Le cose fragili sono trasparenti, si vede tutto, si vede il buio.

Transcript

Le cose fragili sono trasparenti, si vede tutto, si vede il buio.
cristiana alicata
ho dormito con te tutta la notte
I
l passato è un mosaico di affetti irrisolti,
guerre, armistizi, traslochi e fughe e la
ricerca del tempo perduto può essere, a
volte, l’unico modo di ritrovarsi. “Una storia
che vede una famiglia sfaldarsi e in qualche
modo misterioso ricomporsi nel ricordo. Una
storia in cui i fantasmi dei vecchi amori ritornano e sono nuove persone, nuove avventure,
nuova vita. Una storia di abbandoni, e di ri-
trovamenti. In questo romanzo Cristiana Alicata ha messo su carta con una sincerità e una
grazia speciali il cuore dei suoi personaggi. E
dietro di loro ci conduce, un po’ incantati, un
po’ dolenti, un po’ persi, dalla prima all’ultima
pagina, e ancora oltre. Questa storia, più di
ogni altra cosa, è un romanzo che prima non
c’era, nelle vostre vite e sui vostri scaffali, e
adesso c’è, per rimanere." Ivan Cotroneo
Le cose fragili sono trasparenti,
si vede tutto, si vede il buio.
Isbn 978-88-89920-86-2 • pp. 208 | 14.00 euro
•
uscita in libreria • 21 maggio 2014
ho dormito con te tutta la notte
Room #50, Berlino, 1993
Ti ho trovata in un albergo di Berlino di cui mi è
rimasto impresso l’odore di senape. Avevi 27 anni e
sembravi Sabrina, fuori dalla chiesa.
L’estate dei miei diciotto anni convinsi papà a lasciarmi
fare un viaggio in Europa prima dell’università.
Anche quell’estate la mamma sarebbe rimasta
nella clinica dove era ricoverata da quasi due anni, da
quando aveva avuto una crisi più brutta del solito e le
sue voci le avevano ordinato di bruciare l’enciclopedia
della Fiaba che era di papà quand’era piccolo e che io
avevo letto quando ancora abitavamo a Stezzano. Avevo
amato la barba lunga e riccioluta di Ulisse e i muscoli
di Achille. Inseguivo Zeus nelle sue scorribande sulla
terra e ridevo della rabbia di Era. Avevo una particolare
predilezione per il povero Vulcano innamorato di Venere
e sognavo di trovare le porte dell’Ade per affacciarmi
appena e poter salutare anche solo per un attimo una
vecchia zia che era morta quando ero molto piccola,
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ma che ricordavo per i regali che mi faceva ogni volta
che veniva a farci visita.
Poco prima che la mamma la bruciasse, l’avevo
tirata giù da un ripiano più alto per rileggerne una
parte. Quindi forse era colpa mia se le era tornata in
mente all’improvviso dopo tanti anni che se ne stava
nascosta in libreria. L’enciclopedia della Fiaba andò in
fumo ed Esopo e Raperonzolo morirono insieme ad
Hansel e Gretel. Quel giorno avevo assistito alla rabbia
di papà che aveva distrutto il lampadario, così basso
da poter essere afferrato, divelto dal soffitto e gettato
in terra in mille pezzi. L’avevo tenuto fermo, stretto,
per impedirgli di distruggere altro. Non sapevo che era
già troppo tardi.
«Tanto ormai l’ho letta tutta», gli dissi per sdrammatizzare, ma era anche una cattiveria diretta a mia
madre che l’aveva bruciata quando ormai da parecchio
tempo gli dei mi stavano più simpatici di Dio.
Papà si era sciolto dalla stretta, bruscamente, mi
aveva preso i polsi e staccato da sé. Disorientata avevo
seguito il suo sguardo: fissava la mamma che tra le
lacrime ripeteva che in quei libri c’erano solo le stupidaggini del demonio. Papà la guardava con odio, come
si può odiare un invasore che ti ha incendiato la casa,
ucciso i figli, sterminato gli animali. Sembrava uno dei
vichinghi delle fiabe nordeuropee con la barba rossa e
l’espressione selvaggia. Ebbi la tentazione di chiudergli
gli occhi, invece chiusi i miei.
Avevo accompagnato papà in clinica e assistito al
movimento della sua mano che compilava la richiesta
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del ricovero coatto. Accanto a lui il medico che seguiva
la mamma da quando eravamo tornati a Roma.
«Perché ha smesso di prendere i farmaci?» Gli
chiese il medico.
«Non lo so. Non me sono accorto che aveva
smesso», aveva risposto lui, poi si era girato per vedere
se lo avevo sentito.
«Davvero non te ne eri accorto?» Avevo chiesto
quando ci eravamo ritrovati vicini, nello spazio angusto della macchina. Non lo ritenevo possibile. Era più
probabile che avesse tentato di disintossicarla dai farmaci per vedere se, tolto l’effetto della chimica, esisteva
ancora la donna che aveva sposato. Eravamo sempre
stati attentissimi anche a cogliere qualsiasi segnale di
assuefazione. Ogni volta avvisavamo il medico che,
prontamente, correggeva la dose o cambiava farmaco.
E ricominciavamo. Per anni l’avevamo drogata per
controllare le sue crisi. Eravamo stati dei bravissimi
aguzzini.
Mi ero accorta che qualcosa non andava quando
un pomeriggio la mamma era entrata nella mia stanza
e aveva preso in mano il vocabolario di Latino. Non
entrava quasi mai nella mia stanza, non le veniva mai
in mente.
«È il mio», disse.
«No, è quello di papà», risposi.
«Ti dico che è il mio», aveva insistito, con lo stesso
sguardo di quando mi inseguiva con il mestolo e io
scappavo dalla sua furia. Sulla mia scrivania c’era uno
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dei volumi delle Fiabe. Pochi giorni dopo l’aveva fatta
a pezzi e poi bruciata nella stufa. Pezzi di copertina
rigida e grigia erano rimasti intatti e incombusti nel
braciere della stufa.
«Papà, perché le hai fatto smettere di prendere
le medicine?» Volevo che confessasse, che si fidasse di
me. Se mi avesse parlato saremmo tornati vicini, lo
avrei capito.
Non rispose e continuò a guidare nel traffico della
città. Avevo voglia di giocare a dama con lui, ma non
lo chiedevo più. Sembrava arrabbiato con tutti, lo era
da un tempo lunghissimo, ma solo in quel momento lo
stavo realizzando come qualcosa di incolmabile, che avevo
lasciato accadere e su cui era impossibile tornare.
Il ritorno a Roma era stato un tentativo di riportare
la mamma nei suoi luoghi, lontano dalla nebbia della
Pianura padana, per farla guarire. O per farla stare
meglio. Lo avevo capito e non aveva funzionato.
«Papà, voglio andare a Capo Nord e voglio vedere
Berlino».
«Perché?»
«Non lo so», risposi. Era difficile spiegare il bisogno di affacciarmi su una fine, la necessità di toccare
un confine, di camminare su una separazione. Non
avevo le parole per dire la quantità di cose che volevo
lasciarmi alle spalle e Capo Nord mi sembrava il luogo
adatto per provare quella sensazione.
Papà non aveva aggiunto nulla, si era immediatamente distratto. Ormai ci ero abituata: da tempo
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cercare la sua attenzione era come afferrare un’anguilla
a mani nude.
Quando eravamo arrivati a Roma, papà aveva cercato una scuola per me e Giacomo che facesse il tempo
prolungato e aveva riempito ogni nostro spazio libero
di attività. Eravamo ingozzati di cose da fare fuori di
casa, tornavamo solo per dormire e così stanchi e sazi
da crollare nel sonno alla svelta. Ci addormentavamo
per spossamento. A Roma finalmente ognuno aveva una
stanza per sé, la casa era enorme e lo studio di papà
così lontano che non potevo chiamarlo per giocare a
dama senza dover gridare rischiando di svegliare tutti,
compresi i vicini. Allora a volte di soppiatto percorrevo
il lungo corridoio di marmo alla veneziana a piedi nudi
e mi affacciavo alla sua porta. I primi tempi papà si
accorgeva di me, diceva: «Cosa fai ancora in piedi, signorina?» e sorrideva, si alzava, mi prendeva in braccio
e mi riportava nel letto, aggrappata alle sue spalle.
Cominciai a trovarlo spesso addormentato davanti
alla tv. Allora ero io a svegliarlo tirandogli la barba e
a dirgli papà devi andare a dormire. Mugugnava qualcosa e io me ne tornavo in camera. Coprivo il tratto
del ritorno con un senso di onnipotenza, una specie di
anticipazione di cosa doveva essere diventare grandi.
Dormivano tutti, persino papà che di solito era delegato
a stare sveglio più di tutti. La casa era silenziosa, il
marmo trasmetteva il suo gelo alle piante dei piedi e
io scrutavo le forme nell’oscurità come se fossi sola al
mondo. La notte faceva quell’effetto.
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Poi smisi di alzarmi per andare da papà.
La domenica lo osservavo aiutare mia madre a
mettersi il cappotto per andare a messa tutti insieme:
spesso lei se lo toglieva sulla soglia, lo lasciava cadere a
terra come se fosse un’attrice e diceva: “sono stanca, non
ce la faccio”. Allora papà raccoglieva il cappotto, lo riagganciava all’appendiabiti, si chiudeva la porta alle spalle
e tornava dopo un’oretta con le paste alla crema.
A volte gli proponevo di accompagnarlo, ma rifiutava e mi diceva: “Resta con la mamma, non lasciarla
sola, tanto a te la messa ti annoia”. E portava Giacomo
con sé. Finché anche mio fratello non cominciò ad
approfittare delle defezioni della mamma per saltare l’abitudine domenicale della messa. Dopo un po’
non ci andò più nemmeno papà e la domenica non si
compose nemmeno di quel tentativo: c’era sempre più
silenzio, la mamma nel letto o in poltrona, Giacomo
che si svegliava tardi e poi usciva a giocare a pallacanestro all’oratorio. Papà chiuso nello studio e io in
camera a leggere. Improvvisamente avevamo assunto la
posizione diradata dei cocci della stessa tazza infranta
sul pavimento. Era questo che volevo dimenticare. Gli
spazi siderali tra un coccio e l’altro, oppure trovare il
punto dove ero caduta, scavarlo meglio per trovarvi
posto, restare lì.
Ti ho incontrata in un albergo di Berlino che aveva ancora l’aria di un posto di guerra. Mentre aspettavo dietro
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di voi per chiedere una stanza, ti osservavo. L’albergo
era incupito da troppo legno scuro e moquette beige e
tu avevi un anello, una delle prime cose che ho notato,
niente di che, solo argento dozzinale. Avevi zigomi alti
e un taglio sotto il mento, un taglio antico. La donna
che era con te ti si muoveva attorno, con consuetudine
molle, allenata: non aveva alcun bisogno di guardarti,
nemmeno per sistemarti una ciocca di capelli crollata a
disordinare la tua fronte: il ritmo della vostra abitudine
era sinfonico – a due corpi – ed era fatto di verbi, gesti
e silenzi da non riempire se non per necessità. I vostri
movimenti si incastravano come tessere di un puzzle
interminabile. Era una perfezione che mi turbava, come
se una volta raggiunta non restasse che morire.
Non capivo quella sollecitudine tra corpi, per me
era una lingua dimenticata, parole che avevo perso
negli anni, oggetti che mi erano caduti dalla tasca,
introvabili anche percorrendo la strada a ritroso. La
lingua che conoscevo per comunicare era quella che
usavo per far parlare tra loro i Puffi e i Playmobil.
Quando papà non c’era e non ero fuori a giocare con
Lucia o ad aspettare Sabrina che usciva dalla messa del
pomeriggio, inventavo storie e le mettevo in scena sul
pavimento: era una lingua fatta di guerre e conquiste.
Non c’era nessuno che mi spostava i capelli dalla fronte,
non esisteva il tempo di pace, il momento delle carezze.
La lingua che conoscevo non aveva niente a che fare
con quella che parlavate voi due, in piedi nella hall di
un albergo di Berlino.
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La curva della tua nuca pallida e scoperta dai
capelli raccolti aveva catturato i miei occhi. Te ne eri
accorta e mi avevi fissato scuotendo la testa in modo
interrogativo. Come quando ti avevo mostrato la cravatta
sul sagrato della chiesa.
“Cosa vuoi”, sembravi chiedermi. E avresti potuto
aggiungere: “ dopo tutto questo tempo”.
Avevo alzato una mano, chiesto scusa in silenzio,
e tu ti eri voltata, non avevi indugiato un istante di
più, lasciandomi la sensazione che qualcosa mi fosse
sfuggito. Lei era più vecchia di te ed ero certa che
i vestiti che indossavi te li aveva comprati lei, per
correggere la noncuranza che avevi nello sceglierti le
cose da metterti addosso. Quanto a me stavo in piedi
con i capelli fradici sulla fronte e una pozza d’acqua
intorno, sulla moquette della hall, perché da quando ti
avevo vista non mi ero mossa. Avevo uno zaino sulle
spalle, fuori pioveva a dirotto, non avevo trovato posto
in ostello e con quel tempo non avrei potuto montare
la tenda in nessun campeggio. Non avevo nemmeno
un ombrello.
Prima di entrare nell’albergo mi ero infilata in
una cabina telefonica dove io e lo zaino entravamo
insieme a malapena. Avevo chiamato papà, avevo parlato molto e ricevuto in cambio monosillabi. L’avevo
immaginato in piedi, curvo nel corridoio della casa
di Roma, le luci spente, il suono della televisione che
arrivava dalla sala.
«Giacomo ti fa compagnia?»
«Sì».
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«Ok, ti chiamo dopodomani».
«Sì».
Davanti a me, dalla cabina, guardavo i varchi
della metropolitana vomitare persone a singhiozzo
sulla Karl-Marx-Allee. Ero spuntata anche io da lì, da
una scalinata di piastrelle bianche e verdi. Sembrava
l’uscita di un sanatorio, di certo era stata una strada
costruita per fare marciare le masse. Una strada da
primo maggio.
Quando pensò di avere finito con voi, dopo
avervi consegnato la chiave, la ragazza della reception
mi rivolse un gesto di perplessa attenzione per farmi
avvicinare. Era bionda, giovane e forse lavorava per
pagarsi gli studi, perché non aveva l’aria di chi sarebbe
stata dietro quel bancone per sempre. Aveva un certo
portamento nobile, nel collo lungo e gli occhi socchiusi
e vigili. Evidentemente pensava che fossi lì dentro solo
per ripararmi dalla pioggia e in effetti prima di notarti
avevo pensato di chiedere solo quanto costava una stanza
e di girare un altro paio di alberghi per vedere chi mi
faceva il prezzo migliore. Mi avvicinai alla reception
gocciolando, lasciai cadere lo zaino al mio fianco e
raddrizzai la schiena.
Voi eravate ancora lì, stavate leggendo il regolamento dell’albergo affisso su una colonna di legno a
base quadrata, proprio lì accanto. O meglio. Lo stava
leggendo lei, mentre tu eri una specie di accessorio
immobile, una molotov appoggiata accanto a ninnoli
di cristallo sul ripiano di una libreria. Una promessa
di devastazione.
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