Riduzione consensuale della retribuzione: regole e limiti Parere

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Parere professionale
Parere del legale
Riduzione consensuale
della retribuzione: regole e limiti
Carlo Fossati e Anna Chiara Strada
- Avvocati in Milano
Com’è noto, la materia della riduzione della retribuzione è,
in primo luogo, regolamentata, a livello legislativo, dall’art.
2103 c.c., a mente del quale: «Il prestatore di lavoro deve
essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o
a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia
successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti
alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni
superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene
definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per
sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti
collettivi, e comunque non superiore a tre mesi (...).
Ogni patto contrario è nullo».
A una prima lettura, la norma sembra stabilire due semplici e univoci principi:
. quello del divieto assoluto di qualunque riduzione della
retribuzione del prestatore di lavoro subordinato;
. quello - collegato - della nullità di qualunque clausola
che contravvenga a tale divieto, disponendo - anche
su base consensuale - una diminuzione della retribuzione precedentemente percepita.
Interpretazione giurisprudenziale
Un esame più approfondito della norma - che tenga conto del più ampio contesto normativo di riferimento e della
pluriennale elaborazione giurisprudenziale accumulatasi
in merito alla sua interpretazione - è destinato, però, a
portare a conclusioni molto diverse e addirittura parzialmente inconciliabili rispetto ai rigidi principi sopra schematicamente richiamati.
Riduzione unilaterale della retribuzione
e demansionamento del lavoratore
È bene, innanzitutto, ricordare che l’opinione giurisprudenziale prevalente - facendo propria una vera interpretazione «adeguatrice» della norma - ha ritenuto opportuno operare alcune fondamentali differenziazioni tra le va-
rie ipotesi di riduzione del trattamento retributivo: una
prima differenziazione riguarda la fonte di tale riduzione
del trattamento economico, avendo la giurisprudenza differenziato la disciplina applicabile a seconda che si tratti
di una riduzione stabilita su base consensuale, oppure
che essa costituisca il frutto di una mera iniziativa unilaterale del datore di lavoro, di modo che il divieto assoluto
sancito dall’art. 2103 c.c. viene, di regola, considerato
applicabile soltanto alla seconda tra le due ipotesi considerate; su un piano diverso, si è pure ritenuto di distinguere i casi nei quali la riduzione della retribuzione si
accompagni, nella pratica, a una correlata riduzione del
contenuto professionale delle mansioni, da quelli nei
quali, invece, le mansioni non subiscano alcun mutamento peggiorativo, ritenendo applicabile il divieto assoluto di
cui all’art. 2103 c.c. soltanto ai primi.
In sintesi - e con qualche semplificazione di troppo -, può
dunque dirsi sin d’ora che l’elaborazione giurisprudenziale prevalente ritenga l’art. 2103 c.c. - con il suo rigido
sistema di divieti e nullità - applicabile ai soli casi di riduzione unilaterale della retribuzione, nonché a quelli in cui
la retribuzione venga ridotta come conseguenza di un
esercizio illecito del cd. ius variandi, cioè in stretta correlazione temporale e causale con un illegittimo demansionamento del dipendente.
Ne segue che le parti ben possano legittimamente convenire, durante un rapporto di lavoro subordinato, una
riduzione del trattamento economico riconosciuto al dipendente, sempre che si verifichino determinate condizioni (Cass., n. 1175/1996, Cass. n. 6083/1997).
Variazione quantitativa della prestazione
Sotto diverso profilo, la giurisprudenza di legittimità largamente maggioritaria ha da tempo sancito che la garanzia della cd. irriducibilità della retribuzione contemplata
dall’art. 2103 c.c. si riferisce all’aspetto qualitativo delle
mansioni - in considerazione delle caratteristiche professionali intrinseche all’attività esercitata dal lavoratore - e
non già a quello quantitativo, o alle particolari modalità di
svolgimento della prestazione. Ne segue che l’accordo
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tra il datore di lavoro e il dipendente diretto alla riduzione
della quantità della prestazione lavorativa (ad esempio,
con svolgimento dell’attività lavorativa a settimane alternate a periodi di permesso non retribuito) e correlativamente della retribuzione, non concreta un negozio peggiorativo delle condizioni di lavoro previste dal contratto
collettivo applicabile, in violazione dell’art. 2077 c.c., e in
particolare non configura un’ipotesi di violazione dell’art.
2103 c.c.; si tratta, piuttosto, di una vicenda riduttiva del
sinallagma per il quale l’entità della retribuzione è stabilita
in proporzione alla quantità della prestazione del dipendente, in forza sia dei principi di corrispettività e di effettività propri della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, sia del fatto che una retribuzione non rapportata ad
un’attività ridotta costituirebbe un indebito arricchimento
del lavoratore (Cass., n. 7393/1991). La conservazione di
emolumenti connessi a particolari caratteristiche della
prestazione quando le caratteristiche stesse siano venute meno, si pone, infatti, in contrasto con il principio di
proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità
del lavoro prestato, sancito dall’art. 36 Cost.
Indennità estrinseche alla prestazione
La giurisprudenza, approfondendo la questione, ha inoltre
precisato che l’irriducibilità della sola parte della retribuzione correlata al contenuto professionale della prestazione
determina l’esclusione di tutte le voci retributive correlate
a particolari condizioni estrinseche del suo svolgimento.
La garanzia apprestata dall’art. 2103 c.c. non copre l’intero
trattamento retributivo, ma solo quello composto dalla retribuzione base e da tutte le altre voci che risultino connesse a specifiche caratteristiche intrinseche delle mansioni. Ne segue che l’irriducibilità della retribuzione non
riguarda le indennità che - nell’economia del rapporto contrattuale -, vengano erogate per compensare particolari
disagi o difficoltà del lavoratore, che ben possono essere
soppresse allorché vengano meno le speciali situazioni
che le abbiano generate (Cass. n. 11460/1997). Pertanto,
il discrimine tra retribuzione irriducibile - nel senso sopra
specificato - e retribuzione soggetta a riduzione consiste,
tra l’altro, nell’inerenza dell’emolumento all’intrinseca professionalità delle mansioni precedentemente svolte, sicché non spettano quelle indennità corrispettive di caratteristiche non connaturali alle mansioni connesse a particolari circostanze di luogo, di modo o di tempo, che possono
legittimamente venire meno con la scomparsa del titolo o
delle circostanze esteriori che le avevano occasionate.
Infatti, ciò che il legislatore intende tutelare è il corredo
delle immutabili qualità essenziali definitorie dell’aspetto
professionale delle mansioni originarie, non già la continui-
tà di erogazione di emolumenti compensativi di condizioni
e modalità di espletamento delle mansioni solo occasionalmente connessi alla posizione antecedente del lavoratore
e quindi estranei - perché contingenti e mutevoli le ragioni
giustificative della loro attribuzione - al rapporto originario.
In virtù di tale principio, ad esempio, la garanzia della
irriducibilità non è stata ritenuta operante, sul presupposto della natura estrinseca rispetto alle mansioni in precedenza svolte, nei confronti dell’indennità di turno, dell’indennità di servizio all’estero, dell’indennità di rimborso
spese carburante, dell’indennità di cassa del settore bancario. In base al medesimo criterio, e solo limitandosi ad
alcuni esempi, è stata invece inclusa tra le indennità intrinseche alla prestazione e dunque non riducibili: l’indennità di immersione, in quanto ritenuta inscindibilmente
legata alla precedente attività di geometra-sommozzatore, e il compenso percepito da un cuoco nelle precedenti
mansioni di pasticcere.
La giurisprudenza ha inoltre specificato - in tema di onere
della prova - che, quando la disciplina della singola voce
retributiva, controversa, abbia come unica fonte il contratto, individuale o - più spesso - collettivo, sul lavoratore
che ne rivendichi la conservazione in occasione del mutamento di mansioni grava l’onere dell’allegazione e dimostrazione del contenuto della pattuizione, nel senso
dell’irreversibilità dell’attribuzione (Cass. n. 4823/1996).
Dequalificazione del lavoratore
La Corte di Cassazione, ponendo in luce come la riduzione del trattamento retributivo complessivo sia ammissibile sul presupposto che tale riduzione non operi nell’ambito qualitativo dell’immodificabilità in peius delle mansioni del lavoratore, ma riguardi piuttosto le variazioni
quantitative della prestazione, mette in risalto le finalità
dell’art. 2103 c.c., volto ad impedire la dequalificazione
del lavoratore, e non la mera diminuzione dell’aspetto
retributivo. In sostanza, il divieto assoluto di diminuzione
della retribuzione è da leggersi in funzione del divieto di
dequalificazione. Conseguentemente, se il mutamento
delle mansioni determina una minore durata dell’impegno lavorativo, le parti possono legittimamente convenire una correlativa riduzione della retribuzione, fermo restando il divieto di una modifica in peius dell’inquadramento e - come si evidenzierà tra breve -, del livello
retributivo tabellare. In giurisprudenza, è stato peraltro
osservato che questa lettura della norma in esame avrebbe un supporto testuale: nel c. 1 dell’art. 2103 c.c., infatti,
l’inciso «senza alcuna diminuzione della retribuzione»
che, separato dal resto da una virgola, segue a chiudere
il periodo, non può essere considerato «indipendente-
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mente dal concetto e dal divieto sopra indicati; va, invece, considerato e interpretato in relazione ad essi, e segnatamente, con riferimento al divieto di mutamento in
peius delle mansioni del lavoratore».
Sintetizzando il concetto da ultimo esposto, può dirsi che la
norma in esame vada dunque interpretata nel senso che:
. il mutamento in peius delle mansioni del lavoratore
ricorra solo nel caso in cui le nuove attività svolte
dal lavoratore corrispondano ad una qualifica diversa
(inferiore) rispetto a quella corrispondente all’attività in
precedenza assegnatagli;
. la diminuzione della retribuzione vietata dall’art. 2103
c.c. è soltanto quella che sia la conseguenza diretta ed
immediata di un declassamento professionale del lavoratore (Cass., n. 9473/1987).
Assegnazione a mansioni superiori
Altra e connessa problematica, è quella relativa all’ambito di operatività del principio di irriducibilità della retribuzione nel caso di variazione in melius delle mansioni,
profilo che non trova esplicita regolamentazione nell’art.
2103 c.c. Quest’ultimo, infatti, stabilisce che «nel caso di
assegnazione a mansioni superiori, il prestatore ha diritto
al trattamento corrispondente all’attività svolta». La norma muove dunque dall’ottimistico presupposto che il
trattamento corrispondente alle mansioni superiori sia
più vantaggioso per il lavoratore rispetto a quello goduto
in precedenza. Di conseguenza, non sancisce espressamente il principio della intangibilità della retribuzione per
tali ipotesi. La dottrina, tuttavia, ha rilevato come, se è
certamente fuori dubbio che alle mansioni inquadrate nel
livello superiore corrisponda una retribuzione base anche
essa superiore (la scala classificatoria si traduce infatti in
una scala retributiva), non è detto che in caso di passaggio alle mansioni superiori, debba necessariamente verificarsi un incremento del trattamento retributivo globale
in precedenza percepito. Questo passaggio potrebbe,
infatti, comportare la perdita o la modificazione di determinate voci retributive, e potrebbe anche darsi che la
perdita sia tale da provocare un peggioramento del trattamento complessivo in precedenza goduto. In tale ipotesi, infatti, al lavoratore deve essere garantito solo il
minimo retributivo alla nuova qualifica, mentre viene consentita l’eliminazione degli eventuali elementi oggettivi
della retribuzione base eventualmente erogati - ad esempio - per compensare la maggior durata della prestazione
rispetto al normale orario di lavoro.
Minimi retributivi contrattuali
Da ciò può desumersi che il problema dell’individuazione,
in concreto, del compenso riducibile ex art. 2103 c.c.,
debba tenere in considerazione l’ulteriore limite relativo
ai minimi retributivi contrattuali della categoria, eventualmente corrispondenti alle nuove mansioni. Ciò, al fine di
non violare il principio sancito dall’art. 36 Cost. - a mente
del quale il lavoratore ha diritto ad una «retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni
caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla sua famiglia
un’esistenza libera e dignitosa» - come interpretato dalla
giurisprudenza sin dagli anni ottanta. Quest’ultima, infatti, ha innanzitutto attribuito alla norma costituzionale valore immediatamente precettivo; ne segue che il giudice
ha la facoltà di sindacare se la retribuzione spettante al
lavoratore - complessivamente considerata - sia - o meno
- conforme al dettato costituzionale. In merito, invece, al
problema dell’individuazione del livello retributivo da considerare adeguato alla norma in esame, deve farsi riferimento alla retribuzione base (cd. minimi tabellari) prevista dai contratti collettivi della categoria o del settore
produttivo, considerati quale parametro affidabile, a prescindere dalla diretta applicabilità del contratto (si tratta
del meccanismo noto come «estensione indiretta della
parte economica del contratto collettivo»).
Pertanto, una riduzione della retribuzione che scenda al di
sotto dei minimi retributivi, stabiliti dai contratti collettivi
della categoria o del settore produttivo, non potrà ritenersi ammissibile, per contrasto con l’art. 36 Cost.
Riorganizzazione dell’impresa
Per completezza, si evidenzia come la giurisprudenza, in
applicazione del principio dell’intangibilità «relativa» della
retribuzione, abbia elaborato i seguenti principi:
. sono valide le diminuzioni del reddito conseguenti ad
una diversa organizzazione dell’impresa ove non vi sia
un declassamento professionale del lavoratore (Cass.
n. 9473/1987);
. l’art. 2103 c.c. non trova applicazione in una situazione
di possibile riduzione dell’occupazione per ristrutturazione aziendale se le mutate mansioni conseguono ad
una ristrutturazione dei servizi e configurino un’alternativa al licenziamento dei lavoratori in esubero.
Modalità pratiche di applicazione
Posta l’ammissibilità, con l’osservanza dei limiti sopra indicati, di una riduzione consensuale della retribuzione, l’attuazione, in concreto, del principio in questione non soggiace a particolari formalità, soprattutto considerato che la
problematica in oggetto è pacificamente esclusa dall’area
di applicabilità dell’art. 2113 c.c., a mente del quale: «Le
rinunzie e transazioni che hanno per oggetto diritti del
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prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili
della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti
i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c., non sono valide.
L’impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o transazione, se queste
sono intervenute dopo la cessazione medesima.
Le rinunzie e le transazioni di cui ai commi precedenti
possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore, idoneo a rendere nota la
volontà. Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli artt.
185, 410, 411 c.p.c.».
L’annullabilità prevista dalla disposizione codicistica - e la
connessa deroga a tale principio, applicabile nell’ipotesi
in cui le rinunce o transazioni aventi ad oggetto i menzionati diritti siano state convalidate in sede cd. «protetta»,
cioè dinanzi alla Direzione provinciale del lavoro, in sede
sindacale o davanti all’autorità giudiziaria - non è comminata per qualsiasi rinuncia o transazione stipulata dal lavoratore su diritti inerenti al rapporto di lavoro, bensı̀ solo
per quelle particolari rinunce o transazioni che abbiano ad
oggetto «diritti derivanti da disposizioni inderogabili della
legge e dai contratti o accordi collettivi». Sono, dunque,
di per sé valide e inoppugnabili (perché non rientranti
nell’ambito di efficacia dell’art. 2113 c.c., e salvo il rispetto delle disposizioni di diritto comune sui negozi in generale e sulle transazioni in particolare: artt. 1965-1976 c.c.),
le rinunce o le transazioni relative a qualsiasi diritto che al
lavoratore derivi solo dal suo contratto individuale, quale,
ad esempio, il diritto ad un «superminimo» ad personam,
o una riduzione o collocazione particolare dell’orario di
lavoro pattuita direttamente con il datore di lavoro. E si noti - in questo caso - diversamente da quanto previsto
in base alle regole generali in materia di rinunce e transazioni - l’atto dismissivo è pienamente valido non solo
se riferito ad un diritto già entrato a far parte del patrimonio del lavoratore (come nel caso della rinuncia ad un
«superminimo» già maturato), ma anche se volto a modificare la disciplina del rapporto futuro. La regola generale stabilisce, infatti, che il regime di annullabilità ex art.
2113 c.c. non si applichi alle pattuizioni con le quali il
lavoratore accetti, per il futuro, una disciplina del singolo
istituto contrattuale peggiorativa rispetto a quella inderogabile disposta dalla legge o dalla contrattazione collettiva: in questo caso la pattuizione, nulla ex art. 1418 c.c.
per contrasto con una norma imperativa, viene sostituita
di diritto da quest’ultima, essendo considerato dall’ordinamento tamquam non esset.
In sintesi, l’accordo di riduzione consensuale della retri-
buzione - non necessitando dell’eventuale e relativa convalida dinanzi alla Direzione provinciale del lavoro, in sede
sindacale, o dinanzi al giudice - potrà essere formalizzato
tra le parti attraverso la redazione di una semplice scrittura privata, sottoscritta dalle parti contraenti, datore di
lavoro e lavoratore interessato, senza ulteriori formalità.
Conclusioni
Alla luce di quanto ora esposto si possono delineare alcuni principi che regolamentano questa controversa materia. Una riduzione della retribuzione, nonostante possa
apparire, a una prima lettura della norma, vietata in modo
assoluto dall’art. 2103 c.c., è, in realtà, da considerarsi
pienamente legittima alla luce dei principi elaborati da
una giurisprudenza più che decennale sull’argomento, a
condizione che si osservino determinati limiti:
1) la riduzione della retribuzione deve, innanzitutto, costituire oggetto di un accordo tra le parti: è pertanto necessario il consenso del lavoratore;
2) la riduzione del trattamento economico non può accompagnarsi ad una modifica in peius delle mansioni,
cosı̀ realizzando un demansionamento;
3) la riduzione della retribuzione non può, comunque,
essere tale da far scendere il trattamento retributivo
complessivo al di sotto dei minimi tabellari, poiché in tale
ipotesi si integrerebbe una violazione dell’art. 36 Cost.
In sostanza, il principio dell’immutabilità delle mansioni e
dell’irriducibilità della relativa retribuzione si riferisce all’aspetto qualitativo delle mansioni - e quindi agli elementi
retributivi che attengono specificamente al contenuto
professionale delle mansioni di provenienza - e non a
quello quantitativo. Pertanto, le parti possono - senza,
per questo, incorrere nella violazione dell’art. 2103 c.c.
- convenire una riduzione della retribuzione rispetto a
quella pregressa. Ciò, peraltro, sempre a condizione
che non vi sia modificazione in peius dell’inquadramento
(e quindi demansionamento) e del livello retributivo tabellare minimo.
Quanto alle modalità pratiche di attuazione della modifica
in questione, la formalizzazione dell’accordo di riduzione
della retribuzione - non rientrando nell’ambito di applicazione dell’art. 2113 c.c., in quanto l’atto dismissivo ha per
oggetto un diritto derivante dal contratto individuale, e
non da «disposizioni inderogabili della legge e dai contratti o accordi collettivi» - potrà avvenire attraverso la
redazione di una scrittura privata, sottoscritta direttamente tra datore di lavoro e lavoratore interessato.
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