2 scudi e 77 baiocchi per alcuni lavoretti di manutenzione del convento dal 22 settembre 1839 al 1 gennaio 1840, tra cui una chiave nuova a Fra Gaetano ed una mappa di chiavi al vicario. Ed il 29 dicembre egli pagava 25 scudi per le medicine ed uno scudo e 26 baiocchi per l’incenso al farmacista Gaetano Ciccolini. La cappella dell’Assunta già richiesta dal guardiano al canonico Gaetano Cesarei per farci il presepe, nella visita del visitatore generale P. Cherubino da Cori veniva offerta al signor Francesco Angelo Marzoli “uomo facoltoso, ed insigne Benefattore del nostro Convento”. Il P. Provinciale Reginaldo Maria da Roma ne firmava il decreto il 27 gennaio 1840 29) . 29) Perizia dell’ing. Antonio De Rossi per il restauro del campanile 17-2-1839, Lettera dell’ing. Antonio De Rossi al gonfaloniere 19-2-1839, Lettere del delegato apostolico L. Giuli Delicato al gonfaloniere 19-11-1839, 26-1-1840, Lettere al delegato apostolico 31-8, 30-9, 9-11-1839 e 25-1-1840 (due lettere), Lettera dell’ing. Antonio De Rossi 23-61840, Lettera dell’ing. De Rossi al gonfaloniere 24-1-1840, Perizia dell’ing. Antonio De Rossi 24-1-1840, Contratto di lavori con Filippo Morelli 29-1-1840, Stato dei lavori eseguiti da Marco Calvigioni constatati dall’ing. Antonio De Rossi 23-6-1840, Lettera dell’ing. Antonio De Rossi al gonfaloniere 2-7-1840 Tit. XVII, fasc. 4, aa. 1839, 1840, Consigli 25-8, 27-10, 13-12-1839 Consigli 1836-1839 ASCT; Conti con il fabbro Gaetano Scappini 22-9-1839 e 1-11840, Conto col farmacista Gaetano Ciccolini 28-12-1839, Decreto del Provinciale P. Reginaldo M. da Roma per 174 Si ripresentava spesso il problema dei legati per le messe. In questo momento vi erano messe 8 per Callimaci, 2 per Cerrini, una per Angennes, 4 per Gubernali, 6 per i calzolai, 9 per Ranna, 1 per Caggi, giornaliera in casa Mariani ma che stava per terminare e 22 lette ed 11 cantata per Secondiano Galassi che era stata concessa dal provinciale Luigi Maria da Lucca il 2 dicembre 1842. Non sempre però le cose andarono per il verso giusto, perché Luigi Petrighi avrebbe dovuto pagare le spese del processo perduto, senza attuarlo. Vi fu un nuovo processo contro di lui, ma i frati si tirarono in dietro e le spese le dovettero pagare il guardiano P. Francesco Giacchetti ed il vicario P. Paolino da Lucca nel 1843. Altra lite sorse con Costantino Bruschi e lo stesso guardiano dovette pagarne le spese di 7 scudi e 40 baiocchi il 19 novembre 1843 e per l’appello verso Luigi Costantino Bruschi dovette versare al procuratore Benedetto Blasi 2 scudi e 94 baiocchi. Il 18 luglio 1843 Giuseppe Latini, fratello del P. Giacomo Latini morto deportato in Corsica il 16 agosto 1812, chiese al definitorio di poter scavare una tomba nella navata centrale della chiesa ed il P. Provinciale Giuseppe Maria da Velletri gli firmò il decreto il 18 luglio stesso. Il guardiano P. Francesco da Corneto chiese al comune di intervenire per il restauro dei tetti della chiesa. Il 21 settembre 1843 intervenne il delegato apostolico di Civitavecchia S. Rossi. Il problema fu discusso nel consiglio del 5 novembre, proponendo di intervenire con 15 scudi e 25 baiocchi. Questo indicava che non si trattava di un lavoro radicale, ma solo di manutenzione. Per le piccole spese Fra Antonio da Perinaldo aveva comprato 4 o 5 libbre di fegato di merluzzo presso il negozio di Calvigioni, come egli scrisse al guardiano e lettore P. Francesco da Corneto. Il 24 agosto 1844 il presidente del convento P. Mariano da Velletri si rivolse al definitorio, perché la famiglia Lucidi aveva chiesto al cardinale Clarelli che il suo vicario generale Filippo Benedetti riducesse il loro legato a 10 scudi. Il definitorio rispose che si rimetteva alla coscienza del cardinale 30) . l’assegnazione della cappella dell’Assunta ai Marzoli 27-1-1840 ASFT; Ceccarini P. - Perotti M.L., Lavori pubblici: Restauro del campanile di S. Francesco in Il Procaccia Giornale dell’Archivio Storico, Anno IV, n. 13. 30) Pagamento del guardiano di Aracoeli P. Bernardino da Caprarola per la causa del legato Maglioni 21-6-1841, Lettera del guardiano P. Onorato da Gradoli e decreto del Provinciale P. Luigi da Lucca per il legato di Secondiano Galassi 212-1842, Elenco dei legati (vi è un incomprensibile legato Cerrini 80 e altre 2 messe) 2-12-1842, Causa per il censo di Luigi Petrighi 25-1-1843, Tassa per la causa al procuratore Luigi Toscani 5-4-1843, Conto della causa Petrighi 12-51843, Causa Costantino Bruschi e pagamento del guardiano al procuratore D. De Dominicis 19-11-1843, 6-6-1844, Contratto dei Petrighi con Nicola Giannini per risarcire il debito di 88 scudi e 48 baiocchi al convento 19-6-1843, Lettera di Giuseppe Latini al definitorio per un sepolcro nella chiesa e decreto del Provinciale P. Giuseppe M. da Velletri 18-7-1843, Spesa di Fra Antonio da Perinaldo 4-2-1844 ASFT; Legato Lucidi e richiesta di riduzione degli oneri 22-8-1844 Atti definitoriali 1830-1862 APA Ms. 57 f. 31; Lettere al delegato apostolico 9-9 e 23-11-1843, Lettera del segretario generale al gonfaloniere 21-9-1843 Tit. XVII, fasc. 4, a. 1843, Consiglio 5-11-1843 Consigli 1840-1843 ASCT. 175 Il guardiano di S. Francesco P. Mariano da S. Remo il 26 aprile 1845 espose al gonfaloniere la caduta di una parte della clausura verso Porta Nuova a causa delle piogge ed il tetto rovinato per le bufere invernali. Vi era anche il problema non risolto nel restauro del campanile e la stabilità di una campana. L’ingegnere Antonio De Rossi attuò la perizia del muro di clausura il 3 maggio e quella del campanile il 5 maggio 1845, facendo rilevare le carenze del restauro precedente di Mario Calvigioni. Per ben tre volte fu dato l’appalto dei lavori, ma nessuno si presentò perché c’era poco da prendere. Si propose allora di fare il lavoro in economia sia per la campana che per i tetti della chiesa con una spesa non superiore a 14 scudi. Il 27 agosto 1846 si tenne il consiglio comunale sul restauro dei tetti della chiesa ed il rifacimento del mattonato del chiostro. Intervennero il conte Pietro Falzacappa e Lorenzo Benedetti, proponendo di controllare il lavoro da eseguirsi e di intervenire per i tetti della chiesa, perché di pertinenza del comuna, ma non per il mattonato del loggione del chiostro perché dei frati. Il discorso venne ripreso il 22 novembre, dopo che Pietro Falzacappa, deputato a rendersi conto del lavoro, riferì sul da farsi 31) . Il 5 settembre 1847 il gonfaloniere Lorenzo Soderini veniva pregato di intervenire per fare restaurare il terrazzo del chiostro, liberando i frati dal pagare il contributo di 15 scudi, perché il comune usava l’acqua delle cisterne del chiostro per la popolazione. Il 14 maggio 1847 il P. guardiano si rivolse al delegato di Civitavecchia, dicendo che i restauri non erano cominciati, perché la metà della spesa dovevano sostenerla i frati che in quel momento non avevano l’occorrente. Il delegato apostolico Achille M. Ricci esortò il gonfaloniere a riproporre l’argomento al prossimo consiglio comunale. Il consiglio si tenne il 5 settembre 1847 col gonfaloniere Lorenzo Soderini, riprendendo il suggerimento del delegato apostolico per l’ “Ordine Religioso tanto benemerito, giova alla conservazione dell’acqua potabile nelle Cisterne nel Chiostro di pubblico diritto”. L’intervento però dovette essere solo parziale, perché in un conto del convento dal 10 settembre 1848 al 10 31) Lettera del guardiano P. Mariano da S. Remo 26-4-1845, Perizia dell’ing. Antonio De Rossi 3-5-1845, Lettera dell’ing. Antonio De Rossi al gonfaloniere 5-5-1845, Lettere del delegato apostolico 28-5 e 23-9-1845, Perizia per i lavori della chiesa e del chiostro del capomastro Pietro Draghi 12-8-1846, Lettere al delegato apostolico 7-9, 27-10, 712-1846, Lettera al conte Pietro Falzacappa e Lorenzo Benedetti 19-9-1846, Segretario della delegazione apostolica 311 e 15-12-1846 Tit. XVII, fasc. 4, aa. 1845, 1846, Conto dei lavori del capomastro Pietro Draghi 21-12-1846 Tit. XVII, fasc. 5, a. 1846, Consigli 27-8, 22-11-1846 Consigli 1844-1847 ASCT; Rinunzia alla cappella di S. Pasquale di Orsola Miniati Boccaletti e del marito Giuseppe 21-8-1846, Restituzione degli arredi sacri di S. Agapito M. di Egidio Querciola 8-7-1846, Pagamento di vino a Giuseppe Pirofochi 8-6-1846 ASFT. 176 novembre saldato il 7 gennaio 1849 sul mattonato, il materiale e gli operati furono pagati dal padre guardiano 32) . Naturalmente il P. guardiano saldava anche gli altri debiti dei frati: 60 scudi a Lorenzo Benedetti per 2 botti di vino il 2-7-1847, 63 scudi a Nicola Battigalli per 20 some di vino il 6-10-1847, 2 scudi e 83 baiocchi al farmacista nel 1848, 16 scudi e 83 baiocchi al falegname Lorenzo Mencarelli, 7 scudi e 3 baiocchi al fabbro Luigi Ghignoni il 10-1-1848. Vi sarebbero altri conti, ma il più interessante è quello che presenta le spese sostenute per ogni frate il 9 gennaio 1849: Fra Egidio da Ciciliano laico 9 scudi, P. Guglielmo a Montalto scudi 4, Fra Giuseppe Maria Papone da Boscomare chierico 4 scudi e 39 baiocchi, Fra Luigi da Farnese chierico 6 scudi, Fra Egidio Orengo da Castelfranco chierico 5 scudi e 38 baiocchi, Fra Valentino da Badalucco chierico 8 scudi e 30 baiocchi. P. Secondiano da Corneto 4 scudi e 20 baiocchi per un cappotto civico. Penso che si tratti del periodo della Repubblica Romana che proclamava le leggi libertarie per i religiosi e necessariamente i frati dovevano essere provveduti almeno del più necessario per essere lasciati liberi. Non vi manca il conto del barbiere Michele Ciatti che riceveva 8 scudi per il 1848 e il 1 gennaio 1849 e del farmacista Gaetano Ciccolini con 6 scudi per il 1848. Per alcune spese il guardiano si serviva degli amici di Roma come il P. Bernardino da Caprarola per un tappeto, un parato in terzo di broccato, le pagelle del Terzo Ordine, che naturalmente gli pagava. (Lettere 1 e 10-11-1849). Il guardiano di Viterbo P. Vincenzo da Arnara gli richiedeva 30 messe da celebrare e gli lasciava la ricevuta il 15 dicembre 1849. La Confraternita del Suffragio offriva alla chiesa di S. Francesco un tumulo per fare i funerali, come si usava allora. Il guardiano P. Francesco da Corneto lo accettava dal camerlengo Girolamo Maneschi il 16 gennaio 1849 33) . Nel 1850 un forte turbine aveva causato molti danni ai tetti della chiesa e convento di S. Francesco. Il guardiano P. Francesco da Corneto lo fece presente al consiglio 32) Lettera del guardiano di S. Francesco al delegato apostolico 14-5-1847, Lettera del delegato apostolico Achille M. Ricci 14-5-1847 Tit. IV, fasc. 9, Consigli 1847, Consiglio 5-9-1847 Consigli 1844-1847, Lettera del delegato apostolico 13-9-1847 Tit. XVII, fasc.; 7 a. 1847 ASCT. 33) Conto per gli operai del terrazzo 7-9-1849 ASFT. Cavallo comprato a Orte 4-6-1847, Conto di Lorenzo Berni 2-71847, Conto di Nicola Battigalli 8-10-1847, Conto di Fra Carlo da Livorno a P. Francesco da Corneto 11-12-1847, Documento del legato Giuseppe Compagnoni 11-9-1847. Conto della spezieria dell’ospedale 1848 (interessante per le cure di allora a base di mignatte e chinino), Conti del ferraro Luigi Ghignoni 10-1-1848, Conti di Fra Carlo da Livorno 28-1-1848, 27-1, 8-2, 23-10-1849 Conto di Cecala Ovidio 7-4-1848, Conti di Lorenzo Berni (vino) 7-5-, 2-7, 23-8, 159 e 16-10-1848, Conto di Geremia Pasquini 2-11-1848, Conto per i mattoni di Francesco Maria Falgari 8-12-1848, Conto di stagnaro 19-12-1848, Conti del falegname Lorenzo Mencarelli 1848, 20-12-1848, Lettera di Fra Francesco Antonio da Camaiore a P. Francesco da Corneto 30-12-1848 (vi sono 19 persone), Conto del farmacista Gaetano Ciccolini 31-12-1848, Conto sui frati del convento (1849), Conto del barbiere Michele Ciatti 1-1-1849, Attestazione di messe ricevute del P. Vincenzo da Arnara guardiano di Viterbo 15-12-1849 ASFT; Conto di opere impiegate per il campanile 2-8-1849 Tit. XVII, fasc. 4, a. 1849 ASCT. 177 comunale e se ne discusse per la prima volta il 31 gennaio valutandoli 25 scudi. Il guardiano si rivolse anche al definitorio provinciale, ma il 3 febbraio gli rispose che non doveva intervenire. Si parlò più diffusamente del problema nei consigli comunali del 12 agosto 1851 e 29 settembre 1853. In quest’ultimo intervennero i consiglieri Lorenzo Benedetti e D. Pietro Scappini, affermando che il comune doveva intervenire per accomodare l’altare maggiore ed il loggiato del chiostro perché le cisterne servivano per venire in contro alla popolazione in periodi di siccità, durante l’estate. La richiesta proveniva da una lettera non datata del guardiano di S. Francesco unita al precedente consiglio. Se ne accennava ancora nel consiglio dell’11-7-1854, ma senza alcuna discussione. Però il 1 febbraio 1850 il P. Francesco da Corneto guardiano del convento stipulava un contratto di ristrutturazione di una parte del loggiato con Gregorio Draghi. Questo era il segno che il lavoro era urgente. Esso doveva iniziare il 4 febbraio col costo di 50 scudi e dove indicava il P. guardiano. Il Procuratore Angelo Francesco Marzoli non poteva pagare senza un permesso scritto del P. guardiano. Il saldo sarebbe avvenuto solo a lavoro compiuto anche con la revisione dei tetti del convento e della chiesa. Ciò avvenne il 9 maggio con la spesa di 72 scudi e 66 baiocchi. Alcuni benefattori concorsero nell’offrire il materiale, altri con la moneta. Vi è da ricordare che in questo periodo lo Stato Pontificio era in serie difficoltà, perché il 9 febbraio 1849 era stata proclamata la Repubblica Romana e solo il 2 luglio si era dovuta arrendere ed il 3 Roma era occupata dai Francesi e Pio IX vi ritornava solo il 12 aprile del 1850. Questa situazione fluttuante si notava anche negli interventi politici in questo campo ed il guardiano giustamente faceva leva sulla sua buona disposizione della popolazione per gli interventi più urgenti. Così egli pensò a saldare gli impegni col lanificio dei frati dal 1849 al 1850 il 22-11-1850, i fabbri Luigi Ghignoni ed il figlio Giuseppe il 3-12-1851. Non gli mancarono tuttavia delle rogne per il marchese Carlo Calcabrini domiciliato in Civitavecchia, denunziato da Luigi Polsini, andandoci di mezzo P. Francesco Giacchetti che secondo il diritto canonico non poteva comparire in giudizio, ma il 7 maggio 1851 egli veniva condannato a pagare 5 scudi e 38 baiocchi e mezzo, pur essendo difeso dall’avvocato Benedetto Blasi. All’inizio del 1849 Giuseppe Falzacappa dava il permesso di accomodare il tetto della cappella di S. Brigida di cui aveva il patronato, come egli dichiarava il 10 agosto 1851. Il muratore Francesco Contadini aggiustava il tetto della cappella centrale detta “cappellone” per 2 scudi e 80 baiocchi che gli venivano saldati il 4-9-1851. Allo stesso l’113-1852 veniva saldato il conto per il lavoro sullo stesso luogo di 3 scudi, 45 baiocchi per 75 canali, 30 tegole e la calce ridata dove occorreva. Lo stagnaro Evangelista Pasquini riceveva 178 2 scudi e 69 baiocchi il 20 dicembre 1854. Non mancava il conto della lavandaia Teresa Zucchetti, che veniva pagata dal guardiano il 31 giugno 1851 con 5 scudi 34) . Il 29 settembre 1853 il P. guardiano faceva presente al consiglio comunale che una parte del loggiato del chiostro era tutto rovinato e questo incideva sulle due cisterne che raccoglievano l’acqua per la popolazione. Se ne discusse nei consigli del 29 settembre e 17 novembre. Si presentò il problema dei legati di messe, che non sempre venivano pagati dagli interessati. Così era avvenuto con Costantino Costantini. Per questo vi erano stati degli anni in cui le messe non furono più celebrate e ripresero solo quando egli le pagò di nuovo. Così i frati cercarono di ricostruire la storia di altri legati, come fece il P. Secondiano da Corneto. Il P. Francesco da Corneto ricorse alla Congregazione che impose la celebrazione di 10 mesi entro tre mesi per le messe dimenticate. Il 26 giugno 1855 intervenne il Provinciale P. Antonio da Cipressa con una lettera al P. guarrdiano che imponeva di rinunziare a tutti i legati nelle mani dei fondatori o loro eredi o in quelle del vescovo. In particolare si trattava di quelli che erano stati al centro di controversie, cioè quello di Bruschi Costantino, quello di Costantino Costantini, Petrighi, Compagnore e Maglione. Era una decisione saggia 35) . Il Provinciale P. Giuseppe da Velletri il 31 maggio 1856 comunicava al guardiano di Corneto il privileggio concesso da Pio IX ai sacerdoti dell’Ordine Francescano di celebrare ogni sabato la messa votiva dell’Immacolata. Era una delle notizie liete, dopo la proclamazione del domma dell’Immacolata nel 1854. Il 18 aprile 1857 fu sepolto nella cappella dell’Immacolata Concezione Carlo Zerbini con il permesso di D. Ippolito Bruschi, Michele Bruschi Querciola e fratelli, Giuseppe Avvolta e fratello Lorenzo, Pietro Bruschi e fratello Filippo con il benestare del provicario generale Tommaso De Sanctis. Non era poca la trafila per essere sepolti in una cappella gentilizia. Eppure ogni tanto coloro che ne erano i titolari cercavano di farsi restringere gli 34) Atti definitoriali 1830-1862 APA Ms. 57 ff. 63, 96; Consigli 31-1-1850, 12-8-1851 Tit. IV, fasc. 9, Consigli 18501851, Conto del muratore Francesco Contadini 4-9-1851 Tit. XVII, fasc. 4 a. 1851 ASCT; Contratto di Gregorio Draghi e P. Francesco Giacchetti da Corneto 1-2-1850 (tre copie), Materiale occorso per il restauro dei tetti del convento e della chiesa, doni e saldi 1850, Conti del P. Antonio da Cipressa a P. Francesco da Corneto 25-2 e 6-61850, Petizione di riduzione di oneri di Giuseppe Falzacappa e responso 9-7-1850, Conti di Fra Carlo da Livorno 22-11 e 3-12-1850, Conto di Fra Francesco da Camaiore 31-12-1850, Causa Polsini contro il sindaco apostolico marchese Calabrini e il guardiano P. Francesco da Corneto 16-5-1851, Conto della lavandaia Teresa Zucchetti 31-61851,Attestato di Giuseppe Falzacappa per riparare il tetto della cappella di S. Brigida nel 1849 10-8-1851, Conto del ferraro Luigi Ghignoni 31-12-1851, Conto di Gregorio Draghi 10-1-1852 ASFT. 35) Consigli 29-9 e 17-11-1853, 11-7-1854 Tit. IV, fasc. 9, Consigli 1853, 1854, Lettera del delegato apostolico Gramiccia 11-11-1853 Tit. XVII, fasc. 4, a. 1853 ASCT; Supplica del P. Francesco da Corneto per il legato Costantino Costantini e responso 10-2-1853, Supplica del P. Francesco da Corneto per gli altri legati e responso 23-7-1853, Lettere del P. Secondiano da Corneto 16-8-1854, 1855, Lettera del prosindaco apostolico Francesco Angelo Marzoli 29-8-1855 ASFT. 179 obblighi. Così Giuseppe Falzacappa che avrebbe dovuto fare celebrare 10 messe annue all’altare della cappella di S. Brigida a 20 baiocchi l’una dal 1830 non aveva più soddisfatto all’impegno e vi restavano 190 messe dal 1830. Il 9 luglio 1850 gli fu concesso di restringersi a sole 2 messe. Il 4 aprile 1860 il Provinciale P. Bernardino da Caprarola scrisse al guardiano P. Michelangelo da Caprarola di giungere ad un accomodamento con Sisto Maglioni di Civitella di Subiaco (Bellegra) che fin dal 1843 progettava di estinguere una cifra di 183 scudi del 26 giugno 1827 con due rate di 50 e 58 scudi 36) . Nel 1858 si ripresentava il problema del restauro dei tetti e del mattonato del loggione del chiostro. L’ingegnere Giuseppe Ortis veniva pregato di recarvisi per un’ispezione. Egli vi andò il 4 e 10 settembre, chiedendo come compenso 3 scudi e 45 baiocchi. Il 10 settembre egli redasse la perizia dei tetti delle navate della chiesa e cappellone per la superficie di metri quadri 1363 per la spesa di 99 scudi e 32 baiocchi. Il lavoro fu affidato al muratore Pietro Pacchelli, ma a lavoro finito venne a costare 105 scudi e 23 baiocchi, secondo la perizia dello stesso ingegnere del 13 giugno 1859 più 3 scudi e 45 baiocchi per la stessa perizia il 17-6-1859. Non vi si parlava del loggiato. Il 13 marzo 1861 fu discussa in consiglio comunale la necessità di riparare urgentemente la conduttura interna del bottino di S. Francesco che conduceva alla fonte pubblica ed il 27 gennaio 1862 si disponeva che la chiave di tale bottino fosse tenuta solo dal custode e chi chiedeva l’acqua per smorzare la calce doveva pagare al fontaniere 20 baiocchi per l’incomodo. Il guardiano P. Anacleto da Velletri il 23-9-1862 scrisse una lettera al gonfaloniere Giuseppe Tommaso Dasti, perché nella cappella dello Sposalizio di Maria, patronato della famiglia De Sanctis vi era umidità. Egli vi aveva mandato ad ispezionarla il mastro muratore Francesco Contadini, che vi aveva trovato 3 travicelli rotti con avvallamento, dove scorreva liberamente l’acqua. Vi salì anche Pietro Pacchelli, che oltre i 3 travicelli vi notò 20 filagne rotte ed un paradosso. I De Sanctis erano disposti a collaborare alla spesa, ma richiedevano una perizia dell’architetto comunale. Il gonfaloniere lo faceva presente all’ingegnere Francesco Dasti, che il 15 ottobre redigeva la perizia ed esortava ad eseguire i lavori perché il tempo era ancora buono. Il 5 aprile 1863 il gonfaloniere faceva sapere al delegato di Civitavecchia che il P. guardiano aveva intenzione di rifondere la campana della Palestrina, rotta da molti anni, 36) Lettera del Provinciale P. Giuseppe da Velletri 31-6-1856, Sepoltura di Carlo Zerbini nella cappella dell’Immacolata Concezione 18-4-1857, Lettera del Provinciale P. Bernardino da Caprarola per l’accomodamento del legato Maglioni 17-4-1860 ASFT. 180 con il concorso popolare ed un’offerta di 25 scudi. Il delegato gli rispondeva il 6 aprile rilevando l’importanza storica di essa e quindi conservarla e fonderne una nuova. Egli però dimenticava che essa non era più l’originale, perché era stata nuovamente fusa nel 1697. Il problema fu sottoposto ai consigli comunali del 16 e 26 aprile ed ottenne 8 voti favorevoli e 2 contrari 37) . Un problema molto più urgente si presentò il 14 novembre 1863, quando per mancanza di scoli adeguati le piogge penetrarono nella chiesa dalla parte del campanile. Il 17 il P. Anacleto lo fece presente al gonfaloniere Giuseppe Dasti che pregò l’architetto comunale di rendersene conto e concesse al P. guardiano 6 scudi e 80 baiocchi per i lavori più urgenti. L’architetto Francesco Dasti redigeva il preventivo di spesa per il lavoro completo attorno al campanile di 25 scudi e 84 baiocchi, con uno scavo di mq. 7,50. egli ne lasciava un interessante disegno che è l’unico pervenutoci. Il delegato apostolico di Civitavecchia il 14 dava il suo consenso, dopo qualche osservazione dell’architetto pontificio, assegnando lo sterro agli “Aquilani”, che dovevano essere gli specialisti tra gli abitanti di Corneto. per la perizia dell’architetto Dasti venivano assegnati 2 scudi e 40 baiocchi 38) . Alessandro Ciuffoletti di Corneto aveva lasciato un legato di 500 scudi per la celebrazione di messe per sé e per i parenti defunti col fruttato del censo, con tante messe secondo la tassa diocesana. Questo fu discusso in Aracoeli dal definitorio provinciale il 13 ottobre 1865 ed il delegato provinciale P. Bernardino da Moriano firmò il decreto di approvazione lo stesso giorno. Il guardiano del convento di Corneto P. Anacleto da Velletri lo accettò con i suoi discreti e consiglieri P. Francesco da Farnese, P. Liberato da Tessennano, P. Casimiro Mola da Orsogna. Era il 19 ottobre ed il documento era munito del nuovo sigillo del convento in cui era rappresentato S. Francesco che riceveva le 37) Perizia per il restauro dei tetti di S. Francesco dell’ing. Giuseppe Ortis 10-9-1858, Lettera dell’ing. Giuseppe Ortis al gonfaloniere 13-9-1859, Lettera dell’ing. Giuseppe Ortis sulla perizia dei lavori, eseguiti da Pietro Pacchelli 17-6-1859, Nota di competenze dell’ing. Giuseppe Ortis 17-6-1859, Lettera del delegato Domenico Guardalupi per aiuti allo scavo del corpo di S. Chiara in Assisi 20-9-1862, Lettera del P. Anacleto da Velletri al gonfaloniere Giuseppe Dasti per la cappella dello Sposalizio di Maria 23-9-1862, Lettera del segretario Giacomo Pampersi 1-10-1862, Lettera del gonfaloniere Giuseppe Dasti 2-10-1862, Lettera del gonfaloniere Giuseppe Dasti e Domenico De Sanctis 15-10-1862, Lettere al delegato apostolico per la rifusione della “Pelestrina” 5 e 7-4-1863, Lettera del delegato apostolico per la rifusione della “Pelestrina” 5 e 7-4-1863, Lettera del delegato apostolico 6-4-1863 Tit. XVII, fasc. 4 aa. 1858, 1859, 1862, 1863, Conto di lavori di Pietro Pacchelli 11-10-1862, Stato di lavori di Pietro Pacchelli per il tetto della navata destra della chiesa e cappella De Sanctis dell’architetto Francesco Dasti 31-10-1862 Tit. XVII, fasc. 14, a. 1887, Consigli 13-3-1861, 27-1-1862, 16 e 26-4-1863 Tit. IV, fasc. 9, aa. 1861, 1862, 1863 ASCT. Mecocci P. Luigi Sergio, S. Francesco di Tarquinia nel secolo XVII in Bollettino dell’anno 1991 STAS 130. 38) Lettera del P. Anacleto da Velletri 17-11-1863, Lettera del gonfaloniere Giuseppe Dasti 17-11-1863, Rapporto e perizia del campanile dell’ing. Francesco Dasti 26-11-1863, Lettere del gonfaloniere Dasti per il P. Guardiano, per l’architetto, per il delegato apostolico (sono tre lettere diverse, due del 28 ed una del 29-11-1863, Lettera del delegato apostolico 14-12-1863, Disegno del lavoro di scvo dell’architetto Francesco Dasti 1863, Conto per il lavoro urgente dei tetti della chiesa e coro di Giovanni Pilastri 20-11-1863 Tit. XVII, fasc. 114 a. 1887 ASCT. 181 stimmate e non vi era più il martire S. Agapito, come si è osservato altrove. Attorno alla figura del santo vi era l’iscrizione: SIG. CONV. MIN. OBS. S. FRANCISCI CORNETI. Il 25 maggio 1866 Giuseppe Ghignoni chiese la sepoltura in S. Francesco, succedendo ad Antonio Litardi e la famiglia De Sanctis chiedeva il possesso della sepoltura già concessa dal P. Clemente da Farnese. Nella chiesa di S. Maria in Castello venivano demoliti gli altari laterali ed il guardiano di S. Francesco chiedeva al vescovo Mons. Camillo Bisleti la statua di S. Antonio che gliela concedeva l’11 maggio. Appena un secolo prima questo sarebbe stato l’assurdo per le polemiche tra Osservanti e Conventuali per la novena e festa di S. Antonio da Padova. Sempre riguardo ai legati di messe il 25 gennaio 1867 il prosindaco e procuratore dei fatti Francesco Angelo Marzoli col procuratore Giuseppe Bruschi citavano davanti al vicario generale della diocesi l’amministratore canonico Vincenzo Lastrai, perché Luigi Petrighi ed Antonia difesi da Nestore Toscani e Luigi Pirri, non avevano pagato il censo al 13 per cento su 500 scudi negli anni 1864, 1865, 1866. Il processo si concluse il 14 giugno con la condanna del Petrighi a pagare 45 scudi e 36 baiocchi più 10 scudi per le spese processuali. Il 7 aprile 1867 il P. Bonaventura da Roma richiese al comune un contributo per la proclamazione della santificazione di S. Leonardo da Porto Maurizio da parte di Pio IX il 29 giugno. Intervennero in favore il commendatore Giuseppe Dasti ed il consigliere Giuseppe Ghignoni e gli concessero 25 scudi, considerando il santo comprotettore della città, perché vi aveva predicato una missione nel 1725 (1735). Naturalmente si celebrò la festa nella città ed il guardiano di S. Francesco il 9 settembre ottenne 30 scudi 39) . Il 17 giugno 1868 si discuteva in consiglio comunale la richiesta del P. guardiano di essere risarcito dei danni arrecati nell’orto del convento dalle truppe francesi. Il comune stabilì che gli venissero pagati 12 scudi al mese dal momento dell’installazione. Nel 1864 il comandante della guarnigione era Lacarcet. Con la caduta dello Stato Pontificio questo fu considerato un sopruso. Il 29 settembre 1868 il guardiano chiedeva un aiuto per restaurare l’organo della chiesa. La magistratura offriva 110 scudi, ma nel consiglio comunale del 4 ottobre si parlava di 110 lire. Vi era differenza di concorso alla spesa, se non vi era un errore. Si 39) Atti definitoriali 1862-1905 APA Ms. 58 ff. 15, 17; Lettera del P. Bernardino da Moriano 13-10-1865, Atto di accettazione del legato Alessandro Ciuffoletti 19-10-1865, Richiesta della statua di S. Antonio di S. Maria in Castello, Concessione della statua di S. Antonio 11-5-1866, Sentenza della causa di Luigi Petrighi e Antonia e convento S. Francesco 14-6-1867 ASFT; Consigli 7-4 e 7-9-1867 Consigli 1867-1870 ASCT. Mecocci P. Luigi Sergio, S. Francesco di Tarquinia nel secolo XVIII in Bollettino dell’anno 1992 STAS 190-193. 182 ebbero 14 voti a favore e 3 contrari. Era l’ultimo consiglio comunale che si interessava in senso positivo dei problemi dei frati prima dell’occupazione dello Stato Pontificio anche sul luogo. Esistono in questo periodo altri conti pagati dal P. guardiano come quello del ferraro Giuseppe Ghignoni il 29 gennaio 1869 di scudi 22 e 6 baiocchi. Vi sono quelli del muratore Giovanni Piastri di 6 scudi e 25 baiocchi per il 1868 e 19 scudi e 25 baiocchi per il restauro della chiesa nel 1869 e pagati il 6 maggio. Qualcuno pensava ancora ai diritti di sepoltura in chiesa come Secondo Musa che affermava di essere l’erede di Mario Martellacci. Il 16 novembre 1869 lo testimoniavano i domestici Giuseppe e Calogera Rainoni che firmavano con la croce avallata da Gaetano Ciccolini 40) . I rapporti con lo Stato Italiano Il 20 settembre 1870 con l’occupazione di Roma da parte dello Stato Italiano terminava il potere temporale dei Papi. Le ripercussioni si fecero sentire prima in una forma blanda, poi più drastica anche nel convento S. Francesco di Corneto. In questo periodo di transizione il guardiano del convento era P. Angelo (Luigi Zaccaria) da Subiaco. Egli era anche cappellano degli ergastolani che lavoravano alle saline e curava la cappella di S. Firmina al Porto Clementino, che aveva alcune stanze per il cappellano e gli arredi sacri. Chi aveva la responsabilità si mostrava già poco generoso, non dando le chiavi delle poche stanze od occupandole con biancheria. Nel convento vi era qualche frate ospite di altri luoghi come il P. Enrico, raccomandato dal P. Generale al P. Angelo il 1 aprile. Lo stesso P. Generale gli richiedeva i testi di teologia morale usati nell’anno precedente come Perrone e Scavini il 20 aprile. Questo significava che neanche la curia generale era in buone condizioni per gli studenti dell’Ordine che erano allora in Aracoeli a Roma. Lo stesso P. Angelo chiedeva alle autorità dell’Ordine di poter sostituire il sindaco apostolico che non funzionava più con un sacerdote o fratello laico capace di farlo. Il prefetto della Congregazione dei Religiosi il cornetano Angelo Quaglia lo concedeva il 3 maggio 1870. 40) Consiglio 23-10-1864 Consigli 1864 Tit. IV, fasc. 9, Consigli 17-6, 29-9 e 4-10-1868 Consigli 1867-1870, Lettera del guardiano di S. Francesco per il restauro dell’organo 1868, Lettera del gonfaloniere Francesco Angelo Marzoli al delegato apostolico 10-10-1868, Lettera del delegato apostolico Ferdinando Scapitta al gonfaloniere 17-10-1868 Tit. XVII, fasc. 7 a. 1868, Statistica 1869 Tit. XV, fasc. 5, Conto del muratore Giovanni Piastri 6-5-1869, Tit. XVII, fasc. 4, a. 1869 ASCT; Conti del ferraro Giuseppe Ghignoni 29-1-1869, Attestato di diritto di sepoltura in S. Francesco di Secondo Musa 16-11-1869 ASFT; L. Dasti, Notizie storiche 392. 183 Con lo Stato Italiano il 1870 fu senza traumi particolari, ma nel 1871 cominciarono le prime difficoltà. Il 15 febbraio furono richieste le stanze della cappella di Porto Clementino per alcune brigate di guardie di Finanza. I frati lasciarono loro i locali al piano terra consistente in una cucina e due al piano superiore, riservandosi una stanza per il cappellano, come scrisse il vicario del convento P. Bonaventura da Castelmadama il 1 marzo 1871. Il 15 i frati furono pregati di predicare gli esercizi spirituali agli ergastolani in preparazione della confessione e comunione pasquale. Ci furono però delle restrizioni, perché gli ergastolani potevano essere confessati solo mezzora prima della messa e la preparazione alla Pasqua poteva avvenire prima di Pentecoste. Ai frati fu tolta la retribuzione mensile e solo dietro le insistenze del P. Angelo, si decisero a pagare le 35 lire mensili e 80 centesimi da febbraio ad ottobre 1871. Dopo ogni volta che facevano un servizio festivo, venivano date 4 lire dal sottocapo. Non venivano più offerte le 100 libbre di sale annuale. Il P. Angelo se ne lamentò ed il governo provvide a concederle per il 1871 e 1872. Con tutte le restrizioni imposte specialmente nella libertà di assistere gli ergastolani, i frati continuarono a prestare il loro servizio. Il P. Angelo ne centrava il problema in una sua lettera dicendo: “a sola ragione di non lasciare quei condannati abbandonati in mezzo ad una vasta campagna, senza verun regno di Religione, e privi di Dio che può renderli alla società moralizzati, ed ancor non giovando a questo fine la sola forza fisica, senza più la morale”. Il sottoprefetto A. Lipari il 31 luglio rispondeva da Civitavecchia, affermando che il servizio religioso era mutato e che i Minori Osservanti non erano più riconfermati cappellani come antecedentemente. Era la logica premessa della decisione del direttore di Civitavecchia Guglielmo Gizzi, che esonerò dal servizio il P. Angelo da Subiaco, prendendo a motivo che egli era stato condannato a 5 giorni di carcere, perché aveva reclamato per il comportamento scorretto di un trombetto del comune, durante un funerale nella chiesa di S. Francesco. I frati furono così esonerati da cappellani di Porto Clementino, dopo 50 anni di servizio continuo verso gli ergastolani delle saline, senza nessun riconoscimento, anzi vituperati. Erano evidenti i mutamenti politici e religiosi che pesavano su questa soluzione. Il 10 gennaio 1873 il P. guardiano riconsegnò gli arredi della chiesa del bagno penale di Porto Clementino. Ed altrettanto logica era la risposta negativa della direzione delle saline per la concessione delle 100 libbre di sale per il 1873 41) . 41) Lettere del P. Angelo da Subiaco 18-3, 22-3-1870, 3-10, 5-12-1871, 10-4, 12-4, 3-7-1872, Lettere del direttore delle saline Salvatore Francesco Calamia 21-3-1870, 4-2-1871, Lettera del sottotenente delle guardie doganali P. Fucini 152-1871, Lettere del capoposto serg. Gamberini 15-3, 5-4-1871, Lettera di D. Bizzarri 23-3-1871, Dichiarazione del 184 Come è possibile osservare da quanto sopra, per il convento di S. Francesco il 1871 era stato un anno di amarezze edulcorato da qualche gioia. Una di queste era quella di voler impiantare un parafulmine sul campanile di S. Francesco e sulla torre cittadina dell’orologio per i danni causati dai fulmini. L’idea era sostenuta dal sindaco Luigi Dasti e dal consigliere Luigi Fontanarosa. Essa fu discussa in consiglio comunale il 16 aprile ed accettata. I guai però cominciavano nel marzo 1871, quando il governo richiedeva gli accertamenti di ricchezza mobile secondo il modello B N°118 art. 41-44. Fu incaricato a prepararlo il procuratore del convento Francesco Angelo Marzoli, in assenza del sindaco apostolico Francesco Bruschi Falgari. Egli stilava il resoconto in 864 lire e 37 centesimi per i vari censi ricevuti, più 429 lire e 60 centesimi per la cappellania del mare e 100 lire per le elemosine. Vi era una spesa di 1364 lire e 22 centesimi per una comunità numerosa, e restavano di utile solo 29 lire e 25 centesimi. Molto interessante però era l’osservazione che faceva il procuratore: “Si fa osservare che i mendicanti non hanno beni stabili, e vivono di Elemosina; e la loro amministrazione, è sotto la direzione del Sindaco Apostolico, ed i censi Numerati nella categoria A sono considerati come legati di messe. Il censo poi di Petrighi, non più si riscuote perché decaduto il Proprietario”. Questo tuttavia non era sufficiente per un governo che voleva imporre la tassa dell’asse ecclesiastico, spogliando le comunità religiose che non avevano reddito, togliendo loro prima anche il minimo che avevano per vivere, consegnando poi una pensioncina irrisoria. Nei secoli precedenti il convento in realtà era solo in uso dei frati, ed il comune farà leva proprio su questo per appropriarsi del convento contro l’indemaniamento. Nella dichiarazione dei beni immobili dello stesso anno si ha una nota interessante per capire il criterio di estimo e per sapere come era in realtà il convento con le sue pertinenze. Essa è denominata: “Assegna del fabbricato richiesto dal Governo nel 1871. 1 - Natura e destinazione. Convento de MM Osservanti. Piazza S. Francesco. Uso d’abitazione P. Angelo da Subiaco guardiano del Convento: antica data in Corneto, sotto la lettera S: Piano terreno vani N°7; I° Piano N°24. Superficie metri 650, estimo lire 400. vicario P. Bonaventura da Castelmadama 18-3-1870, Lettere del direttore del bagno penale G. Gizzi 13-4, 16-11, 9-121871, 9-1-1873, Lettere del sottoprefetto di Civitavecchia A. Lipari 10-11-1871, 31-7-1872, Lettere di A. Poggi 2-51872, 28-1-1873, Lettere del direttore delle saline I. Zuntini 15-4-1872 ASFT. 185 2 - Chiesa di S. Francesco etc come sopra sotto la lettera T metri 1860 pianterreno N°2. 3 - Campanile della Chiesa N°1207 metri 80 come si rileva dal Catasto Pontificio. Osservazione: Il dichiarante fa osservare che il convento denunziato è di proprietà del Comune di Corneto. Nel governo passato si doveva pagare scudi 80 ma si era esente”. Queste dichiarazioni furono presentate il 30 marzo 1871. Il P. Angelo il 7 luglio vi aggiunse che i frati avevano un orto con scarsa produttività, perché esposto ai venti e senza acqua, con reddito presunto di 50 lire. Il fabbricato del convento aveva 26 vani piccoli al primo piano, 7 al pianoterra, un piccolo fienile, con un reddito di 400 lire. Vi erano gli assegnamenti del comune di 644 lire annue, 107 e 50 centesimi dal marchese Sacchetti per due magazzini, il censo Petrighi 80 lire e 62 centesimi, il legato Compagnoni di lire 32 e 25 centesimi per il totale di lire 864 e 37 centesimi. Lo Stato Italiano cominciava ad applicare le sue tasse sopra i beni dei frati, dopo la loro denunzia dei redditi. Così nel 1872 vi fu un piovere di tasse a nome di P. Angelo da Subiaco. Il 12 giugno 13 lire e 68 centesimi per mano morta, 1 lira e 17 centesimi per la rata di 7 lire e 8 centesimi annui il 18 giugno, 154 lire e 44 centesimi di ricchezza mobile il 13 luglio, 27 lire e 36 centesimi per il primo semestre 1872 per mano morta il 4 agosto, 30 lire e 96 centesimi il 30 novembre per mano morta, la stessa parte di ricchezza mobile del 1872 di lire 28, 14 invece di quella completa di lire 168,84 (senza data). I frati si rivolsero al comune per avere la riduzione di tasse da 1.000 lire a 600, ma l’esattore si oppose ed il 15 maggio l’estimo dei beni immobili fu innalzato da lire 400 a 450. L’agente Muzio il 23 luglio 1872 comunicava che l’appello fatto il 19 giugno per la riduzione di ricchezza mobile veniva annullato. Le tasse erano costanti, ma il comune cominciava a non pagare ai frati una rendita di 8 scudi e 23 baiocchi da esso amministrata e pagata fino al primo semestre 1871. Il 10 aprile 1872 il P. Angelo da Subiaco se ne lamentò ed il 25 fu trattato l’argomento in consiglio comunale, ottenendo 9 voti favorevoli ed uno contrario. Nel computo delle tasse veniva considerato anche il legato Petrighi, rogato dal notaio cornetano Antonio Forcella nel marzo 1781, che era stato al centro di notevoli discussioni giuridiche. Il P. Cosma Neri da Cori (non di Corneto come nel documento), residente a Civitavecchia ne richiedeva il rinnovo dei diritti contro Giovanni Petrighi fu Agapito ed i figli Luigi ed Antonio del defunto Giovanni. Si trattava di una quota di 500 scudi pari a lire italiane 2.687 e 50 centesimi, corrispondenti ad un reddito annuo del 3 per cento. Il documento veniva richiesto a nome del P. Cosma da Fra Antonio da Corneto l’11 186 novembre 1872. Era una delle ultime controversie giuridiche per i legati della chiesa di S. Francesco di Tarquinia. Nel 1873 continuarono le tasse perché il 20 marzo il P. Angelo dovette pagare una “tassa a doppio decimo di mano morta” di 27 lire e 36 centesimi. Si cercava di ridurre i frati alla completa miseria per poterli poi cacciare definitivamente dal loro convento 42) . Intanto il comune sulla scia politica del tempo cercava di decurtare le sovvenzioni verso i frati. Il 15 settembre 1872 il consigliere Angelo Falzacappa richiedeva l’abolizione dei sussidi al convento di S. Francesco “a causa del contegno avverso alla cittadinanza, ed alla Nazione, spiegato dai Religiosi di quel Convento come meglio si legge nel foglio inserito”. Nel consiglio comunale del 29 ottobre fu portata avanti tale proposta. Si trattava solo della richiesta dei frati su quello che già amministrava il comune da parte loro, cioè di 120 scudi pari a lire 645 affidati al comune con rescritto di Benedetto XIII. Falzacappa, Lucidi, Grispini e Calamia erano per l’abolizione. Il consigliere Rispoli chiedeva di formare una commissione. Il consigliere Calvigioni invece diceva che il comune non aveva diritto di fare questo. Per l’abolizione dei sussidi 9 votarono a favore e 7 contro. Per la formazione di una commissione 10 furono favorevoli e 6 contrari, dopo essere uscito dal consiglio il Calvigioni. Questo era segno della divisione che vi era nello stesso consiglio e che la proposta in realtà non era secondo giustizia, ma faziosa e solo rispondente alla politica del tempo. In realtà il guardiano del convento P. Angelo da Subiaco, si era mostrato comprensivo verso il comune facendo allargare la strada dei magazzini, cedendo una parte di orto, dopo avere chiesto la dovuta autorizzazione. Questo non era poco in un periodo così difficile. Nel 1873 le relazioni si complicano maggiormente per la pressione politica del governo. Il 19 maggio infatti il commissario governativo E. Novelli prese possesso della biblioteca del convento a causa del decreto prefettizio del 27 aprile. Egli si fece consegnare le chiavi dal guardiano P. Angelo che dovette farlo, protestando però che era contro il diritto canonico. Il commissario vide gli indici delle opere contenute nella biblioteca ed il P. guardiano gli spiegò che alcune mancavano, perché i frati che ne erano proprietari le avevano portate via, quando erano dovuti andarsene dal convento. Il commissario riconsegnò poi le tre chiavi al P. guardiano. Egli prese possesso anche del quadro del coro rappresentante la Vergine col Bambino al centro e ai lati S. Francesco, S. Lorenzo (S. Agapito) ed alcuni santi. Oltre il commissario firmarono l’atto il P. Angelo da Subiaco 42) Dichiarazione dei redditi 30-1-1871 (sono sei fogli ed in uno vi è riassunta la quota dei redditi dal procuratore Francesco Angelo Marzoli), Denunzia di rendite del convento S. Francesco del guardiano P. Angelo da Subiaco 30-7- 187 guardiano del convento, Salvatore Calamia facente funzione di sindaco e testimone, ed Egisto Toscani anche egli testimone. Il comune decise di trasportare il bollettino di acqua dentro il convento di S. Francesco ed il Provinciale P. Mariano Greco da Velletri chiese il permesso alla Congregazione dei Vescovi e Religiosi, perché non si poteva fare altrimenti ed il cardinale Angelo Quaglia diede l’approvazione il 2 marzo 1873. Sempre in questo periodo così difficile il P. guardiano Angelo da Subiaco chiese alla stessa congregazione che potesse fungere da sostituto del sindaco apostolico un fratello laico e gli fu accordato dal prefetto della congregazione il cardinale A. Bizzarri il 9 giugno 1873. La legge di soppressione degli Ordini Religiosi applicata in altre parti d’Italia dal 1866 entrava in funzione anche nella Provincia Romana dei Frati ed il generale dell’Ordine P. Bernardino da Portogruaro il 10 agosto 1873 sintetizzava le disposizioni già prese dalla Congregazione dei Vescovi e Religiosi anche per il convento di Corneto ed il nuovo P. Provinciale Giuseppe da Caprarola ne confermava il contenuto il 1 settembre 1873. Il sindaco Luigi Dasti l’11 agosto 1873 dichiarava al P. guardiano del convento che il busto storico di S. Agapito apparteneva al comune. Il P. Angelo da Subiaco il 13 agosto 1873 richiedeva al sindaco Luigi Dasti di poter usufruire dell’annuo assegno, come era stato discusso nei consigli del 20 settembre 1872 e 3 maggio 1873, mostrandone i titoli. Ed il 16 agosto 1873 lo pregava di intervenire in aiuto economico per la festa del patrono S. Agapito, che avveniva il 18 agosto. Questo era perché “Non facendo una tal festa s’incontri senza meno l’indignazione del Paese sempre a nostro danno”. Vi erano quindi delle complicazioni religiose, data l’importanza della festa patronale ancora in vigore, pur con tante restrizioni. Il comune però ormai aveva tutti altri problemi da tutelare, sotto la spinta della politica imperante. Vi era il problema di prelazione, anzi di patronato su alcuni enti ecclesiastici soppressi come i conventi di S. Francesco, di Valverde, del Ritiro dei Passionisti e del Beneficio del Rosario. Se ne discusse nel consiglio comunale del 25 settembre 1873. Fu nominata una commissione per studiare il problema e furono eletti Ildebrando Lucidi con 10 voti, Giuseppe Panzani con 10 voti, Angelo Falzacappa con 6 voti. Furono esclusi Secondiano Cesarini con 5 voti, Giuseppe Bruschi con 1 voto e Alfonso Grispini con 1 voto. 1871 (minuta della denunzia per le molte correzioni delle singole voci), Tasse 2-11 e 24-12-1871. 14 e 16-5, 12 e 18-6, 13 e 23-7, 4-8, 30-11-1872, 20-3-1873 ASFT; Consigli 12-11-1871, 25-4-1872 consigli 1871, 1872 ASCT. 188 L’11 ottobre sotto la presidenza di Salvatore Calamia fu esaminata la richiesta dei frati sul legato Angennes, cioè dell’antico cardinale del 1500 e la risposta fu positiva per il 1873, perché già vi si era provveduto per il 1872 il 25 aprile di tale anno. Il 26 ottobre il sindaco Luigi Dasti sottopose al consiglio comunale la richiesta dei frati di essere compensati dal comune per avere concesso fin dal 21 dicembre 1872 due corridoi del chiostro per gli “stalloni di monta del governo e per i cavalli di truppa di passaggio”. La risposta ai frati fu negativa. Tuttavia quest’argomento servì al comune per dimostrare che aveva diritto alla proprietà del convento, come è ricordato in una minuta del 15 dicembre 1873 al ricevitore del registro e bollo di Civitavecchia. La commissione comunale fece il suo rapporto sui vari enti ecclesiastici soppress il 1 dicembre. Il presidente Luigi Dasti sindaco lo comunicò ed il consigliere Giuseppe Benedetti disse di presentare subito gli atti legali per avere il possesso dei locali e dei beni. La proposta ottenne 12 voti a favore ed 1 contrario. Con tutta facilità è di questo periodo una nota sul convento contenuta in una minuta (pur non essendo datata). Essa è interessante perché fotografa la situazione del convento: “Le piccole Cammere abitate nel piano superiore dai Religiosi della famiglia sono nel N. 12 quali sono fornite pressochè egualmente con un letto, un tavolino, o scrivania, una scanzia da libri e 3 o quattro sedie communi. L’altre stanze per Forastieri sono anche meno fornite solo avvi due stanze una da letto, e l’altra da ricevere che servono al Superiore Locale, e visitatore, nelle quali avvi per mobilio un Canapè imbottito di Damasco, di noce una sedia parimenti imbottita, con altre sedie di legno in N. 10, nella stanza del Superiore due tavolini, una scrivania, due candoniere (cantoniere), un Canapé di paglia ed altre sedie con scanzia. La stanza che serve di Biblioteca, quale, fu esaminata, ed inventariata nel suo Indice dal Sig. Novelli a tale scopo mandato dal Governo. Un’altra stanza piccola che serve per contenere parati. Nel piano inferiore una Cantina con grotta, con due botti di 12 barili l’uno, ed altri 3 vasi di piccola mole, con N. 10 barili di valore 100. Un Refettorio, con stalli di legno e tavole un pulpito etc. Una Cucina con attrezzi di rame e ferro sul 10 ad uso della famiglia. Altri due locali servono per conservare roba di uso”. Come si può osservare, non vi era segno di ricchezza nel convento e chi lo occupava si accontentava di quello che era solo necessario alla vita in comune di almeno 12 persone religiose. La stessa suppellettile della chiesa era molto semplice: due croci di ottone argentato, un incensiere d’argento, una statua di S. Antonio, 4 lampade d’argento, 130 candelieri di legno, una muta di candelieri indorati per l’altare maggiore. Vi erano alcuni 189 parati in terzo, ma erano stati cancellati, forse non interessavano 43) . Un altro problema interessante invece era quello dell’uso delle biblioteche ecclesiastiche confiscate. Nè parlò nel consiglio comunale del 18 aprile 1874 il sindaco Luigi Dasti, esponendo i principi della sottoprefettura di Civitavecchia del 22 febbraio: obbligo al comune di aprire una biblioteca pubblica con i libri ex claustrali, avere un bibliotecario e remunerarlo, primo assetto del materiale librario entro tre mesi dalla consegna, nuovi acquisti di opere, non cambiare le opere assegnate senza permesso del Ministero della Pubblica Istruzione. Gli articoli furono accettati con 11 voti favorevoli contro uno. Per il bibliotecario fu assegnato lo stipendio annuo di lire cento con lo stesso numero già ricordato di voti 44) . L’anno 1875 fu uno dei più duri per i frati perchè il 6 luglio l’ingegnere del Demanio Muratori li espulse dal convento, applicando le leggi di soppressione. Essi furono accolti generosamente nella casa del canonico D. Lorenzo Ramaccini in Via Porta Tarquinia 12. Era superiore P. Leonardo da Gallinaro che rimase rettore della chiesa col fratello laico Fra Giuseppe Zanchini da Monterolo. Però il P. Leonardo dovette recarsi a Pisa per motivi di salute e morì giovane a Civitavecchia a 38 anni il 13 marzo 1884. Gli successe come rettore della chiesa il suo vicario P. Francesco Giacchetti da Corneto, che mantenne tale ufficio sino alla sua morte nel 1895. Proprio a costui nel mese di dicembre 1875 si rivolgeva il conte Francesco Bruschi Falgari per le funzioni nella chiesa del 1876: funerale per i defunti Bruschi Falgari e Quaglia, funerale per la contessa Giustina Bruschi Falgari, messe e messa cantata per la stessa, contributo per la festa di S. Antonio di lire 12,50, novena della festa di S. Bonaventura, elemosina per il presepio lire 2,50 e l’offerta per l’ultimo dell’anno di lire 5. Per un tempo così difficile era un aiuto non indifferente. Il comune però si trovava a risolvere i problemi col Fondo per il Culto riguardanti l’ospedale maschile, il convento S. Francesco, l’eremo e terreno dei Passionisti della 43) Petizione del P. Angelo da Subiaco al S. Padre e rescritto 22-6-1872, Stima dell’ing. Francesco Dasti 12-6-1872, Decreto del vicario generale Domenico Sensi 26-6-1872, Decreto del procuratore generale del re Ghiglieri 5-8-1872, Presa di possesso della biblioteca del convento di E. Novelli 19-5-1872, Petizione del Provinciale Mariano da Velletri al S. Padre per un bottino di acqua nel convento per il comune e responso 2-3-1873, Petizione del P. guardiano e responso della Congregazione dei Vescovi e Religiosi 9-6-1873, Lettera del P. Generale Bernardino da Portogruaro sul comportamento per la soppressione del convento 10-8-1873, Lettera del Provinciale P. Giuseppe da Caprarola 1-91873, Lettera del sindaco Luigi Dasti e busto di S. Agapito 11-8-1873, Lettera del P. Angelo da Subiaco al sindaco Luigi Dasti per l’assegno annuo e festa di S. Agapito 13 e 16-8-1873, Nota sul convento (s.d.., ma di questo periodo), Nota dei medicinali del farmacista Vulpiano Volpini 25-2-1873 (da agosto a novembre vi è segnato “solfato chinico” segno della malaria) ASFT; Consigli 15-9, 29-10-1872, 25-9, 11 e 26-10, 12-12-1873 Consigli 1872, 1873, Minuta al ricevitore del registro e bollo di Civitavecchia 15-12-1873 Tit. XVII, fasc. 114, a 1873 ASCT. 44) Consiglio 18-4-1873 Consigli 1874 ASCT. 190 Bandita S. Pantaleo e quello dei Serviti S. Maria di Valverde. Il sindaco Luigi Dasti ne parlava nel consiglio comunale del 5 dicembre 1875. Le trattative erano portate avanti,. ma non raggiungevano una soluzione. Veniva proposta una transazione votata con 10 voti a favore e 1 contrario. La questione però non si sbloccava. L’Intendenza di Finanza di Roma sosteneva che il Fondo per il Culto non poteva cedere il convento S. Francesco al comune, perché esso “apparteneva al Municipio prima della cessione (1550),la quale è stata fatta alla casa religiosa puramente e semplicemente senza alcuna riserva. La intestazione in catasto è legittima presunzione di proprietà a favore della disciolta corporazione un giorno ad oggi”. Il Fondo per il Culto portava quindi come prova il possesso del fabbricato da parte dei frati. La diatriba tra il comune ed il Fondo per il Culto seguitò ancora senza giungere a nessuna conclusione utile fino a che il comune non si fosse deciso a pagare. Nel 1876 venivano richieste informazioni sulla presenza dei frati nel convento. Il sindaco Luigi Dasti rispondeva chiaramente che i frati si erano trasferiti in casa Ramaccini. La chiesa era restata aperta al culto e vi provvedevano prima il P. Leonardo Farina come rettore, coadiuvato dal fratello laico Fra Giuseppe Zanchini da Monterolo. Il P. Francesco Giacchetti da Corneto succedeva come rettore della chiesa nel 1875 al P. Leonardo. I frati vivevano in casa Ramaccini, conservando l’abito religioso e vivendo una vita di comunità. Essi erano nove persone il 26 dicembre 1876. Essi vivevano della modesta pensione accordata dal governo italiano e dalle offerte per le loro prestazioni religiose ai fedeli. In realtà nel convento di S. Francesco e nel Ritiro dei Passionisti non vi erano più i frati, come asseriva lo stesso sindaco il 31 dicembre 1875 alla sottoprefettura di Civitavecchia. Allo Stato Italiano interessava che i conventi soppressi non avessero più i religiosi e coloro che vi rimanevano dovevano vestire da preti ed in numero limitato 45) . Il 30 marzo 1877 fu presentato in consiglio comunale il solito problema dell’acqua per la città con la costruzione di un grande serbatoio presso la chiesa di S. Francesco. Tutto doveva essere ormai facilitato, perché i frati non vi erano più e qualsiasi loro impedimento sarebbe stato impossibile. Tuttavia non si sbrogliavano i litigi giudiziali del comune col Fondo per il Culto riguardanti il convento, la chiesa ed i beni di S. Francesco, dell’eremo 45) Lettere del registro di Civitavecchia 1-2-1875, 29-3-1876, Lettera del sindaco Luigi Dasti 26-12-1876, Lettera del sindaco Luigi Dasti al sottoprefetto di Civitavecchia 31-12-1876, Lettera della sottoprefettura di Civitavecchia 24-121876 Tit. XVIII, fasc. 14 a. 1876, Consigli 5-12-1875, 12-3-1876 Consigli 1875-1877 ASCT, Lettera del conte Francesco Bruschi Falgari al rettore di S. Francesco P. Francesco da Corneto dicembre 1875, Atti di deposito e prelievo del P. Francesco Giacchetti al canonico D. Lorenzo Ramaccini 1-1-1878, 5-8-1890, Atto d’intimazione e diffida di Gustavo Scotti 3-3-1889 ASFT; P. Andrea da Rocca di Papa, Sunto storico dei conventi, case e monasteri appartenenti all’Antica Provincia Romana dell’Ordine dei Minori (Roma 1898) 22; Mecocci S., I Francescani a Cori (Cori 1986) 188. 191 dei Passionisti e della chiesa di Valverde. Dal 30 maggio 1877 il comune si rivolse all’avvocato Filippo Pacelli, padre del futuro Papa Pio XII, residente a Roma in Vicolo della Vetrina 12 al terzo piano, ma di origine onanese. L’avvocato si prese cura della questione, suggerendo al comune ciò che era opportuno. Vi è una corrispondenza intensa sull’argomento fino a quando il 12 luglio 1881 il comune stipulò un contratto col Fondo per il Culto. Rogò l’atto il notaio archivista Pietro Pampersi. Esso fu stipulato tra il sindaco Luigi Dasti ed il ricevitore del registro e conservatore delle ipoteche Erminio Berzio. Il sindaco accettava la chiesa ed il campanile, il fabbricato del convento, il terreno ortivo e seminativo confinante con Rispoli, Sacchetti, Falzacappa e Sbrinchetti. Egli si obbligava a tenere aperta la chiesa ed a provvedervi per le spese di manutenzione ed ufficiatura e prendendo in consegna gli arredi sacri e mobili della chiesa, secondo un inventario a parte. Firmarono come testimoni Federico Mirabelli fu Gaetano nato a Perugia e Vincenzo Caccone di Giacinto nato a Napoli, domiciliati ed impiegati a Civitavecchia. Il P. Francesco Giacchetti stilò l’inventario municipale dei mobili ed arredi di S. Francesco il 2 maggio 1881. Il prosindaco Angelo Falzacappa ricevette l’elenco il 3 e lo inviò al ricevitore del registro di Civitavecchia 46) . Nel 1882 si nota qualche mutamento nell’amministrazione comunale riguardo ai frati. Infatti il sindaco il 30 giugno si oppose perchè fosse asportato il quadro degli Avvolta e degli altri titolari delle cappelle. Nella chiesa veniva introdotta la nuova confraternita di Nostra Signora del S. Cuore, aggregata all’arciconfraternita di S. Andrea della Valle di Roma. Se ne era interessato il P. Francesco da Corneto, facendo fare una petizione al vescovo diocesano dal provinciale P. Anacleto Chiccaro da S. Felice Circeo. Anche il priore dell’arciconfraternita scrisse il 19 settembre 1882 al P. Domenico Temporini del convento per illustrarne i benefici agli iscritti. Il sindaco Luigi Dasti il 20 marzo 1883 comunicò al consiglio comunale di affittare i terreni del convento di S. Francesco con due locazioni separate con ricavato di 150 lire annue per ciascuna, secondo la perizia del signor Secondiano Cesarini. Ciò fu accettato all’unanimità per la durata di 6 anni dal 1 maggio. 46) Consigli 20-3, 30-5-1877 Consigli Pubblici 1875-1877, Lettere del sindaco Luigi Dasti all’avvocato Filippo Pacelli 4-6-1877, 24-10-1878, 14-4-1881, Lettere del prosindaco Angelo Falzacappa all’avvocato Filippo Pacelli 10-8-1877, 15-10-1878, Lettere dell’avvocato Filippi Pacelli 8-3-, 2-5, 18 e 27-6, 21-7, 9 e 18-10 (due lettere), 1878, 30-4, 6-5, 7 e 11-7, 14-9, 1, 5, 10, 13, 30-11-1879, 16-4-1881, Lettere dell’Intendenza di Finanza 14-5, 23-11-1879, 23-3-1881, Lettere al Ricevitore del Registro di Civitavecchia del sindaco Luigi Dasti 2-12-1879, 11-1-1881, del prosindaco Angelo Falzacappa 3-4, 3-5-1881, del sindaco Angelo Falzacappa 8-6-1881, Deliberazione del comune di Corneto Tarquinia 29-5-1879, Nota dei mobili ed arredi di S. Francesco del P. Francesco Giacchetti 2-5-1881 (copia) Tit. XVII fasc. 14 aa. 1877, 1878, 1879, 1881, Contratto del Fondo per il Culto e Comune di Corneto Tarquinia 12-7-1880 Istromenti 1791-1801 ASCT; Inventario municipale dei mobili ed arredi di S. Francesco del P. Francesco Giacchetti 25-1881 (originale) ASFT. 192 Il 25 luglio 1883 il nuovo sindaco Angelo Falzacappa scriveva al rettore della chiesa di S. Francesco P. Francesco Giacchetti che poteva riscuotere l’assegno dei legati, il sussidio per la festa di S. Agapito e che la statua di S. Antonio potesse essere collocata in una cappella senza nessuna spesa per il comune e per eventuali lavori vi fosse una ricognizione del comune. Questo era sicuramente una certa apertura alle continue restrizioni verso i frati, in modo particolare riguardo al personaggio in questione per le precedenti occasioni ricordate. Nel 1884 il marchese Urbano Sacchetti fu Girolamo, abitante a Roma in Via Giulia, chiedeva di affrancare il canone per la parte dei magazzini dell’antica Annona sia per le leggi di soppressione in atto che per quelle canoniche. Egli si rivolse alla Congregazione dei Vescovi e Religiosi. Il Provinciale Alessandro da Grotte di Castro in una lettera del 15 maggio 1884 era favorevole ed il provicario diocesano Luigi Calvigioni ne chiedeva delucidazioni al P. Francesco da Corneto. Il permesso tuttavia fu concesso perchè la parte anteriore del convento rimase della famiglia Sacchetti fino a tempi recenti 47) . Il 9 maggio 1888 il P. Francesco Giacchetti inviò una lettera al sindaco per ottenere le spese di culto in tanti anni di lavoro senza avere mai percepito nulla. Egli chiedeva che gli fossero versate 200 lire annue per le spese di culto e per uno o due dei suoi coadiutori, e fosse permesso ai suoi coadiutori di essere alloggiati nella sua abitazione. Nel consiglio del 13 maggio veniva accettato che fossero offerte 200 lire per il culto, senza accollarsi le spese di altre persone. Le istanze però non erano solo dei Francescani, ma anche dei rettori dell’Addolorata (Serviti), di S. Marco (Agostiniani). Il consigliere Pontani si pronunziò a favore dei frati di S. Francesco ed ottenne l’approvazione di tutti. Questo significava un cambiamento importante. Il P. Giacchetti ringraziò il sindaco il 24 settembre. Era ormai imminente il fallimento del canonico Lorenzo Ramaccini a cui si erano affidati i frati per la parte economica e che li aveva generosamente ricevuti nella sua casa. Il P. Antonio (Agostino Nicolini) da Marino il 22 settembre 1888 metteva in evidenza di essergli creditore di L. 12.000 lire. Il P. Antonio era certamente il procuratore provinciale. Proprio l’anno seguente i frati abbandonarono la casa del canonico Lorenzo Ramaccini, perchè il nuovo proprietario pretendeva da loro l’affitto fino dal febbraio 1889. Il 22 novembre venivano attribuite al P. Francesco 200 lire annue da pagarsi nell’anno 47) Lettera del sindaco Luigi Dasti al rettore della chiesa S. Francesco per il quadro Avvolta 30-6-1882, Lettera del P. Francesco Giacchetti al vesovo per la devozione a Nostra Signora del Sacro Cuore, Lettera al vescovo del Provinciale P. Anacleto Chiaccaro da S. Felice Circeo (1882), Lettera del priore della confraternita N. Signora del S. Cuore di Gesù Mariano Fontecedro al P. Domenico Temporini 19-2-1882, Nota dei privilegi di S. Francesco (1882), Lettera del prosindaco Angelo Falzacappa al rettore di S. Francesco 25-7-1883, Lettera al S. Padre di Urbano Sacchetti, Lettera del Provinciale Alessandro da Grotte di Castro 15-5-1884, Lettera del provicario Generale Luigi Calvigioni a P. Francesco Giacchetti 12-5-1884 ASFT; Consiglio 20-3-1883 Consigli Pubblici 1881-1885 ASCT. 193 seguente. E chiaramente viene accettata l’idea dell’alloggio per gli altri frati. Infatti nella lettera è detto: “Rapporto all’alloggio che il Consiglio concesse a Lei ed ai Suoi coadjutori, la Giunta in detta adunanza decise che questi coadjutori, compresi i laici, ossia non Sacerdoti, non debbano superare il numero di sei abituali”. Si tratta della seduta del 18 novembre. Questo sarebbe stato molto importante specialmente per l’anno seguente ed è un grosso merito del P. Francesco Giacchetti 48) . Nel 1890 il guardiano di S. Francesco era P. Maurizio Scattone da Subiaco, P. Francesco Giacchetti invece restava rettore della chiesa, vicario ed economo. Il 20 ottobre 1890 il conte Francesco Bruschi Falgari si rivolgeva al P. Guardiano di S. Francesco P. Maurizio chiedendogli di poter avere una messa nella cappella per il periodo della sua dimora, ed una quotidiana. Il P. Maurizio gli rispose lo stesso giorno, accettando la celebrazione della messa per il periodo della presenza del conte a qualsiasi elemosina, ma rifiutando quella quotidiana ad una lira perchè i frati vivevano principalmente delle elemosine del sacro ministero e le messe avventizie erano celebrate a 25 o 30 soldi ed i superiori non lo avrebbero accettato. Questa risposta giusta, sarebbe stata molto difficile qualche tempo prima. Lo stesso guardiano cercò di mettere maggiore ordine nella questione dei legati. E’ vero che il Provinciale P. Antonio da Cipressa li aveva fatti rinunciare tutti nel 1855 e giustamente perché erano sempre fonte di litigi. Vi era però uno fondato per il testamento di Alessandro Forcella senior e rogato dal notaio Vittorio Benenghi il 5 settembre 1648, consistente in 112 scudi e 50 baiocchi con l’obbligo di recitare 12 messe (una al mese) e 2 messe semplici cantate per sè ed i suoi discendenti, una messa cantata in terzo nell’anniversario della sua morte ed altro. Il 30 maggio 1752 Leonardo Querciola con atto rogato da Giovanni Antonio Claverio da Tolfa vi creò un censo a 5 scudi annui, avendo solidale il canonico D. Ippolito Bruschi. Da Leonardo passò alla figlia Anna Maria Querciola che fu morosa e passò a Costantino Bruschi per l’avallo del canonico. Solo dopo tanta non curanza nel 1890 si rifecero vivi gli eredi di Girolamo Celli con 140 lire. Il P. Maurizio si rivolse al vescovo di Civitavecchia e Corneto Tarquinia Angelo Rossi che il 23 maggio 1891 disponeva che fossero dette 12 messe lette dal mese di giugno e 4 messe cantate solenni con integro ufficio dei defunti ed una terza parte del rosario per i fratelli laici. Per il futuro ci si doveva attenere a quanto stabilito nel legato. Il P. Maurizio ricorse anche alla S. Sede per la riduzione, ma non ottenne nulla ed il 15 gennaio 1892 attestava di essere stato alle disposizioni, che erano certo gravose. 48) Consiglio 13-5-1888 Consigli segreti 1884-1891 ASCT; Lettera del sindaco Angelo Falzacappa al rettore P. Francesco Giacchetti 19-9-1888, Lettera del P. Francesco Giacchetti al sindaco 24-9-1888, Lettera del P. Antonio (Agostino Nicolini) da Marino 22-9-1888, Lettera del prosindaco Calisti 28-11-1888 ASFT. 194 Nel 1890 la chiesa di S. Francesco godeva di alcuni privilegi come quello di poter recitare l’ufficio proprio del martire S. Agapito il 18 agosto dal 1666, di poter ascrivere alla Pia Unione dell’Immacolata Concezione di Maria eretta in Aracoeli dal 1856, di poter cantare due volte la settimana la messa solenne da Requiem escluso i doppi di I e II classe e feste di precetto, ferie, vigilie privilegiate dal 1854, di poter cantare la messa solenne votiva nell’ultima domenica di aprile per la festa di N. Signora del S. Cuore dal 1880, di differire fino a 6 mesi le messe avventizie senza giorno fissato dal 16 agosto 1890. In ciò compaiono alcune devozioni in voga nella chiesa di S. Francesco. Il 29 settembre 1890 il sindaco Falzacappa scriveva al rettore P. Francesco che avrebbe pagato un canale di latta verniciato messo nel tetto della chiesa verso il chiostro, ma che altre volte avrebbe dovuto chiedere il permesso. Nello stesso giorno Odoardo Rispoli chiedeva di poter trasferire nella sua cappella del cimitero suo padre Raffaele della chiesa di S. Croce, sua madre Margherita Pasquali e le sue sorelle Elena, Serafina ed Anna Maria dalla chiesa di S. Francesco, suo nipote Orazio Perrini e suo fratello Mons. Francesco Rispoli dal cimitero comunale. La missiva era inviata al P. Giacchetti, al camerlengo della confraternita di S. Croce Lorenzo Pontani ed al cappellano del cimitero canonico D. Lorenzo Cherubini 49) . Il 5 novembre 1890 Cesare De Cesaris a nome del conte Francesco Bruschi Falgari richiedeva un funerale solenne in terzo per la casa Bruschi e 22 messe lette da celebrarsi lo stesso giorno od il seguente a lire 1,50. Per la festa di S. Bonaventura stabiliva la regalia solita, un litro di vino a ciascuno dei frati, mezza libbra di carne e due pagnotte. Questa pure era una forma benevola verso di essi. Nel 1893 il terrazzo del chiostro doveva essere in pessime condizioni, se il sindaco Angelo Falzacappa il 16 febbraio si rivolse all’architetto comunale Camillo Grispini perchè provvedesse a farlo di nuovo ammattonare, per non far crollare le volte. L’architetto stilò la relazione il 28 febbraio con un preventivo di spesa di 210 lire. Il 28 giugno il lavoro fu affidato al capomastro Giuseppe Pagliardini. Il restauro della gradinata della chiesa lo eseguì il muratore Giovanni Molinari. Il 2 maggio 1895 nel convento morì il P. Francesco Giacchetti da Corneto, che si era tanto prodigato per il convento e la chiesa nella sua vita giovanile e nella vecchiaia in condizioni spesso difficili, ma sempre superate. Il Provinciale P. Maurizio Scattone da Subiaco eleggeva come successore nel rettorato della chiesa il P. Raimondo (Filippo Paglialunga) da Onano superiore del convento, uomo di larga esperienza e di provata virtù. 195 Egli veniva presentato il 6 luglio. Il 25 era ricevuta la nomina in comune e discussa il 18 dicembre e comunicata all’interessato il 26 dicembre. Il 18 ottobre 1895 un vento impetuoso rovinò i vetri ed i telai della sagrestia e della camera del rettore. Il P. Raimondone ne chiedeva la riparazione al comune il giorno 18. I terreni del convento li avevano presi in affitto altre persone. Necessariamente i danni che vi erano dovevano essere pagati dal comune. Il 15 settembre 1896 vi erano da riparare i casotti ed il cancello d’ingresso al terreno affittato a Sante Innamorati. Il sindaco conte Francesco Bruschi Falgari esponeva il caso al consiglio comunale e dava lettura del capitolato dell’ingegnere comunale Camillo Grispini per la somma di un primo lotto di lire 240,10. L’assessore anziano Antonio Perrini il 19 dicembre 1896, tenuto conto del consiglio precedente vistato dalla sottoprefettura di Civitavecchia nel mese di ottobre, dichiarava che per il portone d’ingresso al terreno della chiesa posto a levante si erano presentati il muratore Giovanni Molinari ed il falegname Sante Mencarelli ed erano possibili concorrenti con altri. Il consiglio approvò all’unanimità per alzata e seduta. Nel 1899 vi erano dei lavori di riparazione nel convento senza alcuna specificazione ed il sindaco Francesco Bruschi Falgari ne dava l’approvazione al rettore P. Raimondo. Certamente vi erano i preventivi di spesa ed il tipo di lavori, ma da me non trovati. Sempre al P. Raimondo egli fece cambiare la chiave della serratura, perchè i signori Marzoli, Trionfetti e Nucci dichiaravano di avere perduto la chiave dei locali nel convento di S. Francesco già della banda Cittadina e della Società del Tiro a Segno. Era anche questo un atto di benevolenza verso i frati del convento 50) . Il convento resterà in queste condizioni fino al 1928, ed i frati lo occuperanno solo per una piccola parte e vi saranno poi estromessi per ritornarvi nel 1934, dopo l’esperienza dei Giuseppini. **** 49) Supplica al S. Padre per la procrastinazione delle messe avventizie a sei mesi e risposta 16-6-1890, Lettera del conte Francesco Bruschi Falgari e lettera del P. 50) Lettera del prosindaco B. Boccanera 16-2-1895, Lettere del sindaco Angelo Falzacappa all’ing. arch. Camillo Grispini 16-2, 28-6, 3-7, 10 e 13-8-1895, Preventivo dell’architetto Camillo Grispini 28-2-1895, Lettera del P. Provinciale Maurizio da Subiaco per l’elezione del rettore della chiesa P. Raimondo da Onano 6-7-1895, Ricevimento della nomina in comune 25-7-1895, Sua elezione in comune 18-12-1895, Partecipazione della elezione 18-12-1895, Accettazione dell’ufficio del P. Raimondo 18-10-1895, Lettera del rettore P. Raimondo da Onano per la riparazione della finestra della sagrestia e della stanza del rettore 18-10-1895, Annotazione del sindaco Angelo Falzacappa provvedendo con lo stagnaro Mencarelli 19-10-1895 Tit. XVII, fasc. 14, aa. 1895, 1896 Consigli 15-9 e 19-12-1896 Consigli Pubblici 1895-1896 ASCT; Comunicazione della nomina al P. Raimondo Paglialuna da Onano di F. Benedetti 26-12-1895, Accettazione della nomina da parte di P. Raimondo da Onano 5-2-1896 ASFT. 196 I molti documenti ancora esistenti sul convento di S. Francesco ed i suoi abitanti ci hanno condotto a conoscere molti personaggi di questo secolo che non sono mai stati studiati o di cui nulla o quasi era stato scritto. Tra gli altri si è accennato al P. Giacomo Maria Latini da Corneto deportato in Corsica nel 1811 e morto a Bastia in chiara fama di santità il 16 agosto 1812, ed a P. Raimondo Paglialunga da Onano, vissuto molti anni nel convento, che vi morì nel 1911 in odore di santità. Basterebbero già questi due esempi per dire che almeno qualcuno dei frati fece sul serio nel seguire il Signore ed essere a disposizione del popolo. In realtà però furono molti che si prodigarono al bene degli altri compresi i fratelli laici col loro buon esempio ed apostolato spicciolo nella questua e nella carità operosa verso i poveri bisognosi. Alcuni frati occuparono posti di responsabilità nell’Ordine Francescano e nella Chiesa. Il P. Gioacchino da Caprarola divenne Custode della Provincia Romana. P. Bernardino da Caprarola oltre essere buon predicatore, fu Custode di Terra Santa, e due volte Provinciale. P. Maurizio Scattone da Subiaco fu Provinciale. Ben tre vescovi vi furono: Mons. Luigi Moccagatta da Castellazzo missionario in Cina e vicario apostolico, Mons. Sebastiano Pifferi da Castelmadama vescovo in Bolivia e missionario, Mons. Giacomo Ghezzi vescovo di Orte, Civita Castellana e Gallese ed ex Custode di Terra Santa. Tra i superiori del convento P. Francesco Giacchetti da Corneto si interessò dei problemi nei periodi facili ed in quelli difficili nella sua lunga permanenza e fu veramente encomiabile. L’interesse continuo dei frati per la buona conservazione della chiesa e del convento presso le autorità costituite è certo un loro merito. Non meno interessante è la loro opera verso gli ergastolani che lavoravano alle saline. I predicatori intervenivano presso il popolo diffondendo la verità evangelica. Gli stessi lettori di teologia e filosofia curavano la formazione umana e religiosa dei loro studenti. I confessori erano a disposizione della gente che si avvicinava alla chiesa dei frati. Salvo qualche raro esempio circoscritto nelle mura del convento, i frati dettero sempre esempio di vita religiosa seria e questo fu certo uno dei motivi principali della simpatia che godevano tra il popolo. Tutti questi elementi che hanno sempre fatto parte della vita del popolo di Tarquinia e della sua storia, è bene che siano conosciuti. P. LUIGI SERGIO MECOCCI Fondi Archivistici AF Archivio Falzacappa presso Società Tarquiniense di Arte e Storia (STAS) 197 APA Archivio Provinciale Aracoeli ASBO Archivio S. Bernardino Orte ASCT Archivio Storico Comunale Tarquinia ASFT Archivio S. Francesco Tarquinia ASGT Archivio S. Giovanni Tarquinia ASMT Archivio S. Margherita Tarquinia AVT Archivio Vescovile Tarquinia Bibliografia P. Andrea da Rocca di Papa, Sunto storico dei conventi, case e monasteri appartenenti all’antica Provincia Romana dell’Ordine dei Minori (Roma 1898) Dasti L., Notizie storiche archeologiche di Tarquinia e Corneto (Corneto-Tarquinia 1910) Corteselli M. - Pardi A., Corneto com’era (Tarquinia 1983) Mecocci L.S., P. Giacomo Maria Latini da Corneto Minore Osservante deportato in Corsica e morto in odore di santità (11-11-1779 - 16-8-1812) in Bollettino dell’anno 1989 Società Tarquiniense di Arte e Storia (STAS) 117-155. Mecocci L.S., P. Giacomo Maria Latini da Corneto (Tarquinia) 1779-1812 in Archivum Franciscanum Historicum 84 (1991) 407-449. Romanelli E., S. Francesco di Tarquinia (Roma 1967) Zucconi G., La Provincia Francescana Romana (Villalba di Guidonia 1969) 198 LA “SOCIETAS GEORGICA TARQUINIENSIS” ED IL SUO FONDATORE, FILIPPO LUIGI GILII La folla si era radunata un po' incuriosita, nella zona della Clementina; non sapeva bene cosa aspettarsi, certamente però qualcosa di sorprendente. Quelli che erano stati più vicini a coloro che, nei giorni precedenti, erano stati occupati a preparare un grande, misterioso involucro, cercavano di dimostrare la loro superiorità agli altri: parlavano di certi Mongolfier, degli esperimenti che avevano fatto in Francia 1) , di una fantastica ascensione che era stata fatta a Milano pochi mesi prima 2) e di tante altre cose, ma le loro parole piuttosto che spiegare non avevano altro risultato che di accrescere la curiosità degli ascoltatori. Di una cosa però tutti erano consapevoli, che in quel giorno, 17 ottobre 1784, si stava per assistere ad un avvenimento che sarebbe rimasto, senza dubbio, memorabile per la tranquilla vita cittadina. All’improvviso il globo di carta rasata, intorno al quale fino a quel momento si erano agitati tanti uomini, cominciò a muoversi, e, poco alla volta, mollemente si alzò verso il cielo. La folla restò senza fiato: ciò che stava vedendo sembrava quasi la vittoria dell’uomo sulle leggi di gravità. D’altronde anche un poeta come Vincenzo Monti, aveva celebrato con una sua ode 3) , nel febbraio dello stesso anno, il pallone aerostatico ed i coraggiosi che si erano innalzati con esso nel cielo, come la massima espressione alla quale poteva arrivare la scienza. Ciò che si era svolto sotto gli occhi ammirati dei cornetani, dunque, era veramente qualcosa di nuovo e di entusiasmante. Centri più grandi di Corneto avrebbero aspettato ancora del tempo per assistere a qualcosa di simile. Il merito di tutto ciò era di un giovane cornetano, già distintosi tra i suoi contemporanei, come uno dei più promettenti ingegni scientifici, Filippo Luigi Gilii, il 1) Joseph ed Etienne Montgolfier idearono e realizzarono i primi palloni ad aria calda (sistema che da questo momento contraddistinguerà le “mongolfiere”), in grado di fare dei voli di una certa durata. Nel giugno del 1783 i l loro aerostato, di 12 metri di diametro, costruito di carta e stoffa, nella piazza principale di Annonay, grazie all’aria calda si staccò da terra raggiungendo l’altitudine dei 1.800 m. La mongolfiera rese possibile il primo volo libero realizzato dall’uomo. Il 21 novembre 1783 Jean Pilatre de Rozier e il marchese d’Arlandes, a bordo di una mongolfiera si innalzarono dal Bois de Boulogne a Parigi e dopo 26 minuti di volo, atterrarono ad 8 chilometri di distanza. 2) Paolo Ardeani fu il protagonista della prima ascensione italiana, il 3 marzo 1784, a Milano. 3) Monti scrisse l’ode “Al Signor di Montgolfier” in occasione del primo volo in aerostato, compiuto il 1 dicembre 1783 da Giacomo Charles e Stefano Robert. La dedica ai Montgolfier perchè per primi avevano fatto salire al cielo un pallone (la mongolfiera). Il poeta canta il suo entusiasmo per la nuova audacia dell’uomo. 199 quale aveva voluto in questo modo celebrare la nascita di una accademia agraria a Corneto, la “Societas Georgica Tarquiniensis” da lui fondata. Filippo Luigi Gilii è un personaggio che, a torto, è stato un po' dimenticato dai suoi conterranei, mentre invece ebbe un certo rilievo nella vita scientifica del suo tempo e godè della stima degli stessi pontefici. Vale quindi la pena di riproporre questa figura all’attenzione dei tarquiniesi. Ecco quindi qualche notizia sulla sua vita, prima di trattare dell’accademia da lui fondata. Era nato a Corneto il 14 (per qualcuno il 12) marzo del 1756, da Lucidonio e Angela Troiani. Considerato che il ragazzo dimostrava interesse verso gli studi, i genitori lo mandarono, per approfondirli, al Collegio Romano della Società del Gesù. Era questo, per quel tempo, il posto adatto per un giovane che voleva affinare sia la mente che lo spirito. Lo attraeva tutto il sapere sia letterario che scientifico; poco alla volta però il suo interesse si focalizzerà sulle nuove teorie scientifiche. Non bisogna dimenticare che nella seconda metà del settecento la vita culturale è determinata da quella corrente di pensiero che risponde al nome di Illuminismo. E’ un periodo quindi in cui la ragione umana è vista come l’unica guida validata data all’uomo per risolvere i problemi della vita, quelli sociali e quelli economici. Si assiste dunque ad una ventata di rinnovamento e, per quanto riguarda il nostro argomento, hanno una particolare importanza le accademie, specialmente quelle agrarie. Sorgono specialmente per impulso delle nuove dottrine economiche (fisiocrazia) 4) che come fonte primaria e unica della ricchezza vedevano l’agricoltura e quindi intendevano sperimentare nuove tecniche agricole ed anche liberarle da quei vincoli, quali i dazi sia d’entrata che di uscita, i divieti di esportazione, la manomorta 5) ecc; che ne condizionavano l’esercizio. Volevano quindi uno svecchiamento delle pratiche agrarie ed anche una migliore diffusione delle idee liberiste. Anche se l’ambiente in cui il Gilii si muove è quello dello Stato Pontificio, notoriamente poco propenso ad accettare idee innovative, pur tuttavia anche in quel territorio c’erano state e c’erano tentativi di modificare qualcosa. Tentativi che non sempre avevano avuto o avranno fortuna, ma sempre importanti perchè, spesso, promotori erano 4) Nel Settecento nel settore agricolo si erano verificate trasformazioni fondamentali, non a caso quindi la dottrina economica più diffusa sarà la fisiocrazia i cui fondamenti, schematicamente, furono questi: la vera fonte della ricchezza e della produzione è la terra che, grazie all’attività agricola da’ all’uomo un prodotto nuovo, creato dal nulla. Per questa teoria l’industria e il commercio sono sterili, perché si limitano a trasformare ciò che già esiste. Per i fisiocratici, dunque, per agevolare l’espansione economica era necessario incrementare la produzione agricola. 5) Manomorta. La parola indica attualmente il patrimonio immobiliare degli enti civili o ecclesiastici, la cui esistenza è perpetua, e quindi beni restano immobilizzati, cioè morti. Sono sottratti dunque alla normale circolazione. Alcuni fanno risalire l’origine del vocabolo al fatto che questi enti sono simili alla mano di un morto che non lascia la presa dopo la morte, altri invece, ad una discutibile usanza feudale, secondo la quale ad un vassallo che moriva senza lasciare alcuna 200 stati proprio gli stessi pontefici, non per amore delle modernità, ma per desiderio di venire incontro alle necessità della popolazione. Da ricordare, a questo proposito, Clemente XIII, Carlo Rezzonico, che, dopo la carestia degli anni 1763-1764, una carestia che aveva colpito principalmente l’Italia centrale e quella meridionale, per accrescere la produzione agricola dello Stato, cercò di costringere i grandi signori a praticare la coltura intensiva; le sue buone intenzioni rimasero tali per l’inerzia e l’apatia dei latifondisti, ma già il semplice fatto che c’erano state era degno di essere annotato. E ancora: quando a Corneto si stava festeggiando, nel modo ricordato, la fondazione della “Societas Georgica Tarquiniensis”, era Pontefice, con il nome di Pio VI, il cardinale Giovanni Angelo Braschi, la cui opera più grandiosa nel campo temporale fu il prosciugamento delle Paludi Pontine. Un’opera questa che era stata vagheggiata già da altri pontefici, ma nessuno, prima di lui, vi si era dedicato con la stessa risolutezza. Per raggiungere il suo scopo e vedere quel terreno ritornare coltivabile, Papa Braschi in meno di dieci anni spese una cifra astronomica per quei tempi: un milione e mezzo di scudi d’oro. Peccato che l’opera non fu portata a termine. I contemporanei però furono colpiti dalla grandiosità di tale progetto e Vincenzo Monti la ritenne degna di essere cantata nella “Feroniade” 6) . Un papa quindi, Pio VI, propenso a seguire con benevolenza le iniziative atte a migliorare la situazione agricola. Quando il Gilii fonda la sua “Societas”, ha solo 28 anni, ma già, come detto, il suo nome gode di rispetto tra gli studiosi dello Stato Pontificio, e tale prestigio lo mantenne anche nelle molteplici vicissitudini che condizioneranno la vita politica di quello Stato, fino alla morte, avvenuta nel 1821. La sua dunque, fu una vita densa di soddisfazioni e di riconoscimenti. Eccelse nello studio della storia naturale, dedicandosi alla classificazione delle piante secondo la metodologia linneiana 7) anzi, su questa scrisse nel 1786 l’opera “Delineazione dei generi naturali a norma del Sistema Naturale di Linneo”, in due volumi. Impiantò anche un orto-botanico denominato “Vaticano-indico”, in una zona prossima alla Basilica di San Pietro. Secondo le testimonianze del tempo, numerose furono le piante esotiche da lui studiate. ricchezza, si tagliava la mano destra per portarla al suo signore, a testimonianza del fatto che non avrebbe più potuto servirlo. 6) “Feroniade”: poemetto di Vincenzo Monti, scritto per esaltare il prosciugamento delle paludi pontine iniziato da Pio VI. Narra gli amori di Giove per Feronia (la ninfa di Terracina). Amori che suscitano l’ira di Giunone che fa sì che i luoghi, dove viveva la ninfa, diventino malsani e paludosi. Giove preannuncia però a Feronia, che verrà un giorno in cui i suoi campi torneranno fecondi (epoca della bonifica). 7) Carlo von Linne’ (Linneo 1707-1778), naturalista svedese, fondatore della sistematica moderna e introduttore della nomenclatura binomica in botanica e zoologia. 201 Con grande cura, poi, fece degli erbari nei quali annotava, con precisione ed impegno, tutto quello che osservava o che era inerente alle piante in essi contenute. Queste sue osservazioni saranno pubblicate dal 1788 al 1790, nei tre volumi delle “Osservazioni filologiche sopra alcune piante esotiche introdotte in Roma”. Questa sua attività non poteva non portarlo a studiare i modi più idonei per migliorare l’agricoltura della sua città natale, un’agricoltura che ancora era strettamente legata ad una tecnica ancorata al passato. Filippo Luigi Gilii, dunque, abbracciava tutto il campo delle scienze e cercava di vedere in esse un rapporto, un legame che aiutasse a comprendere ed a giustificare fenomeni altrimenti difficilmente spiegabili. Un’attenzione tutta particolare, ad esempio, fu quella che dedicò ai fenomeni meteorologici visti in relazione alla loro influenza sulla botanica. Ma il cielo lo attirava anche per le sue manifestazioni più eclatanti: eclissi solari, eclissi lunari, comete ecc. ecc. 8) . La stima che godeva in questo campo è testimoniata dal fatto che il pontefice Pio VII, lo nominò direttore della Specola Vaticana, l’Osservatorio Vaticano, che era stato voluto da Gregorio XI, il riformatore del calendario 9) . Non sarà però questo il solo incarico chiamato a ricoprire e non sarà l’unico nel quale si metterà in luce per le opere da lui promosse. Nominato beneficiato della Basilica Vaticana, lascerà nella stesse testimonianza, ancora oggi riscontrabili, della sua azione. Quella che appare più facilmente agli occhi di tutti i visitatori della Basilica, interessa il pavimento della navata centrale, sul quale, per suo desiderio vennero scritte, a lettere dorate, le misure delle chiese più lunghe del mondo, oltre alle misure di San Pietro; ma senza dubbio quella che rese più sicuro il sacro tempio fu l’istallazione di un parafulmine sulla cupola dello stesso (il Gilii infatti aveva fatto approfonditi studi sugli esperimenti di Beniamino Franklin). Ma non fu solo questa Basilica ad avere da lui tale protezione. Nel Dizionario Biografico Universale si legge: “... Difese con parafulmini la Chiesa della Madonna degli 8) Gilii osservò le eclissi solari del 24 giugno 1797, del 17 agosto 1803, dell’11 febbraio 1804, del 16 giugno 1806 e del 29 novembre 1807; le eclissi lunari del 20 marzo 1801, del 22 luglio 1804, dell’11 luglio 1805, del 29 aprile 1809, del 2 settembre 1811, del 12 agosto 1813, del 21 giugno 1815 e del 21 aprile 1818; le comete visibili nel cielo dal 3 ottobre al 26 novembre 1801, e dall’8 settembre al 9 novembre 1811; i passaggi di Mercurio sul sole del 7 maggio 1799 e dell’8 novembre 1802. 9) Papa Gregorio XI ordinò la revisione del calendario. Soppresse dieci giorni dall’anno 1582 (dal 4 ottobre si passò subito al 15 ottobre), perché con il precedente calendario giuliano si era già dieci giorni in ritardo sulle stagioni. 202 Angeli presso Assisi, quella di San Giovanni de’ Fiorentini di Roma e la Basilica Vaticana, e qui fece opera veramente insigne ed ardita; anzitanto grande che fu giudicata temeraria; ma l’effetto ha provato con quanto senno fosse concetta ed eseguita, perocchè col mezzo di un solo conduttore isolò la grande cupola; e così alla più ardita opera di Michelangelo volle far difesa dal folgore con pari ardimento, acquistando una bella lode al nome suo. Quest’opera fu eseguita al tempo della commissione de’ cavalieri romani creata sotto il governo napoleonico”. E di una protezione simile la cupola aveva proprio bisogno, almeno a dare fede a quanto accaduto a Pio VI, avvenimento ricordato da Costantino Maes nelle “Curiosità Romane”: “...Un giorno festivo del mese di ottobre Pio VI usciva dal Museo Pio Clementino, ove erano giunti nuovi pezzi rarissimi inestimabili, dei quali altamente si era compiaciuto il Santo Padre, la cui inclinazione per le belle arti invece di illanguidirsi con gli anni, andava sempre in esso aumentando al grado di una violenta benchè lodevolissima passione. Scese, secondo il solito, in San Pietro. La giornata era delle più tempestose e spaventevoli: nell’atto appunto di mettersi in ginocchio dinanzi alla confessione un fulmine fece cadere un lastrone da una finestra della cupola. La vampa elettrica fu veduta scaricarsi poco discosto dalla persona del Pontefice, e il lastrone gli cadde davanti saltando in mille frantumi. I presenti nel tempio, vista la terribile fiamma, e sentito il colpo così a lui vicino, lo credettero ucciso. Sua Santità per altro diede prova di una serenità di spirito, che non si sarebbe aspettata. Non si sbigottì nè punto nè poco; confessò per altro di riconoscere come un prodigioso effetto la sua salvezza; attesochè, oltre la scossa ricevuta dallo scoppio del fulmine, i rottami e i pezzi di grossissimi materiali caduti arrivavano fino presso al cuscino su cui stava genuflesso. Non volle usare di veruna precauzione nè prendere bevanda d’acqua o di qualche liquore ristorativo, tornando lieto e imperterrito a Monte Cavallo, ossia al palazzo del Quirinale, come se niente fosse avvenuto; si contentò di dire al cardinale de Bernis, e tosto se ne diffuse la voce: Che considerata la tempesta che rumoreggiava contro l’Italia e contro Roma, comprendeva bene, che gl’impercrutabili eterni decreti esigevano da lui de’ sacrifizi forse di maggior costo della vita medesima”. La tempesta alla quale si riferiva Pio VI era quella della rivoluzione francese e dopo poco tempo da questo fatto l’albero della libertà e la bandiera della repubblica tiberina, si sarebbero alzati sulla piazza del Campidoglio, ma prima ci sarebbe stata l’uccisione a Roma di Bassville da parte del popolo romano, infuriato per le idee rivoluzionarie che Gregorio XI ridusse anche l’estensione media dell’anno. Il calendario gregoriano è talmente accurato che non avrà bisogno di essere modificato se non tra varie migliaia di anni. 203 professava 10) , e, subito dopo, la decapitazione di Luigi XVI a Parigi. In suffragio dell’infelice re di Francia, Pio VI celebrerà una messa pontificia per esprimere il suo cordoglio per quella esecuzione. Inutile dire che tutto ciò non piacque affatto al governo francese. Il Pontefice che si era salvato dal fulmine, concluderà la sua vita, prigioniero dei francesi nella fortezza di Valence il 29 agosto 1799. La sua salma prima venne deposta nel sotterraneo della cittadella di Valence, poi, dopo la conclusione del concordato tra Pio VII e Napoleone, fu trasferita a Roma per essere collocata nelle grotte Vaticane nel febbraio 1802 11) . ** ** ** ** In un periodo come la fine del settecento, in cui nascono tante associazioni, Filippo Luigi Gilii venne chiamato a partecipare ad un discreto numero di queste, infatti lo troviamo inserito tra i “Soci Agrari” di Torino 12) , tra i “Volsci” di Velletri, tra i “Georgofili” di Treja, tra gli “Apatisti” di Firenze 13) e gli “Ergo-geofili” di Foligno, tra gli “Arcadi” e gli “Aborigeni”, tra i soci della “Società Geografica” di Montecchio, e di quella “Italiana” di Pisa, ed anche della “Società dell’agricoltura e delle Manifatture” di Roma e della “Società di Scienze, Lettere e belle Arti” del Portico del Campidoglio. Sin dal 1 luglio del 1802, poi, era stato nominato membro ordinario dell’Accademia dei Lincei 14) . La creazione a Corneto di una “Societas Georgica” era stata accuratamente preparata dal Gilii e l’anno precedente alla sua inaugurazione, il 14 ottobre 1783, c’era stata già una riunione della quale Saverio Avolta, segretario della stessa, ha lasciato un fedele verbale; “Congregati e coadunati in casa Dasti a distanza del sig. Ab. Filippo Luigi Gilj da Corneto. L’Illmi SS.nri D. Ludocivo Can.co Chiocca - D. Giovanni Can.co Dasti - D. 10) Nicolas Jean Hugon de Bassville, diplomatico francese, segretario della Legazione di Napoli, in missione presso la Santa Sede (1793). La sua carrozza venne presa a sassate dal popolo romano, infuriato per le sue manifestazioni rivoluzionarie; raggiunto, mentre i suoi compagni si mettevano in salvo, fu colpito da un ignoto popolano con una pugnalata al ventre, per cui morì il giorno dopo. L’episodio ispirò al Monti la “Bassvilliana”, un’opera fortemente reazionaria, in cui l’autore immagina che l’anima di Bassville sia condannata nell’aldilà a contemplare gli orrori del regime rivoluzionario e in particolare la decapitazione di Luigi XVI. 11) La statua di Pio VI, ultima opera di Antonio Canova (1822), rappresenta il Pontefice in ginocchio e si dice che sia stata fatta dallo scultore in quell’atteggiamento proprio per volere della casa Braschi, in quanto doveva ricordare quello in cui Pio Vi si trovava nel momento della caduta del fulmine. 12) Fondata a Torino con decreto di Vittorio Amedeo III il 24 maggio 1785. Il suo scopo fu quello di promuovere la migliore coltivazione dei terreni e di diffondere la conoscenza, nelle campagne, delle nuove tecniche e dei nuovi strumenti, e di studiare i problemi relativi all’agricoltura onde poter proporre al sovrano riforme mirate. 13) L’Accademia Apatista fu fondata a Firenze nel 1631. 14) Fondata a Roma nel 1603 da Federico Cesi l’incremento e lo studio delle scienze naturali, matematiche e filosofiche. Aveva come simbolo la lince con allusione alla vista acutissima, indispensabile per la ricerca scientifica. Spentasi nel 1630, rinacque nel 1801 e assunse nel 1847, per volere di Pio IX, la denominazione di Pontificia Accademia dei Nuovi Lincei. 204 Giuseppe Alessi - Federico Avolta - Saverio Avolta - Paolo Nardeschi - Vincenzo Garrigos, e Dr. Pietro Bernardini, fu alli medesimi riferito dallo stesso Sig. Ab. Gilj, come Egli, animato dall’amor della patria, erasi determinato, e voleva stabilire in Corneto un’Accademia Scientifica, che avesse avuto per principale oggetto l’Agricoltura, senza escludere le altre facoltà per sè medesime di ornamento, o utili, o necessarie, sotto i felici Auspicj del Regnante Sommo Pontefice PP. Pio VI e sotto la valevole protezione di S.E.R. Mons. Giuseppe Garampi Nunzio Ap.lico in Vienna e Vescovo vigilantissimo di questa Città di Corneto e Montefiascone. E siccome una tale proposta, riscosse meritatamente l’applauso universale dei Congregati suddetti, perciò di unanime Consenso fu risoluto di intitolare la nascente Accademia, si’ per l’oggetto principale, e proprio di un Terreno assai fertile, sì ancora per l’antica Città di Tarquinia di cui si osservano tutt’ora non molto lungi da Corneto gli Avanzi “Societas Georgica Tarquiniensis” sotto l’Insegna dell’Aratro Etrusco da copiarsi diligentemente dal Museo del Gori. Inoltre il sudd.o Sig.r Ab. Gilj lesse ad ognuno dei congregati suddetti le Leggi da osservarsi inviolabilmente da tutto il ceto Accademico, ed a norma delle medesime essendo state accettate si passò concordamente alla Distribuzione delle Cariche per il buon regolamento di questa nascente Accademia nella maniera come appresso, cioè: Istitutore, Sig. Ab. e Filippo Luigi Gilj Presidente, Sig. D. Giuseppe Alessi Assessore, Sig. D. Luigi Dasti Censore, Sig. Domenico Avolta Segretario, Sig. Saverio Avolta Bibliotecario e Custode del Museo Sig. Can.co D. Giovanni Dasti Sotto Bibliotecario e Sotto Custode del Museo Sig. Federico Avolta Bidello, Sig. Agostino Ercolani E siccome si tratta di Accademia nascente, fu perciò rimessa ad altra opportuna occasione l’Elezione dell’Intendente e Custode del Campo pubblico e del Depositario della Cassa Economica. In terzo luogo per rendere più numerosa l’Accademia sudd.ta, si passò all’Aggregazione di molte altre Persone, tanto Cornetane, che Forastiere conforme al paragrafo 9 delle Leggi sopra descritte. Furono intitolate le prime Soci Nazionali e le seconde Soci corrispondenti come ben può vedersi nel Registro delle medesime. Quindi in conformità delli paragrafi 3 e 10 delle med.e Leggi si passò dalli SS.ri Presidente e Censore a fissare i Giorni delle Adunanze Accademiche che furono appunto i 205 seguenti, cioè Li 17 Ottobre del prossimo futuro anno 1784, giorno destinato all’apertura di d.a. nuova Accademia e stabilito alla pubblicazione degli enunciati ufficiali ed alla dispensazione delle Patenti ai respettivi Aggregati Accademici: L’ultima Festa del Santo Natale - L’ultima Domenica di Carnevale - La quarta domenica dopo Pasqua - Il Giorno di San Pietro Apostolo - San Secondiano M. Protettore principale di Corneto, e della presente Accademia. il Lunedì della Fiera. E nel rid.o Giorno di Ottobre, quanto l’altra dell’ultima Domenica di Carnevale devono esser pubbliche, e le rimanenti private in conformità dell’enunciato paragrafo 10 che ordina due Accademie pubbliche. Fu risoluto ancora che detta Apertura debba farsi in Lode del regnante Sommo Pontefice PP. Pio Vi attesa la ben fondata speranza del Sig. Istitutore che il prelodato Pontefice sia per accettare il sostegno della stessa Accademia in ogni sua inaspettata indigenza. E siccome in detto paragrafo 10 si ordina ancora l’annuale Estrazione di otto Socj per otto respettive Dissertazioni, da recitarsi nell’Anno, vale a dire nelle 8 destinate sessioni in conformità dell’enunciato Paragrafo, perciò detta Estrazione fu concordemente rimessa al giorno della prima Apertura, in cui si darà principio all’Epoca della nascente Accademia. - Saverio Avolta, Segretario 15) C’erano già, dunque, tutte le basi per la nuova associazione, ma importante era per il Gilii anche il consenso del Vescovo di Corneto e Nunzio Apostolico a Vienna, eccellenza mons. Giuseppe Garampi. Era bene metterlo al corrente della cosa nel modo migliore. Le parole che scrive Gilii nella lettera del 27 luglio 1784, sono volte proprio ad attirare ed accattivarsi la benevolenza dell’alto prelato. Dopo aver puntualizzato l’importanza e l’utilità per una città di avere delle “persone consacrate allo studio delle belle arti e delle scienze”, e la dottrina e “penetrazione di spirito” del Garampi, Gilii prosegue così: “...come Pastore vigilantissimo, onorato dal Cielo di tutte quelle prerogative, che l’Apostolo delle genti vuole compagne indivisibili del vostro sublime carattere, avrete piacere, che animato io dall’amor della Patria siami determinato di stabilire in Corneto, un’Accademia Scientifica, che abbia per principale oggetto l’Agricoltura, e non isdegni di ammettere insieme altre facoltà per se medesime o di ornamento, o utili, o necessarie” 16) . Nella lettera, poi il Gilii seguita spiegando anche come ha preparato la nascita ufficiale dell’accademia: “.... Sembrava, non lo dissimulo, a miei compatriotti ardua, e difficile a primo aspetto simile impresa. Ma la scelta di persone idonee, ch’io feci l’anno 15) Da “La Società Georgica Tarquiniese” - fondata in Corneto il 17 ottobre 1784 da mons. Filippo Luigi Gilii cornetano - pag. 5 e segg. 16) Id. pag. 8. 206 scorso di Ottobre cola’ portatomi a bella posta, la distribuzione degli Uffizj proporzionati alla capacità di ciascuno, lo stabilimento di alcune Leggi da osservarsi inviolabilmente, soprattutto però il comune desiderio di concorrere in parte alle premure d’un Prelato presso i dotti meritatamente accreditato nella letteratura, fu quello stimolo, che dando animo, e coraggio fe’ svanire qualunque difficoltà. Si è pertanto d’unanime consenso risoluto d’intitolare la nascente Accademia si’ per l’oggetto principale, proprio d’un terreno assai fertile, si’ per l’antica Città Tarquinia, di cui si osservano tuttora non molto lunghi da Corneto gli avanzi, Societas Georgica Tarquiniensis ed avrà per insegna l’Aratro degli Etruschi copiato diligentemente dal Museo del Gori, che ho già fatto incidere in Rame. Resta solo che si degni l’Eccellenza Vostra R.ma gradire questo nostro qualunque siasi letterario impegno: ci permetta di decorare la nostra Società col nome, e protezione della Sua persona si’ rispettabile, non men per Noi, che per la Repubblica delle scienze: e voglia in fine colla Pastorale benedizione felicitar per sempre le nostre premure e fatiche; con che pieno del dovuto ossequio, e profonda venerazione ho l’onore di essere. Dell’Ecc.za V.ra R.ma Umiliss. Dev.mo Serv. Filippo Luigi Gilii 16) . Inutile dire che la risposta del vescovo Garampi è più che positiva: “... Non potevo provare consolazione maggiore quanta nel ricevere gli Stimatissimi Carateri di V.S. Ill.ma. Mi è gratissima la riunione di persone che vogliono consacrarsi al ben pubblico della Città di Corneto: e combinate tutte le circostanze, niuna ve n’ha per mio avviso più interessante, e insieme più eseguibile, quanto l’ulteriore promozione dell’Agricoltura o di altre arti relative alla causa pubblica, specialmente se s’intraprenda da persone, le quali siano animate da vero zelo per la Società, e che insieme siano istrutte dei talenti, e delle scientifiche cognizioni necessarie a tal’uopo... Come Pastore Spirituale della Chiesa mi faccio un debito di promuovere tutto ciò, che può contribuire a sollevare l’indigenza del Popolo: e fra tutte le opere di cristiana carità quelle sempre preferisco le quali tendano a un sollievo universale a tutte le altre, che sogliono esercitarsi verso l’uno o l’altro, o anche molti individui in particolare” 17) . E’ proprio il vescovo, poi, nel prosieguo della lettera, a parlare del modo in cui ancora veniva vista l’agricoltura dai più: “... Nelle nazioni Straniere un tale studio viene con 16) Id. pag. 8 207 assai maggiore diligenza, e apparecchio di scienza trattato, che presso di Noi, dove il Volgo lo reputa, non come Scienza, ma come esercizio meccanico di Fattori di campagna. Ma tutte le dette Nazioni ne hanno ben’altra idea e ne hanno riportati i più copiosi e validi effetti. Non dico già che tutto quello che si pratica utilmente altrove, possa convenire egualmente a Noi, nè avere gli stessi effetti. Le diversità del Clima, dei Terreni, e di più altre circostanze, esigono mature considerazioni: ma importa appunto al ben pubblico, che sienvi in ogni luogo fervorosi Cittadini, i quali prendano compiuta cognizione dell’osservazione fattesi altrove, le esamino, le esperimentino, e le riducano infine alla Utilità patria. Quantunque io sia in vero fuori del caso di poter dare in ciò lumi opportuni, non avendo mai coltivata una tale Scienza, nondimeno ho sempre avuta grandissima opinione della necessità ed utilità Sua; ed ora il Ministero mio pastorale me ne risveglia per i motivi sopraenunciati ogni più fervido impegno. Quindi per vieppiù promuovere lo Studio, e gli effetti, sono anche pronto a concorvi con Stabilire a tempo e luogo dei premj; onde venga così animato vieppiù il Pubblico, e in specie l’indocile Agricoltura a megliorare le sue Iperazioni, e attenzioni, giusta le Riflessioni e l’esperienza, che la nuova Società sarà loro per indicare...” 17) . Era anche importante però, che il giorno dell’inaugurazione della “Societas”, fossero presenti tutti i soci di un certo livello. Per questo il loro invito doveva essere articolato in modo da non poter essere dimenticato. Ecco, ad esempio, quello fatto in distici latini, al socio Ab. Luigi Riccomanni, che oltre ad essere un valido letterato, era anche Principe dell’Accademia dei Georgofili di Montecchio. Agli occhi di noi moderni risulta un po' retorico ed ampolloso, ma era proprio quello che ci voleva per quel tempo. “O nostros inter, Princeps memorande, Sodales, Inclita Romulei fama decusque soli. Eje meum, quaeso, propere Te transfer in hortum Nec pigeat patriis cedere limitibus. Hic varios cernes positos ex ordine flores, Hic arbusta Tibi mitia poma dabunt. Hic Tibi populea vitare licebit in umbra Phobeos aestus ignivomumque Canem. Hic Zephyri spirant molles per amoena vireta 17) 17) Id. pag. 10. Id. pag. 10. 208 Irrigat et plantas, garrula fontis aqua 18) . (“O Principe illustre tra i nostro soci/ O inclita fama e decoro del suolo romuleo / Orsù di grazia trasferisciti presto nel mio orto / Ne’ ti rincresca passare i confini patrii / Qui vedrai i vari fiori posti in ordine / Qui gli alberi ti daranno dolci pomi. / Qui ti sarà lecito evitare all’ombra dei pioppi / I calori febei e dell’infocata costellazione del Cane. / Qui i leggeri zeffiri soffiano per gli ameni verdi / e la garrula acqua della fonte irriga anche le piante”). Ad un invito simile non si poteva dire di no, e quindi, quel fatidico 17 ottobre del 1784, anche lui era presente ed ascoltò la dotta prefazione accademica tenuta dallo stesso mons. Filippo Luigi Gilii, agli intervenuti. Una prefazione che vale la pena di ricordare, in quanto vi sono espresse le finalità e l’impostazione dell’Accademia, oltre a riflessioni su come veniva concepita l’attività agricola in quel tempo, non tralasciando riferimenti alle altre nazioni europee. Vi si nota inoltre la sua preparazione nel campo della veterinaria. Prefazione di Mons. Filippo Luigi Gilii Crederei di farvi un torto, riveriti Accademici, se in questa mia breve allocuzione, che non è se un semplice preliminare ai varj Eruditi componimenti, che dan principio quest’oggi alla nostra Georgica Società, mi accingessi ad esporre i vantaggi, che da un ceto di Persone consacrate allo studio sono per derivare alla Patria, qualora risguardando Esse come per primo, e più interessante oggetto, il ben pubblico, conspirino col valore e coll’ingegno ad assicurarlo, ed accrescerlo. In un secolo quale è questo, sì illuminato, non v’è persona che di ciò non sia abbastanza persuasa; nè voi certamente dotati d’un ottimo discernimento, vi darete a credere, che lo Stabilimento di questa Nuova Accademia, fondato sia piuttosto sù debole, e momentanea idea di giovanile fervore, che sù matura e stabile riflessione di chi debitore a questa Città de’ suoi Natali ne ha per gratitudine concepiti e determinati i vantaggi. Che ciò sia vero, piena fede ne fanno i Popoli dell’Inghilterra, della Francia, e quante altre colte Nazioni vantar può oltre i Monti la nostra Europa, le quali riconoscono l’estenzione mirabile de’ proprj dominii da quelle scientifiche Accademie, che nei loro principii non furono dissimili dalla nostra, ma a guisa di piccol Ruscello, che vieppiù ingrossando degenera finalmente in rapidissimo Fiume, 18) Id. pag. 12. 209 giunsero poi a quei stupendi e maravigliosi progressi, che oggi giorno ammiriamo. L’Italia stessa facendo eco alle voci delle estere Nazioni potrà darci conto di quanto siano debitori i suoi Popoli alle Adunanze in varie parti erette, per l’accrescimento e del commercio o dell’Agricoltura, o delle manifatture ad insinuazione di queste introdotte. Tale ancora sarà il Frutto della nostra Goergica Società, se voi, generosi Concittadini, deposto ogni timore, e superata qualunque difficoltà sia per nascervi in mente al nome di Scientifica Accademia, vestirete quel forte, ed invincibile impegno che io provo di giovare alla Patria, impiegherete in prò di essa la nostra opera, e di buon grado accompagnerete alle mie, qualunque Esse sieno, le utili vostre fatiche. Appena insorse in me l’idea di stabilire questa nuova Accademia che subito ebbi di mira un qualche utile oggetto. Stabilii perciò di appigliarmi all’Agricoltura, come cosa, secondo me, più al proposito attesa la fertilità dell’Agro Cornetano, e come cosa che andata quasi in decadenza, ha bisogno di risorgere di nuovo per poter emulare con quei tempi ne’ quali soprammodo fioriva. Quai vantaggi non ritraeva dall’Agricoltura l’antica Romana Repubblica, allorchè le più ragguardevoli persone, e gli stessi Consoli, non isdegnavano di dedicarvisi, e d’incallire le proprie mani a guisa de’ nostri concittadini col continuo adoperar l’aratro, e gli altri rurali strumenti inventati fin dai primi tempi per rivolgere, e disporre il terreno destinato alla coltivazione d’ogni sorta di vegetali. Ma tosto mancò quest’utile alla Repubblica, allorchè introdottosi in questa il lusso, e l’idea di signoreggiare, furono abbandonati i Campi, e deposte le Agrarie cure. Queste adunque devono esser l’oggetto delle nostre sperienze, ed osservazioni, ad essa principalmente devono consecrarsi le nostre industrie, e fatiche, e a ciò fare con genio, ed impegno siamo oltre modo animati dal sempre ambabile nostro sovrano, il Sommo Pastore, e visibil Capo di Santa Chiesa, Pio VI che ad una mente ben vasta, accoppiando insieme un gran Cuore non chè meditare il bene de’ Suoi Sudditi, ne cerca, e promuove i mezzi, e però vi esorto a dar mano, ed applicarvi indefessamente alla cultura, bonificazione, ed aumento de’ vostri Terreni. Quando però si tratta d’Agricoltura non dee essere questa ristretta in quei limiti angusti di essere intenti alla coltivazione delle solite comuni semenze. Tante altre ancor ve ne sono assai utili, ben conosciute da altre Nazioni, e che posson pur quivi introdursi. Non dico già (servendomi delle parole stesse del chiarissimo Mons: Garampi Nunzio Apostolico in Vienna, e Pastore vigilantissimo di questa nostra Città) Non dico già che tutto quello che si pratica utilmente altrove, possa convenire egualmente a Noi, nè avere gli stessi effetti. Le diversità del clima, dei terreni, e di più altre circostanze esiggono mature considerazioni: ma importa appunto al ben pubblico, che sienvi in ogni luogo fervorosi 210 Cittadini, i quali prendono compiuta cognizione delle osservazioni fattevi altrove, le esaminino, le esperimentino, e le riducano infine all’utilità Patria. Vi sono ben note le premure di questo insigne Prelato, e nostro ragguardevolissimo Protettore per una lettere a me diretta sotto il dì 12. Agosto in riposta di altra mia de’ 27. Luglio che non ho mancato di fedelmente comunicarvi. Ed ancora questo dee servirvi di stimolo per intraprendere coraggiosamente la carriera delle rustiche nostre osservazioni. La Veterinaria è ancor Essa una parte che vi esorto a non distruggere. Risguarda come Voi ben sapete, le malattie de’ Bestiami, generi estremamente necessari per l’Agricoltura. Si veggon questi ogni anno mancare con rincrescimento de’ proprietarj, senza che vi si presti un’opportuno riparo; e questo sarà un’altro non piccol vantaggio per il publico Cornetano, che perciò osservando gli Agricoltori quei segni che potranno rinvenire nella mortalità dei Bestiami, potranno tosto riferirli all’Accademia, o lasciare il carico ai Socj di esaminare se ciò provenga o dalle acque che beono, o dai pascoli, o da altre cause estrinseche, con ripeter quindi da Essi quei necessarj provvedimenti che si saranno giudicati opportuni da tutta quella parte del ceto Accademico che sù tal facoltà averà il diritto di ragionare. Quanti Armenti, e Greggie veggonsi nelle nostre campagne talvolta perire alla giornata che non più, che il di innanzi vedeansi tardi al moto per la pinguedine. Credesi ordinariamente questo un’effetto epidemico, o che dall’uno all’altro passi quest’istesso malore; Ma il fatto si è che il più delle volte è un mero abbaglio. Chi potrà contradirmi se io dico che in quel dato pascolare assegnato ai proprj Bestiami vi possono essere dell’erbe, tra le altre che ivi nascono per essi venifiche, e produttrici di morte allorché mangiate. E perchè se effetto fosse di una vera epidemia soltanto a questo, e non a quell’altro Agricoltore dee accadere simil disgrazia, che non lungi da quello, tiene ancor Esso a pascolare i suoi Bestiami? Non v’è a mio credere, persona che versata alcun poco nella Storia Naturale, o almeno in una fondata prattica della Campagna, non sappia che moltissime piante che trovansi in un dato pezzo di terreno, non veggonsi punto in un’altro da quello non molto lungi, per la qualità principalmente della Terra affatto l’una dall’altra differente, e che non egualmente in tutte due alligna, e può vivere quella stessa Pianta. Chi potrà pur negarmi, che specialmente nella fervida stagione d’estate abbeverati gli Armenti o nei fossi sparsi per le Campagne, o in altri luoghi di Acque perenni no sien quest’acque da Essi sorbite capaci di apportargli la morte, perchè pregne di minerali sostanze non confacenti alla loro costituzione? Questo peraltro è un’inconveniente che almeno in gran parte doverà mancare qualora voi gentilissimi Accademici sarete per fare con occhio veramente da Fisico le predette osservazioni. Nè dovete voi giudicare tanto difficile quest’impresa, e quasi impossibile a conseguirsi, fissati sulla frivola ragione di non esservi 211 mai dedicati a simili studj. Quante cose uno nei tempi andati non ha fatto, e venuto poi il momento di doverle fare, benissimo vi è riuscito, e grandissimi encomj ne ha riportato dal pubblico letterato, per esservisi occupato con tutto quell’impegno, e con tutto quello zelo, che è proprio d’una persona assenata cui sia principalmente a cuore la propria stima. Ecco adunque miei Signori qual’esser deve il principale scopo della nostra Accademia, che perciò col nome di Georgica ad immitazione di alcune altre che ve ne sono, ci è piaciuto chiamarla. Io intanto potò dirmi fortunato, se vedro da voi eseguita con impegno quell’idea da me concepita a prò della Patria, e Voi felici, se dalle vostre letterarie occupazioni vedrete in questa prodotti quei vantaggi, che è nostro assoluto impegno diconseguire 19) . Il modo in cui si svolse l’inaugurazione della “Societas Georgica Tarquiniensis”, fu adeguato all’importanza che si dava a tale associazione, e non c’è nulla di meglio per seguirne i vari momenti che leggere il “Breve Ragguaglio” che lo stesso Gilii fece “sull’Apertura della nuova Accademia dei Georgofili” al Pontefice Pio VI, nominato protettore della stessa: Breve ragguaglio del Gilii sull’Apertura della nuova Accademia dei Georgofili fatta il 17 Ottobre 1784 in Corneto sotto gli Auspici di S.S. Papa Pio Sesto. ALLA SANTITA’ DI NOSTRO SIGNORE PIO PAPA SESTO FELICEMENTEREGANTE Filippo Luigi Gilii Il dovere, e la gratitudine di un suddito risguardato dal suo Principe con occhi di singolare clemenza, esigon da me, Beatissimo Padre, che prostrato a’ piedi della Santità Vostra, umile vi presenti un breve, e succinto ragguaglio dell’apertura, che si fece in Corneto nel dì 17. di Ottobre p.p. della nuova Accademia da me istituita col nome di Società Georgica Tarquiniense, dopo che Voi colla solita Vostra connaturale bontà vi degnaste accettarne la dedica Offerta invero assai tenue, se ponesi mente a quella Sovrana 19) Id. pag. 12 e segg. 212 Maestà che vi circonda; ma non disgradevole ad un magnanimo cuore accompagnato da uno spirito sublime, che da principj sebbene angusti argomentando progressi mirabili, ha voluto approvare un’impegno nascente, da cui molto promettesi il pubblico bene e vantaggio. Giunto io la mattina dei 15, in Corneto impiegai quel giorno e il susseguente insime coll’abate Luigi Riccomanni a prepare e disporre quanto stimai necessario all’imminente funzione, e feci inoltre varie utili ricerche, ed osservazioni, che a suo tempo, e luogo avro l’onore di comunicare ed a voce, ed in iscritto alla Sanità Vostra, qualora si degni accordarmelo. Ai 17. prima di dar principio ad un’Adunanza, ch’alle sole persone intelligenti riuscir possa di soddisfazione, di gusto, e di tripudio, perchè gli altri ancora coi loro evviva celebrar potessero nel modo suo un giorno sì lieto, volli premetere un’esperienze fisica, che riuscì felicissima, e di piacere universale. In questa l’esperienza del Globo Aerostatico non ancora veduta in Corneto, esperienza dall’occhio de’ Fisici mirata diversamente, che da quello del volgo, esperienza di cui vantano giustamente la riproduzione i popoli della Francia. La virtù di sollevare sulla nostra Atmosfera i corpi per se stessi gravi, o sottraendo dai medesimi l’azione del fuoco quell’aria che in se contengono o introducendo in essi una data quantità di aria flogistica che gli renda specificamente più leggieri del nostro comune elemento, siccome fu sempre lo scopo di curiosità cui collimarono gli studj di tante Nazione, così mi diedi a credere, che ne’ miei Concittadini ancora si nudrisse la brama di vederne gli effetti. Che però in un prato situato a sinistra fuori la porta così detta Clementina, si portò felicemente in alto un globo di carta rasata, il cui diametro era di sei piedi parigini, e di sei piedi e sei pollici l’altezza. Dopo questo spettacolo ritornato in città mi portai cogli Accademici nella Sala del Palazzo Serlupi, che in difetto di una propria ci fu da questa nobilissima Casa gentilmente accordata. Era quella ben parata, ed illuminata a placche: sotto un baldacchino era collocato il ritratto della Sanità Vostra, ed intervenuto il Magistrato, il Vicario generale, ed oltre a primarj Cittadini, un’immensa moltitudine di popolo, si diè finalmente principio alla lettura di varj eruditi componimenti. Prima però stimai un mio preciso dovere quale Istitutore di quell’Accademia esortare con un breve preliminare discorso i Membri della Società a procurarsi collo studio e coll’impegno l’acquisto di quelle cognizioni, che risguardano l’Agricoltura, la Veterinaria, e il miglioramento del Clima, come principale oggetto delle nostre cure, e fatiche; partecipando poi loro in appresso un foglio di Mons. Garampi, da cui potessero facilmente 213 dedurre il genio grande di questo nostro vigilantissimo Pastore per gli studj, e per gli amatori di essi, se sono singolarmente diretti, e consecrati ai sodi vantaggi del suo amatissimo gregge. Fu di poi recitata una memoria istorica sulla Città di Corneto, composta dal chiarissimo nostro Accademico P. Lettor Flaminio da Latera minore Osservante; e con pari erudizione recitò l’abate Riccomanni una dissertazione sull’aria maremmana di Corneto, rilevandone la qualità, ed assegnando i rimedj per migliorarla, con evitare gli abusi introdotti o mettere riparo a certi inconvenienti, che stimati da poco con riprensibile indolenza si trascurano. Dopo queste prime Composizioni altre ne vennero ed in prosa, ed in verso, ed italiane e latine, per la maggior parte in encomio di Vostra Beatitudine, cui devonsi giustamente, come a nostro Sovrano, e Padre amantissimo, argomenti di amore, ringraziamento, ed omaggio. Resta ora, Beatissimo Padre, che vi degniate di continuarsi la Vostra Clemenza, affinchè sotto quegli stessi Augustissimi Auspici, all’ombra dei quali abbiamo incominciato, ci sia lecito felicemente proseguire le nostre qualunque sieno fatiche, e genuflesso al Trono imploro la Vostra Apostolica Benedizione 20) . Dopo tanto parlare di questa inaugurazione, è più che lecita una certa curiosità sul programma e su coloro che ebbero l’onore e l’onere di trattare i vari punti stabiliti: Si cominciò con una “Memoria storica sulla Città di Corneto” del P. Lettore Flaminio da Latera Min. Oss., e si seguitò con una “Dissertazione sull’area maremmana di Corneto”, letta dall’ab. Luigi Riccomanni, e poi un Carmen di D. Michele Reboa, un’Egloga dell’Ab. Antonio Mariotti Romano Benf.o della Basilica Vat.a ed uno dei sotto Custodi di Arcadia, quindi un Idilio di Gioacchino Pizzi Custode G.le di Arcadia, un Capitolo del dottore Filippo Pellegrini e infine cinque Sonetti dell’Ab. Gaetano Golt Romano Arcade, ed uno dei Bussolanti di N.S. ed ancora altri Sonetti di Domenico Avvolta, del canonico D. Filippo Querciola, di Giuseppe Petroselli, dell’Ab. Perugini Parr. di S. Pancrazio, dell’Ab. Giuseppe Alessi ed anche del P. Bernardino da Lucca Min. Oss., e poi ancora altre poesie latine di cui però non sappiamo l’autore. ** ** ** 20) Id. pag. 18 e segg. 214 L’elenco dei soci dell’Accademia Tarquiniense annoverava sia cornetani che “esterni”, tutti uniti dall’interesse verso gli studi e verso le innovazioni di cui il secolo non era avaro. Proprio per questa loro apertura mentale, è bene ricordarli: Elenco dei Georgofili Tarquiniesi 21) 1. Alessi D. Giuseppe. 2. Avvolta Domenico. 3. Avvolta Federico. 4. Bartolozzi Pietro. 5. Bernardini D. Pietro. 6. Bianchi Secondo. 7. Bovi Cañco Ferdinando. 8. Bustelli Antonio. 9. Chiocca Cañco D. Ludovico. 10. Da Latera P. Luigi Flaminio Min: Oss: 11. Dasti Cañco D. Giovanni. 12. Dasti ab. Agapito. 13. Dasti ab. Settimio. 14. Donati D. Luigi. 15. Erasmi ab. Gasparo. 16. Falzacappa Antonio. 17. Falzacappa Luca. 18. Gilii Filippo Luigi, fondatore dei Georgofili. 19. Garrigos Vincenzo. 20. Iacquier P. Francesco de’ Minimi. 21. Momacchi P. Tommaso. 22. Maestri Michelangelo. 23. Nardeschi Paolo. 24. Paluzzi D. Lorenzo Prevosto. 25. Perugini D. Giovanni Curato. 26. Petrosellini D. Giuseppe. 27. Quaglia D. Agostino. 21) Id. pag. 23 215 28. Querciola Cañco D. Filippo. 29. Ronca Ab. Gio: Antonio. 30. Riccomanni Ab. Luigi. 31. Sacchetti Marchese Scipione. 32. S.E. il Sig.r Senator Clemente. Soci Corrispondenti 1. De Rossi Mons. Dom.co Istitutore dei Georgofili di Foligno. 2. Lettieri D.r Natale Medico primario in Napoli. 3. Lapi D.r. Girolamo Medico in Roma. 4. Scappini Ab. Vincenzo Cornetano. Sembrava dunque che tutto fosse favorevole ad una produttiva vita di studi e di sperimentazioni, ma nella realtà non fu così. Sembrò, all’improvviso, che tutto congiurasse contro l’Accademia. Gli sconvolgimenti politici e sociali, che interessarono la vita di tutta l’Europa e dell’Italia, la ventata rivoluzionaria prima e quella napoleonica poi, alle quali seguì la restaurazione, fecero sì che dell’accademia cornetana, che aveva scelto come suo emblema l’aratore etrusco, quasi a simboleggiare la continuità dell’attività primaria dell’uomo, attraverso i secoli, poco alla volta si perdesse anche il ricordo. Il Gilii, però, seguito i suoi studi ed ancora oggi alcune delle opere da lui volute, quali le meridiane presenti nel Vaticano, la più grande delle quali è quella di piazza San Pietro, che si trova a destra di chi guarda la basilica, ed è formata dalla linea di granito che parte dall’obelisco (che funge da gnomone) e oltrepassa la fontana, oppure quella di Santa Maria degli Angeli a Roma, sono ammirate anche da chi le osserva solo dal lato turistico, senza rendersi conto degli studi e delle conoscenze tecniche necessarie per realizzarle. Anche se, con il passare del tempo, alcune delle idee del Gilii sono state inevitabilmente superate dal progresso scientifico, pur tuttavia lo studioso cornetano resterà sempre come un punto di riferimento ben preciso nel mondo scientifico del suo tempo. La morte lo colse 65 anni, il 15 maggio 1821, a seguito di un colpo apoplettico. Il suo corpo venne tumulato nella tomba di famiglia nella Chiesa dell’Aracoeli, e a suo ricordo venne posta una lapide nella quale vengono presentati tutti i suoi meriti: 216 MEMORIAE. ET. QUIETI PHILIPPI. ALOISI. LVCIDONII. F. GILII ORTV. CORNETANI. PATRIA. NVRSINI A. CVBICVLO. EXTRA. AEDIUM. PENETRALIA SS. D.N. PII. VII. P.M. GREGORIANAE. TVRRIS. AD. ASTRA. SPECVLANDA CVRATORIS BENEFICIARII. BASILICAE. VATICANAE QVAM. MIRO. ARTIFICIO. ADVERSVS. FVLMINVM. ICTVS CVSPIDIBVS. FRANKLINIANIS. CIRCUM. VNDIQUE. COMMVNIVIT ET. IN. CVIVS. AREA. MERIDIANAM. DELINEAVIT QVI MVSEVM. HISTORIAE. NATVRALIS BIBLIOTHECAE. LANCISIANAE. DONO. DEDIT ATQVE. ARTIS. HERBARIAE. ET. ORNITHOLOGIAE PERITIA. INSIGNIS SCRIPTIS. POSTERITATI. MANDATIS. INCLARVIT VIR. MITISSIMI. INGENII. MODESTIAE. SINGVLARIS PIVS. VIXIT. ANN. LXV. DECESSIT. APOPLEXI. CORREPTVS IDIBVS. MAII. ANNO. CIC IC CCC XXI AGATHA. BALZARIA. EX. TESTAMENTO. HERES PATRONO. BENEFICENTISSIMO TITVLVM. CVM. LACRIMIS. POSVIT. __________ SIDERA PER VITAE STVDIVM CVRA FVERE SIDERA IAM SEMPER IVRE PHILIPPE COLES CIVE NOVO O SVPERI MERITO GAVDETE RECEPTO NAM DATVS HIC BREVIA IN TEMPORA VESTER ERAT. __________ Per avere poi un’idea più precisa della quantità e della qualità degli studi da lui affrontati, ecco di seguito l’elenco delle sue opere così come sono riportate da Giuseppe Lais in “Memorie e scritti di mons. Filippo Luigi Gilii, direttore della Specola Vaticana ed insigne naturalista del secolo XVIII”. LILIA GRAZIA TIBERI OPERE A STAMPA 217 1. Dissertazione sulle macchine igrometriche An. 1775, in 12 Roma. 2. Agri Romani historia naturalis tres in partes divisa, sive methodica synopsis naturalium rerum in Agro Romano existentium. Pars 1ª Regnum Animale. Tom. I. Ornithologia, in qua de priori avium classe . . . . An. 1721, in 8 Roma. 3. Memoria fisica sopra il fulmine caduto in Roma sulla casa dei PP. Filippini di S. Maria in Vallicella, detta comunemente la Chiesa Nuova il dì 26 Nov. 1781. An. 1782 in 8 Roma. 4. Fisiogenografia, ossia delineazione dei generi naturali divisi in sei classi . . . . . . Tom. 2, an. 1785, in -8 Roma. 5. Dissertazione fisico-storica sui terremoti di Piediluco, accaduti nell’Ottobre 1785 ...... An. 1786, in -8 Roma. 6. Osservazioni fitologiche sopra alcune piante esotiche introdotte in Roma (1788) (1789) (1790). Vol. 3, an. 1789, in -4 Roma. 7. Breve ragionamento sopra il conduttore elettrico innalzato per ordine di N.S. Pio VI sulla Basilica di S. Maria degli Angeli di Assisi . . . . . .. . . . An. 1793, in -8 Roma. 8. Memoria sul regolamento dell’orologio italiano colla meridiana . . . . . . . . . An. 1805, in 8 Roma. 9. Risultati delle osservazioni meteorologiche fatte nell’anno 1805, 1806, 1807, 1808. 10. Architettura della basilica di S. Pietro in Vaticano opera di Bramante Lazzari, Michelangelo Buonarroti ed altri celebri architetti espressi in XXXII tavole da Martino Ferraboschi con una succinta dichiarazione compilata da Filippo Gilii. An. 1812, in-fol Roma (Quest’opera eseguita a spese del Governo Francese è ricordata dal Brunet nel supplemento al manuale del libraio: è di gran momento per gli artisti e viaggiatori). MANOSCRITTI I manoscritti del Gilii insieme a raccolte di erbarî schede e memorie di ogni genere occupano l’intero armadio vaticano CXVIII, e si conservano in buste e fasci numerati secondo la serie dei codici. Serie di erbarî codici: 10236-10237-10238-10239-10240-10241-10242-1024310244-10245-10246. Serie di appunti e memorie astronomiche, codici: 10247-10248-10249. Serie di appunti e memorie fisiche, codici: 10250-10251. 218 Serie di storia naturale, codici: 10252-10253-10254-10255. Serie di ornitologia, codici: 10256-10257-10258-10259. Serie di appunti varî, codici: 10260-10261-10262-10263-10264-10266-10267 L’intero numero dei manoscritti è formato da 31 codici, nei quali è anche compresa la corrispondenza epistolare. METEOROLOGIA Giornale delle osservazioni meteorologiche degli anni 1800, 1801, 1802, 1803, .... 1814, 1815, 1816, . . . . 1818, 1819, 1820. Dissertazione sulle macchine igrometriche. Disegni di atmimetro e sismografo. Tavole di massimi e minimi assoluti di temperatura osservati in alcune città d’Europa. Selva di notizie sulla Specola Vaticana, pubblicate in parte nelle Notizie del giorno del 1818. Osservazioni fatte per l’altezza della Specola Vaticana col barometro portatile del Sig. Cav. Barnaba Oriani. ASTRONOMIA Uso e maneggio del circolo ripetitore per le altezze degli astri. Lettere del Gilii sulla pasqua dell’anno 1802. Tipi ed osservazioni degli eclissi di sole 31 luglio 1795 - 17 Agosto 1803 - 29 Novembre 1807. Tipi ed osservazioni degli eclissi di luna 22 Luglio 1804 - 11 Luglio 1805 - 2 Settembre 1811. Cometa 8 Settembre al 9 Novembre 1811. In questi manoscritti si ha poi un’abbondantissima raccolta di osservazioni di ecclissi lunari e solari, passaggi di pianeti con effemeridi del celebre abate Scarpellini: 50 lavori che in gran parte si riferiscono alla Specola Gaetani. GNOMONICA Orologio solare antico nella villa di S.E. il Sig. Generale Miollis a Roma sul monte Magnanapoli. Meridiana in S. Maria degli Angeli alle Terme Diocleziane. Zodiaco Gabino. 219 Meridiana di Celso al Palazzo del Quirinale con appunti di pubblicazioni su questa e su quella di Tyco Brahe. Carte per lo gnomone dell’orologio solare di S. Pietro, messo in opera il dì 22 Febbraio 1804 nel finestrone delle campane. Carte sulla meridiana della piazza di S. Pietro in Vaticano fatta l’anno 1817. Carte relative all’orologio solare situato sul parapetto, del primo viale del giardino vaticano. Teorie e problemi di gnomonica. BOTANICA Osservazioni naturali fatte nel mese di Ottobre del 1794 in viaggio sull’Appennino per la Ventusola al Piano del Castelluccio: piante rinvenute... pag. 22. Osservazioni botaniche dell’anno 1787-2 quaderni. Catalogus seminum collectorum in horto botanico R. Nosocomî Divae Mariae Novae. Florentiae anno 1792 e 1790. Appunti sull’oppio, sui ranucoli, gomma elastica, piante tintorie e metodo per tinger carta paglia sul guado. Dimostrazioni botaniche secondo il sistema di Tournefort. - pag. 12 in-folio. Pratica della coltivazione de’ grani per la campagna di Roma. - pag. 10 Nomenclatura italiana e toscana di varie specie di frumento, pag. 8, con appendice sul modo di fecondare il frumento e sull’artocarpos incisa, albero a pane. Trattato sulla coltivazione del grano nelle maremme. Osservazioni botaniche dell’anno 1787. Memoria sopra alcune piante oleifere importanti nell’uso economico - pag.28. Memora 2ª sopra lo stesso argomento - pag. 30 Dissertazione sopra la vegetazione delle piante - pag. 28. Appendice - pag.20 Saggio storico sulle operazioni della manna e piante che la producono - pag.16 Alcuni disegni di 17 piante. ZOOLOGIA Metodo per conservare i vermi e le larve degli insetti 8 pagini Ornithologiae Classis Prima 7 quaderni Adversaria 5 quaderni Ornithologiae Romanae 11 quaderni Dissertazione sulle farfalle 1 quaderno 220 MINERALOGIA Relazioni del saggio fatto del tufo marnoso del Monte Verde fuori di Porta Portese pag. 14 FISICA Dissertazioni di fisica sulla luce 2 quad. in-8 di 32 pag. Sull’elettricismo artificiale (opera dedicata al Marchese Alessandro Chigi) 1778 pag. 80 Primi esperimenti in Roma sul globo aerostatico pag. 16. Sopra i colori della luce e del suono quad. 1 Dei parafulmini Vaticani quad. 4 Spese per l’intera condottura elettrica del Vaticano con piante ed elenco dei fulmini caduti nella vecchia e nuova basilica, scandagli di conduttori per i seguenti edifici: palazzo di Monte Citorio, accademia di Francia, lanterna di Ripa grande, chiesa di Castel Gandolfo, chiesa di S. Pietro di Perugia, chiesa di S. Andrea a Monte Cavallo, chiesa della SS. Trinità dei Pellegrini, chiesa di S. Maria degli Angeli in Assisi, Collegio Celestino di S. Maria in Posterula, palazzo Caserta a S. Maria Maggiore, casino Azara al Maccao. Memoria fisica sopra il fulmine caduto in Roma sulla casa dei PP. Filippini di S. Maria in Vallicella il dì 26 Novembre 1781 pubbl. in-8. Dissertazione fisico-storica sui terremoti di Piediluco, accaduti nell’Ottobre del 1785 pubbl. in-8. Breve ragionamento sopra il conduttore elettrico innalzato per ordine di Pio VI sulla basilica di S. Maria degli Angeli in Assisi. VARIA Società Georgica di Corneto ed altre memorie riguardanti la detta città. Prefazione Accademica pag.3 Corrispondenza epistolare sul miglioramento dell’agro cornetano. Rapporto del Gilii a P. Pio VI sullo stato della città di Corneto. Memorie storiche della città di Corneto estratte dal codice manoscritto valesiano, esistente nell’archivio segreto del Campidoglio. Corrispondenza di 23 lettere scritte da diversi al Gilii tra le altre una congratulazione del Vescovo di Corneto per la fondazione fatta da Mons. Gilii in quella città di un’accademia intitolata “Società Georgica Tarquiniese”. 221 Memoria letta nell’adunanza dell’Accademia dei Lincei il dì 4 luglio 1805 da Filippo Luigi Gilii. Vita dell’insigne meccanico Zabaglia. Bibliografia - Società georgica Tarquiniense, fondata in Corneto il 17 ottobre 1784 da mons. Filippo Luigi Gilii - cornetano. ... Tipografia della pace di Filippo Cuggiani - Roma - 1891. GIUSEPPE LAIS: Memorie e Scritti di mons. Filippo Luigi Gilii, direttore della Specola Vaticana ed insigne naturalista del secolo XVIII (estratto dalle Memorie della Pontificia Accademia dei Nuovi Lincei, vol. VI) ... Tipografia della Pace di Filippo Cuggiani - Roma - 1890. C. CASTAGLIONI - Storia dei Papi CANCELLIERI - Storia dei Sommi Pontefici - L’affascinante Storia delle Invenzioni - Selezione dal Reader’s Digest. COSTANTINO MAES - Curiosità Romane Ed. del Pasquino - Roma 1885. CONFERENZA SU CARDARELLI IN OCCASIONE DEL GEMELLAGGIO CON LA CITTÀ’ DI MANDAS (CAGLIARI) Io non credevo, non credevo davvero, signori sindaci, consiglieri e ospiti, di dover cominciare questa rievocazione di Vincenzo Cardarelli, rivangando ancora antiche note polemiche, che riconducno al rapporto di Cardarelli con la sua città. Amici miei, i poeti, i grandi uomini, non sono pacifisti, non sono gente tranquilla, non sono accomodanti, non sono fatti per porgere l’altra guancia. E’ gente guerriera, ardente, polemica, a volte violenta. Sono, come fu descritto Cardarelli, “strambi, scortesi, poco socievoli”. Parlando di Dante, Boccaccio lo chiamò “malgrazioso” che vuol dire esattamente quel che poco fa qui si è udito su Cardarelli. Per quanto riguarda il rapporto di un grande con la sua città natale, il “borgo selvaggio” di Leopardi, direi che l’atto cui il figlio respinge la madre per riconquistarla più tardi, sia un passo obbligato nella formazione della personalità. L’uomo grande deve abbandonare il luogo natio. Se, poi, vi ritornerà, vivo o morto, questo è un altro capitolo. Lo deve abbandonare come Dante abbandona Firenze e Leopardi se ne esce dalla sua Recanati. E che cosa dice, e quanti epiteti e quanti dileggi ha per Recanati, la quale, 222 tuttora, come Firenze, non porta astio a Dante. Firenze, che, anzi, più volte ha chiesto a Ravenna le amate ceneri. Orgogliosa com’è, ha accettato con orgoglio anche gli scatti dell’ira inevitabili nell’uomo che si veda circondato da gente che non lo capisce. Perchè il fatto che i grandi non siano capiti, è inerente alla loro natura di “grandi”. Non sarebbero loro, se non si trovassero in contrasto con la comunità che li ha generati. Contrasto alimentato, nel nostro caso, da circostanze terribili come quelle che questo povero ragazzo ha affrontato per farsi largo nella vita. Naturalmente egli si indusse, come accadrebbe a chiunque di noi, a identificare il male di vivere col luogo in cui il suo male si manifestava: la sua Corneto, come si chiamava allora Tarquinia nel suo bellissimo nome medioevale, che avrebbe dovuto conservare accanto a quello di Tarquinia, restaurato. Questo esordio imprevisto è diventato una piccola ouverture alla conversazione che è, invece, scritta, e doveva cominciare con un elogio a Tarquinia, con una di quelle visioni di Tarquinia, che vennero incantevoli a Cardarelli quando riuscì a riconquistarla, alta e serena sul suo mare etrusco. Ma bisognava, prima, comporre il conflitto. Se c’è un inattuale, nel senso di Nietzsche, è il poeta di Corneto. La sua guerra con la vita cominciò subito, appena ebbe aperti gli occhi. Nato da un legame frettoloso e disgraziato, visse l’infanzia accanto al padre, un Romagnoli marchigiano che non gli dette il suo nome; ebbe quello della madre, Caldarelli, femmina disperata e leggera, che presto fuggì, rabbiosamente rimpianta, mai perdonata. Ad una passeggera violenza, o ad una incuria di lei, più che alla poliomelite che si disse, dovette il braccio sinistro fiaccato per sempre, con cui uscì dall’infanzia. “Fai perbenino”, gli disse il padre prima di morire. E lui, che di scuole aveva visto solo le elementari, si rassettò il nome, intanto. Si tolse quel ridicolo Nazareno che gli avevano dato, e, quanto al cognome, gli bastò mutare una consonante per dargli la voluta asprezza tagliente. E’ la prima prova, direi, della sua finezza d’orecchio in fatto di lingua. Coi nomi nuovi come solo appannaggio, scese a Roma, a diciannove anni. Era uno zingaro abbandonato che scopriva dentro di sé i ritmi classici, e d’intorno gli echi dissolti degli antichi imperi. Dal 1906, si scrisse, la sua vita fu sempre uguale. Ma l’anima cresceva. “Addetto a vigilare l’andamento delle sveglie in un deposito d’orologi, amanuense nello studio d’un bisbetico avvocato che non riuscì mai ad entrare in parlamento”, finì, “dopo un congruo periodo di disoccupazione, giornalista”. Bisogna dirlo? Finì all’Avanti. E quando lasciò quel giornale, cominciò la sua leggenda. “Ricordo, nel 1916, l’uscita per così dire storica dei Prologhi, una indimenticabile vicenda per chi, come noi, era partito dalla sferra dei Vociani. Piccolo e denso di poesie di 223 una classe e timbro insoliti, e di pagine in prosa che aumentavano la qualità terrestre pietosa e stagionata della poesia”, scrisse il sempre prudente Raimondi, che, quale riflesso di quel crepitante spirito, visse il solo momento ardito e a viso aperto della sua arida esistenza quando di Cardarelli fu scudiero nella rivista che “per alcuni anni, durante l’imperversare della bassa letteratura romanzistica e novelliera, barbussiana e pornografica, cercò in ogni modo di tenere alto il buon nome dell’arte italiana. Erano gli anni 1919, tanto per intendersi, 1920, 1921”: quelli che Emilio Cecchi, in un saggio sul Notturno, rievocò “miserabile stagione letteraria del nostro dopoguerra”, con la sua “squallida combriccola che ballava le sue sarabande intorno ai pentoli e agli orinali rotti...”. La rivista si chiamò La Ronda: la pattuglia, la guardia, nella notte della lingua, e dello stile. “Ho già detto e ripeto che l’unica benemerenza che io senta di essermi guadagnata nei riguardi delle patrie lettere e di cui non ho difficoltà a vantarmi, atteso che essa ha poco o nulla da vedere colle mie più personali ambizioni, è il fatto di aver fondato “la Ronda”, quella “Ronda”... che “ha contribuito, fra le altre cose, a rimettere in onore Leopardi. Un Leopardi, beninteso, del tutto o in parte sconosciuto e non ancora, se io non m’inganno, pregiato come si conviene: quello delle “Operette morali”... che ha imparato a sorridere del suo dolore e il cui travagliato viaggio di psicologo e di filosofo pratico termina nella scoperta del mondo greco-latino. Un Leopardi in fiore, per così dire, maestro d’arte, di storia, di civiltà, non d’accidia o di poltroneria metafisica... un Leopardi classico, che piace a noi. L’aver contribuito a rimetterlo in circolazione è motivo per me di non piccolo orgoglio. Perchè ho idea che nell’opera critica e storica di Leopardi ci sia in germe la grande Italia spirituale che tanto si vagheggia e nella quale io credo al punto da non poter immaginare senza di essa alcuna forma d’impero. E quando dico Italia spirituale intendo un’Italia armata contro i pericoli della coltura e gl’imbrogli della filosofia, un’Italia artistica, nel senso largo di un’arte che è civiltà, stile, costume in tutto, come fu nei nostri secoli più belli. Dico quell’Italia a cui la luce dovrà venire non dal nord, nè dal sud, .... ma dal centro, da <<quel punto di sutura della Penisola>>, come un geniale storico delle nostre origini, Gioacchino Volpe, definisce la Toscana, e per me chiamerei tutta l’Italia centrale, che coll’unità cavourriana fu scucito, unico punto e filo omogeneo della nostra individualità nazionale. Ho idea che su qualunque strada lo spirito italiano voglia sbucare, torni esso alle sue tradizioni o vada incontro arditamente alla civiltà europea moderna, si troverà dinanzi Leopardi prima che Gioberti dovrà fare i conti con lui che fa antico e moderno come ai suoi 224 tempi nessuno, e previde, in mezzo a un’Europa romantica, la brillante e ardua posizione dell’Italia di oggi, unica erede legittima della civiltà greco-romana e destinata, voglia o non voglia, a perpetuarla, a difenderla, a custodirla. Un popolo che si getta nell’avvenire, trascurando, disconoscendo le sue tradizioni è paragonabile ad un esercito che fa un’avanzata tagliandosi le retrovie”. Ecco l’inattuale. Queste parole scritte nel 1927, in cui Cardarelli rivendicava la riscoperta, compiuta sei anni prima, dal Leopardi “classico”, il cui messaggio aveva affidato, nel 19211, alla più alta e nobile antologia mai tentata dello “Zibaldone” leopardiano: queste parole in cui si riassume e compendia, ve lo dico con sicurezza meditata e sicura, il messaggio che di sè e della sua opera, Cardarelli più avrebbe voluto trasmettere ai posteri; queste parole sono quanto di più estraneo e lontano si possa concepire rispetto al clima corrente. L’idea dell’Italia quale si leva da queste pagine è davvero impensabile oggi, sol che la si confronti, senza volontà polemica e senza acrimonia, all’immagine che tutta l’Italia rende di se stessa, e non solo quella politica, ma pure quella sociale e artistica, letteraria e monumentale. A nessuno l’Italia potrebbe suggerire oggi immagini e pensieri di altrettanta sicurezza, di altrettanta venerazione. Ci furono poeti e letterati, squisiti poeti, valorosi letterati, che non ebbero bisogno, per la loro poesia e la loro letteratura, di quel nutrimento unico dello spirito che fu l’Italia per Cardarelli, uomo aspro e scorbutico, spirito altero, taglia dantesca protesa verso l’alto, in uno sforzo, in una visione di se stesso e alle altezze a cui tendeva che poteron generare anche ironia e fastidio. Ve lo dico con le parole che scrisse, in parte di Cardarelli, il poeta che gli fu opposto e rappresentò per generazioni il polo etico ed estetico contrario al suo, Eugenio Montale. Incaricato dal “Corriere della Sera” di commentare la precoce morte dell’involontario eppur naturale rivale, scrisse dunque il Montale: “Dovunque egli ha sparso l’alta immagine che egli si faceva di se stesso, dovunque ha disseminato la sua persuasione che lo spirito risorgimentale avesse adulterato la cultura italiana, snaturandola del tutto. Formatosi quando un’ondata di prosa commerciale si abbatteva su un’Italia uscita stremata da una guerra vittoriosa, Cardarelli non era uomo capace di dare una mano a rimuovere le macerie e di collaborare a una letteratura che avesse davvero il volto del nostro tempo”. Non c’è simpatia in queste righe, e si stente. Tanto più autentica, dunque, la conclusione: “Da lui si poté dissentire forse su tutto; ma non si potè mai disconoscergli il culto di una immagine alta e quasi inaccessibile dell’Italia, di un’Italia privilegiata, sacra”. 225 Raccontai, in una nuova edizione da me curata, nel 1985, dell’antologia leopardiana, che Cardarelli intitolò Il Testamento letterario di Giacomo Leopardi, la sconosciuta stagione in cui una piccola e turbolenta fetta di fascismo, sicura di occupare un posto speciale nel cuore di Mussolini, s’illuse di mettere stabilmente il vivo Capo in terra sotto un patrono in cielo, chiamato Leopardi. Fu la grande stagione di Cardarelli, scrittore civile dopo che poeta. Anche in questo carattere Leopardi gli era stato buon maestro, nel saper frangere le categorie e le forme, nella capacità di rifluire continuamente dalla poesia alla prosa e dalla prosa alla poesia, con la continua dimostrazione che la prosa morale e civile non soltanto può pareggiare in dignità la poesia, ma perfin superarla. Fu la stagione in cui nacquero le prose che poi formarono quel libro, davvero “classico e moderno”, librato fra un passato che faceva rivivere nei suoi umori migliori, e un futuro ricco di speranze, che intitolò Parliamo dell’Italia. Ecco, se dovessi indicare a qualcuno desideroso di conoscere l’italiano Cardarelli e il suo messaggio un solo titolo, gl’indicherei questo, del quale esaurita ormai da decenni l’edizione originale del 1931, io pubblicai, or sono sei anni,. una ristampa, presto anch’essa esaurita. Se dovessi raccomandare al Comune di Tarquinia, così sollecito nella tutela del nome di questo suo figlio, il modo migliore di assicurarne la sopravvivenza, più che statue o monumenti, consiglierei la ristampa di due volumi congiunti: le Poesie nell’edizione mondadoriana, e questo libretto che contiene un’acuta, originalissima e profondissima interpretazione della storia d’Italia. Naturalmente, non vi troverete l’interpretazione oggi corrente, ammesso che ne sia rimasta una, dopo che l’impalcatura di bugie su cui si è retto in buona parte il nostro civile dopo guerra è crollata in frantumi. In questo libro che ho in mano, vecchio e venerato, di fragile carta consunta, avevo posto qua e là dei segni, nell’illusione di aver tempo bastante a leggerne qualcosa, ma ora m’accorgo che dovrebb’esser letto e riletto tutto, per capire la nostra sorte e ritrovare, se sia possibile, le nostre speranze. Il mistero di quel continente sommerso, demonizzato e maledetto per ormai un cinquantennio che si chiama Fascismo riceve in queste pagine illuminazioni che riusciranno, a più che sessant’anni da che furono scritte, nuove e originali. Non v’è dubbio che di queste pagine, e di un’adesione schietta, sincera, che non fu mai premiata da un seggio all’ambitissima Accademia d’Italia, e neppure da una modesta cattedra, non v’è dubbio che di questa sua stagione di consenso e di speranza, Vincenzo Cardarelli fu crudelmente punito, e tanto più crudelmente in quanto la fine dell’Italia, la 226 morte delle speranze, la duplice invasione straniera cui aprì le porte l’infame Badoglio, questi lutti della nazione coincisero in Cardarelli con una perdita di fiducia e di salute che affrettarono il declino di una struttura fisica fragile, minata forse fin dalla nascita disonorata e colpevole. E allora sgorgarono dall’uomo affranto e piegato nel fisico e nel morale, venuto a rifugiarsi nella terra natale, le parole terribili. L’emorragia cerebrale lo colse a Tarquinia, anzi Corneto, così si nomava quando vi nacqua il 1° maggio 1887, dove aveva trovato rifugio al salir della guerra. <<In casa d’altri, mangio il pane che sa di sale...”. Spento, sul mare etrusco, il Sole del mito, livido l’opprimeva il luogo ormai estraneo: “Io non voglio morire a Corneto. Sono tornato vecchio, cadente, in un luogo abbandonato a diciannove anni, bellissimo nel ricordo, orribile e sinistro nella sua realtà. Sto per perdere tutti i denti: non ho dunque né denti, né pane...”. Tornò nella sua Roma di sempre, ma si portava addosso l’arteriosclerosi cerebrale che lo consumava. Viveva di radi diritti d’autore, ché sempre aveva svenduto, a forfait, i manoscritti, per poche migliaia di lire; e d’uno stipendio di direttore, sempre più nominale, della Fiera Letteraria, che lo salvò dal bisogno: ma non poté redimerlo dall’eterna miseria delle camere mobiliate, degl’incontri amorosi fugaci e insondabili, dalla rovina d’una solitudine che, accumulata con metodica sprezzatura negli anni della sua avara fortuna, franava addosso al vecchio, più che mai indifeso in un mondo ormai incomprensibile. C’è un lungo passaggio in cui il rifiuto, l’astio, il distacco, mai bene esplorati, di Cardarelli, rispetto ai nuovi tempi apertisi col 1945, sfociano in una decadenza che di morale si trasforma in clinica. La sentenzina di sapore guicciardiano con cui Prezzolini spiegava la straordinaria sua lucida longevità dicendo che si era saputo ben scegliere genitori e antenati, trova nella sorte di Cardarelli la contraria dimostrazione. L’ultima leggenda di Cardarelli non si scrive senza rasentare l’esecrabile pittoresco dei clochard, il color facile, il souvenir d’enfer del letterato di provincia che su quella sedia contemplava, da poi raccontare, la lagrimevole immagine del temuto tiranno e acclamato poeta, mutato in pubblica maceria. Lo portavano a braccia dal secondo piano della pensione di Via Veneto 147 a quell’angolo di marciapiede dove, il magro corpo perennemente avvolto nel pesante cappotto, a difesa del freddo odiato e temuto, guardava scorrere la vita degli altri, quanto a lui restava della vita. Lo dimenticarono, una volta, sotto un acquazzone. 227 La sua catastrofe è uno sfacelo biologico sovrapposto a un mistero morale. Misterioso ci riuscì tutto in quella fine, e più di tutto, come l’erompere di viva fiamma da fredde ceneri, il lampo che da quell’ammasso tremulo e infagottato, di sotto il cimiero stazzonato della consunta lobbia, ci raggiunse ai primi d’ottobre del 1957, mentre compilavamo il numero speciale del Borghese in morte di Leo Longanesi. Toccò a me, allora giovane apprendista di una redazione romana, di ricercare colui che a tutti sembrava allora ormai soltanto un vecchio rudere solitario accasciato su una poltroncina di via Veneto, per chiedergli una parola, un pensiero sulla morte dell’estroso geniale scrittore, editore, disegnatore polemista che trent’anni prima si era orgogliosamente dichiarato allievo di Ardengo e Vincenzo, ossia di Soffici e Cardarelli. Diceva, e scriveva, il ventenne Longanesi nel 1926: “Viviamo di Cardarelli, che ci ha insegnato anche quello che personalmente non ha imparato”; e quanto ciò fosse vero, non cessa di accorgersi chi ricalchi passi lontani. Chi trova, nel numero 9, annata seconda (1920) della Ronda, dentro la violenta replica alla “recensioncina d’un tal Piero Gobetti”, l’accenno ai “detestabili elzeviri zanichelliani”, intende di dove sortissero gli sdegni e umori longanesiani che andarono poi a sistemarsi nella “Lettera alla figlia del tipografo”. E non era un maestro facile e accomodante. “Per lunghi anni”, rievocò Giovanni Comisso in uno scritto quasi ignoto, “il giudizio di Vincenzo Cardarelli è stato desiderato e temuto in Italia. La sua cattedra prima della guerra era nella terza saletta dell’Aragno e qualche tempo dopo la fine si spostò in via del Gambero, nella trattoria dello stesso nome. Era il suo giudizio sempre estremamente spinto non solo nel sarcasmo, ma nel tono della voce che diventava canora accompagnata dal gesto dell’indice puntato contro il presente al quale si riferiva. La discussione coi compagni letterati della stessa età non aveva più occasione di accendersi dopo che egli aveva posto quei limiti che permisero l’apperizione della Ronda... I giovani letterati che erano venuti a Roma in cerca di gloria, tanto dal Mezzogiorno che dal Settentrione d’Italia, dopo la guerra entravano timorosi, cercando di passare inosservati pur di ascoltare Cardarelli il quale, più che discutere, recitava il suo abituale e terribile monologo. Al suo occhio non sfuggivano quei giovani che aspiravano a un suo riconoscimento e spesso li aggrediva con apostrofi taglienti che riuscivano indimenticabili per anni. Non erano solo letterati quelli che gli facevano cerchio, ma pittori, scultori, giornalisti e uomini politici. La lista sarebbe lunghissima se si dovesse fare il censimento di tutti coloro che si sono maturati alla sua scuola. E ben pochi oggi hanno il coraggio di ammetterlo; in tempi 228 confusi nel giudicare, fu Cardarelli a stabilire, parlando, nelle lunghe notti romane di quegli anni, quello che in arte era valido e quello che non lo era”. Su tanto magistero dilapidato a caffé sparse il suo rammarico anche Luigi Bartolini, in un affranto, umorale congedo. Ma tutti, allora, erano “da caffè”, gli strateghi, i letterati, i pittori, i cialtroni. Né mi par che abbia diritto d’insolentirli un’età che a quella tribuna, poverella di udienza e di guadagni, ha sostituito le soste di letterati e politicanti, giornalisti e pittori presso le scimmie ammaestrate della televisione, e il pettegolezzo delle tavole rotonde e dei convegni, dove alla miseria delle idee e dei caratteri è sempre scarso compenso il tintinnio dei gettoni di presenza. E ora, lasciate che torni all’ultimo mio ricordo lasciato interrotto, toccava a me ricercare l’antico maestrro, che appena settantenne a tutti pareva ormai un disfatto rudere, per averne un pensiero sulla morte di quell’allievo irrequieto, infaticabile, che c’era strappato, nel settembre 1957, di appena cinquantadue anni. Da quell’ammasso tremulo e infagottato di vecchi panni, vi dicevo, ci raggiunse come un lampo di luce gentile, il commiato, degno di un antico eroe! “Caro Leo, il tuo trapasso era l’estremo dispetto che hai voluto farci. Siamo qui a pentirci di essere ancora in vita... Sii beato, sii felice, nel regno che certo ti ha destinato la tua guerriera innocenza”. Quando chiuse gli occhi, il 15 giugno del 1959, in una camera del policlinico romano, si suggellarono insieme due agonie: la “piccola”, e la “grande” , come le Passioni degl’incisori antichi. La piccola agonia di Vincenzo Cardarelli era durata ventisei giorni, da quando lo raccolsero esanime, la testa china sotto il vecchio cappello, nella poltroncina del caffé di Via Veneto dove passava ogni stagione. La grande agonia s’era protratta dieci e più anni; quanti ne misero gli estri del poeta, l’acutezza dello scrittore e gli spiriti di un uomo tra i più irrequieti e ribelli della sua generazione, a staccarsi dal povero corpo precocemente avvizzito, di cui avevano pietà il Sole, quando splendeva, e i pochi amici capaci di varcare la muraglia scorbutica del solitario mendicante d’affetto: il pittore Amerigo Bartoli, e Raffaella Pellizzi, consorte di Camillo. Fa bene Tarquinia a rompere il silenzio, ogni volta che può, sul suo figlio. Se tutti i comuni, tutte le città, mantenessero vive a questo modo le memorie dei loro figli minori, noi vedremmo rinnovarsi quel patrimonio di speranza che Jacob Burckhardt, il principe degli storici, riconosceva nelle vite e negli esempi dei grandi uomini. “Essi rappresentano, per le loro nazioni, un patrimonio infinitamente prezioso. Essi offrono una ragione di coesione e di speranza... Il loro ricordo consente a una nazione di 229 mantenere la sua vita spirituale a livelli decorosi anche quando intorno le si distendano abiezioni e decadenza. PIERO BUSCAROLI ATTIVITA’ DELL’ANNO 1993 Come già enunciato nel corso dell’Assemblea Generale dei Soci per l’approvazione dei Bilanci consuntivo del 1992 e preventivo del 1993, l’attenzione del Sodalizio era rivolta 230 allo scavo di un “butto” individuato alla nostra Sede di via delle Torri da parte dell’ENEL e dell’ITALMECO, nella messa in opera delle condutture sotterranee. Tale indagine era scaturita dall’esito dell’altro scavo nel “butto” all’interno del complesso difensivo della torre di Porta Maddalena, più noto come la Torre di Dante. Appena ottenuto il nulla-osta della Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria Meridionale e l’autorizzazione da parte dell’Amministrazione Comunale per la recinzione di una parte della strada pubblica, è iniziato lo scavo che ha richiamato un notevole numero di Soci che già si era costituito come “Gruppo Operativo” della S.T.A.S.: lo stesso che aveva ripulito e messo alla luce un grosso rudere sulla Civita Etrusca, nei pressi dell’Ara della Regina. Vi lavorarono in molti, sotto la guida dell’archeologo dott. Alessandro Mandolesi che affidò a ciascuno il proprio compito; alla fine tutto il materiale vascolare, raccolto in oltre una ventina di contenitori, venne affidato alla Direzione del Museo Etrusco di Palazzo Vitelleschi. Fu un vero successo. Tanto è vero che la dottoressa Cataldi, direttrice del Museo, affidò con disponibilità il materiale scavato al nostro Sodalizio per essere ripulito, restaurato, classificato in modo da essere successivamente presentato alla curiosità del pubblico e allo studio dei competenti, perchè si venisse in grado di valutare l’iniziativa e accertare la volontà di proseguire in questa ricerca altamente scientifica e culturale. Nel corso dello scavo per lo studio del materiale fittile, avemmo il consiglio autorevole di alcuni specialisti fra cui l’assessore alla cultura della città di Farnese e il direttore del Museo Civico di Valentano. Ma la manifestazione più significativa, come corollario degli scavi precedentemente avvenuti, è stata la Mostra di una collezione privata di ceramiche antiche cornetane che ci sono state affidate dal Procuratore della Repubblica di Grosseto dott. Pietro Federico, e successivamente dati in donazione alla nostra società dai signori Belli Augusto, Belli Francesco e Belli Luigi. Mostra che abbiamo effettuata alla fine dell’anno 1993, ordinata, classificata, catalogata ed esposta grazie al lavoro del dott. Alessandro Mandolesi, della dott. Giovanna Velluti e del signor Romualdo Luzi che hanno suddiviso la Mostra secondo i periodi di realizzazione e attraverso pannelli illustrativi: e dato alle stampe un elegante catalogo che è andato veramente a ruba; e che l’Assessorato Regionale alla Cultura ha voluto che noi inviassimo a tutte le Biblioteche ed i Musei della nostra Regione. Siamo riusciti ad ottenere dal pittore Sebastian Matta un bozzetto che abbiamo pubblicato sia in copertina del catalogo sia in un migliaio di manifesti e locandine, grazie alla collaborazione grafica del socio Marino Ceccarini (Zuccanti). 231 L’afflusso continuo e massiccio alla Mostra, approntata nel salone a piano terra della nostra Sede, ha confortato l’iniziativa e il non leggero sforzo promozionale ed economico, in parte confortato dall’ausilio organizzativo e finanziario dei soci, i dottori Giovanni Vasco Palombini e Massimo Filippo Marzi. Desideriamo enumerare le altre iniziative culturali, sostenute dal nostro Sodalizio nel corso dell’anno 1993. Esse comprendono: - anzitutto il rinnovo delle cariche sociali, avvenute nel corso dell’assemblea generale del 31 gennaio 1993, con l’approvazione del Bilancio Consuntivo dell’anno 1992; che è stato approvato all’unanimità. Nello spoglio che è seguito, sono risultati eletti a nuovi consiglieri i signori Bruno Blasi, Antonio Pardi, Mario Corteselli, Lilia Grazia Tiberi, Alessandro Mandolesi, Alberto Sileoni e Romano Andreaus. A revisori dei conti, i signori Carlo Moretti, Lamberto Proli e Lucio Rosati. Abbiamo organizzato, insieme al Sottocomitato della CRI, un corso aperto a tutti, gratuitamente, su un tema quanto mai di attualità; la “Medicina Preventiva” con la docenza di alcuni sanitari del nostro Ospedale, sotto la responsabilità del primario chirurgo dott. Antonio Maisano. Il 26 marzo, Assemblea Ordinaria dei Soci per l’approvazione del programma delle attività relative e del bilancio di previsione per l’anno 1993, con la distribuzione del Bollettino dell’anno 1992. Il 27 marzo, in occasione della Festa della Donna, è stato tenuto, con ingresso libero, un concerto di musica lirica a cui hanno preso parte il soprano Rossana Rinaldi, il tenore Na Seng Seo, il soprano Simonetta Mattei e il baritono Lee Kyn Sung, accompagnati al pianoforte dalle maestre Licia Zeppetella e Chae Jiuen. Il 14 aprile, nella sala G.B. Sacchetti, Mostra di pittura dal titolo “Vis à Vis>> dei pittori Belli, Ferri, Mandatzis, Spottorni e Tringalli. Nei giorni 1, 2 e 3 maggio, all’interno della torre di Porta Maddalena, Mostra degli arazzi eseguiti dagli alunni delle Scuole Elementari Statali “C. e M. Nardi”. Nei giorni 14, 20 e 29 maggio, ciclo di conferenze nella sala G.B. Sacchetti sul tema “Archeologia in Etruria e aspetti della ricerca”, estesa a tutti, con ingresso libero. Relatori i dottori V. D’Ercole, L. Frazzoni, F. Galluccio e P. Brocato, con proiezione di diapositive a colori. Il giorno 11 giugno, con la collaborazione del sottocomitato della CRI di Tarquinia, serata dedicata a musica e poesia, dal titolo “Beethoven Cardarelli ed altri”. Voce recitante Isa Bellini. Al pianoforte Laura Santi-Ciurluini. Presentazione di Renato Cortesi. 232 Nei giorni 4, 12, 19 e 25 giugno, ripresa del ciclo di conferenze sul tema dell’Archeologia in Etruria. Docenti i dottori G. Pocobelli, C. Iaia, A. Baragliu e A. Naso. In giugno, inizio dello scavo di un butto medioevale dinnanzi alla sede della S.T.A.S., sotto la direzione dell’archeologo dott. Alessandro Mandolesi e con la partecipazione attiva del Gruppo Operativo del sodalizio. Tutto il materiale vascolare è stato consegnato alla Direzione del Museo di Palazzo Vitelleschi. Nei giorni 7, 10, 15 e 17 luglio, prosieguo del corso di etruscologia. Relatori i dottori M. Cataldi, R. Luzi, P. Tamburini e A. Mandolesi. Il 26 settembre, nella sala G.B. Sacchetti, presentazione del libro inedito di Francesco Valesio, dal titolo “Memorie Istoriche della città di Corneto” nella collezione “Fonti di Storia Patria”, curato dai consiglieri Mario Corteselli e Antonio Pardi che hanno aggiunto al libro vero e proprio, un volume con la storia di tutti i personaggi che il Valesio aveva nominato nella stesura del suo lavoro. Sono stati tenuti, in collaborazione con l’Associazione “Musica e Tradizione” e la “Camerata delle Arti”, una serie di concerti di musica classica, denominata come “Concerti dell’Autunno”, dal 18 novembre al 18 dicembre. Il 18 dicembre, nella sala a piano terra della Sede, è stata allestita e presentata al pubblico la Mostra delle Ceramiche Antiche Cornetane, con la presenza di autorità Provinciali e Comunali. La Mostra è stata aperta al pubblico fino al 16 gennaio 1994. Il 19 dicembre, per iniziativa nostra e della Confraternita “Amici del Cristo Risorto”, è stata celebrata una solenne Messa Cantata dal nostro Vescovo Diocesano, mons. Girolamo Grillo, nella basilica di S. Maria in Castello. Tale celebrazione è stata trasmessa dalla RAI sul primo canale della Televisione Italiana. Nel periodo natalizio, come ormai è consuetudine, è stato allestito il XVI Itinerario Presepistico nella nostra Sede, con la collaborazione dell’Associazione Nazionale “Amici del Presepio”. 233 APPENDICE AL GLOSSARIO CORNETANO E ALLE STORNELLATE POPOLARI A Affiaràto (a.m.- Forma usata anche dal Belli nel sonetto “La pisciata pericolosa”. Dicesi di colui che si getta in un’azione con tutte le forze per cui diventa arrossato in volto come quando ci si mette davanti alla fiamma del focolare. La forma “fiara”, in loco, sta ad indicare la fiamma. Ammarvàta (a.f.)- Dicesi dell’insalata quando è appassita e ridotta simile alla malva (che in dialetto vien infatti, appena detta “marva”). La malva colta, appassisce repentinamente. Attaccatezza (s.f.)- Forma usata in luogo di attaccamento alle cose tradizionali di una famiglia o di un popolo. B Battilùnta (s.f.)- Tagliere di legno su cui, in passato, si batteva il lardo (che in dialetto vien chiamato unto”) per approntare i condimenti dei cibi giornalieri. Perciò la parola deriva dalla simbiosi di “batti l’unto>>. L’uso al femminile si trova anche nella parola “panunta” che è il pane unto dal grasso della carne suina cotta sulla graticola. Bracciòlo (s.m.) - S’intende con questo vocabolo indicare un sistema di sicurezza a porte e portoni. Consiste in un braccio di ferro mobile, una quale viene fissato con una grappa interno. L’altra parte viene inserito in delle parte del al muro dello stipite termina con un gancio che un apposito alloggiamento, posto in una ante. La parola ha un riferimento agricolo per 234 indicare il carciofo o i carciofi che crescono ai lati per distinguerli dalla primizia centrale, detta cimarolo. C Cianca (s.f.) - Viene usata in luogo di gamba. Per cui ne deriva “cianconata” azione fatta con i piedi senza l’ausilio della ragione. Proviene dall’arcaico “zanca”. Ciarabballàta (s.f.) - Parola onomatopeica per indicare una sfuriata verbale fatta in pubblico. E’ evidente la derivazione da “ballata” che era una manifestazione pubblica, chiassosa, fatta in danza e in canto. Per cui viene riferita ad un rimprovero ad alta voce di fronte a molti per esporre alla vergogna chicchessia. G Guazza (s.f.) - Usasi nel detto “dare la guazza” ovverossia rispondere a una provocazione ironicamente, con senso mordace e pungente. I Incacchiare (v.) - Irritare, inquietare. Forma purgata dal verbo plebeo “incazzare”. Perchè in dialetto il “cacchio” è sinonimo di membro virile, oltre che di tralcio della vite. L Locco (l.a.) - Nella forma ripetitiva “locco locco” vuol significare lentezza con cui una persona si muove e agisce fatuamente. Derivazione da “allocco”. O Or di notte (l.a.) - Si usa per significare cose che si fanno sul tardi, all’ora di notte, quando le campane delle chiese rintoccavano per invitare la gente a non sortire di casa e a prepararsi al riposo notturno. 235 P Panizzàro (s.m.) - Colui che si nutre quasi esclusivamente di pane e di tutto quanto ha attinenza ad esso. (vedi panizza) Pappatòria (s.f.) - Sta in luogo di continua mangeria. Specie in senso figurato sta per appropriazione di grossi affari o di più grossi guadagni. Dal verbo “pappare” che vuol dire mangiare la pappa, specie nei bambini per svezzarli dal latte materno. R Ripercorìccio (s.m.) - Cose rimediate alla meglio laddove stava un giaciglio idoneo alle pecore, perciò sudicio e maleodorante. Dicesi di cosa vile. Rimulinare (v.) - Sta per molinare, specie del vento o della pioggia quando forma dei piccoli vortici. Gurgitare. S Sbollentire (v.) - Gettare in acqua bollente ciò che si deve preparare per la cottura, proprio dei pennuti o di sostanze vegetali molto coriacee. Vale anche per chi, per disattenzione, subisce ustioni con l’acqua bollente. Schizzarella (s.f.) - Termine usato da chi, nei pressi dell’acqua, schizzandosi l’un l’altro, ne fa un divertimento. Vuol dire anche por termine a una cosa seria in modo scherzoso e superficiale. Sciacquaiàle (s.m.) - Termine usato dai bifolchi, nell’arare la terra di un poggio, tracciando un solco trasversale per impedire, durante il periodo delle piogge, che l’acqua, scivolando precipitosamente sul pendio appena lavorato, trasporti in basso il terreno e con esso il seme del grano o di altro erbaceo. E’ un modo di 236 deviare trasversalmente l’acqua senza provocare troppi danni. Sgramicciare (v.) - Strofinare il proprio volto su quello della persona amata. Anche in senso più lato. Derivazione da gramigna, che in gergo vien detta “gramiccia”. Dato che la gramigna veniva in passato usata come medicamento in tisane, ed avendo radici molto profonde, lo sforzo che si faceva in due o più persone per sradicarla, specie se di sesso diverso, portava a cadere all’indietro per finire di trovarsi l’una nelle braccia dell’altro. T Trauzzolare o Travuzzolare (v.) - Rotolare come una ruzzola a terra per caduta o per gioco. Probabile derivazione dal verbo travolgere. Oppure simbiosi della forma “tra uzzolo” che è una voglia capricciosa di fare qualcosa per gioco, così come fanno i pagliacci nel circo per divertire il pubblico. Z Zezza (l.a.) - Invito ai bambini a mettersi a sedere così come si usa in gergo, la pappa per minestra, la sisa per mammella, la ninna per dormire e ‘mbrumba per bere. STORNELLI CORNETANI Te vojjo fa ‘na bùcia ner zinale te vojjo fa strillà: “Mamme me dole, mamma correte che m’ha fatto male”. Er core de le donne è fatto a limoncello la 237 ‘no spicchio a questo e a quello e el core se ne va. Quanno l’asino rajja ci ha appetito, quanno l’omo va in giro è innamorato, quanno la donna canta, vò marito. Fiore de ceci manco San Pietro ha avuto tanti baci quante nei hai avuto te da li francesi. 1) Fior de canneto che ci ha che fà quer povero marito? Se crede de sta a Roma e sta a Corneto. 1) Tale stornello ha riferimento al tempo dell’occupazione francese del nostro territorio quando quelle truppe straniere presidiarono Corneto per difendere lo Stato della Chiesa, che ebbe termine con la presa di Roma il 20 settembre 1870. 238 Per un errore di composizione nel precedente Bollettino 1992 non sono stampate le note di un articolo. Le inseriamo, ad integrazione, in questo numero: note di “Castrum Ferrariae e la sua Chiesa” di E. Brunori. 1) O. Toti, La civilizzazione etrusca nel territorio di Allumiere alla luce delle più recenti scoperte - Coll. Latomus, vol. 103 - Bruxelles 1969; M. Pallottino, Etruscologia, Milano ediz. 1984; W. Keller, La civiltà etrusca, Monaco-Zurigo 1970; G. Camporale e G. Tanelli in L’Etruria mineraria, Progetto Etruschi, Milano 1985. 2) T. Tittoni, La ragione trachitica dell’Agro Sabino e Cerite, in Boll. Soc. Geol. 1885.; S. Bastianelli, Il territorio tolfetano nell’antichità, St. Etr. XVI, 1942. 3) E. Brunori A. Mela, Le risorse minerarie nell’antico territorio di Caere, in “Caere e il suo territorio da Agylla e Centumcellae, Ist. Poligr. dello stato - Roma 1990. 4) E. Brunori, Ritrovato l’antico Castrum Ferrariae, in Not. VI, Ass. Arch. A. Klitsche de La Grange - Museo civico, Allumiere 1984. 5) E. Brunori, op. cit. 1984. 6) M. Galimberti, Su alcune monete rinvenute nel territorio di Allumiere, in Not. VI, 1984, CIT. 239 7) G. Mazza, Le ceramiche medioevali della Roccaccia (Castrum Ferrariae), in Not. VI, 1984, cit. 8) A. Paravicini Bagliani, I testamenti dei cardinali del Duecento, Misc. S.R.S.P. XXV, Roma 1980; M. Prou, Les registres de Onorio IV - 1888. 9) P. Supino, La Margarita Cornetana - Regesto di documenti, Misc. S.R.S.P. Roma 1969. 10) G. Battelli, Rationes decimarum Italiae nei sec. XIII e XIV, Latium Città del Vaticano 1946. 11) Si tratta di un tronco di legno svuotato all’interno, con una fessura superiore per l’introduzione delle offerte e chiuso da triplice serratura, le cui chiavi erano in genere tenute da un prete, un laico ed un regolare. 12) G. Tomassetti, La Campagna romana, antica medioevale e moderna, edz. Banco di Roma 1975, vol. I, pag. 125. L’autore calcola in 400 il numero degli abitanti di Ferraria agli inizi del XIV sec. desumendo tale dato dal consumo di sale. 13) E’ in preparazione a cura dell’Ass. Arch. Klitsche de La Grange e dell’Ass. Arch. Civita Vetula una mostra sull’Antico borgo minerario di Castrum Ferrariae e la sua Chiesa, con relativo catalogo illustrativo.