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Vincenzo Marsili
SOTTILE
COME IL DOMANI
Storie di un mondo ossessivo
ARMANDO
EDITORE
SOMMARIO
I. PERCHÉ LA GIOVINEZZA RESTI ETERNA
Abluzioni notturne
La casa sepolta dalla polvere del tempo
Svanire
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II. IL REGISTRO OSSESSIVO
Una pellicola che scorre sulla vita
Rimuginare
Un ordine che oltrepassa e precede tutto
Il doppio significato di ordine
La mancanza di un senso
La duplicazione di sé
Chiusura e solitudine
Dietro il non poter scegliere: un pensiero magico
Indecisione e dissociazione
Il lato fobico
Perfezionismo
Oralità anale
Il lato perverso
Il lato maniacale: i collezionisti
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III. UNA MENTE CHE NON SI SCARICA MAI
(Come nasce un pensiero ossessivo)
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IV. LA BIMBA MESSA IN LAVATRICE
(Ossessività e sadismo)
Sonni e risvegli
“Un tipo di sogni che non va fatto”
L’appuntamento con lo sconosciuto
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V. “UN MAGMA PIATTO”
Un diario di guerra
Piccioni viaggiatori
Il ritorno del cervo ferito
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BIBLIOGRAFIA
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Ai miei figli Edoardo e Riccardo
Sottile come il domani
che non arrivò mai,
un mandato, una condanna,
eppure solo un nome.
(E. Dickinson, J1713/F1748)
Ringraziamenti
Ringrazio i miei pazienti che sono i personaggi di queste storie,
sperando che l’aver trasformato in racconto la loro pena possa essere utile ad altri.
I
PERCHÉ LA GIOVINEZZA RESTI ETERNA
Una volta credevo… (pausa) …dico che una volta credevo che non ci fosse nessuna differenza tra una frazione
di secondo e la successiva. (Pausa). Una volta dicevo…
(pausa) …dico che una volta dicevo, Winnie, tu sei immutabile, non c’è mai la minima differenza tra una frazione di secondo e la successiva.
S. Beckett, Giorni felici, 1961
Abluzioni notturne
Ho conosciuto Viola durante un suo ricovero nel Servizio Psichiatrico dell’Ospedale mentre discuteva con gli infermieri che
la rimproveravano di aver passato tutta la notte a lavarsi le mani
ai gabinetti, di aver consumato un’infinità di carta e di non voler
assumere sonniferi. Lei protestava che solo di notte poteva avere
la sua privacy, perché durante il giorno i gabinetti erano affollati
e tutti potevano entrare dentro senza nemmeno bussare, poiché le
porte non potevano essere chiuse dall’interno.
Appena entrata nella mia stanza si lagnò per essere stata ricoverata. Si sentiva come un pacco postale, spedita da un posto ad
un altro e questo si ripeteva da otto anni nella sua vita.
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In seguito venni a sapere che il primo ricovero psichiatrico
era stato proprio otto anni prima, quando la madre, che lavorava
a servizio presso un Marchese, era stata licenziata e loro erano
state cacciate fuori dalla villa di campagna del nobiluomo, dove
da tanti anni tutta la famiglia risiedeva. La coppia, oltre a perdere
i vantaggi del contatto con la nobiltà, aveva dovuto traslocare in
un appartamento di città molto malandato che era di proprietà del
Marchese. Viola, nell’imminenza del trasloco, aveva avuto una
crisi di agitazione e la moglie del Marchese, sfruttando le sue
amicizie, si era interessata per farla ricoverare in psichiatria, in
modo da poter eseguire più tranquillamente il trasloco durante
la sua assenza. Così Viola subì una doppia violenza: non poté
nemmeno ordinare, scatolare e seguire il trasferimento delle sue
cose.
Viola era ferma in piedi davanti alla porta e rimaneva lì. Disse
che era preoccupata di ritornare ad essere obesa perché le avevano
trovato dei valori sballati della tiroide. Finalmente chiese di sedersi, ma appena seduta mi implorò:
– Mi mandi via, la prego, non ce la faccio. Ho sonnolenza!
Si rialzò, andò alla porta e vi restò a lungo senza aprirla, dandomi le spalle. Poi fece per aprirla e cadde per terra.
Viola era una donna di quarantanove anni, con un’espressione
triste: i tratti del suo viso, spesso molto arrossato da un eritema,
lasciavano intravedere un’antica bellezza sfiorita. Figlia unica,
aveva perso il lavoro e conviveva con l’anziana mamma in uno
stato di grande povertà. Il babbo era stato l’uomo di fatica del
Marchese, poi aveva avuto problemi con l’alcool ed era morto di
cirrosi epatica quando Viola aveva 25 anni.
Lo psichiatra che l’aveva in cura mi chiese aiuto: mi disse che
la paziente si era sempre più ritirata in casa, e usciva solo di notte
per non farsi vedere. Aveva oscurato i vetri delle finestre tappez10
zandoli di riviste di moda e gli armadi di casa erano pieni di vestiti
che comprava ma non indossava mai. La sua compliance alle cure
psicofarmacologiche era inesistente.
Al colloquio successivo Viola si presentò molto ben curata e
disposta a parlare. Subito mi parlò della sua pelle:
– Mi capitano cose sulla pelle – disse. Indicò dei taglietti sulle
mani e un gonfiore delle guance causato da un dente ammalato per
il quale prendeva un antibiotico.
– Mi deformo il volto – soggiunse preoccupata. – Ci tengo ad
essere come le altre persone curate nel loro aspetto. Non è che
mi credo di essere qualcuno, perfetta, però non sono né esile né
tozza.
– Bene, questo è un punto di vanto per lei – dissi.
E lei: – Sì, anche se la pelle con gli anni si è un po’ sciupata.
Questo eritema del viso è dovuto a fatti spiacevoli.
– Essere trattata come un pacco ad esempio? – dissi.
– Sì, veramente mi sono sempre sentita un pacco. Da sempre.
Ho sempre fatto come volevano gli altri.
E mi raccontò di essersi diplomata al Liceo artistico perché le
sembrava di essere portata al disegno, ma poi di aver fatto vari lavori spiacevoli e duri che le avevano “affibbiato”, come stare alla
cassa di un supermercato.
– Ero alla cassa, non potevo mai fermarmi un attimo perché la
gente in fila fremeva. In mezzo a quella bolgia di gente una timida
e riservata come me, a dover sempre chiacchierare. Poi ho lavorato in un ufficio di amministrazione a contatto con una collega che
non sopportavo perché mi faceva mobbing e mi raggirava…
Mentre raccontava queste cose, squillò il mio cellulare. Risposi
molto brevemente alla chiamata, ma Viola mostrò un’inaspettata
reazione a quell’apparentemente piccola frustrazione. Mi chiese
di poter uscire perché aveva detto delle “castronerie”.
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– Quando vedo qualcuno più bravo di me, non mi viene da
continuare e butto tutto via… Io sono così: o bene o male! – disse.
E mi descrisse un suo comportamento che era solita adottare per
cercare di contenere l’ondata di emozioni che la facevano cadere a
terra, come se cercasse di ripeterlo anche in quel momento.
– Se una cosa mi va male, io mi stendo sul letto, anche perché
non ho il divano, e ci sto finché non è passato. Per modo di dire,
perché passare non mi passa, però almeno mi distendo un po’.
Le dissi che la delusione, se non viene disintossicata, può avere
un potere malefico terribile e può anche bloccare una persona facendola restare indietro nel tempo. Viola allora si sfogò: tante cose
le erano andate male nella vita. A scuola si era diplomata, ma con
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con i suoi genitori: il babbo era violento, minacciava. “Non da
uccidere”, però. Beveva.
Aveva assistito a cose brutte di lui e anche di suo fratello, delle
quali preferiva non parlare. Riguardo alla mamma, non le aveva
detto mai niente del suo passato. Sapeva solo che aveva fatto la
prima elementare.
– Mi trovo sfortunata – commentò con un lamento. – Tutte a
me succedono. Mi sembra di essere quella a cui capitano tutte.
Così al supermercato ho dovuto affrontare lo stress della folla che
mi guardava e voleva chiacchierare; nel lavoro porta a porta non
riuscivo a reggere ad un no, sentivo di dover insistere fino a trovare qualcuno che mi avrebbe dato retta. Mi dà fastidio essere
rinnegata! C’è maniera e maniera che mi si dica no! Oh se almeno
avessi trovato un lavoro che mi allettava!
All’incontro successivo Viola non voleva venire. Era arrabbiata con gli infermieri che le volevano dare dei sonniferi per punirla
perché passava tutta la notte a “lavorare” nei bagni.
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– Se non prendo i sonniferi, loro mi legano. Dicono che lavoro
di notte. Lavoro? Io vado in bagno. Bevo acqua perché ho sete, ho
la bocca asciutta per gli psicofarmaci. Vogliono mettermi dietro
una guardia che vede tutti i miei movimenti? Alla tal ora io dovrei
andare a letto! Ma se non me la sento? Se mi trovano alzata all’una
di notte sono costretti a farmi la puntura. Ma perché dirmelo già
alle 23? Questi cambiamenti di ordini mi fanno sentire messa di
mezzo. La notte è l’unico momento di pace per me. Non c’è nessuno che può entrare dentro al gabinetto e vedermi in mutandine.
Questo è un posto pubblico, mi vedono mezza spogliata… Io non
mi faccio vedere spogliata nemmeno da mia madre! La stanza del
bagno non si chiude: manca il pezzetto che ferma la barretta di
metallo. Sulla porta c’è scritto Prima di entrare bussare, ma non
lo fanno. Perciò mi sembra sciocco scriverlo. Forse gli altri sono
più disinibiti, avranno i loro usi… Delle volte non riesco a finire
le mie funzioni: devo uscire fuori perché c’è da prendere la terapia
o i pasti. Tante volte gli infermieri mi sono venuti a bussare alla
porta del bagno! Oppure sentirsi dire: “Alzati, perché ci devo venire io!”. Sicché poi mi sento tutta da rifare! Mi dà noia rimanere
sempre a metà, dover finire sempre di lavarmi, avere cose non finite. Qui bisogna essere puntuali. E poi c’è il fatto che gli infermieri
mi vogliono guardare in bocca come ai cavalli, perché dicono che
non voglio prendere le pasticche. E poi il vitto: un infermiere l’altro giorno si è accorto che non mi andavano i pasti del vassoio, e
mi ha detto: “Se non ti va, ci sono altre persone che ne hanno bisogno più di te!”. Allora vuol dire che sono sana e robusta?! Sono
tante piccole cose…!
– Pensavo che comunque questo periodo che lei deve passare
fuori di casa sua potrebbe diventare interessante. Come posso aiutarla ad alleggerire alcuni aspetti di questo ricovero che sono così
spiacevoli per lei?
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– Sì, però il problema più grosso per me sono i sonniferi e le
punture: mi azzerano la mente, non mi fanno parlare, mi danno
l’abbiocco. Ho subìto dai medici tante cose che mi hanno buttato
giù, abbattuto, e per riprendermi, per smaltire il tutto ho bisogno
di tempo.
Evidentemente Viola voleva parlare dei farmaci-medici.
– Cosa è successo con questi medici? – le chiesi.
– Devono aver fatto qualcosa che io non so come dire. Devono
avermi fatto delle cose alla testa senza usare macchine, apparecchi.
– Sono entrati nella sua testa?
– Sì, un po’ sì. Sono entrati nella mia testa senza usare… È successo qualche anno fa… Senza usare apparecchi. Poi anche certi
farmaci lo fanno di stordire, ottundere… La prima volta che sono
andata dallo specialista, ho partecipato ad un gruppo, ma non mi
ci sono trovata, e sono andata via.
Sapevo che in passato Viola aveva partecipato ad un gruppo
terapeutico e si era così infatuata del conduttore che questi, non
sapendo più come gestire le sue insistenti profferte amorose, l’aveva cacciata fuori. Quel conduttore era uno psichiatra del reparto.
Quindi Viola mi stava avvisando dell’effetto di infatuazione che io
producevo sulla sua mente.
La volta dopo, appena entrata, Viola mi chiese:
– Siccome mi sento un po’ strana, si potrebbe rimandare il colloquio?
– Cos’ha? – le chiesi.
– Ho un cerchio alla testa.
– I medici sono entrati dentro la sua testa perché i confini della
sua mente sono fragili – dissi io. Lei mi guardò stupita e dopo un
po’ rispose:
– Prima era una sofferenza psichica, ora si aggiunge quella fisi14
ca. Ho gli acciacchi dell’età. Cambio di umore. Non voglio vedere
nessuno. È una sofferenza devastante.
– Questa invasione dei confini è come un’intrusione dolorosa e
distruttiva – le feci notare.
–Sì, – rispose – a forza di prendere farmaci, ho una sofferenza
negli organi importanti: fegato, duodeno, la tiroide soprattutto, la
dermatite. Tra i miei acciacchi e l’ambiente, io muoio.
– Questo impatto con l’ambiente deve essere tremendo per lei
– le dissi con compassione.
– È scomodissimo. Non possono darmi la spazzola per i capelli. Gli infermieri mi trovano la scusa che non ce l’hanno. Non
pretendo chissà che, ma almeno le cose più importanti! Allora io
non mi posso lavare? Il bagno è importante. Io ho una dermatite
alle mani!…
– Per i troppi lavaggi… – mi permisi di ricordarle.
Lei si giustificò: – Devo stare attenta… devo usare spesso l’acqua perché mi sporco… Se tocco qualcosa come i soldi, poi mi
viene da sciacquarmi con l’acqua calda perché, dato che non posso usare saponi, disinfetta, ma mi fa male. Ho le mani incerottate
per i taglietti prodotti dalla pelle seccata, mi fanno male. Dovrei
mettere una pomata sulle mani ventiquattro ore su ventiquattro.
– Sono tutte manie ossessive – intervenni con una certa durezza.
– Sì, – ammise lei – ho le mie fisse perché voglio le cose in un
certo modo, non in un altro… Vedo le cose a modo mio. Sono cose
mie che non impongo agli altri.
– Mi sembra di capire che i suoi rituali sono causati da timori
di malattie – tagliai di corto – che andrebbero curati.
A sentir parlare di malattie, Viola sembrò molto spaventata. Soprattutto aveva paura di trovarsi davvero pericolosamente imprigionata nel ruolo della malata.
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– Io riesco ad essere uguale a tutti gli altri! – mi scongiurava –
Faccio le cose che fanno gli altri, ma ci riesco solo quando sono
con poche persone di cui mi fido.
E, come presa da un risentimento, protestò, cercando in me
un alleato: – Odio gli operatori di sostegno che gli psichiatri mi
hanno mandato a casa. Vorrei non essere malata. Ho paura delle
malattie. Non vorrei avere bisogno di nessuno, tanto meno dei
medici… perché uno diventa schiavo, è una catena che non finisce
più. Io non sono una di quelle che prendono il telefono coi guanti,
non sono così ossessiva!
Dopo lo sfogo dell’arrabbiatura, si calmò e stette in silenzio.
Poi riprese: – Ho incubi psichici di subire delle punizioni, di essere legata, essere presa come un pacco postale.
E, dopo una latenza, aggiunse: – Un po’ parlo poco, ho un carattere chiuso, un po’ sono sofferente. Non lego molto con le persone anziane (all’epoca non ero così anziano, N.d.A.) sconosciute… Il mio curriculum di sofferenza mi ha stravolto, mi ha reso
troppo diversa.
Viola era sconvolta dalla paura di essere presa in cura da me,
perché ciò avrebbe significato per lei ritrovarsi inerme, in balia di
oggetti d’amore potenti che avrebbero potuto anche approfittarsi
sadicamente di lei.
La casa sepolta dalla polvere del tempo
Qualche giorno dopo le sue dimissioni, mi recai a farle una
visita domiciliare. Appena salite le scale fui investito da un odore
nauseante di fogne intasate che proveniva dalla cantina. Mi venne
incontro la madre, mi fece entrare nella sala. Parlammo restando
in piedi perché le sedie erano ricoperte di fogli di giornale che
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servivano per raccogliere i calcinacci e la polvere che cadevano
dall’alto. La mamma mi spiegò che al piano di sopra c’erano degli
uffici e il calpestio sui pavimenti molto sottili provocava la caduta
continua di materiale attraverso i commenti aperti ai bordi delle
travi del soffitto. Il Marchese si disinteressava completamente dello stato dell’appartamento, fino a farlo cadere a pezzi. In cambio
non faceva loro pagare l’affitto. Guardandomi intorno fui percorso
da una sensazione di malessere: i muri erano coperti di macchie
di umido e scrostati, le finestre erano sigillate con le tapparelle
abbassate e c’erano un caldo asfissiante e un odore di chiuso per
la mancanza di circolazione dell’aria. Chiesi se si poteva aprire un
po’ una finestra, ma la mamma mi rispose che Viola non voleva
assolutamente che le finestre fossero aperte: la gente fuori avrebbe
potuto vederla.
Viola non si decideva a venire dalla sua camera. Liberai una sedia e mi sedetti al tavolo. Il tavolo era grande, occupava quasi tutta
la sala; era sgangherato e senza il piano di vetro: le gambe che
si erano aperte durante il trasloco erano state poi inchiodate alla
meno peggio; ma il vetro era stato completamente rotto e rimaneva l’incavo del legno. Era tutto ricoperto da vari involucri di carta
di giornale: uno conteneva asciugamani, un altro un apparecchio
in disuso per l’aerosol, in un altro c’erano dei fiori secchi polverosi che la mamma stava ancora aspettando di portare alla tomba
del marito. Alla parete c’era una credenza con davanti altri mobili
addossati: il vetro era crepato (anch’esso testimonianza della violenza del trasloco), e la polvere di anni era depositata all’interno,
sui bicchieri, le bottiglie, le suppellettili, i vasi: come se non fossero stati più toccati dal giorno del trasloco. C’erano altri mobili
vecchi rotti e tutta la stanza era ingombra di scatole di scarpe e di
vestiti appesi ad attaccapanni in ogni angolo. Era molto difficile
riuscire a muoversi.
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