C`erano due uomini bianchi in carica alla

Transcript

C`erano due uomini bianchi in carica alla
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
1.
Due uomini bianchi erano incaricati della stazione commerciale.
Kayerts, il principale, era piccolo e grasso; Carlier, l’assistente, era alto,
con una grossa testa e un largo busto appollaiato su due gambe magre. Il
terzo uomo del personale era un negro della Sierra Leone, che asseriva di
chiamarsi Henry Price. Per una qualche ragione, gli indigeni che abitavano
a valle del fiume gli avevano dato il nome Makola, nome che gli rimase
appiccicato durante tutti i suoi giri per il paese. Parlava inglese e francese
con accento melodioso, scriveva con bellissima calligrafia, si intendeva di
contabilità e onorava nell’intimo del suo cuore il culto degli spiriti maligni.
Sua moglie era una negra del Loanda, grassissima e molto rumorosa. Tre
bambini ruzzavano allegramente davanti alla porta della sua abitazione
bassa, fatta a capanna. Taciturno e impenetrabile, Makola disprezzava i
due uomini bianchi. Aveva la responsabilità di un piccolo magazzino in
pietra con un tetto di erba essiccata, e si pregiava di tenere il conto esatto
di grano, tessuti di cotone, fazzoletti rossi, fili d’ottone e altri articoli di
commercio in esso contenuti. Davanti al magazzino e la baracca di
Makola, nell’ampio spazio aperto della stazione c’era una unica grande
costruzione. Si ergeva elegante, in incannucciato, con una veranda su tutti
e quattro i lati. Aveva tre stanze. Quella nel mezzo era il soggiorno, nel
quale erano due tavolacce e qualche sgabello. Le altre due erano le camere
da letto per i due uomini bianchi. Ciascuna aveva una lettiera e una
zanzariera per tutta la mobilia. L’impiantito di legno era disseminato di
oggetti degli uomini bianchi; scatole aperte mezze vuote, abiti da città,
vecchi stivali; tutte cose vecchie, e rotte, per ragioni misteriose accumulate
sciattamente intorno ai due. Anche un altro abitacolo stava a una certa
distanza dalle costruzioni. In esso, sotto un’alta croce tutta storta, dormiva
l’uomo che aveva assistito all’inizio di tutto, che aveva progettato e
sorvegliato la costruzione di quell’avamposto del progresso. Era stato, in
patria, un pittore senza successo, il quale stanco di inseguire la fama a
stomaco vuoto, era arrivato lì grazie ad alte raccomandazioni. Era stato il
primo a dirigere la stazione. Makola aveva assistito l’energico artista
mentre moriva per la febbre nella casa appena terminata, con il solito tono
indifferente sul genere “ve l’avevo detto io”. Poi, per un periodo aveva
abitato solo con la sua famiglia, i suoi libri contabili, e lo Spirito Maligno
che governa le terre al di sotto dell’equatore. Si intendeva alla perfezione
1
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
con il suo dio. Forse se lo era ingraziato con la promessa di altri uomini
bianchi coi quali a mano a mano divertirsi. Ad ogni modo il direttore della
Grande Compagnia di Commercio arrivato su un piroscafo che sembrava
una enorme scatola di sardine con issata sopra una baracca con un tetto
piatto, trovò la stazione in buono stato, e Makola al suo solito quietamente
diligente. Il direttore aveva raddrizzato la croce sopra la tomba del primo
incaricato, e al suo posto aveva nominato Kayerts. Carlier fu chiamato
come secondo in carica. Il direttore era un uomo efficiente e spietato, che
di tanto in tanto, ma in maniera del tutto impercettibile, indulgeva in un
sinistro sarcasmo. Fece un discorso a Kayerts e Carlier, invitandoli ad
ammirare l’aspetto allettante della loro stazione. La prima stazione
commerciale era distante circa trecento miglia. Era una opportunità
eccezionale per loro di distinguersi e ottenere delle percentuali sull’attività
commerciale. Quel posto era una grazia accordata ai principianti. A
Kayerts venne quasi da piangere per la cortesia del suo direttore. Avrebbe
voluto, disse, tentare di onorare la lusinghiera fiducia facendo del suo
meglio, , etc. etc. Kayerts era stato nella Amministrazione dei Telegrafi, e
sapeva come esprimersi correttamente. Carlier, un ex sottufficiale di
cavalleria in un’armata tutelata da diverse potenze europee, rimase meno
impressionato. Se c’erano commissioni da poter carpire, tanto meglio; e
trascinando lo sguardo tetro sul fiume, i boschi, la macchia impenetrabile
che sembrava tagliar fuori la stazione dal resto del mondo, sibilò tra i
denti: “Si vedrà, molto presto”.
Il giorno seguente, gettate sulla spiaggia alcune balle di capi di cotone
e poche casse di provviste, il piroscafo-scatola di sardine se ne andò per
non fare ritorno per altri sei mesi. Sul ponte, il direttore si levò il berretto
in direzione dei due funzionari i quali sulla spiaggia sventolavano i
cappelli, e voltandosi verso il suo vecchio attendente della Compagnia da
quando era passato al quartier generale, disse: “Guardi quei due imbecilli.
Devono essere impazziti in sede, per mandare due esemplari del genere.
Ho detto a quei due giovanotti di piantare un orto, tirar su nuovi magazzini
e nuovi recinti, costruire un nuovo pontile. Scommetto che non verrà fatto
un bel niente! Non sapranno da dove incominciare. Ho sempre pensato che
la stazione su questo fiume fosse inutile, e questi sono fatti apposta per
starci!”
“Si formeranno, qui” disse la vecchia volpe con un sorriso sornione.
“Ad ogni modo, io me ne libero per sei mesi”, replicò il direttore.
2
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
I due uomini osservarono il piroscafo doppiare il capo, poi risalendo a
braccetto il pendìo del pontile, fecero ritorno alla stazione. Erano stati in
quel luogo ampio e scuro solo un tempo brevissimo, e ancora sempre in
compagnia di altri uomini bianchi, sotto lo sguardo e la guida dei loro
superiori. E adesso, sordi come erano alle sottili influenze dell’esterno, si
sentirono molto soli, nel momento in cui all’improvviso erano lasciati
senza assistenza in quella landa desolata; una landa desolata resa ancora
più strana, più incomprensibile dai misteriosi bagliori della vita pulsante
che conteneva. Erano due individui perfettamente insignificanti e incapaci,
la cui esistenza era resa possibile solo dalla alta organizzazione di
collettività civili. Pochi realizzano che la loro vita, la profonda essenza del
loro carattere, le loro capacità e la loro audacia sono solamente
l’espressione della loro fede nella sicurezza di ciò che li circonda. Il
coraggio, la padronanza di sé, la fiducia; le emozioni e i principi; ciascun
pensiero, grande o insignificante appartiene non all’individuo ma alla
massa: alla massa che crede ciecamente nella forza irresistibile delle sue
istituzioni e della sua morale, nel potere della sua polizia e della sua
opinione. Ma il contatto con la pura, assoluta barbarie, con la natura
primitiva e l’uomo primitivo, infonde nel cuore un improvviso e profondo
tormento. Alla sensazione di essere gli unici del proprio genere, alla chiara
percezione della solitudine del proprio modo di pensare, di sentire – alla
negazione di ciò che è consueto, dunque sicuro, si aggiunge l’affermarsi
dell’inconsueto, che rappresenta un pericolo; un insinuarsi di pensieri
vago, incontrollabile e respingente, la cui disagevole intrusione eccita
l’immaginazione e mette alla prova i nervi civilizzati dei saggi e dei pazzi,
allo stesso modo.
Kayerts e Carlier avanzavano a braccetto, stringendosi uno all’altro
come fanno i bambini nel buio; e avevano il medesimo, non del tutto
spiacevole senso di pericolo che per metà si sospetta essere frutto
dell’immaginazione. Si ostinavano a chiacchierare in tono confidenziale.
“La nostra stazione è collocata in un punto grazioso” diceva uno. L’altro
assentiva con entusiasmo, dilungandosi garrulo sulle meraviglie del luogo.
Poi passarono vicino alla tomba. “Povero diavolo!” disse Kayerts. “È
morto per la febbre, vero?” mormorò Carlier, fermandosi un istante. “Ma
come”, replicò Kayerts indignato, “io ho sentito dire che il tipo si è esposto
incautamente al sole. Il clima qui, lo sanno tutti, non è affatto peggiore che
a casa, basta che ci si tenga lontani dal sole. Hai sentito, Carlier? Io sono il
capo, e i miei ordini sono che tu non ti esponga al sole!”. Assunse la sua
3
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
superiorità in modo buffonesco, ma l’intenzione era seria. L’idea che
avrebbe potuto seppellire Carlier e rimanere solo, gli procurava un intimo
fremito. Improvvisamente sentì che questo Carlier gli era più prezioso lì, al
centro dell’Africa, di quanto un fratello avrebbe potuto essere in qualsiasi
altro luogo. Calandosi nello spirito del momento, Carlier fece un saluto
militare e rispose vivace: “I vostri ordini verranno eseguiti, comandante!”
Dopodiché scoppiò a ridere, dette una pacca sulla schiena di Kayert e
gridò: “Faremo in modo che la vita scorra comoda, qui! Giusto stare seduti
tranquilli e accumulare l’avorio che questi selvaggi porteranno. Questo
paese ha i suoi vantaggi, in fin dei conti!” Entrambi sghignazzarono
rumorosamente mentre Carlier pensava: Questo povero Kayerts; è così
grasso e malaticcio. Sarebbe orribile se dovessi seppellirlo qui. È un uomo
perbene… Prima che raggiungessero la veranda della loro casa si
chiamavano l’un l’altro “mio caro collega”.
Il primo giorno furono molto attivi, gingillandosi con martello chiodi
e della tela di cotone rossa, per mettere le tendine e rendere la loro casa
abitabile e graziosa; risoluti a stabilirsi in maniera confortevole nella loro
nuova vita. Un compito impossibile per loro. Rapportarsi in modo efficace
anche solo con problemi di natura puramente pratica richiede molta più
serenità d’animo e nobile coraggio di quanto la gente generalmente
immagina. Due esseri umani non potevano essere meno adatti per una
simile battaglia. La società, non in ragione di alcuna benevolenza ma
piuttosto a causa dei suoi strani bisogni, si era presa cura di questi due
uomini, vietando loro qualsiasi pensiero indipendente, qualsiasi iniziativa,
qualsiasi distacco dalla routine, e ponendo il divieto pena il terrore della
morte. Essi potevano vivere solamente come macchine. E adesso, liberati
dalla protettiva cura degli uomini con le penne infilate dietro alle orecchie,
o di quelli con le maniche orlate di pizzo d’oro, erano come quei
condannati all’ergastolo, i quali liberati dopo molti anni non sanno che uso
fare della loro libertà. Essi non sapevano in che modo utilizzare le loro
capacità, essendo entrambi, nonostante la velleità di esercitarlo, incapaci di
un pensiero autonomo.
Dopo due mesi Kayerts cominciò a dire: “Non fosse stato per la mia
Melie, non mi avresti tenuto qui”. Melie era sua figlia. Lui aveva
rinunciato al suo posto presso l’Amministrazione dei Telegrafi, sebbene ci
fosse rimasto per diciassette anni perfettamente felice, per mettere da parte
una dote per sua figlia. Sua moglie era morta, e la bambina era stata tirata
su dalla sorella di lui. Rimpiangeva le strade, i pavimenti, i caffè, i suoi
4
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
amici di tanti anni; tutte le cose che era abituato a vedere ogni giorno; tutti
pensieri suggeriti da cose familiari – i pensieri spontanei, monotoni e
consolanti di un funzionario del Governo; rimpiangeva i pettegolezzi, le
piccole inimicizie, il leggero veleno e i piccoli scherzi negli uffici del
Governo. “Se avessi avuto un cognato decente”, osservava Carlier, “un
uomo con un cuore, non sarei qui.” Aveva lasciato l’esercito e si era reso
talmente sgradevole alla famiglia causa la sua pigrizia e la sua impudenza,
che un cognato preso dall’esasperazione aveva fatto sforzi sovrumani per
procurargli un posto nella Compagnia come agente di secondo grado. Non
possedendo un solo penny al mondo, era stato costretto ad accettare quella
specie di esistenza non appena gli era stato chiaro che non ci sarebbe stato
altro da cavar fuori dalle sue relazioni. Come Kayerts, anche lui
rimpiangeva la sua vecchia vita. Rimpiangeva il tintinnare della sciabola e
degli speroni di un bel pomeriggio, gli scherzi in caserma, le ragazze della
città presidiata; ma insieme provava anche un senso di rancore. Era con
tutta evidenza un uomo bistrattato. Questo a volte lo rendeva di malumore.
Ma i due andavano bene insieme nel cameratismo di pigrizia e stupidità.
Insieme non facevano niente, assolutamente niente, e gioivano della
sensazione di indolenza per la quale erano pagati. E col tempo giunsero ad
avvertire qualcosa di simile a un reciproco affetto.
Vivevano come ciechi in una grande stanza, consci soltanto di quel
che li toccava (e anche di quello, in maniera assolutamente imperfetta), ma
incapaci di scorgere l’essenza generale delle cose. Il fiume, la foresta, tutto
il vasto territorio in cui palpitava la vita, tutto era di un vuoto immenso.
Persino il tramonto meraviglioso non dischiudeva nulla di comprensibile.
Le cose apparivano e scomparivano ai loro occhi in modo insensato e
sconnesso. Il fiume pareva giungere dal niente e scorrere in nessuna
direzione. Scorreva nel vuoto. Da quel vuoto talvolta sopraggiungevano
delle canoe, e uomini armati di lance tutt’a un tratto affollavano il piazzale
della stazione. Erano nudi, di un nero lucido, ornati di conchiglie bianche
come madreperla e luccicanti fili d’ottone bordati. Producevano uno
sgraziato balbettìo quando parlavano, muovendosi in maniera solenne, e
mandando rapidi strali selvaggi dai lori loro occhi minacciosi e mai fermi.
Questi guerrieri stavano rannicchiati nelle lunghe piroghe, in quattro o di
più, mentre i loro capi mercanteggiavano con Makola su una zanna di
elefante. Kayerts stava seduto sulla sua sedia e controllava come
procedevano le cose, senza capire niente. Li fissava con i suoi tondi occhi
5
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
blu, gridando a Carlier: “Ehi, guarda! Guarda quel tipo lì – e quell’altro, a
sinistra. Hai mai visto una faccia del genere? Oh, che bruto delizioso!”
Carlier, mentre fumava del tabacco locale in una pipetta di legno,
sbruffonegiava arrotolandosi le punte dei baffi, e osservando i guerrieri
con altezzosa indulgenza diceva:
“Begli animali. Portato qualche osso? Sì? Non è mai troppo presto.
Guarda i muscoli di quello – il terzo dal fondo. Non vorrei prendere un
pugno sul naso da quello là. Buone braccia, ma gambe nulle sotto le
ginocchia. Non se ne potrebbe fare una cavalleria.” E dopo avere gettato
uno sguardo compiaciuto in giù, ai suoi stinchi, concludeva ogni volta:
“Puah! Puzzano! Tu, Makola! Porta questa mandria al feticcio” (in ogni
stazione il magazzino era chiamato il feticcio, forse per via dello spirito
civilizzatore che ospitava) “ e dà loro qualcosa della merce di scarto che
trovi laggiù. Ho visto che è pieno di ossa più che di stracci”.
Kayerts manifestava la sua approvazione.
“Sì, sì! Và e concludi la conversazione laggiù, signor Makola. Io mi
avvicinerò quando sarai pronto, e peserò la zanna di elefante.” Poi, rivolto
al suo compagno: “Questa è la tribù che vive a valle del fiume; gente
piuttosto aromatica. Ricordo che sono già stati una volta qui. Hai sentito
quel colpo di remi? Che genere d’uomo può produrlo, in questo posto da
cani? Mi scoppia la testa”.
Queste proficue visite erano rare. Per giorni i due pionieri del
commercio e del progresso guardavano il loro cortile vuoto nella
lucentezza vibrante del tramonto verticale. Dietro l’alta riva, il fiume
silenzioso scorreva scintillante e regolare. Sulle secche, nel mezzo della
corrente, ippopotami e alligatori si esponevano al sole gli uni accanto agli
altri. E allungandosi in ogni direzione, circondando l’insignificante chiazza
chiara della stazione commerciale, foreste immense, che nascondevano le
mortali complicazioni di una vita fantastica, stavano immote nel silenzio
eloquente di quella muta immensità. I due uomini non capivano nulla,
attenti a nient’altro che al passare dei giorni che li separava dal ritorno del
piroscafo. Il loro predecessore aveva lasciato dei libri tutti strappati.
Ficcarono il naso in quel naufragio di romanzi, e poiché non avevano mai
letto nulla del genere prima, furono sorpresi e divertiti. Poi per vari giorni
ci furono discussioni interminabili e fatue su trame e personaggi. Al centro
dell’Africa fecero la conoscenza di Richelieu e D’Artagnan, di Hawk’s
Eye e Padre Goriot e molta altra gente. Tutti questi personaggi immaginari
divennero oggetto di pettegolezzo come se fossero stati amici viventi.
6
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
Sminuivano i loro pregi, sospettavano delle loro ragioni, screditavano i
loro successi; si scandalizzavano davanti alla loro doppiezza o dubitavano
del loro coraggio. Il racconto dei crimini li riempiva di indignazione,
mentre passi teneri o patetici li commuovevano profondamente. Carlier si
schiarì la voce e in tono militaresco esclamò “Che assurdità!”. Kayerts, gli
occhi tondi gonfi di pianto, le guance piene che tremavano, si sfregò la
testa pelata e dichiarò “È uno splendido libro. Non avevo idea che
esistessero persone così intelligenti al mondo”. Trovarono anche vecchie
copie di giornali di casa. Carta stampata che discuteva su quel che in
linguaggio altolocato si amava definire “La nostra espansione coloniale”.
Si parlava a lungo di diritti e doveri della civilizzazione, dell’elemento
sacro dell’opera civilizzatrice, e si esaltavano i meriti di coloro che
andavano a portare luce e fede e commercio nei luoghi oscuri della terra.
Carlier e Kayerts lessero, si meravigliarono e cominciarono a pensar
meglio di loro stessi. Una sera, muovendo la mano nell’aria, Carlier disse:
“Tra cent’anni, ci sarà forse una città qui. Banchine d’attracco, depositi,
caserme, e – e – e sale da biliardo. Civiltà, ragazzo mio, e virtù – ed è
tutto. E poi, la gente leggerà che due bravi giovanotti, Kayerts e Carlier,
furono i primi uomini civilizzati a vivere in questo gran posto!”. Kayerts
annuì: “Sì, è una consolazione pensare a questo”. Sembravano avere
dimenticato il loro defunto predecessore; ma una mattina presto, Carlier
uscì fuori e ripiantò in modo stabile la croce. “Mi fa diventare strabico
ogni volta che cammino in quella direzione”, spiegò a Kayerts davanti al
primo caffè della mattina. “Mi fa diventare strabico, sporgermi tanto.
Perciò l’ho rimessa in piedi. Ed è solida, te lo assicuro! Mi sono
aggrappato con entrambe le mani alla croce. Non si è mossa. Ah sì, un
lavoro fatto per bene”.
In quei giorni Gobila andò a trovarli. Gobila era il capo dei villaggi
vicini. Era un selvaggio con i capelli grigi, magro e nero, con un telo
bianco intorno ai lombi e una logora pelle di pantera attaccata sulla
schiena. Venne avanti con lunghi passi delle sue gambe scheletriche,
facendo roteare un’asta alta quanto lui, e nell’entrare nella sala della
stazione si accovacciò sui talloni, alla sinistra della porta. Stette lì,
squadrando Kayerts e di tanto in tanto pronunciando parole che l’altro non
capiva. Kayerts, senza interrompere ciò che stava facendo, ogni tanto
diceva: “Come va, vecchia immagine?” e si sorridevano a vicenda. I due
bianchi provarono simpatia per tale anziana e indecifrabile creatura, e lo
soprannominarono Padre Gobila. Gobila usava un tono paterno, e
7
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
sembrava davvero amare tutti gli uomini bianchi. Tutti gli apparivano
molto giovani, indistinguibilmente somiglianti (tranne per la statura), e
sapeva che erano tutti fratelli, oltre che immortali. La morte dell’artista,
che era stato il primo uomo bianco che avesse conosciuto in maniera
intima, non aveva compromesso questa idea, perché Gobila era
fermamente convinto che lo straniero bianco avesse fatto finta di morire e
si fosse dato da solo la sepoltura per misteriose ragioni personali, sulle
quali sarebbe stato inutile indagare. Forse era quella la maniera per fare
ritorno a casa, nel suo paese? A ogni modo, quelli erano i suoi fratelli, e lui
trasferì su di loro il suo assurdo affetto. Loro glielo restituirono, in un certo
senso. Carlier gli dava delle pacche sulla spalla, e avventatamente, per suo
divertimento accendeva dei fiammiferi. Kayerts era sempre disposto a
lasciare a lui l’ultima sniffata dalla bottiglia di ammoniaca. In breve, si
comportarono esattamente come quell’altro bianco che si era nascosto in
un buco sottoterra. Gobila li considerò con attenzione. Forse erano della
stessa natura dell’altro – o uno dei due era lui in persona. Non poteva
decidersi – chiarire quel mistero; ma rimase per tutto il tempo molto
amichevole. In ragione di quella amicizia, le donne del villaggio di Gobila
presero a camminare in fila indiana sull’erba fitta di canne, portando ogni
mattina alla stazione polli e patate dolci, e vino di palma, e talvolta una
capra. Dalla Compagnia non arrivavano mai provviste a sufficienza per
riempire la stazione, e i funzionari avevano bisogno di quelle provvigioni
locali per vivere. Le avevano per il benvolere di Gobila, e vivevano bene.
Ogni tanto uno di loro aveva un accesso di febbre, e l’altro lo assisteva con
gentile devozione. Non pensavano granché in merito a questo. Li lasciava
più deboli, e il loro aspetto cambiava in peggio. A Carlier si infossavano
gli occhi e diventava irritabile. Kayerts mostrava un volto contratto e
flaccido sopra alla rotondità dello stomaco, che gli dava uno stranissimo
aspetto. Ma poiché erano sempre insieme, non si accorgevano del
cambiamento che mano a mano si impossessava delle loro sembianze,
così come delle loro attitudini.
Cinque mesi passarono a quel modo.
Poi, una mattina, mentre Kayerts e Carlier allungati nelle loro sdraio
sotto la veranda parlavano della imminente visita del piroscafo, un
drappello di uomini armati sbucò fuori dalla foresta e avanzò verso la
stazione. Erano stranieri a quella parte del paese. Erano alti, magri, nel
modo tradizionale coperti dal collo ai piedi da teli blu frangiati, e sulla
spalla destra nuda portavano strumenti a percussione tenuti da un
8
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
moschetto. Makola diede segni di eccitazione e corse fuori dal magazzino
(dove trascorreva le sue giornate intere) per incontrare i visitatori.
Andarono nel cortile e volsero tutt’intorno sguardi allucinati e sprezzanti.
Il loro capo, un negro dall’aria potente e determinata, con occhi iniettati di
sangue, si mise di fronte alla veranda e tenne un lungo discorso.
Gesticolava molto, e si interrompeva in maniera assolutamente
improvvisa.
C’era qualcosa nella sua intonazione, nel suono delle lunghe frasi che
adoperava, che fece sussultare i due uomini bianchi. Era come una
reminiscenza di qualcosa di non esattamente familiare, ma di simile al
modo di parlare degli uomini civilizzati. Suonava come uno di quei
linguaggi inverosimili che a volte udiamo nei nostri sogni.
“Che lingua è questa?” chiese Carlier stupito. “In un primo momento
ho creduto che il tipo stesse per parlare francese. Comunque, è di un altro
genere dal borbottìo che abbiamo sempre sentito”.
“Già”, replicò Kayerts. “Ehi Makola, cosa dici? Da dove vengono?
Chi sono?"
Ma Makola, che sembrava stare sui carboni ardenti, rispose
precipitoso, “Non lo so. Vengono da molto lontano. Forse la Signora Price
capirà. Devono essere uomini malvagi”
Dopo avere aspettato un po’, il capo disse qualcosa bruscamente a
Makola, che scosse la testa. Dopodiché l’uomo, guardatosi intorno, notò la
capanna di Makola e si mosse in quella direzione. Un istante dopo si udì la
signora Makola parlare molto loquace. Gli altri forestieri – sei in tutto,
bighellonarono in giro con aria calma, infilarono la testa nello spiraglio
della porta del magazzino, si assembrarono intorno alla tomba, indicarono
con aria di intesa la croce, e in genere si misero a loro agio.
“Questi tipi non mi piacciono – e ti dico, Kayerts, che secondo me
vengono dalla costa; hanno armi da fuoco” osservò il sagace Carlier.
Anche a Kayerts quei tipi non piacevano. Per la prima volta, entrambi
furono consapevoli di vivere in condizioni nelle quali ciò che era insolito
poteva essere pericoloso, e che su tutta la terra all’infuori di loro non c’era
altra possibilità di frapporsi tra loro e l’insolito. Divenuti sospettosi,
entrarono e impugnarono le loro pistole. Kayerts disse, “Dobbiamo
ordinare a Makola di dire loro di andarsene prima che faccia buio”.
I forestieri se ne andarono nel pomeriggio, dopo aver mangiato un
pasto preparato per loro dalla signora Makola. La gigantesca donna era in
uno stato di eccitazione, e parlò molto con i visitatori. Strepitava stridula,
9
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
facendo cenni in qua e in là in direzione del fiume e della foresta. Makola
stava da parte e guardava. Ogni tanto si alzava e bisbigliava qualcosa alla
moglie. Accompagnò i visitatori al dirupo sul retro della stazione, e tornò
indietro lentamente con espressione molto pensosa. Interrogato dagli
uomini bianchi fu molto strano, sembrò non capire, parve avere
dimenticato il francese – avere dimenticato proprio come parlare. Kayerts
e Carlier furono d’accordo nel pensare che il negro aveva bevuto troppo
vino di palma.
Si era accennato a tenere una guardia di turno, ma la sera tutto sembrò
così quieto e tranquillo che si ritirarono come al solito. Tutta la notte
furono disturbati da molti rulli di tamburo nei villaggi. Un rullo rapido e
intenso vicino era subito seguito da un altro lontano – poi tutto taceva.
Presto brevi richiami echeggiarono qua e là, poi tutti si mescolarono
insieme, aumentarono, diventarono vigorosi e vennero mantenuti,
sembrarono risuonare oltre gli alberi, rullare nella notte, ininterrotti, senza
fine, vicini e lontani, come se tutto il territorio fosse stato un unico
immenso rullìo che lanciava potente un richiamo al cielo. E da quel
chiasso che rombava ovunque, assordante, d’improvviso qualcosa di simile
a brani di canzoni da un manicomio, ruppero laceranti e alti in discordanti
getti di suono che parvero correre lontano dalla terra e cacciar via ogni
pace da sotto alle stelle.
Carlier e Kayerts dormirono male. Entrambi credettero di avere udito
degli spari durante la notte – ma non riuscirono a mettersi d’accordo sulla
direzione. Al mattino, Makola era andato via, chissà dove. Tornò intorno a
mezzogiorno con uno degli stranieri del giorno prima, e evitò ogni
tentativo di Kayerts di avvicinarglisi: pareva diventato sordo. Kayerts fu
sorpreso. Carlier, che era stato a pescare sulla riva, tornò indietro e osservò
mentre mostrava quel che aveva pescato: “Sembra che i negri siano presi
da una febbre indiavolata; mi domando di che si tratta. Ho visto almeno
quindici canoe passare sul fiume nelle due ore che sono rimasto lì a
pescare”. Kayerts allarmato disse: “Quel Makola, non è strano oggi?”.
“Teniamo insieme tutti i nostri uomini in caso di problemi” suggerì
Carlier.
10
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
2.
C’erano dieci uomini che erano stati lasciati dal Direttore per la
stazione. Costoro, assunti dalla Compagnia per sei mesi (senza avere la
minima idea di cosa fosse un mese nella fattispecie, e solo una nozione
molto vaga del tempo in generale), avevano prestato servizio per la causa
del progresso per oltre due anni. Poiché facevano parte di una tribù di una
parte del territorio molto distante, una terra di oscurità e sofferenze, non
scappavano, supponendo spontaneamente che in qualità di nomadi
forestieri sarebbero stati uccisi dagli abitanti del paese; e avevano ragione
di supporlo. Vivevano in capanne di paglia sull’orlo del dirupo ricoperto di
erba e incannicciato dietro l’edificio della stazione. Non erano felici,
perché rimpiangevano gli incantesimi delle feste, le stregonerie, i sacrifici
umani del loro paese; dove avevano anche genitori, fratelli, sorelle, capi
degni di ammirazione, maghi rispettabili, cari amici, e altri legami che si
suppongono essere umani. Per contro, le razioni di riso servite dalla
Compagnia non si addicevano loro, trattandosi di un cibo sconosciuto nel
loro paese, e al quale non riuscivano a fare l’abitudine. Perciò erano malati
e in miseria. Fossero appartenuti a un’altra tribù, avrebbero allenato le loro
menti alla morte – poiché niente riesce più facile a certi selvaggi del
suicidio – e sarebbero sfuggiti così alle inestricabili difficoltà
dell’esistenza. Ma facendo parte, come era il caso loro, di una tribù
guerriera con bersagli predefiniti, avevano maggior fegato, e si ostinavano
a campare tra disagi e sofferenze. Facevano poco esercizio, e il loro
magnifico fisico s’era sciupato. Carlier e Kayerts li assistevano di continuo
senza essere capaci di riportarli alla condizione di prima. Venivano
chiamati ogni mattina e indirizzati a diversi compiti – tagliare l’erba, tirar
su il recinto, abbattere gli alberi, etc., etc., che nessun potere in terra
poteva indurli a eseguire in modo efficiente. In pratica, i due bianchi
avevano pochissimo controllo su di loro.
Nel pomeriggio Makola giunse alla casa grande e trovò Kayerts che
guardava tre grandi colonne di fumo sollevarsi dalla foresta. “Cos’è?”
domandò Kayerts. “Alcuni villaggi bruciano” rispose Makola, il quale
sembrava avere ritrovato il suo spirito. Poi di colpo disse: “Abbiamo avuto
pochissimo avorio; pessimi sei mesi di commercio. Vorrebbe avere un po’
più di avorio?”
“Sì” disse Kayerts con ansia. Pensava alle percentuali basse.
11
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
“Gli uomini che sono venuti ieri sono commercianti dal Loanda che
posseggono più avorio di quel che possono portare a casa. Devo
comprarlo? Conosco il loro accampamento.”
“Certo” disse Kayerts. “Ma chi sono questi commercianti?”
“Brutta gente” disse Makola, con aria indifferente. “Combattono con
gli altri, e vanno a caccia di donne e bambini. Uomini malvagi, e hanno
armi. C’è grande agitazione nella zona. Volete avorio?”
“Sì”, ribadì Kayerts. Makola non disse niente per un po’, poi: “Questi
nostri lavoranti non valgono niente”, mormorò guardandosi intorno. “La
stazione è molto mal tenuta, signore. Penso che fareste meglio a dare un
po’ vino di palma ai nostri uomini per fare una danza questa notte. Fateli
divertire. Lavoreranno meglio domani. C’è vino di palma in quantità – un
po’ inacidito.”
Kayerts disse di sì, e Makola con le sue mani portò grosse zucche a
fiasco davanti alla porta della sua capanna. Rimasero lì fino alla sera, e la
Signora Makola guardò dentro ognuna di esse. Gli uomini le ebbero al
tramonto. Quando Kayerts e Carlier si ritirarono, un grande falò brillava
dietro le capanne dei lavoranti. Potevano sentire le loro grida e i rulli di
tamburo. Alcuni uomini del villaggio di Gobila avevano raggiunto i
lavoranti della stazione, e la festa fu un grande successo.
In piena notte, Carlier si svegliò di colpo perché aveva udito un uomo
gridare forte; poi ci fu uno sparo. Uno solo. Carlier corse fuori e sulla
veranda si imbattè in Kayerts. Erano entrambi sgomenti. Quando si
scapicollarono nel cortile a chiamare Makola, videro muoversi delle ombre
nell’oscurità. Una gridò: “Non sparare! Sono io, Price”. Poi comparve
Makola, accanto a loro. “Indietro, indietro perfavore” li intimò, “rovinate
tutto”. “Ci sono strani uomini in giro” disse Carlier. “Non preoccupatevi;
lo so”, disse Makola. Poi lo si sentì sussurrare: “Tutto bene. Porta l’avorio.
Non dire niente! So quello che faccio”. Riluttanti, i due uomini bianchi
tornarono verso la casa, ma non dormirono. Udirono passi, bisbiglii,
qualche lamento. Era come se fossero arrivati molti uomini, lasciando
cadere oggetti pesanti sul terreno, avessero litigato a lungo e poi se ne
fossero andati. Stavano sdraiati sui loro letti duri e pensavano: “Questo
Makola è indecifrabile”. Al mattino Carlier uscì fuori, addormentatissimo,
e si appese alla fune della grossa campana. Ogni giorno, i lavoranti della
stazione venivano chiamati a raduno dal suono della campana. Quella
mattina non venne nessuno. Anche Kayerts sbucò fuori, sbadigliando. Nel
cortile videro Makola affacciarsi dalla sua capanna, con in mano un catino
12
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
di latta pieno di acqua insaponata. Makola, un negro civilizzato, era molto
pulito nella sua igiene. Con fare esperto gettò la saponata su un brutto
cagnolino che aveva, poi volgendo lo sguardo al proprietario della casa, a
distanza gridò: “Tutti gli uomini se ne sono andati, questa notte!”
Stettero ad ascoltarlo, con semplicità, ma per la sorpresa entrambi
sbottarono in un : “Cosa?!”. Dopodiché si guardarono. “Siamo in un bel
pasticcio adesso”, grugnì Carlier. “È incredibile!” mormorò Kayerts.
“Andrò alle capanne a vedere” disse Carlier incamminandosi. Makola
sopraggiunse e trovò Kayerts seduto, da solo.
“Faccio fatica a crederci” Kayerts disse lamentoso. “Ci siamo presi
cura di loro come fossero stati i nostri figli”
“Sono andati con la gente della costa” disse Makola dopo un momento
di esitazione.
“Che me ne frega con chi sono andati – bruti ingrati!” esclamò l’altro.
Poi con improvviso sospetto, gettando su Makola uno sguardo duro
aggiunse: “Cosa sai della faccenda?”. Makola alzò le spalle, guardando in
giù verso terra. “Cosa ne so? Faccio solo supposizioni. Verrete e darete
uno sguardo all’avorio che ho? È una buona partita. Non ne avete mai
visto tanto”.
Si mosse in direzione del magazzino. Kayerts gli andò dietro
meccanicamente, mentre pensava alla incredibile diserzione degli uomini.
Per terra, subito prima del feticcio giacevano sei splendide zanne di
elefante.
“Cosa hai dato in cambio?” domandò Kayerts, dopo aver guardato la
partita con soddisfazione.
“Un commercio non regolare”, disse Makola. “Hanno portato l’avorio
e me lo hanno dato. Ho detto loro di prendere quel che più gli piaceva
nella stazione. È una magnifica partita. Nessuna stazione è in grado di
esibire zanne del genere. Questi commercianti avevano un dannato
bisogno di portatori, e i nostri uomini non erano buoni a niente qui. Nessun
vendita, nessuna entrata nei registri; tutto bene”
Kayerts quasi bruciava per lo sdegno. “Perché!” gridò. “Ero convinto
che avessi venduto i nostri uomini in cambio di queste zanne!” Makola
stette impassibile, in silenzio. “Io – io –io farò” balbettò Kayerts.
“Animale!” gridò.
“Ho fatto del mio meglio per me e la Compagnia” disse Makola,
impassibile. “Perché gridi tanto? Guarda questa zanna”
13
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
“Ti licenzio! Ti scriverò un rapporto – non voglio neanche guardarle,
le zanne. Ti impedisco di toccarle. Ti ordino di gettarle nel fiume. Tu –
tu!”
“È molto rosso, Signor Kayerts. Se il sole la irrita tanto, le verrà la
febbre e morirà – come il primo direttore!” disse Makola con aria solenne.
Rimasero ancora un po’, squadrandosi l’un l’altro con occhi intensi,
come se si guardassero a fatica da distanze immense. Kayerts si sentì
tremare. Makola non intendeva nient’altro oltre a quel che aveva detto, ma
le sue parole sembravano a Kayerts dense di minacce di disgrazia! Si voltò
brusco e si incamminò verso la casa. Makola tornò in seno alla famiglia, e
le zanne, lasciate incustodite davanti al magazzino, parevano enormi e
preziose alla luce del tramonto.
Carlier tornò sulla veranda. “Sono tutti andati, eh?” chiese Kayerts
dall’estremo opposto della stanza comune, con una voce flebile. “Non hai
trovato nessuno?”
“Oh sì” disse Carlier. “Ho trovato uno degli uomini di Gobila morto,
davanti alle capanne – trapassato da una pallottola. Abbiamo sentito lo
sparo, la notte scorsa”
Kayerts sgusciò fuori in fretta. Trovò il suo compagno che guardava
torvo al di là del cortile, verso le zanne, vicino al magazzino. Tutti e due
stettero in silenzio per un po’. Dopodiché Kayerts riferì la sua
conversazione con Makola. Carlier non disse niente. Al pasto di
mezzogiorno mangiarono poco. A fatica scambiarono una parola, quel
giorno. Un gran silenzio sembrava essere calato massiccio sulla stazione
ed essersi stampato sulle loro labbra. Makola non aprì il magazzino; passò
la giornata a giocare coi suoi figli. Stava sdraiato sulla intera lunghezza di
una stuoia fuori dalla porta, e i piccoli gli stavano sul petto e si
arrampicavano su di lui. Era un quadretto commovente. La signora Makola
fu occupata a cucinare per tutto il giorno, come al solito. Gli uomini
bianchi fecero un pasto un po’ migliore la sera. Poi, fumando la sua pipa
Carlier passeggiò in direzione del magazzino; stette a lungo vicino alle
zanne, toccandone una o due col piede, anche provando a sollevare la più
grande dall’estremità. Tornò indietro dal suo superiore, il quale non si era
mosso dalla veranda, si buttò sulla sedia e disse –
“Me lo immagino! Sono piombati sugli uomini profondamente
addormentati dopo aver bevuto tutto quel vino di palma che hai permesso a
Makola di offrire loro. Un lavoretto organizzato! Vedi? Il peggio è che
c’erano anche uomini di Gobila, e senza dubbio sono stati portati via. Il
14
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
meno sbronzo si è svegliato, e si è preso una pallottola per la sua sobrietà.
È un buffo paese. Cosa farai adesso?”
“Non possiamo toccarlo”, disse Kayerts.
“Certo che no”, annuì Carlier.
“La schiavitù è una cosa orribile”, balbettò Kayerts con una vocina
insicura.
“Terribile – la sofferenza”, ruggì Carlier con convinzione.
Credevano alle loro parole. Ognuno mostra una deferenza rispettosa a
certi suoni che lui e i suoi compagni sono in grado di produrre. Ma sui
sentimenti, la gente davvero non sa nulla. Parliamo mossi
dall’indignazione o l’entusiasmo; parliamo di oppressione, crudeltà,
crimine, devozione, sacrificio di sé, virtù, e niente di certo sappiamo al di
là delle parole. Nessuno sa cosa significa sofferenza o sacrificio – eccetto,
forse, le vittime del disegno misterioso di queste illusioni.
Il giorno seguente videro Makola molto impegnato a sistemare nel
cortile la gigantesca bilancia utilizzata per pesare l’avorio. Di tanto in
tanto, Carlier diceva: “Che cosa ha in mente quella lurida carogna?” e si
affacciava nel cortile. Kayerts gli andava dietro. Stavano a guardare.
Makola non prestava loro attenzione. Quando la bilancia fu a livello, provò
a posare una zanna sul piatto. Era troppo pesante. Sollevò uno sguardo
implorante senza pronunciare una parola, e per un minuto stettero intorno
alla bilancia muti e impalati come tre statue. All’improvviso Carlier disse:
“Acchiappala dall’altra parte, Makola – animale!” e insieme sollevarono la
zanna. Kayerts tremava in tutto il corpo. Mormorò “Dico! Oh, dico!” e si
infilò la mano in una tasca dove trovò un fogliaccio di carta spiegazzato e
una matita spuntata. Voltò le spalle agli altri due come volesse tendergli
una qualche trappola, e in fretta segnò i pesi che Carlier gli gridò in un
tono di voce spropositamente alto. Quando il lavoro fu terminato, Makola
si disse: “Il sole qui è molto forte per le zanne”. Carlier dichiarò a Kayerts
con distacco: “Dico, capo, meglio che lo aiuti a portare questa partita nel
magazzino.”
Nel mentre che si dirigevano verso la casa, Kayerts osservò con un
sospiro: “Doveva essere fatto”. E Carlier disse: “È una cosa deplorevole,
ma dato che gli uomini erano uomini della Compagnia, l’avorio è avorio
della Compagnia. Dobbiamo prenderlo in consegna”. “Farò rapporto al
Direttore, di sicuro” disse Kayerts. “Certo; che decida lui”, convenne
Carlier.
15
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
A mezzogiorno mangiarono con appetito. Di tanto in tanto Kayerts
sospirava. Ogni volta che nominavano Makola, sempre aggiungevano un
qualche epiteto offensivo. Gli alleggeriva la coscienza. Makola si regalò
una mezza vacanza, e portò i bambini a fare il bagno al fiume. Quel giorno
nessuno degli uomini di Gobila si avvicinò alla stazione. Non venne
nessuno nemmeno il giorno dopo, e quello dopo ancora, per una settimana
intera. La gente di Gobila poteva essere morta e sepolta per quanto non
dava segni di vita. Ma semplicemente era in lutto per quelli che avevano
perduto per le stregonerie degli uomini bianchi, che avevano portato gente
cattiva nel paese. La gente cattiva se n’era andata, ma la paura era rimasta.
La paura rimane sempre. Un uomo può distruggere tutto da solo, amore e
odio e fede, e anche il dubbio; ma fin quando sta attaccato alla vita non
può distruggere la paura: la paura, sottile, indistruttibile e terribile, che
pervade il suo essere; che si mescola ai suoi pensieri; che si nasconde nel
suo cuore; che gli posa sulle labbra il tremito del suo ultimo respiro. Preso
dal suo timore, il mite vecchio Gobila offrì ulteriori sacrifici umani a tutti
gli Spiriti del Male impossessatisi dei suoi amici bianchi. Il suo cuore era
oppresso. Alcuni guerrieri parlavano di appiccare il fuoco, di uccidere, ma
il prudente vecchio selvaggio li dissuase. Chi può prevedere il dolore che
queste creature misteriose, se provocate, possono arrecare? Dovevano
essere lasciate sole. Forse a un certo momento sarebbero scomparse dalla
faccia della terra così come era scomparsa la prima di esse. La sua gente
doveva tenersi lontana da loro, e sperare per il meglio.
Kayerts e Carlier non sparirono, ma rimasero su questa terra, che a
tratti avevano l’impressione si fosse fatta in qualche modo più grande e
tremendamente vuota. Non era l’assoluta e ammutolita solitudine del luogo
a impressionarli tanto, quanto la sensazione impercettibile che qualcosa li
aveva abbandonati, qualcosa che lavorava per la loro salvezza, e aveva
impedito che il mondo selvaggio interferisse con i loro cuori. Immagini di
casa; il ricordo di persone loro pari, di uomini che pensavano e sentivano
così come loro erano abituati a pensare e sentire, recedevano verso
distanze rese indistinte dal bagliore di un tramonto snebbiato. E dal grande
silenzio della natura selvaggia intorno, il suo essere senza speranza e
assolutamente brutale sembrava avvicinarsi a loro sempre di più,
cautamente trascinarli, sorvegliarli, avvolgerli con una sollecitudine
irresistibile, familiare e disgustosa.
I giorni si prolungarono in settimane, poi in mesi. Come un tempo, a
ogni luna nuova la gente di Gobila suonava i tamburi e urlava, ma restava
16
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
lontano dalla stazione. Makola e Carlier tentarono una volta con una canoa
di ristabilire le comunicazioni, ma furono ricevuti da una scarica di frecce,
e dovettero tornare di volata verso la stazione per salvarsi la pelle. Quel
tentativo provocò in tutta la zona, a monte e a valle del fiume, un disordine
che si poté udire distintamente per giorni. Il piroscafo era in ritardo. In
principio parlarono del ritardo disinvolti, poi ansiosi, poi con malinconia.
La faccenda si stava facendo seria. Le scorte andavano assottigliandosi.
Carlier tentava di pescare, ma il fiume era vuoto, e il pesce si teneva
lontano dalla corrente. Non si azzardavano a andare in giro a caccia. Non
c’era verso, peraltro, in quella foresta impenetrabile. Una volta Carlier tirò
a un ippopotamo sul fiume. Non avevano un’imbarcazione per tirarlo su, e
affondò. Quando tornò su, in superficie, la gente di Gobila ne raccolse la
carogna. Fu occasione per una festa nazionale, ma Carlier si infuriò a tal
punto che parlò della necessità di sterminare i negri se si voleva che il
paese divenisse abitabile. Kayerts stava con aria stralunata in quasi
completo silenzio; passava ore a guardare il ritratto della sua Melie,
raffigurante una giovane ragazza con lunghe trecce incolori e un viso
piuttosto scontroso. Le gambe gli si erano gonfiate parecchio, e riusciva a
camminare a fatica. Carlier, indebolito dalla febbre, non riusciva più a fare
lo spaccone, ma lo stesso girellava traballante, con l’aria di uno che se ne
strafrega, così come un uomo che ricorda il suo reggimento di prim’ordine.
Era diventato brusco, sarcastico, e con la tendenza a dire cose spiacevoli.
Lo definiva “essere franco con te”. Già da un po’ avevano conteggiato le
loro percentuali sul commercio, includendovi l’ultimo, quello “di questo
infame Makola”. Erano anche giunti alla conclusione di non dire niente a
riguardo. Kayerts esitava in principio – aveva timore del Direttore.
“Avrà visto cose peggiori fatte in sordina”, argomentò Carlier con una
risata rauca. “Consideralo! Di sicuro non ti ringrazierà se fai la spia. Non è
migliore di te o me. Chi parlerà se noi non lo spifferiamo? Non c’è
nessuno qui”
Era quello, il problema! Non c’era nessuno lì; e abbandonati, soli con
la loro vulnerabilità, essi divennero ogni giorno di più una coppia di
complici piuttosto che di amici devoti. Da otto mesi non li raggiungeva
nessuna notizia da casa. Ogni sera dicevano, “Domani vedremo il
piroscafo”. Ma uno dei piroscafi della Compagnia aveva fatto naufragio, e
il Direttore era impegnato con un altro, a portare aiuto a stazioni
importanti e molto distanti lungo il fiume principale. Egli pensava che la
stazione meno utilizzata e gli uomini meno utili potessero aspettare. Nel
17
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
frattempo Kayerts e Carlier vivevano di riso bollito senza sale, e
maledicevano la Compagnia, l’Africa intera, e il giorno in cui erano venuti
al mondo. Uno deve avere vissuto a una simile dieta per scoprire che
affanno tormentoso possa diventare la necessità di buttar giù del cibo. Non
c’era letteralmente altro nella stazione, che riso e caffè; bevevano il caffè
senza zucchero. Le quindici ultime zollette Kayerts le aveva solennemente
messe via nel suo baule, insieme a una mezza bottiglia di cognac, “in caso
di malattia”, aveva spiegato. Carlier era stato d’accordo. “Quando uno è
malato”, aveva detto, “ogni piccolo extra è benvenuto”.
Aspettavano. Erbaccia cominciò a spuntare nel piazzale. La campana
non suonava mai, adesso. I giorni passavano, muti, esasperati e lenti.
Quando i due uomini parlavano, ringhiavano; i loro silenzi erano amari,
come fossero intrisi dell’amarezza dei loro pensieri.
Un giorno, al termine di un pranzo a base di riso bollito, Carlier
scagliò in terra la sua tazza intoccata e disse: “In malora tutto quanto!
Prendiamoci una tazza di caffè decente, per una volta. Tira fuori quello
zucchero, Kayerts!”
“Per chi è malato” Kayerts rispose in un sussurro, senza sollevare gli
occhi.
“Per chi è malato” ripeté Carlier. “Puah!… Beh! Io sono malato”
“Tu non sei più malato di me, e io faccio senza” disse Kayerts in tono
pacifico.
“Andiamo! Fuori con questo zucchero, spilorcio schiavista!”
Kayerts sollevò lo sguardo in fretta. Carlier sorrideva con evidente
insolenza. E a un tratto, a Kayerts sembrò di non avere mai visto
quell’uomo prima di allora. Chi era? Non sapeva niente di lui. Di cosa era
capace? In lui brillò un lampo sorprendente di violenta emozione, come si
trovasse al cospetto di qualcosa di non desiderato, violento e definitivo.
Ma riuscì a dire, con calma:
“Questo scherzo è di pessimo gusto. Che non si ripeta”
“Scherzo!” esclamò Carlier, sporgendosi sull’orlo della sedia, “Ho
fame – sono malato – non scherzo affatto! Io odio gli ipocriti. Tu sei un
ipocrita. Sei uno schiavista. Io sono uno schiavista. Non ci sono altro che
schiavisti in questo dannato paese. E comunque, voglio un caffè con lo
zucchero oggi!”
“Ti proibisco di parlarmi in questo modo”, disse Kayerts con
determinazione.
“Tu? – Cosa?” gridò Carlier saltando su.
18
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
Anche Kayerts si alzò in piedi. “Io sono il tuo superiore” cominciò a
dire, sforzandosi di controllare la voce che tremava.
“Che cosa?” gridò l’altro. “Chi è il superiore? Non ci sono superiori
qui. Non c’è niente qui: nient’altro che te e me. Tira fuori lo zucchero –
ciccione somaro”
“Frena la lingua! Esci di qui !” Kayerts urlò. “Ti licenzio – farabutto!”
Carlier fece dondolare uno sgabello. Tutt’a un tratto sembrò
pericolosamente furioso. “Tu pappamolla, borghese buono a niente- prendi
questo!” gridò.
Kayerts si infilò sotto il tavolo, e lo sgabello andò a schiantarsi sulla
stuoia che tappezzava la parete. Dopodiché, mentre Carlier cercava di
sollevare la tavola, Kayerts preso dal panico si gettò avanti alla cieca, a
testa bassa, come avrebbe fatto un maiale, e superando l’amico fuggì sulla
veranda e poi nella sua stanza. Chiuse a chiave la porta, prese la pistola e
si fermò, terrorizzato. In meno di un minuto, Carlier era a bussare alla
porta, indemoniato, urlando “Se non tiri fuori lo zucchero, ti sparo a vista,
come a un cane. Bene, allora, uno – due – tre. Non vuoi? Ti farò vedere io,
chi comanda qui”
Kayerts immaginò che la porta sarebbe crollata, e andò carponi
attraverso il buco quadrato che era la finestra della sua stanza. A separarli
c’era tutta la larghezza della casa. Ma l’altro non era apparentemente forte
abbastanza per spaccare la porta, e Kayerts lo sentì correre tutt’intorno. Poi
anche lui cominciò a correre faticosamente sulle sue gambe gonfie.
Correva più veloce che poteva, stringendo la pistola, ancora incapace di
capire che cosa gli era capitato. Vide in sequenza la casa di Makola, il
magazzino, il fiume, il dirupo, i cespugli bassi; e vide di nuovo tutte queste
cose nel momento in cui per la seconda volta corse tutt’intorno alla casa.
Poi ancora gli baluginarono davanti, come un lampo. La mattina non
sarebbe stao in grado di muovere un solo passo senza piangere.
E adesso correva. Correva tanto veloce da non farsi vedere dall’altro
uomo.
Dopo, mentre sfinito e disperato pensava: “Prima che finisco il
prossimo giro, io muoio”, udì l’altro inciampare pesantemente, poi
fermarsi. Anche lui si fermò. Era sul retro della casa, e Carlier davanti,
come prima. Lo sentì crollare su una sedia, bestemmiando, e a un tratto
anche le sue gambe cedettero, e cadde seduto con la schiena contro il
muro. La bocca era secca come cenere, e il viso era umido di sudore – e
lacrime. Che significa, tutto? Pensò che doveva trattarsi di una orribile
19
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
illusione; pensò che stava sognando; pensò che stava diventando pazzo!
Dopo un po’ ricominciò a ragionare. Perché avevano litigato? Lo
zucchero! Che assurdità! Glielo avrebbe dato – a lui non importava. E
cominciò a rialzarsi in piedi, con un improvviso senso di sicurezza. Ma
prima che fosse perfettamente dritto, il buon senso lo afferrò e lo
ricondusse alla disperazione. Pensò: se mi arrendo con quella bestia di un
militare, riprenderà questo orrore domani – e domani l’altro – ogni giorno
– avanzerà nuove pretese, mi soggiogherà, mi torturerà, mi renderà suo
schiavo – e io sarò perduto! Perduto! Il piroscafo potrebbe non venire per
giorni – potrebbe non venire mai. Era così turbato che si dovette di nuovo
sedere per terra. Rabbrividiva, in preda alla disperazione. Sentiva che non
poteva muoversi, non si sarebbe più mosso. Era talmente preso dalla
improvvisa certezza che la situazione era senza scampo – che morte e vita
erano in un istante diventate allo stesso modo difficili e terribili.
Tutt’a un tratto udì l’altro spingere la sedia indietro; e lui stesso si
risollevò con facilità. Stette in ascolto e divenne confuso. Doveva correre
di nuovo! A destra o a sinistra? Sentì dei passi. Corse verso sinistra,
impugnando la pistola, e proprio nello stesso istante, così gli parve,
entrarono in violenta collisione. Entrambi gettarono un grido di sorpresa.
Uno scoppio violento si produsse in mezzo a loro; una lingua rossa di
fuoco, un gran fumo; e Kayerts, senza sentire né vedere, arretrò mentre
pensava: sono ferito – è finita. Si aspettava che l’altro lo raggiungesse – a
guardarlo che agonizzava. Si aggrappò a una sporgenza del tetto. – “È
finita!” Poi sentì un tonfo sull’altro lato della casa, come se qualcuno fosse
precipitato a capofitto su una sedia – poi silenzio. Non accadde nient’altro.
Non morì. Solo la spalla faceva male come se si fosse slogata, e aveva
perso la pistola. Era disarmato e senza protezione! Restò in attesa della
sorte. L’altro uomo non emetteva un suono. Era uno stratagemma. Gli si
avvicinava di soppiatto ora! Da quale parte? Forse proprio in quel
momento lo stava prendendo di mira!
Dopo pochi istanti di un’agonia terribile e assurda, decise di andare
incontro al suo destino. Era preparato a qualsiasi resa. Girò l’angolo,
aggrappandosi con una mano al muro; avanzò di poco, e per poco non si
sentì mancare. Aveva visto sul pavimento, che sbucavano dall’angolo
opposto, dei piedi con le punte rivolte all’in su. Un paio di piedi bianchi
nudi, in delle pantofole rosse. Si sentì male da morire, e rimase per un po’
nella più profonda oscurità. Poi Makola gli andò vicino, dicendo in tono
tranquillo: “Venite fuori, Signor Kayerts. È morto”. Scoppiò in un pianto
20
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
di gratitudine; un pianto sonoro, fatto di singhiozzi. Dopo un po’ si vide
seduto su una sedia, mentre guardava Carlier che giaceva sul dorso.
Makola stava inginocchiato accanto al corpo.
“È questa la sua pistola?” chiese Makola, alzandosi in piedi.
“Sì”, disse Kayerts; poi aggiunse molto rapidamente “Mi correva
dietro per spararmi – hai visto!”
“Sì, sì, ho visto” disse Makola. “C’è una sola pistola. Dov’è la sua?”
“Non so” sussurrò Kayerts con voce improvvisamente flebile.
“Andrò a cercarla” disse l’altro, a bassavoce. Fece il giro dalla
veranda, mentre Kayerts stava fermo a guardare il cadavere. Makola tornò
indietro a mani vuote, restò a meditare profondamente, dopodiché
tranquillo entrò nella stanza del morto e ne uscì immediatamente dopo con
una pistola, che levò in alto davanti a Kayerts. Kayerts chiuse gli occhi.
Tutto vorticava. Pensò che la vita era più tremenda e difficile della morte.
Aveva ucciso un uomo disarmato.
Dopo avere riflettuto per un po’, Makola disse piano, col dito puntato
sull’uomo che giaceva con l’occhio destro fuori dall’orbita.
“È morto di febbre”. Kayerts lo fissò impietrito.
“Sì”, Makola ripetè, pensoso, mentre scavalcava il corpo a terra “io
penso che sia morto di febbre. Domani lo seppelliamo”
E se ne andò dalla moglie che lo aspettava, lasciando i due uomini soli
sulla veranda.
Venne la notte, e Kayerts restò senza muoversi sulla sua sedia. Stava
calmo come avesse preso una dose di oppio. La violenza di emozioni che
aveva attraversato gli procurava una sensazione di serenità esausta. In un
breve pomeriggio era piombato nelle profondità di orrore e disperazione, e
ora trovava un po’ di pace nella convinzione che la vita non avesse più
segreti per lui: nemmeno la morte! Stava accanto al cadavere pensando;
pensando molto attivamente, pensando pensieri tutti nuovi. Gli sembrava
di avere sciolto i vincoli con se stesso. I suoi antichi pensieri, certezze,
piaceri e dispiaceri, cose verso le quali provava rispetto e cose che
aborriva, apparivano finalmente nella loro vera luce! Apparivano risibili e
illusorie, fasulle e ridicole. Si gloriava di questa nuova saggezza mentre
sedeva vicino all’uomo che aveva ucciso. Diceva a se stesso di tutto
quanto era sotto il cielo, con quella sorta di lucidità deviata che si può
notare in certi lunatici. Incidentalmente riflettè che il morto era comunque
stato un animale pernicioso; che uomini ne morivano ogni giorno, a
migliaia; forse a centinaia di migliaia – chi poteva dirlo? – e che davanti a
21
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
quelle proporzioni un morto poteva non fare la minima differenza; poteva
non avere nessuna importanza, almeno agli occhi di una creatura
ragionevole. Lui, Kayerts, era una creatura ragionevole. Era stato per tutta
la sua vita, fino a quel momento, uno che aveva creduto a un mucchio di
cose senza senso, come il resto del genere umano – i folli; ma adesso
ragionava! Sapeva! Si sentiva in pace; era in contatto con la saggezza
suprema. Poi provò a immaginarsi morto, Carlier seduto sulla sua sedia
che lo guardava; e il suo sforzo gli riuscì con tanto inatteso successo, che
nell’arco di pochi istanti non era più sicuro di chi era il morto e chi il vivo.
Il grande successo della fantasia ad ogni modo lo preoccupò, e grazie a un
chiaro e subitaneo sforzo si salvò giusto in tempo dal diventare Carlier. Gli
batteva il cuore, si sentiva avvampare al pensiero di quel rischio. Carlier!
Che roba bestiale! Per riassestare i nervi provati – niente di strano! – provò
a fischiettare un po’. Poi all’improvviso si addormentò, o gli parve di aver
dormito; in ogni caso c’era nebbia, e qualcuno aveva fischiettato in mezzo
alla nebbia.
Si alzò. Era spuntata l’alba, e una pesante bruma era scesa sulla terra:
quella bruma che penetra, avviluppa, silenziosa; la bruma del mattino dei
paesi tropicali; la bruma che stringe e uccide; la bruma bianca e mortale,
immacolata e venefica. Si alzò, guardò il corpo, e levò le braccia verso la
testa con un grido come quello di un uomo che risvegliandosi dalla trance
si trova immobilizzato per sempre in una tomba. “Aiuto!… Mio Dio!”
Un grido disumano, improvviso e vibrante, bucò come una freccia
aguzza il bianco sudario di quella terra di dolore. Seguirono tre strilli acuti
e impazienti, poi per un po’ la nebbia continuò a rotolare indisturbata, in
un silenzio formidabile.
Molte altre grida, rapide e perforanti, come urla di esseri esasperati e
implacabili, riempirono l’aria. Dal fiume, il progresso chiamava Kayerts. Il
progresso e la civilizzazione e tutte quante le virtù. La società chiamava il
suo figlio giunto a compimento, perché ci si prendesse cura di lui, e
venisse istruito, giudicato, condannato; lo chiamava a ritornare a quel
mucchio di rifiuti da cui si era allontanato, così che venisse fatta giustizia.
Kayerts udì e comprese. Incespicò fuori, sulla veranda, lasciando
l’altro solo, per la prima volta da quando erano stati gettati lì insieme.
Avanzò, arrancando in mezzo alla nebbia, nella sua ignoranza invocando il
cielo perché distruggesse il suo operato. Makola saettò nella nebbia,
gridando nel mentre che correva: “Il piroscafo! Il piroscafo! Non possono
22
Avamposto del nostro tempo – Joseph Conrad tradotto da Lisa Ginzburg
vederci. Fischiano alla stazione. Vado a suonare la campana. Andate giù al
molo, signore. Io suono”
Sparì. Kayerts rimase fermo. Guardò in alto; la nebbia gli correva
sopra la testa. Si guardò intorno come un uomo che ha smarrito la strada; e
vide una macchia scura, una chiazza a forma di croce in mezzo alla
purezza in movimento della nebbia. Non appena si mise a camminare in
quella direzione, la campana della stazione suonò un rintocco impetuoso in
risposta al clamore impaziente del piroscafo.
Il Direttore Capo della Grande Compagnia di Civilizzazione (poiché,
lo sappiamo, la civilizzazione è conseguenza del commercio) scese per
primo, e subito il piroscafo scomparve dalla sua vista. La nebbia giù al
fiume era straordinariamente fitta; in alto, alla stazione, la campana
suonava senza requie né pudore.
Il Direttore diede una voce forte verso il piroscafo:
“Non c’è nessuno qui a venirci incontro; forse c’è qualcosa che non
va, sebbene stanno suonando. Meglio se tornate indietro!”
E incominciò ad arrampicarsi sulla sponda erta. Il capitano e il capo
della sala macchine gli andavano dietro. Quando ebbero finito di salire, la
nebbia si diradò, e poterono vedere il loro Direttore un bel pezzo avanti.
Improvvisamente lo videro fare un salto in avanti, mentre voltandosi li
chiamava: “Correte! Correte alla casa! Ne ho trovato uno. Correte, cercate
l’altro!”
Ne aveva trovato uno! E anche lui, l’uomo dall’esperienza varia e
terribile, era in certo qual modo sbalordito dal tipo di scoperta. Si fermò e
si frugò nelle tasche (in cerca di un coltellino) mentre fissava Kayerts, che
dondolava con una cinghia di cuoio dalla croce. Verosimilmente era salito
sopra la tomba, che era alta e stretta, e dopo aver fatto passare l’estremità
della cinghia intorno al braccio della croce, si era impiccato. Le dita dei
piedi non erano altro che due alluci sul terreno; le braccia dondolavano in
giù; sembrava stare ben dritto, sull’attenti, ma con la gota rossa posata su
una spalla, per gioco. E irriverente, con la sua lingua gonfia faceva la
linguaccia al suo Direttore Capo.
23