la violenza maschile sulle donne al di fuori dell`emergenza

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la violenza maschile sulle donne al di fuori dell`emergenza
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LA VIOLENZA MASCHILE SULLE DONNE
AL DI FUORI DELL’EMERGENZA
uomini e donne dialogano sulla violenza maschile contro le donne
Un seminario di confronto tra l’esperienza dei centri antiviolenza,
delle case delle donne maltrattate e l’esperienza dei centri per uomini autori di violenza
Roma 4 ottobre 2014, Casa Internazionale delle Donne
Introduzione di Maria Merelli per LeNove
Che cosa lega le tre associazioni che hanno promosso il seminario di oggi?
Pezzi di strada negli ultimi anni ci hanno visto variamente insieme: LeNove e Maschile Plurale,
Maschile Plurale e la Casa delle donne maltrattate di Milano, LeNove e i Centri Antiviolenza ...il
terreno di questi incontri la violenza maschile contro le donne vista da diverse ottiche e pratiche: noi
LeNove per l’attività di gestione 1522, lo studio delle reti locali dei servizi a supporto delle donne e
degli interventi rivolti agli uomini che agiscono violenza; Maschile Plurale per la riflessione di
uomini sulla propria appartenenza di genere e i modelli identitari maschili oltre alla collaborazione
con diverse esperienze di Centri Uomini, D.i.RE per il quotidiano lavoro dei centri nell’accogliere e
accompagnare le donne verso autonomia e libertà e la strenua difesa del loro operato.
Dal primo incontro nel marzo 2013 in cui si avviò la discussione con chi aveva partecipato alla
nostra indagine sui Centri Uomini a quelli successivi nel corso del 2013 e 14, si è fatto strada tra
noi e Maschile Plurale il desiderio di riunire le voci di queste esperienze per un confronto
ravvicinato che facesse fare a tutti un passo in avanti sui nostri paradigmi, pratiche, riflessioni...una
proposta condivisa da D.i.RE che ha portato alla giornata di oggi.
Dunque una crescita progressiva di fermenti di dialogo, diremmo “prove di avvicinamento” fra
mondi che si sono considerati fino ad oggi non solo separati e distanti, ma in conflitto e antagonisti
come lo sono le due figure simbolo che questi mondi rappresentano: l’uomo violento/carnefice, la
donna vittima.
Noi LeNove abbiamo vissuto, nel nostro percorso, il trovarci a scavalco di questi due mondi: il
nostro lavoro – siamo figlie del cd. femminismo culturale e della differenza degli anni 80 – porta
l’impronta culturale e politica dovuta alla nostra nascita; attraverso di essa abbiamo riflettuto sulle
trasformazioni materiali e identitarie delle soggettività femminili: corpo, sessualità, maternità,
lavoro e conciliazione, carriere e differenziali salariali, risorse e vincoli individuali, opportunità e
resistenze dei contesti sociali. E violenza, dai 6 anni di gestione del 1522, insieme a Le Onde di
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Palermo (e Atesia), al contatto con i Centri AV e le reti dei servizi locali, per arrivare alle
iniziative rivolte agli uomini. E’ stato uno spostare il nostro sguardo sulla questione maschile,
guidate dall’idea che non si dà possibilità né di prevenzione né di cambiamento della cultura se
l’altro da noi – gli uomini e il loro lato oscuro - rimane silente e distante.
Ma spostare lo sguardo non significa pentirsi di un passato e neppure cambiare il percorso
intrapreso, bensì arricchirlo, mantenendo, questo sì, immutati gli obiettivi finali: la salvaguardia più
efficace delle donne che subiscono violenza da parte degli uomini e i supporti necessari affinché
possano intraprendere una strada di libertà. Uno sguardo dunque femminista anche quello rivolto
agli uomini (pur consce della pluralità e complessità di significati insiti in una parola,in una
categoria soggetta essa stessa al cambiamento imposto dalle trasformazioni della società e dal
ricambio di generazioni) e che vuole prendere in considerazione l’altro, l’uomo, poiché si ritiene
che solo operando nella prospettiva di una trasformazione radicale dei soggetti e delle relazioni che
li legano sarà possibile combattere la violenza contro le donne mettendo in atto, oltre a
indispensabili risposte immediate, strategie che cerchino di operare sulle radici – culturali - del
fenomeno.
Il lungo percorso di LeNove (nostro), infatti, e’ stato per molti aspetti un viaggio nelle molteplici
forme di discriminazione di una società che si dice postpatriarcale, ma resiste in molti modi ad
accettare pienamente l’affermazione e la pratica della autonomia e libertà delle donne. Con
Maschile Plurale e D.i.RE ci accomuna l’analisi che la violenza maschile, nelle molte forme in cui
essa si manifesta, e’ l’estremo tentativo di contrastare questo processo, per mantenere relazioni di
subordinazione e soggezione, di asimmetria di ruoli e potere. E, come per Maschile Plurale e
D.i.RE, ci accomuna la fiducia nella possibilità di un cambiamento dei comportamenti individuali e
dei modelli culturali di genere che nella società legittimano tuttora disparità, discriminazioni e
violenza contro le donne. Ci accomuna anche la fiducia nelle capacità trasformative delle vite e
delle relazioni che hanno le pratiche rivolte alle donne “vittime” nate dalle relazioni fra donne, e
recentemente anche gli interventi rivolti agli autori, che implicano complesse competenze culturali
e professionali. Un punto delicato e di differenza, questo, che certamente va riflettuto.
La fiducia prima richiamata è anche il requisito della giornata odierna: fiducia nella possibilità di
mettere in comune i saperi che nascono dalle rispettive esperienze, di dialogare senza preconcetti e
diffidenze, il che non significa non nutrire perplessità e dubbi...semmai dar loro voce, metterli in
comune, confrontarli. E’ necessaria una fiducia nell’ascolto e nella capacità di imparare dagli uni e
dalle altre, con reciprocità e apertura. Certamente sul piano culturale e politico, ma forse ancor
prima rivisitando il bagaglio delle convinzioni personali.
C’è un lavoro riflessivo di interrogazione (se non di decostruzione) che ognuno e ognuna deve
probabilmente fare ripensando agli schemi di pensiero che hanno dato forma alla nostra visione
della violenza e delle interazioni dei soggetti coinvolti in una relazione violenta e hanno motivato
nel tempo il nostro agire.
Oggi, e’ innegabile, c’è più attenzione sociale alla violenza contro le donne, ma l’indignazione
mediatica e verbale comporta strabismi e rischi finendo per collimare con l’impostazione
emergenziale e sostanzialmente securitaria ancora prevalente nel discorso pubblico, anche
nell’azione legislativa.
Per questo noi vogliamo essere/sentirci fuori dalla emergenza che incalza.
Solo così si può andare alle radici culturali delle relazioni fra donne e uomini, abbracciarle in tutte
le sfaccettature e insieme considerare i percorsi e le modalità di intervento in essere verso le donne
e verso gli uomini: per vederne i possibili elementi comuni ma anche andando a fondo sulle
caratteristiche e le differenze che l’attività con gli uomini pone.
Il confronto, infatti, non può che avvenire a partire dalle differenze che segnano nascita e storia dei
Centri per le donne e di quelli per gli uomini; differenze che debbono rimanere come assunti teorici
e pratici della lettura sessuata della realtà e delle relazioni fra donne e uomini, fra ragazze e ragazzi.
Lettura sessuata imprescindibile.
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A questo proposito mi piace citare Carol Gilligan, il cui studio “Con voce di donna” (In a Different
Voice, 1987) è stato pietra miliare per il pensiero femminista; anche nel suo ultimo libro “La virtù
della resistenza. Resistere, prendersi cura, non cedere” ribadisce come ragazze e donne “sono la
chiave per rivelare le strutture patriarcali”, le dicotomie e le gerarchie sessuate che tengono in piedi
l’ordine patriarcale... che non riguarda solo le donne ma anche gli uomini... (auspica infine una lotta
per affermare l’etica della cura come etica femminista e degli esseri umani per liberarci dal
patriarcato).
È con questa disponibilità reciproca ad ascoltarci, a dialogare su domande e risposte, che crediamo
si possono avviare nuovi percorsi, progetti e azioni soprattutto nel campo della prevenzione, della
educazione e della formazione.
E, forse, anche per avere più forza di interlocuzione politica.
Anche nel nostro paese ci sarebbe bisogno di una interlocuzione politica che con maggiore forza
spinga Governo e istituzioni a scelte adeguate - e finanziate – al sostegno e sviluppo dei servizi di
accoglienza delle vittime e di “recupero” degli autori.
Ma senza aspettare palingenetiche soluzioni di un futuro Piano nazionale che ignoriamo quando
sarà pronto, l’incontro odierno traccia una via da percorrere avviando il confronto sui molti
interrogativi che abbiamo posto nella lettera di invito.
Da ultimo. Abbiamo accostato la complessa azione che altri paesi hanno da tempo messo in campo
( se ne è data notizia nel volume Il lato oscuro degli uomini. La violenza maschile contro le donne:
modelli culturali di intervento) con politiche integrate a tutti livelli istituzionali e con pieno
coinvolgimento delle organizzazioni della società civile. Tra Centri rivolti agli autori e CAV la
collaborazione è strumento stabile di lavoro quotidiano per azioni di prevenzione nella
comunità/società e stimolo nei confronti degli interlocutori istituzionali. La stessa Convenzione di
Istanbul, come è stato ribadito nella Conferenza di Roma del 19 settembre (promossa
congiuntamente dal Consiglio d’Europa e dal Ministero degli Affari Esteri ) sottolineando la
necessità di un approccio olistico alla violenza contro le donne, indica all’art.16 lo stretto
coordinamento delle misure rivolte ai perpetrators con i servizi rivolti alle vittime.
Del resto dall’aggiornamento della situazione italiana fatto per questa occasione, (che si trova
online sul nostro sito www.lenove.org e di cui darà notizia Stefania Pizzonia), risulta che
coordinarsi sul territorio con il CAV e la rete dei servizi antiviolenza e’ già, quasi per tutti, una
pratica, più stabile che saltuaria. Dunque una questione da approfondire. Essa mostra, tra l’altro,
che nuovi interventi, centri o sportelli rivolti agli autori sono nati nell’ultimo anno, altri presto
apriranno. Così come e’ nata da poco l’associazione RELIFE che molti ne raccoglie, ponendosi
come interlocutrice anche verso le istituzioni nazionali e internazionali.
Questa situazione in movimento ci spinge dunque a trovare ponti di comunicazione essendo questo
un investimento sul cambiamento possibile, necessario, delle relazioni e per, come si è detto
nell’invito, “costruire un’altra civiltà tra uomini e donne”.
Introduzione di Manuela Ulivi (Casa delle donne maltrattate di Milano) per D.i.Re
Le parole non bastano. E’ questo il titolo di un convegno organizzato circa due anni fa con
l’associazione Maschile Plurale, a seguito di un lungo confronto intorno a un tavolo che avevamo
chiamato “tavolo vero tra uomini e donne”.
È stata un’esperienza interessante che si è conclusa proprio nel 2012 subito dopo questo convegno.
In ragione di quell’esperienza oggi parlo esponendo pensieri che nascono dalle mie riflessioni sulla
“presa di parola maschile” sul tema della violenza degli uomini contro le donne.
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L’osservazione che mi viene da fare è che gli uomini hanno sempre avuto parola in tutti i campi
della conoscenza umana, mentre sono stati particolarmente assenti su di un problema che li ha
riguardati sempre molto da vicino che è quello della relazione privata, personale, affettiva di
dominio su una donna.
Sappiamo tutte e tutti che nei rapporti personali ci sono sempre equilibri difficili da trovare, con
posizioni dominanti ora dell’uno ora dell’altro sesso. Ma questo fatto non può essere confuso con
l’oscura e, direi, malvagia volontà di imperare sulla propria compagna con soprusi e violenze di
carattere psicologico e/o economico. Sarebbe bene noi ci concentrassimo proprio su questi due
aspetti della violenza, al di fuori dell’emergenza, come dice il titolo di questo incontro, perché
quando si tratta di violenza fisica e sessuale il riconoscimento della contrarietà di questi
comportamenti al comune vivere civile e al rispetto della persona che si ha di fianco è quasi
automatico.
È così che leggendo i diversi contributi raccolti nell’interessante libro “Il lato oscuro degli uomini”
(Ed. Ediesse, 2013) ritrovo un linguaggio, utilizzato da alcuni uomini, che mi dà l’impressione di
non essere autentico. Infatti, come ho rilevato anche durante la mia esperienza al “tavolo vero”, e
come ci siamo detti con Marco e Alessio, è molto difficile guardarsi con attenzione e raccontarsi
veramente da dentro. Ovviamente questo vale per uomini e donne, con la differenza che le donne
hanno decine di anni di vantaggio, se non vogliamo parlare di secoli e secoli di relazioni duali e
amicali, di pensiero sulla loro stessa differenza e sul valore che le donne hanno saputo riconoscere e
dare a sé stesse.
Date queste premesse, quando si afferma che l’autore di comportamenti maltrattanti “vive e agisce
in uno stato di disagio e sofferenza” penso che questo fatto sia ancora tutto da verificare e non è un
presupposto di lavoro che mi convince.
Ho incontrato molti uomini che avevano agito violenza contro una donna che non solo non avevano
maturato alcuna consapevolezza della sofferenza causata alla loro compagna, ma asserivano con
tono piuttosto convinto quanto arrogante che non avevano fatto niente di male. Il primo istinto è
sempre quello di negare anche di fronte all’evidenza, di sminuire la gravità dei propri
comportamenti, di cercare di darne una versione manipolata in ogni caso, da ultimo, di trovare
giustificazioni ai fatti attraverso l’imputazione all’altra della ragione delle proprie reazioni. Quando
si viene chiamati a rispondere delle proprie azioni in un ambito giudiziale questo è quanto emerge:
il tentativo di sottrarsi alle proprie responsabilità, con ogni mezzo, oltre alla ignobile manovra di
gettare discredito sulla persona a cui si sono inferte sofferenze di ogni tipo, arrivando ad imputarle
l’origine degli stessi mali che ha subito.
Il lavoro dei centri antiviolenza ha svelato una realtà maschile molto diffusa, sorniona e complessa,
che limita la libertà femminile in modo indiscutibile, anche nel senso che la donna che la mette in
discussione viene colpita inesorabilmente, dall’uomo che non accetta di essere messo in
discussione.
Uscire di casa, usare il proprio linguaggio, esprimere i propri pensieri, muoversi in casa e nel
mondo con agio e libertà, costa ancora oggi alle donne umiliazioni, denigrazioni, attacchi sottili alla
loro stessa essenza. Tutto ciò comincia con aggressioni di carattere psicologico, attraverso la messa
in scacco di qualsiasi capacità della donna di stare al mondo, cominciando a mettere in discussione
lo stesso modo in cui si muove e parla insinuando che il mondo che sta fuori la guardi esattamente
come quell’uomo che le sta facendo del male.
Sono meccanismi molto infidi e complessi che portano all’isolamento, alle aggressioni fisiche e a
volte colpiscono così nel profondo la donna che finisce per non parlarne con nessuno, che assume
un atteggiamento che può apparire all’esterno scostante, strano, tanto che l’uomo può avere
maggiore facilità a trovare persino sostegno e coalizione in altri uomini e donne.
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Quando si creano queste situazioni quella che ho già chiamato malvagità non ha limiti e arriva al
massimo attacco alla donna attraverso la messa in discussione della competenza materna e del
rapporto con i propri figli.
Noi siamo partite dalla nostra competenza, dal “sé” che abbiamo imparato dalla pratica femminista,
con la convinzione di avere una forza e di giocarci questa forza mettendo in campo la relazione tra
donne che è divenuta nel corso del tempo la nostra metodologia di lavoro.
Il colloquio può diventare per noi uno scambio di esperienze che parte dall’essere donne e
dall’avere provato esperienze simili. Possiamo così capire meglio certe emozioni, frustrazioni e i
molteplici sentimenti che suscita il comportamento dell’uomo che attacca la donna in quanto donna
libera, con la complicità di tutto il mondo intorno.
Ma ovviamente non esiste un’unica metodologia.
Ci sono ancora prima del metodo tanti linguaggi che provengono da esperienze e competenze
multidisciplinari. La metodologia dell’accoglienza “da donna a donna”, che sopra ho richiamato, è
un’esperienza molto forte che ha prodotto risultati enormi e messo in campo la forza della relazione
tra donne.
Agli uomini manca ancora il linguaggio, autentico e specifico, per elaborare una metodologia utile
all’approfondimento del confronto con il genere femminile. Cominciando dai mass-media che
veicolano molti comportamenti di tutti noi, fino alle nostre relazioni più intime di scambio vero,
profondo e affettuoso non abbiamo ancora trovato, a mio parere, una capacità di “confronto nudo”.
Questo per me vuol dire la possibilità di stare vicini, di muovere il proprio corpo, di usare lo
sguardo, il tutto ancora prima della parola, con lealtà, rispetto e riconoscimento dell’importanza
dell’altro. A questo deve affiancarsi ovviamente la capacità di relazionarsi anche con le parole (che
pure “non bastano” come abbiamo detto), cui fare seguire atti pratici che diano conferma delle
proprie affermazioni.
Mi spiego: in tutti questi anni in ogni confronto e dibattito pubblico, compreso il nostro “tavolo
vero”, abbiamo sentito e scambiato parole importanti, con riflessioni molto profonde. Abbiamo
anche colto che questo non basta e che quello che conta alla fine sono i comportamenti nell’ambito
delle relazioni quotidiane, la capacità di tradurre in atti le proprie affermazioni e di essere in questo
modo coerenti. Non è sufficiente riconoscersi uomini capaci di usare violenza contro le donne e poi
magari nel quotidiano usare, anche in modo superficiale e poco attento, l’ancestrale capacità delle
donne di essere sul piano pratico produttive di un servizievole accudimento. Capisco che sto
scivolando su un discorso difficile e ambivalente, ma voglio ugualmente citare il fatto che le troppe
dichiarazioni e impegni su un antiviolenza che sta diventando sempre più di carattere commerciale e
di lavoro professionale, non corrisponde all’impegno necessario per cercare di estirpare veramente
le radici della possibilità che la relazione tra un uomo e una donna divenga perversa.
Cito Sandra Filippini, che ci ha lasciate troppo presto, e che nel suo bellissimo libro “Relazioni
perverse” (ed. Franco Angeli, 2005) ha analizzato il rapporto tra narcisismo e perversione mettendo
in luce come una serie di tratti del narcisista tra cui: il senso grandioso di importanza; le fantasie di
illimitato successo; il potere; il fascino; la convinzione di essere speciale e unico; la mancanza di
empatia siano tratti tipici di uomini che maltrattano. Sandra Filippini aggiunge che l’uomo
narcisista si può identificare non solo negli aggettivi prima elencati, ci dice che esiste un uomo
schivo, silenziosamente grandioso, ipersensibile alla critica e al rifiuto che pure ritroviamo molto
spesso nella tipologia del maltrattante. Sempre Filippini ci segnala un’altra peculiarità di questa
personalità narcisista che è quella della mancanza di senso di colpa, quindi la mancanza di pensare
di avere compiuto qualcosa di sbagliato, così come (rifacendosi agli studi di Hirigoyen “Molestie
morali. La violenza perversa nella famiglia nel lavoro”, 1998) mette in evidenza come il
perverso/maltrattante possa “proferire una minaccia con un tono di voce neutro e il volto
impassibile, così come può, al contrario, esprimere un contenuto leggero o indifferente con
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un’espressione che incute timore. L’importante è disorientare l’altro, tenerlo costantemente sotto
scacco. La comunicazione non comunica, non realizza uno scambio, non produce nulla: salvo la
svalutazione, la manipolazione, il controllo”.
Ho sottolineato la felicissima frase di Sandra della comunicazione che non comunica in quanto non
capace di realizzare uno scambio. E’ da questa difficoltà che penso si debba partire, anche tra di noi,
per non risponderci come direbbe l’uomo maltrattante: “Che cosa c’è da dire?”
C’è da dire, c’è da fare e c’è sicuramente da cercare la coerenza.
La menzogna, il sarcasmo, la divisione, il disprezzo sono le armi che l’uomo maltrattante usa per
squalificare soggiogare la vittima, creando un’atmosfera viziata nella quale si avverte che per la
verità non c’è posto, perché verrebbe derisa. Lo scambio in questo modo scivola su un registro
insincero, dove possono trovare posto solo cattiverie e calunnie.
Il nostro scambio deve essere cosciente di tutto questo, tenere sempre presente la possibilità che ci
possano essere deviazioni, ma, soprattutto, non può vivere, come dicevo all’inizio, delle sole parole
delle donne, ha bisogno di un linguaggio autentico maschile tutto da inventare.
In questo contesto l’intervento sugli autori del maltrattamento può essere utile se esce dagli schemi
della relazione professionista/patologico, che è quello che si sta affermando in ogni Nazione con la
convinzione che questo tipo di relazione di carattere “sanitario” possa essere utile anche alle donne
in quanto interessate a mantenere un rapporto con l’uomo che le ha maltrattate. Ovvero in quanto
madri di figli comuni, oppure ancora necessitate dall’essere veramente liberate da un pericolo
pubblico, poiché questo tipo di intervento si prefigge di combattere la recidiva.
Dopo avere conosciuto direttamente molte dinamiche della relazione di aggressione violenta
dell’uomo sulla donna, ritengo che senza una profonda riflessione di tutti, in particolare degli
uomini che devono mettersi in discussione e devono affrontare tra di loro un problema che è loro,
con il possibile continuo confronto e di intervento delle donne (non nel ruolo di vestali accudenti,
capaci di ascolto, capaci anche di comprensione e di perdono, ancor meno nel ruolo di terapeute)
non si possa veramente fermare la violenza maschile.
Introduzione di Marco Deriu per Maschile Plurale
In questo intervento introduttivo vorrei offrire qualche stimolo alla riflessione su tre aspetti:
1) il significato più ampio di un lavoro di donne e uomini sulla violenza maschile
2) le diverse possibilità di intervento e il ruolo della dimensione psicologica e clinica
3) rischi e problematiche (anche a partire dalla nostra esperienza) degli interventi degli uomini e
con gli uomini.
1. Sono maturati i tempi per un confronto e un impegno comune? Il coinvolgimento degli
uomini in una prospettiva più ampia
Molti di noi vengono da anni di esperienze concrete di scambio, condivisioni e collaborazioni con
Centri Antiviolenza, Case delle donne e Associazioni femministe. A Milano abbiamo avuto un
percorso durato diversi anni tra alcune amiche della Casa delle donne maltrattate di Milano e alcuni
uomini di Maschile Plurale. Si è trattato di uno scambio profondo e produttivo perché siamo riusciti
a spogliarci e a parlare della violenza in maniera più personale mettendo in gioco anche noi stessi e
le nostre esperienze. È stato uno scambio che ha avuto anche momenti di conflitto e di pausa, ma
che a mio avviso ha sperimentato la modalità più interessante, che ritengo ancora un'occasione viva.
Questa è stata l'esperienza più strutturata per me, ma altre persone di Maschile Plurale hanno avuto
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esperienze significative di collaborazione e condivisione in altre città. Anche diversi gruppi o centri
che lavorano con gli uomini stanno sperimentando forme di collaborazione con realtà delle donne.
Quindi mi pare che nella pratica è un momento di sperimentazione e maturazione di questo
scambio.
Cosa significa questo scambio? Questa collaborazione? Che cosa apportano gli uomini in questo
lavoro comune di contrasto alla violenza maschile sulle donne?
A me pare che portino in primo luogo un contributo nella comprensione della violenza come
questione maschile. La presenza e l'impegno degli uomini aiuta a non banalizzare la violenza
maschile, ovvero non naturalizzarla o non darne interpretazioni facili o monocausali. Questo
significa riconoscere molteplici determinanti, molteplici elementi, e anche evidenziare le evoluzioni
storiche e le trasformazioni di questa violenza. Allo stesso modo possono aiutare a vedere le
relazioni uomo-donna in una prospettiva storica profonda che attraversa secoli e millenni di storia.
In secondo luogo la presenza degli uomini contribuisce a osservare, riconoscere e nominare una
pluralità interna al maschile e agli stessi uomini. Pluralità significa confronto, significa conflitto,
significa possibile trasformazione, individuale e collettiva. Il riconoscimento di questa pluralità a
mio avviso è anche un pezzo del percorso di liberazione delle donne. Significa non percepire l'intera
umanità maschile come un tutt'uno, o ogni uomo come una minaccia. Il rischio infatti di rimanere
schiacciate da un'immagine devastante e ingombrante di un maschile abusante è uno dei portati più
profondi e traumatici della violenza. D'altra parte acquisire e liberare un'immagine interiore
dell'umanità maschile, come qualcosa di plurale, differenziato e conflittuale, rappresenta un
passaggio importante nel percorso di liberazione dalla violenza.
In terzo luogo questo coinvolgimento degli uomini rappresenta un possibile arricchimento perché
testimonia la rilevanza di un'esperienza e di un sapere maschile nei confronti della violenza. Intendo
naturalmente un sapere consapevole e riflessivo. E con questo il riconoscimento di un accesso
privilegiato degli uomini al mondo maschile, il riconoscimento del ruolo positivo che possono
assumere esempi o testimonianze di maschilità differenti impegnate nella costruzione di una
possibilità di relazione differente tra uomini e donne, non solo per le donne ma anche per gli stessi
uomini. Questo terzo aspetto nelle sue varie dimensioni è per noi il più interessante e anche il più
difficile e rischioso. Sulle difficoltà e sui rischi tornerò fra poco.
2) Il rapporto tra queste iniziative di taglio psicologico o terapeutico rivolte a singoli individui
e il lavoro più culturale di prevenzione della violenza maschile? Le diverse dimensioni del
lavoro con gli uomini.
A mio avviso dobbiamo considerare tutte le diverse dimensioni del lavoro con gli uomini: il lavoro
culturale, quello sociale e politico, quello individuale e psicologico. Dobbiamo lavorare
contemporaneamente sulla persona, sui contesti sociali e sugli immaginari collettivi.
A volte si contrappone l'approccio psicologico a quello culturale. A mio avviso questa
contrapposizione tra approcci psicologici e approcci culturali è essa stessa frutto di un modello di
sapere maschile o patriarcale. Intendo un modello di cultura che separa la mente dal corpo, la
ragione dai sentimenti, il conscio dall'inconscio, la persona dalle sue relazioni sociali. C'è dunque
un rischio profondo di usare strumenti di cambiamento che fanno parte di un bagaglio esso stesso
problematico e di incorrere continuamente in cortocircuiti ed empasse.
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Per me è del tutto scontato che la problematica della violenza maschile sulle donne si componga di
aspetti culturali, sociali, psicologici, biografici, e che questi siano profondamente e
irrimediabilmente intrecciati tra loro.
Chi pensa di poter affrontare la questione della violenza maschile sulle donne rinunciando a uno di
questi aspetti non ha realmente idea della complessità e della profondità del problema.
Non ha idea di quanto le forme culturali (linguaggi, rappresentazioni, dispositivi simbolici, modelli
di comportamento) organizzino e ordinino le dimensioni cognitive, psicologiche e affettive
(virilità/impotenza, passivo/attivo, preda/cacciatore, puro/impuro, onore/disonore).
Non ha idea di quanto emozioni, paure, angosce, desideri possano concorrere profondamente a
plasmare modelli culturali. Pensate solo - per fare un esempio - al timore, all'invidia o al senso di
inadeguatezza che la potenza riproduttiva della donna ha sempre suscitato nell'uomo (non a caso
aumenta la violenza durante la gravidanza, non a caso il controllo della riproduzione femminile è
sempre stato e continua ad essere uno degli spazi del dominio maschile a livello interpersonale e
sociale), e a come intere strutture sociali e simboliche siano frutto di un tentativo di nascondere e
riequilibrare questa asimmetria.
Non ha idea di quanto la violenza si strutturi non solo nelle relazioni interpersonali o non solo per la
volontarietà di specifici individui, ma anche attraverso forme e modelli cristallizzati e incorporati
nelle strutture sociali, politiche ed economiche (la scienza, la medicina, il lavoro, il sapere
istituzionalizzato).
Non ha idea di quanto, desideri, comportamenti, forme relazionali siano risposte ad attese di
specifici contesti sociali. E di quanto conti in tutto questo - nel bene e nel male - la dimensione
educativa sia nel contesto famigliare che in quello scolastico o universitario.
Insomma non ha idea della circolarità che si dispiega tutte queste dimensioni.
Dunque, potremmo chiederci qual è lo spazio della soggettività, della libertà, del cambiamento
consapevole? Ho l'impressione che questo spazio sia connesso alla comprensione e non alla
rimozione delle trame complesse nelle quali siamo immersi.
Il fatto è che le nostre stesse competenze e conoscenze sono scisse.
Per nostra stessa formazione siamo incompleti e inadeguati. E mentre lavoriamo con gli altri
dobbiamo in qualche modo ricomporre noi stessi e rivedere i nostri stessi approcci e strumenti.
Abbiamo bisogno di pluralità di approcci e allo stesso tempo di collaborazioni e contaminazioni tra
approcci differenti. Abbiamo bisogno di competenze, abilità, strumenti culturali, relazionali,
psicologici, sociologici, pedagogici, artistici e comunicativi.
Dunque non ha senso contrapporre dimensioni psicologiche, culturali e sociali. Il punto è semmai se
avere e coltivare una più ampia consapevolezza politica o sociale nell'approccio al lavoro con gli
uomini. Questo non vuol dire avere un approccio ideologico o dottrinario nel proprio intervento.
Significa invece essere consapevoli che i propri schemi e rappresentazioni di cosa siano l'uomo, la
donna, le relazioni, le unioni o le famiglie risentono inevitabilmente di un contesto e devono essere
oggetto di riflessione critica. Significa riconoscere che il cambiamento in questo campo non si gioca
solo a livello individuale o interpersonale, ma a livello di mutamento di immaginari, di aspettative
sociali, di desideri collettivi. Significa infine che quello che si impara e si comprende nella propria
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attività terapeutica, di counseling o formativa deve essere condiviso e socializzato e contribuire ad
accrescere la consapevolezza e la capacità di intervento di tutta una comunità.
In questo caso il lavoro con la singola persona non è distaccato da uno sguardo e una prospettiva più
ampia. Si aiuta una persona ad affrontare alcune questioni o difficoltà, ma si porta un contributo
anche per modificare quegli aspetti educativi, culturali e sociali che predispongono le persone ad un
certo tipo di comportamenti.
In questo caso per me la questione è quanto questi centri per uomini autori di violenza riescono a
radicarsi in un territorio, a costruire legami e collaborazioni, confrontandosi e imparando
dall'esperienza dei centri antiviolenza, case delle donne, associazioni femminili, ma anche
amministrazioni, cittadini/e ecc… L'accompagnamento al cambiamento può essere dunque
stimolato e incoraggiato a livello individuale da questi centri e programmi con le loro rispettive
linee di lavoro, ma il cambiamento più ampio rimane in gran parte nelle mani della comunità nel
suo complesso.
Idealmente questi centri dovrebbero trasferire competenze, conoscenze e acquisizioni alla
popolazione locale, ed in particolare agli uomini. Ci dev'essere un'assunzione di responsabilità e una
capacità di intervento che deve riguardare l'intero corpo della comunità.
A questo proposito pongo uno spunto di riflessione. Riusciamo, è possibile, o è difficile - ed
eventualmente per quale motivo - costruire relazioni, ponti e collaborazioni tra personale dei centri
e attività culturali, sociali, educative e politiche (non in senso partitico-elettorale) che vadano nella
direzione di un'integrazione complessa e non un semplice affiancamento?
3) Rischi e problematiche (anche a partire dalla nostra esperienza) degli interventi degli
uomini e con gli uomini.
L'ultimo punto che vorrei trattare è quello dei rischi e delle problematiche del lavoro degli uomini e
con gli uomini.
A questo proposito prendo spunto da una vicenda che ha riguardato recentemente Maschile Plurale.
Una persona della nostra associazione è stata infatti accusata dalla sua ex di aver attuato nei suoi
confronti forme di violenza psicologica. Non è il luogo e il momento per entrare nel merito di
questa storia, ma ci tengo a dirvi quanto ha modificato e segnato lo scambio, i rapporti e la
riflessione tra di noi.
Quello su cui vorrei dire qualcosa non è il fatto in sé, ma osservare la nostra capacità di riflettere e
discutere come uomini e tra uomini perché dalle difficoltà e dalle acquisizioni che sono emerse
credo ci possano essere indicazioni stimolanti per la nostra discussione.
Al di là dello stupore iniziale, è stato interessante vedere la difficoltà che noi uomini incontriamo
quando la violenza viene nominata nelle nostre relazioni, quando ci troviamo a confrontarci non con
sconosciuti, ma con persone vicine a noi, con cui condividiamo molte cose.
Ho visto per esempio la difficoltà a riconoscere e ad accettare la diversità di vissuti. Il fatto che ci
siano vissuti e racconti molto diversi della stessa vicenda, delle stesse situazioni. Questo non
dipende semplicemente da diverse sensibilità, ma dalla storica asimmetria di posizioni di potere tra
uomini e donne in questo genere di situazioni. In queste situazioni c'è sempre questo diverso vissuto
e da li - ovvero dal rimando della persona che ha patito su di sé la violenza - si deve partire. In
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questi casi emerge infatti la difficoltà a farsi attraversare dallo sguardo altrui e dall'immagine
problematica e negativa che l'altra persona ci rimanda.
Più in generale ho visto che la nominazione della violenza crea facilmente una logica di
"contaminazione" sia negli altri che in noi stessi. Questa paura di essere contaminati dalla violenza
spinge verso due possibili forme di distanziamento: da una parte la rimozione di chi pensa che la
questione non lo riguardi, dall'altra le proiezioni di chi emette un giudizio dall'alto senza calarsi
nella fatica di ascoltare, di confrontarsi, di discutere e confliggere.
Un elemento di cui ritengo dunque che come uomini dovremmo tener conto nel nostro impegno su
questi temi è la facilità con cui è facile ricadere in dinamiche intramaschili. Da questo punto di vista
è fondamentale per chi lavora in questo campo continuare a intessere e coltivare legami e relazioni
di scambio tra uomini e donne.
Ho visto infine quanto per noi uomini sia difficile arrivare a dei cambiamenti profondi e radicali che
rimettano in gioco le parti più profonde di noi stessi. Anche per coloro tra noi che sono più
impegnati in una percorso di riflessione sul maschile e sulle relazioni uomo-donna.
Occorre sempre ricordare che in questo tipo di impegno occorre una doppia apertura. Da una parte
una consapevolezza di genere, ovvero l'appartenere a una storia, a una cultura che influenza e
struttura le relazioni tra uomini e donne e i nostri stessi schemi di pensiero e di comportamento.
Dall'altra una consapevolezza riflessiva, ovvero una disponibilità a riflettere su se stessi e a mettersi
in gioco con le proprie fatiche, ambivalenze o contraddizioni.
Infine credo sia importante sottolineare che ho sentito e patito molto anche la pervasività dei
pregiudizi e in generale la mancanza di fiducia e di ascolto verso la riflessione ed il contributo di
pensiero e interrogazione che alcuni di noi hanno cercato di portare. Come se uno sforzo di
riflessione da parte maschile non potesse essere che viziato o manchevole.
Da questo punto di vista credo che ci sia ancora molta strada da fare prima che sia riconosciuta
come autorevole anche un'esperienza e una presa di parola maschile sulla violenza contro le donne.
DIBATTITO
Introduzione e Sintesi degli interventi
La giornata del 4 ottobre ha rappresentato un momento significativo nel lungo percorso di incontri
e confronti, con convergenze e divergenze, tra coloro - donne e uomini- che sono impegnati nel
contrasto alla violenza di genere. D'altra parte l'interesse per l'iniziativa è attestato dalle numerose
richieste di partecipazioni (più di 200 iscrizioni), dal numero elevato di partecipanti così come degli
interventi i cui i tempi, proprio in ragione di ciò, salvo le tre note introduttive, sono stati limitati a
cinque minuti.
Varie e diversificate le posizioni emerse nel corso del dibattito che qui vengono sintetizzate
cercando di ricondurre gli interventi ai quesiti posti alla base del work shop e già presenti nel testo
dell’invito. Uno degli obiettivi era infatti quello di passare dalla informazione sulle diverse
esperienze in corso in Italia ad un approccio mirato ad una più approfondita conoscenza e
confronto. Questo con lo scopo di affrontare i nodi che la nuova e più recente presenza dei Centri
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che si rivolgono agli autori di violenza di fatto pongono, in particolare a chi da oltre un ventennio
opera caparbiamente per contrastare la violenza di genere. In primis i Centri Antiviolenza che sulla
base dell'esperienza e dei saperi maturati si interrogano e interrogano criticamente i Centri per
autori (e tutte noi che ci interessiamo alla tematica) in ragione della necessità di ricercare nuovi
equilibri nella lotta alla violenza di genere e nella costruzione delle reti territoriali.
Le sintesi degli interventi sono qui riportate non per ordine cronologico bensì a partire dalle
domande poste a base del seminario e affrontate anche nelle introduzioni di LeNove, D.i.Re,
Maschile Plurale.
* * *
1 - Sono maturi i tempi per un confronto e un impegno pubblico comune di uomini e donne in
quest'ambito? L'apporto attivo degli uomini può dare un contributo importante o decisivo? Siamo
in grado di investire nelle relazioni e di scambiarci fruttuosamente esperienze e riflessioni e
progettare insieme iniziative e percorsi per un salto in avanti nell'impegno nella costruzione di
un'altra civiltà tra uomini e donne? Oppure, quali sono gli ostacoli che trattengono da questo
scatto politico e culturale?
Il primo quesito posto ci porta subito all’interno del dibattito, affrontando fin dall’inizio il tema del
confronto fra donne e uomini posto al centro del convegno. Numerosi gli interventi provenienti
dalle/i partecipante/i che offrono una lettura al quesito posto, arricchendo il tema con spunti
significativi, presi dalla esperienza personale.
Roberto Poggi , Associazione “Cerchio degli uomini” - Torino
…Noi siamo nati come gruppo di uomini nel '99, partendo da quello che ci hanno insegnato le
femministe. Siamo partiti da noi, siamo dei counselor . Da qui siamo andati a vedere le nostre
violenze e siamo partiti da lì. Noi non pensiamo che tutti i centri per autori possano avere la
possibilità di portare avanti un lavoro continuato nel tempo. E' importante che siano uomini che si
confrontano tra loro.
Il discorso della separatezza che noi abbiamo fatto all'inizio poi ci porta alla necessità del
confronto e del dialogo. Di creare relazioni. Noi quindi alla prima domanda posta a base della
discussione di oggi, se sono maturi i tempi per un dialogo, rispondiamo: in alcuni casi sì, in altri
no. Se io ho fatto un percorso su di me in tutte le maniere, ed è culturale, questo si radica in sé.
Quello che preoccupa sono le metodologie seguite all’interno dei centri
Alberto Leiss, giornalista
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…Faccio parte di MP e il mio mestiere è quello di giornalista, non ho esperienze dirette ma mi
interessano soprattutto gli interventi dove ci sono una donna e un uomo: di questo esperimento di
lavoro con uomini che volontariamente entrano in un gruppo mi è piaciuto il fatto che ci sia una
donna che lavora anche con competenze tecniche oltre che essere donna, mentre l'uomo non è
competente di qualcosa ma si mette in gioco come tale. Mi sembra interessante che in una
esperienza anche istituzionale (Solidea) ci sia un uomo che si mette in gioco.
Il titolo di questo convegno è giusto: bisogna reagire all'emergenzialismo, ma su questo termine
bisogna riflettere. Se emerge qualcosa, è importante e quindi il fenomeno non è più tollerabile
come prima. E' importante per esempio che un giornale come il Corriere dia spazio a queste cose
anche se talvolta malamente.
Alcuni di noi cercano di portare avanti relazioni politiche tra uomini e donne. E' un lavoro
difficilissimo che registra anche delle empasse. Ripartire dalla violenza forse potrebbe aiutarci
perché affronta il più radicale dei temi da cui costruire una relazione politica diversa.
Io sono interessato a vedere i legami tra la violenza individuale e la violenza che attraversa la
società, anche questa agita quasi sempre da uomini. Questa battaglia che riconduce alla radice
sessuata nelle espressione delle violenza può forse aiutarci a portare avanti queste relazioni
politiche…
Alessandra Campani – Centro Antiviolenza “Nondasola”, Reggio Emilia
È un dibattito importantissimo, ma ho la preoccupazione e la paura che si stabilisca una
contrapposizione che non fa bene a questo dialogo. Sono dell’Associazione Nondasola che gestisce
il Centro Antiviolenza a Reggio Emilia. Per me è importante tenere distinto e dividere i due piani.
Il piano del dialogo col maschile che va al di là della “gestione” degli uomini che agiscono
violenza e maltrattamenti, perché nel confronto è possibile che escano episodi, storie, opinioni
posizioni che possono arricchire anche il lavoro delle donne con le donne vittime di violenza. Il
punto di vista maschile ci deve interrogare.
Questo piano per me è diverso dal piano di servizi che si stanno pensando e costruendo in giro per
l’Italia. Per me questi luoghi sono punti della rete come altri (servizi socio sanitari, forze
dell’ordine…). Io credo che non siamo pronte a mescolare questi due piani rischiando di far
pagare alle donne i nostri bisogni di maggior chiarezza. Ben venga il dialogo col maschile del
resto tante di noi lavorano da anni nell’ambito della prevenzione con ragazzi e ragazze. Mi
stupiscono alcune testimonianze, che ho sentito da parte di qualcuna, che evidenziano passaggi
molto rapidi, più in un’ottica professionale che di pratica di relazione tra donne, dai centri
antiviolenza ai centri per uomini maltrattanti.
Olivier Malcor, Pangea, Maschile Plurale.
Ho fatto autocoscienza grazie a MP e mi sono reso conto di quanta violenza avevo accumulato e
che dovevo mettermi in gioco.
Mi stupisce che si possa pensare che ai convegni di MP non vadano uomini che agiscono violenza:
ma siamo uomini e quindi so che la mia violenza parte dai piccoli gesti.
Qui col teatro dell'oppresso facciamo uno spettacolo su di noi.
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Con Be Free abbiamo mollato perché c'era tutto contro, invece forse è il momento di andare dove
gli uomini vogliono parlare di violenza. Io non so chi vuole curare, io voglio condividere. I
curatori vengano agli spettacoli.
I problemi che incontriamo come uomini o come donne sono molti ma sappiamo entrambi se una
donna viene in maniera strumentale o se un uomo viene in maniera strumentale. Poi posso
scegliere se continuare il percorso oppure no.
Danila de Angelis, Roma
Ci saranno in Italia degli incontri in cui si porta a conoscenza dell'esistenza di società
sopravvissute alla globalizzazione patriarcale. Società in vita dove l'economia è incentrata sul
paradigma della cura. I beni sono comuni e la sessualità è svincolata da qualsiasi dipendenza
economica o dai dispositivi della cura o sociale.
Dico questo perché è importante da lì emerge che la violenza maschile non è innata, che non c'è
questo istinto.
La cosa importante per me è cercare di non scivolare sul piano del disagio psicologico. E' la
società patriarcale che veicola quei "valori" che veicola la violenza.
Aurora Morelli, psicoterapeuta
Ho lavorato molto sul disagio infantile attraverso il dialogo con i genitori. Io credo che Deriu ci ha
invitato ad affrontare la realtà in un modo che elimini una delle piaghe di questa crisi culturale che
ci circonda che è il riduzionismo. Ci diceva che l'uomo ha bisogno di senso. Vi invito a vedere un
film uscito a Venezia (I nostri ragazzi) da cui viene fuori che i due adolescenti protagonisti
diventano due veri mostri dentro una famiglia agiata e dove i genitori non hanno mai letto quanto
accadeva nei loro figli/e che finiscono con l'uccidere una “homeless”. Noi dobbiamo ricordare che
nella nostra specie è antropologica, quindi se noi ..se pensiamo al bullismo è una violenza
trasversale ...
I media oggi escludono dai loro commenti la responsabilità della scuola che non educa
emotivamente. Nessuno da la responsabilità alla famiglia. Ma dobbiamo ricordare che l'ordine del
mondo si forma sull'uscio di casa, quindi dobbiamo ricominciare a ripercorrere il ruolo delle
famiglie a cui è stato tolto il tempo per l'educazione emotiva dei loro figli. Una società dove non c'è
cultura dell'infanzia genera violenza. Quindi per me la collaborazione tra uomini e donne è
necessaria e fondamentale.
Alessandra Pauncz, Centro Ascolto uomini Maltrattanti(CAM) - Firenze
Intervengo in fondo perché ho percepito diverse difficoltà. Da una parte l'invito a dare una risposta
ad alcune domande (quelle del seminario) e potrei entrare più nel merito, dall'altra le
preoccupazioni che sento emergere dalle colleghe rispetto a temi importanti.
Le preoccupazioni dei Centri antiviolenza sono molto importanti e mi piacerebbe poter rispondere
e argomentare. Quindi il rischio è che in 5 minuti non posso spiegare come interveniamo, molte
non sanno che lavoriamo all'interno di un contesto europeo che legge la violenza di genere che
pone priorità nei confronti della vittima. Non tutti i programmi per autori sono uguali.
Io imploro da 5 anni un incontro con Dire, così come l'incontro con i Centri Antiviolenza perché ci
sono questioni fondamentali che solo loro possono rappresentare compiutamente.
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Quindi sono molto contenta finalmente di parlare delle paure, ma sono insieme molto in difficoltà
perché non si è davvero parlato delle paure. Posso avere il timore che il contatto partner possa
interrompere un suo percorso responsabilizzarla troppo, ecc. Tutti timori fondati e su cui abbiamo
riflettuto. Oggi abbiamo bisogno di uno spazio dove poter raccontare e ascoltare. Queste paure
sono le mie per prima. E ogni giorno che perdiamo per confrontarci rischiamo di dare spazio a
interventi che magari ci piaceranno molto di meno. Questi tipi di interventi non sono cosa
passeggera quindi dobbiamo impegnarci e attraversare questa strada difficile anche di differenze.
Io non credo che quando avrò spiegato quali sono le nostre riflessioni poi siate d’accordo con me.
Cerco di potermi confrontare su alcune cose per spiegare come funzionano certi programmi di
intervento, capire le differenze e fare scelte consapevoli rispetto a quelli che sono i percorsi delle
donne che vengono seguite
* * *
2- Da che tipo di percorso nascono i nuovi Centri per gli autori di violenza? Questo moltiplicarsi
di iniziative rivolte ad uomini è il frutto di una maturazione culturale e politica o è semplicemente
una moda, che nasconde problemi e contraddizioni? Che tipo di competenze e risorse culturali,
professionali e umane si stanno mettendo in campo?
Molti gli interventi che hanno cercato di fornire una risposta a questo quesito, facendo riferimento
soprattutto alla propria esperienza. Sappiamo dall’indagine svolta sulla realtà dei Centri per gli
uomini quanto siano diversificate le situazioni che hanno portato alla realizzazione di questi primi
interventi. Nel corso del Seminario sono stati messi in luce, innanzitutto, i percorsi di coloro che
hanno avvertito l’esigenza di prendersi cura degli uomini maltrattanti a partire spesso dal lavoro
svolto all’interno dei Centri antiviolenza, o in servizi rivolti a donne maltrattate .
Carla Centioni, Associazione “Ponte Donna”- Roma
Colgo l'invito a metterci un po' a nudo. Mi occupo di questi temi da 20 anni. Il tema degli interventi
con gli uomini non mi toccava. Parto dal lavoro che facciamo nel nostro Centro Antiviolenza dove
la priorità assoluta era per le donne. Interrogandoci sul chi è la donna in difficoltà ci siamo
accorte che anche le donne in difficoltà sono attraversate dalla violenza. Inoltre sentendo anche i
bambini ci siamo accorte che anche loro ci portavano delle questioni. Ci siamo accorte che noi non
potevamo non fare i conti con queste. E quindi abbiamo pensato che forse poteva essere utile fare
entrare un operatore uomo che si fa chiamare operatrice uomo. E questo operatore/trice ha
cominciato a lavorare con i bambini. Per me è stata un'esperienza forte far posto ad un uomo. Da
lì l'idea di inserire nel servizio gli incontri protetti e qui un nuovo e forte incontro con gli uomini
maltrattanti. Queste esperienze ci hanno portato a porci il problema con gli uomini.
Non ce la siamo andata a cercare, ci siamo trovate di fronte ad un problema che si è posto davanti
a noi che non possiamo evitare…
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L’esigenza quindi di trovare un luogo di lettura del disagio maschile nasce dall’operatività
quotidiana. E’ insieme un lavoro di presa di coscienza politica e culturale.
Desireè Olianas, Associazione “Nuovo Maschile” - Pisa.
Ho iniziato ad occuparmi di queste cose perché sono arrivata ad un Centro Antiviolenza come
utente. Ora lavoro in un Centro che si occupa di uomini. … Il rapporto tra uomini e donne è
molto importante per cambiare. E' importante una cooperazione tra Donne e Uomini che non può
essere giustificazione.
Mi ritrovo in un'ottica multidimensionale: culturale, psicologica, ecc.
Il desiderio di cambiamento arriva dalla parte oppressa. In quella che opprime è più difficile.
Sappiamo che la violenza attorno a noi è legata a fattori culturali millenari. Ma crediamo che i
tempi siano pronti per fare qualcosa di diverso. Siamo partiti dalla volontà di lavorare con gli
uomini. Portiamo avanti sia un lavoro culturale sia dando spazio a delle persone che hanno
desiderio di affrontare le loro problematiche. Un approccio complesso tra dimensioni psicologiche
e culturali, non per giustificare.
L’esigenza di occuparsi dell’altra dimensione della violenza o meglio dell’altro soggetto
rappresentato dagli uomini, è il risultato di una riflessione di natura politica e culturale. Uomini che
insieme a donne con competenza e professionalità si interrogano sul loro essere protagonisti e
portatori di una cultura, minata alle sue radici . È pertanto dalla dimensione culturale e politica che
bisogna ripartire per affrontare la questione maschile.
Pur condividendo, spesso, l’urgenza di affrontare anche la questione maschile molti sono i timori
che affiorano da chi da lungo tempo si occupa della parte lesa, delle donne.
Mara Cortimiglia, Associazione “Le Onde – Onlus” - Palermo.
…Temi che portano le donne: “Lui mi fa paura”, “Lui dovrebbe essere aiutato”. Il fatto che
nascano delle professionalità ovviamente coerenti con il lavoro dei centri antiviolenza, è una
possibilità. Certo il rischio è far nascere dei centri per la moda, distanti dall’esperienza dei centri.
Ci preoccupa che questo possa diventare una cosa di moda e il fatto che possano amplificare i
conflitti tra i servizi in rete.
Da quello che so sono pochissimi gli uomini che hanno portato il percorso alla fine e sono
soprattutto quelli che hanno molto da perdere. Questo ci deve far interrogare sulle relazioni tra
uomini e donne.
Tra le preoccupazioni è evidente quella della distanza con le metodologie e gli approcci seguiti dai
Centri antiviolenza, che troviamo declinati anche nella scelta di contattare o meno le compagne
degli uomini maltrattanti.
Affiora inoltre il timore che all’interno dei Centri possano non essere presenti professionalità
abilitate a farsi carico dei maltrattanti e che la nascita di tali strutture risponda in certi casi più ad
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una pressione emergenziale che ad una reale scelta di portare un ulteriore contributo al contrasto
alla violenza sulle donne.
* * *
3- Come si muovono, con che consapevolezza, e che idea di lavoro e di cambiamento gli uomini e
le donne attive in queste esperienze? I Centri Antiviolenza e i Centri rivolti agli uomini sono
soggetti che muovono nella stessa direzione, e che quindi possono collaborare e sostenersi
reciprocamente (come mostrano le esperienze di altri paesi) oppure sottintendono letture,
sensibilità e obiettivi differenti nel contrasto alla violenza?
Risposte ai dubbi rimasti aperti nel precedente quesito sono state fornite da altri interventi.
Collaborazione e condivisione di intenti sono gli elementi che caratterizzano, in taluni casi, i
rapporti tra i Centri Antiviolenza ed i Centri nati per accogliere il disagio maschile.
Monica Dotti, centro “ Liberiamoci Dalla Violenza”, Ausl - Modena
Da diverso tempo era iniziato un rapporto di collaborazione con il Centro Antiviolenza di Modena.
Abbiamo visto l’utilità di mettere insieme questa esperienza. I tempi erano maturi per iniziare
questa sperimentazione. Abbiamo scelto il centro ATV come modello di riferimento. Il nostro
obiettivo primo è tutelare le donne. E sappiamo che la responsabilità della violenza è maschile.
Questo centro porta a far sì che ci siano in giro meno uomini violenti. Ci sono tre colloqui di
valutazione per decidere un percorso individuale e di gruppo. La scelta è individuale e su base
volontaria. Gli uomini sono arrivati. Abbiamo avuto circa una novantina di persone. Circa 25
hanno concluso il percorso.
La possibilità di collaborazione e dialogo può nascere dalla comune consapevolezza che la violenza
agita è violenza di genere, risponde alle esigenze di un preciso contesto sociale e culturale di
stabilire a priori ruoli e gerarchie. Siamo di fronte a una cultura patriarcale che seppur sconfitta e
delegittimata, permane nelle relazione di intimità e fatica a perdere il suo significato anche sul piano
sociale e della comunicazione.
Anna Baldry, psicologa - Roma
…Esperienza con Solidea, e mi interessa parlare del ruolo che possono avere le donne in questi
interventi. Io penso che l'unico approccio è quello che parla della violenza in un ottica di genere.
Non dovremmo per questo tirarci fuori. Il rischio, altrimenti, è quello di psicologizzarla e perdere
quel che devono comprendere gli uomini violenti (ogni uomo avrà qualche problema, ma ..).
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Nel lavoro con gli uomini credo che quello che può essere utile per i centri è di rafforzarmi nel
lavoro che io faccio con le donne (ma sono due cose distinte e indipendentemente dal lavoro
eventualmente con gli uomini)…
Tra l’altro le attività svolte in collaborazione con i Centri Antiviolenza sono utili per acquisire
professionalità permettendo un “trasferimento” dei saperi posseduti dai Centri e costruiti in un
percorso ventennale, ma offrono anche l’opportunità di operare all’interno delle reti territoriali dei
servizi.
Domenico Matarozzo, Associazione “Cerchio degli uomini” - Torino
…Noi nasciamo sull'onda del femminismo. E' da qui che siamo partiti in rete: quindi collaborando
con tanti soggetti. Per noi questo è metodo e contenuti. Dopo cinque anni abbiamo deciso di
mettere su questo centro di ascolto per il disagio. E riconfermiamo questa scelta senza giustificare
niente. La nostra storia parla per noi.
Per noi questo modello è il nostro riferimento culturale. E' questo il nostro obiettivo. Noi siamo
ospiti del Centro Antiviolenza della città di Torino e questo ci aiuta a stare in rete e collaborare
con i Centri Antiviolenza in sedi separate…
La condivisione di metodi e finalità non sempre si realizza anche se sarebbe quanto mai auspicabile.
Ci sono realtà mature, con esperienze consolidate e percorsi di riflessione approfonditi, dove il
confronto e la condivisone sono non solo auspicabili ma percorribili; altre invece dove è necessaria
una più approfondita riflessione e quindi la possibilità di collaborazione pur non negata è per ora
posticipata.
La difficoltà a dialogare, a confrontarsi tra Centro Antiviolenza e Centri per uomini può divenire un
ostacolo nell’accesso degli uomini ai luoghi che potrebbero prenderli in carico e finisce per
selezionare e ridurre solo a specifiche tipologie i maltrattanti che fanno riferimento ai Centri.
Alessia Brunetti, Settore Politiche Sociali - Provincia Bolzano.
...Dovere entrare in contatto con questo progetto è stato difficile. Anche far capire alle operatrici
l’importanza di questo progetto nel territorio. Questa collaborazione non è sempre ottima. Ci sono
delle difficoltà. Di linguaggio e di collaborazione. Noi finanziamo il progetto per Casa delle Donne
prende più di un milione all’anno, e quello per uomini per 39.000 euro. Facciamo fatica a
raggiungere gli uomini. Attraverso le case delle donne ne arrivano pochissimi. Arrivano dall’Uepe
e dai Servizi Sociali. Fino ora abbiamo avuto 35 uomini che hanno seguito il percorso e non hanno
avuto sconti di pena. Partecipano solo uomini che hanno agito violenza fisica non psicologica.
Auspico che da tutte e due le parti ci sia volontà di trovare un incontro e un linguaggio per un
lavoro di prevenzione.
L’intervento con gli uomini è visto come un valido strumento per ridurre gli effetti della violenza,
per bloccarne la reiterazione e la espansione. Un approccio dunque di tipo preventivo, per
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ostacolare il prodursi e riprodursi di atti violenti. Un intervento prima di tutto politico e culturale
che trova soprattutto nel lavoro con le scuole la sua prima ragione di intervento.
Tania La Tella, Associazione “Donne in genere” - Roma
…(I centri per uomini) sono strumenti di controllo per la riduzione del danno e non per nulla viene
ora sposato anche dalle istituzioni ma le istituzioni dicono molte cose. Questo strumento serve a
controllare di più gli autori e questo consente anche di ridurre le spese di investimenti che
dovrebbero essere fatti nella prevenzione a partire dalle scuole, dove dovrebbero intervenire donne
e uomini. C'è, secondo me, un tentativo di sfruttare questi interventi perché alternativi alla
detenzione che costa di più.
Appare una preoccupazione sottintesa da molti ma da alcuni poi espressa: il timore che la scelta
degli uomini di interrogarsi sul proprio vissuto violento copra di fatto solo il desiderio di sfuggire a
condanne e a pene, a ingerenze più gravi sul proprio vissuto. E’ qui che entra in gioco in maniera
preponderante la professionalità di quanti operano con competenza nei Centri per gli uomini.
* * *
4- Ascoltare e trattare la violenza maschile in centri specializzati e dunque riconoscere un
disagio maschile significa forse psicologizzare, medicalizzare o dare adito ad ulteriori forme di
deresponsabilizzazione per questi uomini? O al contrario è un efficace strumento di
coscientizzazione e di cambiamento personale e sociale?
Il quesito ci porta direttamente dentro le metodiche e gli approcci seguiti all’interno dei Centri per
uomini maltrattanti. Il timore è quello di cadere in un quadro culturalmente definito che tende a
vedere i maltrattanti come vittime di loro stessi e delle loro incontenibili pulsioni, e apre ad un
percorso di deresponsabilizzazione e giustificazionismo purtroppo ancora condiviso in molti ambiti
socio-culturali del nostro Paese.
Rita Proto, giornalista - Roma.
Mi sono occupata spesso di tematiche al femminile. Mi sono trovata alla presentazione di un libro
che riguardava un femminicidio. Mi è venuto in mente di come si psicologizza il maltrattante. Lo
psicologo diceva “non dimenticate che questi sono uomini che hanno ferite narcisistiche
profonde”. Le donne che hanno ferite narcisistiche si deprimono, gli uomini fanno i conti a colpi di
coltello.
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Sono contraria a una psicologizzazione estrema di questi mostri. Soffrono di una forma di
incontinenza delle pulsioni. Chi di noi non ha mai sognato di uccidere o fare del male. Gli uomini
maltrattanti non sono in grado di mantenere quel pensiero. Non hanno un filtro.
La professionalità e l’importanza dell’esperienza condotta dai Centri antiviolenza di norma sono un
antidoto ad interventi deresponsabilizzanti, soprattutto là dove offrono opportunità di condividere
analisi ed approfondimenti.
Amalia Rodontini, collaboratrice Dipartimento di Psicologia - Roma.
La violenza è una scelta. Un punto centrale. Mi hanno chiesto prima ti sei occupata delle donne e
ora ti occupi degli uomini. Per me il punto centrale è ancora la difesa della donna. Per noi non
significa psicologizzare o medicalizzare ma prevenire.
Michele Poli, CAM - Ferrara.
Ci sono diversi livelli: un livello pubblico nel quale esiste il patriarcato ma esiste anche un livello
individuale dove devo considerare anche le diversità tra uomo e uomo. Dobbiamo considerare tutti
e due questi livelli, dobbiamo avere una visione che li comprenda entrambi. Altrimenti si semplifica
rimandandoci da una visione all'altra.
Oggi mi sono sentito abbastanza solo perché quando lavoro con gli uomini in ogni minuto incontro
problemi grandissimi. Ogni mia scelta di lavoro si porta dietro mondi culturali enormi. Ad
esempio, un uomo mi si presenta come uomo inetto, incapace, in difficoltà, allora io devo capire se
devo supportare questa parte o se vado ad ascoltare le parole di una donna e mi occupo più di lei.
Per cui lo tratto secondo quanto le parole di lei mi dicono. In ogni momento vivo, mi tiro dietro
visioni culturali diversi. Questi momenti sono ineliminabili. In ogni incontro non so cosa accadrà e
come me la caverò.
L'altro aspetto è la responsabilità e quindi capire quanto un uomo è responsabile. Noi
chiediamo .sempre una liberatoria all'uomo che ci autorizza a contattare la partner perché
vogliamo conoscere anche la versione di lei. E se non è andata al Centro Antiviolenza le
consigliamo di rivolgervisi, e comunque cerchiamo di metterla in sicurezza e restiamo in contatto
con lei per sapere se corre rischi. Questa è la nostra scelta.
Sulla responsabilità maschile: quanto un uomo autore è responsabile o è vittima di una situazione
per essere cresciuto in un ambiente violento. In ogni momento dovrò saper leggere le sue parole
ma devo avere ben presente le possibilità culturali di cui si dispone.
A Ferrara lavoriamo in stretto contatto con il Centro Antiviolenza. La stessa progettazione del
nostro centro in collaborazione col centro donne e giustizia, facciamo interventi pubblici assieme;
andiamo assieme nelle scuole, teniamo i nostri interventi separati e continuiamo questo confronto.
Questo è il punto centrale: dobbiamo individuare luogo dove confrontarci sempre e tenere sempre
aperto questo confronto continuando questo lavoro sempre su di noi. Io faccio parte anche di
Maschile Plurale, perché ciò che è fondamentale è questo mettersi continuamente in discussione.
I problemi che incontriamo come uomini o come donne sono molti ma sappiamo entrambi se una
donna viene in maniera strumentale o se un uomo viene in maniera strumentale. Poi posso
scegliere se continuare il percorso oppure no.
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Chantal Podio, Associazione- Forum “Lou Salomè” - Milano
Sono una donna femminista, lesbica, psichiatra e psicoterapeuta. Qual è la mia storia nel lavoro
con gli uomini autori di violenza. Fondamentale il movimento femminista e la mia analisi
personale che non ho vissuto come medicalizzante e psicologizzante. Chi ha fatto analisi sa che non
si tratta di questo. Apprezzo il richiamo di Manuela alla sincerità. Mi chiedo se siamo in grado di
metterci in discussione e a fare i compiti a casa. Dal movimento delle donne e dalla Libreria delle
donne che hanno usato la psicoanalisi. Ho collaborato con la Casa delle donne. La mia esperienza
principale. Allora la Casa delle donne aveva invitato VIRES. La mia esperienza è nel carcere con
gli uomini che hanno ucciso le compagne. Io parlo come donna e anche come psichiatra non posso
scindermi. L’esperienza che ho fatto con gli uomini che hanno ucciso le compagne. La professione
serve moltissimo, oltre l’esperienza. Perché non è facile avere l’ascolto di qualcuno senza avere la
capacità di mettere a lato le proprie idee. La professionalità è importante anche se ovviamente non
sufficiente. Questi uomini si erano rivolti a psicologi o altre persone nominando depressioni o
altro. Non c’erano fino a pochi anni fa, centri a cui rivolgersi.
Che cosa è venuto fuori? Che non c’erano stati interventi o che non erano stati adeguati. C’è la
corsa alla commercializzazione? Gli psichiatri li fanno con altri percorsi. C’è semmai la corsa a
“non mi compete trattarli”…. Siamo in una logica in cui mettiamo in luce la cosa contraria. Le
istituzioni sono ben contente che si spinga sul culturale, per non essere coinvolte. Ma questi uomini
non vanno ai convegni di Maschile plurale.
Abbiamo aperto un percorso “uomini non più violenti”. La maggior parte dei percorsi hanno un
percorso profemminista. Come esploro le dinamiche che ho percepito o di cui sono stato autore.
La protezione delle donne. Perché dobbiamo allontanare le donne? Dobbiamo fare un passaggio
oltre. Dobbiamo allontanare gli uomini. Tra il dominio e il disagio c’è un nesso. L’allontanamento
aumenta il percorso di rischio. Se faccio un allontanamento ma non c’è un vincolo a un percorso
alziamo il rischio per le donne.
Roberto Poggi, Associazione “Cerchio degli uomini” - Torino
…Noi seguiamo uomini che agiscono violenza da 5 anni. Noi ci siamo chiamati sportello d'ascolto
del disagio maschile e quindi abbiamo parlato da subito di disagio. Ma non per giustificazione. Per
noi voleva dire entrare in quella che è la violenza di tutti i giorni. Il fatto che fossero uomini usciti
dai giornali va bene, ma noi volevamo interrogarci sui 5 milioni che non arrivano sui giornali. E
questi portano, quando arrivano, il loro disagio. E' giustificazionista ma è un cuneo che ci permette
di parlare con questi uomini. Quindi prima di tutto smascherare queste cose, parlando con queste
persone. Non è psicologizzare ma entrare in contatto relazionale e ciò è fondamentale per il
cambiamento. Noi cerchiamo di dimostrare che il patriarcato non è positivo per loro. Uscire della
violenza significa comprendere che si vive meglio. E' proprio il potere che gli fa sentire il disagio.
Quello che preoccupa alcune esponenti dei Centri Antiviolenza è l’immagine che sul territorio si
può delineare dei Centri rivolti ai perpetrators : che possano essere visti come luoghi “di cura”,
riportando il tema della violenza in una ottica che di fatto non risponde alla realtà degli uomini
violenti, se non in un ristrettissimo numero di casi.
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Patrizia Desole, Associazione “Prospettiva Donna” - Olbia
…gli uomini devono ancora interrogarsi e trovare un linguaggio per confrontarsi con le donne.
Tanti anni di femminismo, di lotte e ancora tante questioni aperte, prima fra tutte la violenza
contro le donne che è una questione culturale. Come combatterla: è un problema strutturale e
culturale. Come risolverlo? I centri per maltrattanti possono aiutare a risolvere il problema? se
questi centri o associazioni di uomini servono per far prendere consapevolezza, per cambiare una
cultura, ecc. Vanno benissimo. Quello che mi preoccupa sono i centri che hanno una metodologia
medicalizzante. .. Perché uno dei luoghi comuni è che si pensi che l’autore della violenza sia
malato. Noi che lavoriamo sul campo, ci rendiamo conto che gli avvocati spingono per cambiare le
pene. ... Mi preoccupa anche la metodologia. Contattano la donna? Quanto può essere pericoloso?
Cosa succede? Vorrei porre queste domande sulla metodologia. Sicuramente c’è buona fede. Non
parlo di MP coloro che affrontano questa metodologia, della psicoterapia, non che non serve. Mi
preoccupa la percezione che abbiamo all’esterno di questi centri. Ah allora c’ha una patologia, il
problema non è più culturale.
Ester Ricciardelli, Psicologa ASL /1- Napoli .
…dall'esperienza, ormai di tre anni, (lavoriamo nel pronto soccorso), è nata l'idea di dedicarci
anche all'ascolto degli autori. Dopo esserci confrontate con i Centri Antiviolenza, abbiamo deciso
che gli autori di violenza di cui ci saremmo occupate sarebbero stati soltanto gli uomini che
avevano concluso il loro rapporto con la giustizia e ciò soprattutto per evitare qualsiasi
strumentalizzazioni (di avvocati, ecc.)
Ornella Dutto, Psicoterapeuta - Torino
Rimango colpita quando si associa alla parola psicologia la parola deresponsabilizzazione perché
non credo sia così. Non credo di essere mai stata confluente ma credo di aver fatto un grande
lavoro sul senso della violenza.
Volevo fare un invito alla riflessione. Ho letto un libro per me importante (dal dolore alla violenza,
De Zelueta) che dà una lettura complessa ma dà dignità e significato al ruolo della educazione,
della prevenzione ma anche della clinica. L'invito è quello che nessun settore possa escludere
l'altro.
Voglio leggere una frase di Loverso (uno psichiatra che studia la psicopatologia dei criminali
mafiosi): "la mafia è la prova inconfutabile che la plasticità del cervello è relazionale, che la
mente, la cultura e la relazione possono modificare fino ad annullarlo il dato biologico". Quindi ci
stiamo dentro proprio tutti.
Laura Storti, consultorio di psicoanalisi applicata “Il cortile” - Roma
Che la violenza maschile sulle donne sia un fenomeno strutturale, multifattoriale, ecc. è ciò di cui
sono convinta. Ma parlando con i bambini che accoglievamo nel nostro centro mi sono accorta di
quanti stereotipi si portino dietro. Credo anche che vi siano livelli diversi: uno immaginario che è
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quello del corpo maschile e femminile, e per questo abbiamo voluto anche un operatore maschio.
Un altro livello è simbolico e lì è più difficile: quando per es. ci troviamo di fronte ai servizi sociali
che ci dicono che sia molto importante che prendano contatto con i padri.
Ma questo non mi convince più perché dopo Freud c'è stato Lacan. Nel nostro centro, la funzione
paterna che è quella che separa la madre dai figli così che non diventino una coppia (i figli
diventano un supporto per le donne che subiscono violenza), le operatrici svolgono questa
funzione. Ma il padre naturale a volte ritorna. Ieri un giudice al nostro dibattito faceva lo
psicanalista ma io non so fare il giudice: parlava a partire dal suo fantasma e cioè dai pregiudizi
che nel corso della nostre vite ci costruiamo. Per questo abbiamo pensato di organizzare una
riunione di équipe una volta alla settimana per smontare questo sapere. Ciò per dire che per prima
cosa dobbiamo affrontare tutto a partire da noi. L'offerta genera la domanda e così come è
avvenuto per i Centri Antiviolenza, capita anche per i centri per autori, magari così giovani e no,
possono cominciare a interrogarsi.
Silvana Migoni, Associazione “Donne Al Traguardo” - Cagliari
Nel nostro centro ci siamo rese conto che accogliere solo donne probabilmente era riduttivo perché
troppi altri problemi restavano fuori. Perciò abbiamo deciso due linee di intervento collaterali: un
centro di ascolto per maltrattanti con automutuoaiuto e un secondo per le coppie che si separano
in maniera conflittuale nelle quali è necessario intervenire nell'interesse dei figli minori.
La nostra associazione non parte da basi ideologiche o femministe. La nostra impostazione è di
tipo umanitario pura e semplice. Quindi noi non vogliamo dimostrare qualcosa ma solo cooperare
perché queste donne riprendano la loro autonomia. Ci siamo sempre rifiutate di essere il braccio
armato di donne che utilizzano i Centri Antiviolenza come clave verso i loro ex compagni. Noi non
ci vogliamo prestare.
Riteniamo che questo percorso sia necessario come misura di prevenzione. Non esistono i mostri
ma persone che probabilmente sono poco consapevoli che i loro atteggiamenti sono violenti. Noi
cerchiamo di spiegare che questi atteggiamenti sono negativi anche per loro.
Quello che mi dispiace è che, quando abbiamo aperto questo centro, ci siamo scontrate con il
pregiudizio.
Patrizia Campo, Centro Antiviolenza - Torino
Voglio porre l'accento su alcuni aspetti dicotomici, cioè su alcune contraddizioni che abbiamo
affrontato finora. Una delle più grandi è quella dei percorsi degli uomini autori, percorsi
medicalizzati, terapeutici e percorsi più improntati su aspetti più socio-educativi culturali. Io non
vedo una dicotomia tra questi due tipi di percorsi perché non credo che le risposte siano
standardizzate. Gli uomini sono molti diversi tra loro anche nell'agire violenza e vanno tenuti in
conto, considerando anche quelli che necessitano di percorsi psicoterapeutici. Per questo siamo in
contatto anche col centro che lavora con gli uomini.
Dicotomia sulle risorse: entrambi i percorsi hanno la stessa dignità. Le risposte ci devono essere
anche sul piano dei maltrattanti. Non dobbiamo farci la guerra tra di noi.
* * *
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5- Che rapporto c'è tra queste iniziative rivolte a singoli individui e un lavoro più culturale e
politico di prevenzione della violenza maschile? Queste realtà riescono a interrogare o a
sensibilizzare anche la comunità locale o rimangono un luogo per addetti ai lavori, tutto sommato
marginali rispetto ai più ampi processi sociali?
Questo forse il quesito che più di altri necessiterà di un ulteriore riflessione ed approfondimento.
Sappiamo già dalla lunga esperienza dei Centri Antiviolenza quanto difficile sia rompere il muro di
preconcetti, di stereotipi che intorno alla violenza sulle donne permane nei contesti in cui la
violenza stessa viene agita. Un lungo lavoro di sensibilizzazione che ancora in alcune realtà fatica
ad affermarsi.
Vanda Lauro, ginecologa - Parma.
Volevo dire qualcosa circa la complicità che abbiamo verso questi comportamenti. È qualcosa che
dipende dalla diversità di vissuti che viene da secoli e che si sono incarnati nelle nostre menti.
Porto un esempio. C’era un convegno sulla violenza maschile a Parma e contemporaneamente
c’era una mostra di Botero in città l’opera scelta per pubblicizzarla era una scultura del ratto di
Europa. Si tratta dell’esaltazione di uno stupro. Un ratto e uno stupro. Perché dunque scegliere
proprio questa opera? Com’è che un artista si senta ispirato a rappresentare questo stupro. Questi
sono i vissuti talmente incarnati. È il vissuto maschile. Bisogna iniziare a interrogarci.
Una cultura che ancora fatica a riconoscere nelle sue interne maglie le origini della violenza, ma che
attraverso la riflessione sviluppata dagli uomini stessi sui loro comportamenti può forse trovare una
chiave di lettura di più ampio respiro.
Alberto Leiss, giornalista
…Io penso che una cosa che si potrebbe fare è vedere i nessi, tra la violenza individuale e la
violenza che attraversa la società e che è gestita dagli uomini. Questo tipo di battaglia di carattere
culturale che riconduce la matrice sessuata delle forme di violenza può essere fatta.
Sul disagio io non so se ha senso porsi apertamente. La parola dell’uomo maltrattante è una cosa
che dobbiamo ascoltare.
Antonio Campus, avvocato
sono un avvocato che difende le donne maltrattate. Credo ci si debba intendere anche sul termine
prevenzione e rispetto alla prevenzione terziaria. Io devo tutelare l'interesse delle donne, quindi nel
momento in cui mi ritrovo davanti una statistica che mi dice che l'85% che non vengono "trattati"
compiono reati più gravi ne deduco che è indispensabile che questi uomini vengano trattati. E'
nell'interesse delle mie assistite.
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Sono tanti i casi in cui le donne che si rivolgono ai Centri Antiviolenza e uomini, e a volte non solo
uomini ma anche donne che sostengono per esempio il fratello che è stato violentatore che non
fanno un percorso o mi pongo il problema per esempio, le figlie che subiscono comportamenti
violenti da parte di uomini che non hanno seguito questo tipo di percorso.
Il concetto di prevenzione ovviamente deve essere anche primaria e secondaria.
* * *
6- Val la pena investire risorse pubbliche – già scarse - per percorsi di accompagnamento al
cambiamento per uomini autori di violenza? L'ampliarsi delle forme di azione ed intervento può
suscitare maggiore sensibilità, attenzione e risorse per il contrasto alla violenza?
Siamo infine giunti al delicato tema delle risorse, che in un fase di grande sofferenza economica per
i Centri Antiviolenza e per l’intero sistema di welfare in Italia, riveste un aspetto delicato e
controverso. Una posizione sottolineata soprattutto da chi opera all’interno dei Centri Antiviolenza,
dove quotidianamente si sperimentano pesanti difficoltà nel tentativo di continuare a rispondere ai
bisogni delle donne in difficoltà.
Patrizia Desole, Associazione “Prospettiva Donna” - Olbia
Poi c’è un fatto economico. I Centri stanno chiudendo perché non abbiamo risorse. Due uomini
che vanno a prendere consapevolezza, noi abbiamo 400 donne, come facciamo?
È un problema sociale e culturale? Va benissimo l’associazione di uomini che vogliono fare un
percorso, ma non medicalizziamo. Se gli uomini vogliono fare la psicoterapia se la paghino e
utilizziamo i soldi per le vittime.
Desireè Olianas, Associazione “Nuovo Maschile” - Pisa.
…Le risorse. Noi pensiamo che stiamo assistendo in Italia a una guerra tra poveri. Noi non
useremo come risorse quelle pubbliche. E ci rivolgeremo a fondi privati. Siamo convinti che non si
debbano togliere risorse alle donne.
Numerose anche se variegate le opinioni espresse da coloro che vogliono sottrarsi a questa
contrapposizione tra i Centri Antiviolenza e i Centri rivolti agli uomini, per trovare invece una
chiave di lettura ed intervento che rimetta al centro la responsabilità delle istituzioni che devono
farsi carico di un problema che taglia trasversalmente la società e la vita degli individui, là dove
uomini e donne sono alla ricerca di modi nuovi di intendere le relazioni.
C’è chi crede che il lavoro tanto dei Centro Antiviolenza quanto dei Centri dedicati agli uomini
risponda ad una esigenza sentita nei territori. Un atteggiamento che esprime la consapevolezza della
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necessità di un intervento prima di tutto di tipo politico rispetto al tema della violenza da inserire in
maniera compiuta all’interno di un piano dei servizi in grado di farsi carico della problematica nella
sua interezza. Proprio per inquadrare il tema in un contesto politico e sociale, attraverso il
riconoscimento del lavoro politico e culturale che i Centri per uomini svolgono, sono i servizi e le
istituzioni in generale che devono assumersi la responsabilità sia dei Centri Antiviolenza sia dei
Centri per uomini.
Carla Centioni, consultorio di psicoanalisi applicata “Il cortile” - Roma
…Non ce la siamo andata a cercare, ci siamo trovate di fronte ad un problema che si è posto
davanti a noi che non possiamo evitare.
Non dobbiamo fare la guerra tra poveri. Non è un problema nostro, dobbiamo chiamare in causa
le istituzioni.
Milva Pistoni, casa delle donne “Lucha y siesta” - Roma.
… Volevo riporre in questione l’aspetto economico. Perché si parla di questione economica e di
guerra tra poveri perché ci si limita a vedere la legge o di chi offre il servizio e ha bisogno di
sicurezza. Però i Centri antiviolenza non sono nati da questi soldi. Ci sono centri che non prendono
finanziamenti e non nascono come servizi. Nascono per rafforzare le donne e per difenderle. Non
sono mostri sono normali.
Perché parlare di risorse. Se la molla è politica e sociale i soldi si trovano. Noi addirittura
ospitiamo le donne. Io faccio da alcuni anni un percorso di teatro, lavorando sul maschile. Ma il
patriarcato opprime anche gli uomini. O noi insieme prendiamo atto di questo e l’affrontiamo
insieme e la liberazione per tutti oppure se aspettiamo che ci dicano ci sono 2 lire per i maschi e 3
per le femmine e se non sappiamo se le donne possono lavorare con gli uomini e gli uomini con le
donne, i nostri orizzonti sono ridicoli.
Domenico Matarozzo, Associazione “Cerchio degli uomini” - Torino
Le risorse: la coperta è cortissima, ma per noi da sempre è importante fare prevenzione e pur non
volendo togliere niente a nessuno. Però si vuole riconoscere se il nostro lavoro è prevenzione o no?
Se non deve essere medicalizzante l'intervento deve essere politico e se questo si riconosce che
serve, servono anche le risorse.
A cura di Alessandra Bozzoli, Stefania Pizzonia – Associazione LeNove-Studi e ricerche sociali