Sánchez-Gil - Pontificia Università della Santa Croce

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Sánchez-Gil - Pontificia Università della Santa Croce
TESTO PROVVISORIO
XX CONVEGNO DI STUDI – FACOLTÀ DI DIRITTO CANONICO
DIRITTO E NORMA NELLA LITURGIA
Roma, 18-19 aprile 2016
Universale e particolare nella normativa liturgica
Prof. Antonio S. Sánchez-Gil
Sommario: Introduzione.– 1. La liturgia (eucaristica), radice della comunione tra le Chiese particolari nella Chiesa
universale.– 2. Universale e particolare nella Costituzione conciliare sulla liturgia.– 3. Universale e particolare nelle
disposizioni canonico-liturgiche.– 4. Le edizioni tipiche dei libri liturgici, in latino e in lingua vernacola, tra universale
e particolare; il Missale Romanum e la sua Institutio generalis.
Introduzione
Ringrazio i colleghi e amici del comitato organizzatore di questo convegno per l’invito a
intervenire su una tematica così stimolante come il rapporto tra universale e particolare nella
normativa liturgica. Cercherò di sviluppare l’argomento evitando di sovrappormi alle altre relazioni,
soprattutto quelle del pomeriggio, dedicate a due argomenti – l’inculturazione e la consuetudine in
materia liturgica – intimamente legati al nostro. Nel contesto di questa seconda giornata, dedicata a
principi, struttura e tecniche normative in re liturgica, non poteva mancare una trattazione specifica
della polarità tra l’universale e il particolare, nota caratteristica della cattolicità della Chiesa, che si
riflette in tutte le dimensioni della sua vita e, con modalità proprie, anche nel diritto e nella liturgia1.
Penso che si possa ben applicare tanto al diritto quanto alla liturgia ciò che Papa Francesco diceva,
pochi mesi fa, ad un incontro internazionale di teologia:
«Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse di essere padrona
e unica interprete della realtà e dell’azione dello Spirito. Non esiste una comunità che abbia il monopolio
dell’interpretazione o dell’inculturazione. Come, all’opposto, non esiste una Chiesa universale che dia le
spalle, ignori, si disinteressi della realtà locale. La cattolicità esige, chiede questa polarità tensionale tra il
particolare e l’universale, tra l’uno e il multiplo, tra il semplice e il complesso. Annichilire questa
tensione va contro la vita dello Spirito. Ogni tentativo, ogni ricerca di ridurre la comunicazione, di
rompere il rapporto tra la Tradizione ricevuta e la realtà concreta, mette in pericolo la fede del Popolo di
Dio»2.
1
Cfr. i vari contributi contenuti in AA.VV., Diritto e Liturgia, a cura del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico,
Milano 2012; e in AA.VV., Il diritto della Chiesa tra universale e particolare, a cura del Gruppo Italiano Docenti di
Diritto Canonico, Milano 2013.
2
Videomessaggio al Congresso internazionale di teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina, Buenos
Aires, 1-3 settembre 2015, in w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2015/documents/papafrancesco_20150903_videomessaggio-teologia-buenos-aires.html. Merita di essere riportata anche la seguente
affermazione, particolarmente riferibile alla liturgia, quale elemento costitutivo della Tradizione: «C’è un’immagine
proposta da Benedetto XVI che mi piace molto. Riferendosi alla Tradizione della Chiesa afferma che “non è
trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini,
il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti” (Udienza Generale, 26 aprile 2006). Questo fiume irriga diverse
terre, alimenta diverse geografie, facendo germogliare il meglio di quella terra, il meglio di quella cultura. In questo
modo, il Vangelo continua a incarnarsi in tutti gli angoli del mondo, in maniera sempre nuova (cfr. Evangelii gaudium,
n. 115)» (ibidem).
TESTO PROVVISORIO
Parlare di universale e particolare nella normativa liturgica è parlare, quindi, di questa «polarità
tensionale» – come dice Francesco –, ma anche «sinergica», che opera come uno dei suoi criteri
ispiratori. In sintonia con i principi di partecipazione e di adattamento, la polarità universaleparticolare comporta la promozione dell’opportuno adeguamento liturgico alle esigenze dei popoli e
alle varie condizioni dei luoghi, mantenendo comunque l’unità sostanziale, allo scopo di favorire la
partecipazione dei fedeli alle azioni liturgiche. In esse non solo è celebrata la fede della Chiesa3, ma
la stessa e unica Chiesa di Cristo si rende presente e agisce («vere inest et operatur»4) in ogni
Chiesa particolare; in modo speciale nella celebrazione eucaristica, che – secondo una felice
espressione dell’Institutio generalis Missalis Romani [= IGMR] – è «raduno locale della santa
Chiesa» (n. 27)5.
Scopo principale di questo contributo è, dunque, l’esame della polarità e dell’intreccio tra
universale e particolare nella normativa liturgica della Chiesa latina, e più specificamente, di quella
romana6. Una qualità che è possibile avvertire non solo nelle sue fonti, ma anche nella sua struttura
e nelle tecniche adoperate. Lo si può agevolmente notare, come vedremo, nelle indicazioni
conciliari e nelle disposizioni canoniche sulla liturgia ma, forse ancora di più, nella normativa
propriamente liturgica, contenuta nei libri liturgici, le cui edizioni tipiche, tanto in latino quanto
nelle lingue moderne, esprimono la cattolicità della Chiesa e, quindi, entrambe le dimensioni,
universale e particolare, sia nell’origine e nello sviluppo storico del loro contenuto, sia nelle autorità
competenti per la loro approvazione, sia, infine, nelle concrete disposizioni in essi inserite sugli
adattamenti che possono stabilire le autorità territoriali o che sono lasciati al prudente giudizio di
chi presiede la concreta assemblea liturgica locale7.
Con l’intento di dare un taglio, non meramente teorico e astratto, ma anche pratico e concreto a
questo studio, mi limiterò a fare alcune considerazioni sulle radici propriamente liturgiche della
comunione tra l’universale e il particolare nella Chiesa, per poi concentrare l’attenzione su come
3
Cfr. Catechismus Catholicae Ecclesiae [= CCE], nn. 1124 e 1126, dove si ricorda l’antico adagio «Lex orandi, lex
credendi» e si afferma che «la Liturgia è un elemento costitutivo della santa e vivente Tradizione».
4
CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decreto sulla missione pastorale dei Vescovi nella Chiesa Christus Dominus [=
CD], 28 ottobre 1965, n. 11, in AAS 58, 1966, 673-701.
5
In questo contesto, sono ancora attuali le considerazioni del Sinodo dei Vescovi dedicato all’Eucaristia a proposito
degli adattamenti che occorrono per favorire la partecipazione dei fedeli alla Santa Messa, e che possono essere
applicate ad ogni azione liturgica: «A partire dalle affermazioni fondamentali del Concilio Vaticano II, è stata
sottolineata più volte l’importanza della partecipazione attiva dei fedeli al Sacrificio eucaristico. Per favorire questo
coinvolgimento si può fare spazio ad alcuni adattamenti appropriati ai diversi contesti e alle differenti culture. Il fatto
che vi siano stati alcuni abusi non oscura la chiarezza di questo principio, che deve essere mantenuto secondo le reali
necessità della Chiesa, la quale vive e celebra il medesimo mistero di Cristo in situazioni culturali differenti»
(BENEDETTO XVI, Esortazione apostolica postsinodale sull’Eucaristia fonte e culmine della vita e missione della Chiesa
Sacramentum caritatis [= SaCa], 22 febbraio 2007, n. 54, in AAS 99, 2007, 106-180).
6
Sarebbe stato interessante considerare l’argomento anche in rapporto agli altri riti latini e, ancora di più, ai riti
orientali, ma un tale studio esula dalle mie competenze. È comunque utile ricordare l’insegnamento del Concilio
Vaticano II al riguardo: «La Chiesa santa e cattolica, che è il Corpo mistico di Cristo, si compone di fedeli che sono
organicamente uniti nello Spirito Santo da una stessa fede, dagli stessi sacramenti e da uno stesso governo, e che
unendosi in varie comunità stabili, congiunti dalla gerarchia, costituiscono le Chiese particolari o riti. Tra loro vige una
mirabile comunione, di modo che la varietà non solo non nuoce alla unità della Chiesa, ma anzi la manifesta. È infatti
intenzione della Chiesa cattolica che rimangano salve e integre le tradizioni di ogni Chiesa o rito particolare; parimenti
essa vuole adattare il suo tenore di vita alle varie necessità dei tempi e dei luoghi» (Decreto sulle Chiese cattoliche
orientali Orientalium Ecclesiarum [= OE], 21 novembre 1964, n. 2, in AAS 57, 1965, 76-89). D’altra parte, non sono
mai mancate influenze liturgiche tra i vari riti: «le Chiese d’Oriente hanno fin dall’origine un tesoro dal quale la Chiesa
d’Occidente ha attinto molti elementi nel campo della liturgia, della tradizione spirituale e dell’ordine giuridico»
(Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio [= UR], 21 novembre 1964, n. 14, in AAS 57, 1965, 76-89).
7
Cfr. M. BARBA, Il libro liturgico: struttura e funzione, in Rivista Liturgica 98, 2011, 382-395; C. MAGGIONI, Valore e
significato del libro liturgico, in ibidem, 396-414; IDEM, Gli adattamenti previsti nei libri liturgici: significato, valori e
problematiche, in ibidem, 855-862; A. MONTAN, La “normatività” del libro liturgico, in ibidem, 451-461.
2
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queste dimensioni sono state articolate nella Costituzione conciliare sulla liturgia8, nelle successive
disposizioni canoniche in materia liturgica e nei libri liturgici attualmente in uso, con un riferimento
specifico all’ultima edizione del Missale Romanum, libro princeps della liturgia latina, e alla
rinnovata stesura dell’IGMR, che, come è noto, contiene un capitolo, mancante nella versione
precedente, specificamente dedicato agli adattamenti che competono ai Vescovi diocesani e alle
Conferenze Episcopali9.
1. La liturgia (eucaristica), radice della comunione tra le Chiese particolari nella Chiesa
universale
Se, come è stato detto, la polarità sinergica tra universale e particolare è un segno caratteristico
della Chiesa – della sua cattolicità – e di tutte le sue manifestazioni, è logico che tale qualità sia
connaturale alla sua liturgia, come si può avvertire sin dalle sue origini [ed è stato ben messo in
evidenza dalla relazione del professore Manuel Nin]10. La liturgia cristiana è, infatti, come la
Chiesa, universale e particolare allo stesso tempo, una ma anche pluriforme; con la stabilità
necessaria e indispensabile per rimanere la stessa, ma anche con la flessibilità che occorre per
essere adattata alle peculiarità culturali e linguistiche di ogni popolo; ed essere così in grado di
veicolare il messaggio evangelico agli uomini e alle donne di ogni luogo e tempo, affinché formino
un unico popolo – il popolo di Dio – che è di per sé universale, e, proprio perciò, anche in grado di
integrare, senza eliminarle, le particolarità compatibili col Vangelo11.
Nello sviluppo storico della liturgia ci sono, poi, esempi frequenti sia di elementi rituali nati in
ambito locale che sono stati assunti a livello universale, sia di indicazioni date per tutta la Chiesa
che sono state declinate in modo diverso nei vari ambiti locali. Per quanto riguarda la storia della
liturgia romana forse il più noto esempio di questo «doppio movimento di influenza liturgica» è
costituito dagli adattamenti franco-germanici introdotti nei secoli VIII-IX nell’Ordo Misae a partire
dal Sacramentario Gregoriano, poi riadattati a Roma nei secoli X-XI, e, poi ancora, diffusi in tutto
8
Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium [= SC], 4
dicembre 1963, in AAS 56, 1964, 97-138.
9
Per una panoramica dello sviluppo storico del Missale Romanum, cfr. M. SODI, Storia della messa in Italia, in
AA.VV., Cristiani di Italia. Chiese, Società, Stato, 1861-2011, a cura di A. Melloni, Roma 2011, 377-388, e la
bibliografia ivi citata.
10
Basterebbe pensare alla manifestazione della Chiesa il giorno di Pentecoste, con la prima amministrazione del
battesimo. È infatti pieno di significato che lo Spirito abbia dato quel giorno ai discepoli il potere di esprimersi in altre
lingue, e che coloro che erano presenti abbiano udito annunziare le opere di Dio nelle proprie lingue native (cfr. Atti
2,4-12; CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decreto sull’attività missionaria della Chiesa Ad gentes [= AG], 7
dicembre 1965, n. 4, in AAS 58, 1966, 947-990). In questo senso, non mi sembra azzardato ipotizzare che, per opera
dello Spirito, il battesimo sia stato amministrato-celebrato quel giorno – con una forma rituale certamente scarna, ma
con gli elementi essenziali del segno battesimale – in tutte le lingue presenti quel giorno a Gerusalemme.
11
Come affermava il beato Paolo VI, la «Chiesa universale si incarna di fatto nelle Chiese particolari. (…) Ma
dobbiamo ben guardarci dal concepire la Chiesa universale come la somma o, se così si può dire, la federazione più o
meno eteroclita di Chiese particolari essenzialmente diverse. Secondo il pensiero del Signore, è la stessa Chiesa che,
essendo universale per vocazione e per missione, quando getta le sue radici nella varietà dei terreni culturali, sociali,
umani, assume in ogni parte del mondo fisionomie ed espressioni esteriori diverse» (Esortazione apostolica Evangelii
nuntiandi, 8 dicembre 1975, n. 62, in AAS 68,1976, 5-76). La citazione è stata ripresa in CCE, n. 835, che, nello stesso
numero, aggiunge: «La ricca varietà di discipline ecclesiastiche, di riti liturgici, di patrimoni teologici e spirituali propri
alle “Chiese locali tra loro concordi, dimostra con maggior evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa”». Queste ultime
parole sono del CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium [= LG], 21
novembre 1964, n. 23, in AAS 57, 1965, 5-71.
3
TESTO PROVVISORIO
l’Occidente12. Fenomeni simili sono anche avvenuti nell’ultima riforma liturgica e continueranno
sicuramente in avvenire13.
Anche nell’esame dell’attuale tipologia dei provvedimenti regolativi del culto, [oggetto della
relazione del professore Edoardo Baura,] è possibile constatare l’intreccio tra le dimensioni
universale e particolare, trattandosi la liturgia di una materia la cui regolamentazione prevede
l’intervento – non poche volte congiunto – della Santa Sede, dei Vescovi diocesani e delle
Conferenze Episcopali14, ma è anche opportuno nella fase di applicazione, di promozione e di
custodia. È infatti auspicabile che il rapporto tra istanze universali e particolari in ambito liturgico
sia considerato sempre di più in termini di sinodalità e di comunione; non come fonte di tensioni
negative e dannose – ci sono tensioni positive e salutari –, né tantomeno come terreno di scontro.
In questo senso, si deve evitare – non solo in materia liturgica, ovviamente, ma soprattutto in
essa – che le dimensioni universale e particolare siano considerate come semplici ambiti,
contrapposti, di competenza o di esercizio di potestà. Occorre, invece, contemplarle come
dimensioni complementari dell’unica Chiesa, in una logica di «comunione», che, sulla base degli
approfondimenti dell’ultimo Concilio, è concetto chiave non solo della rinnovata ecclesiologia
cattolica, ma anche della rinnovata liturgia della Chiesa.
L’ecclesiologia di comunione è, infatti, molto presente nella liturgia rinnovata dopo il Concilio,
ad esempio, nel riconoscimento dell’assemblea liturgica come soggetto celebrante, in cui agiscono
in modo organico il sacerdozio ministeriale dei Vescovi e dei presbiteri e il sacerdozio comune dei
fedeli, tutti partecipi dell’unico sacerdozio di Cristo, che è presente e opera in ogni celebrazione
liturgica (cfr. SC, n. 7). L’ecclesiologia di comunione è anche presente nella considerazione di ogni
assemblea liturgica, per sua natura sempre locale, come assemblea liturgica della Chiesa universale,
la quale – adoperando di nuovo le parole del Concilio prima accennate – vere inest et operatur, non
solo in ogni Chiesa particolare, ma anche in ogni assemblea liturgica locale, e in modo speciale
nella celebrazione eucaristica15.
A questo proposito, mi sembrano di grande rilievo per il nostro argomento alcune affermazioni
di un noto documento della Congregazione per la Dottrina della Fede [= CDF], pubblicato nel 1992,
sulla nozione di comunione e sul rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari
12
Per una sintesi di questo fenomeno, cfr. A. MIRALLES, Teologia liturgica dei sacramenti. 3.1. La Messa, edizione
digitale, Roma 2014, 72-77 e 82-109, in www.liturgiaetsacramenta.info/texts/tl_messa.pdf, e le fonti e la bibliografia
citate.
13
Un esempio recente è l’introduzione, nell’editio typica tertia del Missale Romanum, del Simbolo degli Apostoli,
come formula alternativa al Simbolo Niceno-Costantinopolitano per la Professione di fede, specialmente durante la
Quaresima e la Pasqua; possibilità che era stata introdotta in alcune edizioni del Messale Romano nelle lingue moderne,
come, ad esempio, la seconda edizione tipica in italiano (cfr. F. KHA, Le «Symbolum Apostolorum» dans l’«Ordo
Missae» de l’«editio typica tertia» du Missel Romain, in Ephmerides Liturgicae 116, 2002, 298-306). Va anche
ricordato che la recita del Credo di Nicea-Costantinopoli è stata introdotta nella Messa romana solo dopo il secolo XI
per influsso dei franchi (cfr. A. MIRALLES, Teologia liturgica dei sacramenti. 3.1. La Messa, cit., 93).
14
Si pensi, ad esempio, all’istituto della recognitio, in cui è prevista l’effettiva e necessaria collaborazione sinergica tra
la Santa Sede e le Conferenze Episcopali nella pubblicazione dei libri liturgici nelle lingue correnti (cfr. c. 838 § 3
Codex Iuris Canonici [= CIC]). Cfr. J.I. ARRIETA, Valenza dottrinale e qualifica dei documenti introduttivi degli
Ordines e valore della recognitio, in Rivista Liturgica 98, 2011, 789-803; M. DEL POZZO, La giustizia nel culto. Profili
giuridici della liturgia della Chiesa, Roma 2013, 445.
15
Come affermava Papa Benedetto XVI, «sulla relazione tra Eucaristia e communio aveva già attirato l’attenzione il
servo di Dio Giovanni Paolo II nella sua Enciclica Ecclesia de Eucharistia. Egli ha parlato del memoriale di Cristo
come della “suprema manifestazione sacramentale della comunione nella Chiesa” (n. 38). L’unità della comunione
ecclesiale si rivela concretamente nelle comunità cristiane e si rinnova nell’atto eucaristico che le unisce e le differenzia
in Chiese particolari, “in quibus et ex quibus una et unica Ecclesia catholica exsistit” (LG, n. 23)» (SaCa, n. 15). A
proposito dell’ecclesiologia di comunione nella liturgia, cfr. l’intervento di P. MARINI, L’Eucaristia, fonte della
comunione ecclesiale nel pensiero e nelle celebrazioni del Beato Giovanni Paolo II, nel I° Congresso Eucaristico
Nazionale
[della
Germania],
Colonia,
5-9
giugno
2013,
in
www.congressieucaristici.va/content/dam/congressieucaristici/STUDI/CONFERENZE/COLONIA.13.pdf,
e
la
bibliografia ivi citata.
4
TESTO PROVVISORIO
nell’ecclesiologia postconciliare16. Un documento di natura ecclesiologica, in cui non mancano però
affermazioni di notevole spessore sotto il profilo sacramentale e – direi – specificamente liturgico,
ispirate agli elementi di ecclesiologia eucaristica presenti negli insegnamenti conciliari 17 . Mi
riferisco alle affermazioni sulle radici eucaristiche della comunione ecclesiale tra i fedeli e tra le
Chiese particolari nella Chiesa universale; che sono espresse – è bene sottolinearlo – in termini
propriamente liturgici18. Concretamente, a proposito della comunione tra i fedeli, si afferma:
«La comunione ecclesiale, nella quale ognuno viene inserito dalla fede e dal Battesimo, ha la sua
radice e il suo centro nella Santa Eucaristia. Infatti, il Battesimo è incorporazione in un corpo edificato e
vivificato dal Signore risorto mediante l’Eucaristia, in modo tale che questo corpo può essere chiamato
veramente Corpo di Cristo. L’Eucaristia è fonte e forza creatrice di comunione tra i membri della Chiesa
proprio perché unisce ciascuno di essi con lo stesso Cristo: “nella frazione del pane eucaristico
partecipando noi realmente al Corpo del Signore, siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi:
‘Perché c’è un solo pane, un solo corpo siamo noi, quantunque molti, noi che partecipiamo tutti a un
unico pane’ (1 Cor 10, 17)” (LG, n. 7 § 2).
Perciò l’espressione paolina la Chiesa è il Corpo di Cristo significa che l’Eucaristia, nella quale il
Signore ci dona il suo Corpo e ci trasforma in un solo Corpo (cfr. LG, nn. 3 e 11 § 1), è il luogo dove
permanentemente la Chiesa si esprime nella sua forma più essenziale: presente in ogni luogo e, tuttavia,
soltanto una, così come uno è Cristo» (CN, n. 5)19.
Interessa sottolineare che qui si sta parlando dell’Eucaristia, in quanto azione liturgica celebrata.
È la celebrazione eucaristica ad essere «fonte e forza creatrice della comunione» tra i fedeli che vi
16
Cfr. Lettera su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione Communionis notio [= CN], 28 maggio 1992,
in AAS 85, 1993, 838-850. Il documento intendeva rispondere ad alcune visioni ecclesiologiche che, secondo la CDF,
«palesano un’insufficiente comprensione della Chiesa in quanto mistero di comunione, specialmente per la mancanza di
un’adeguata integrazione del concetto di comunione con quelli di Popolo di Dio e di Corpo di Cristo, e anche per un
insufficiente rilievo accordato al rapporto tra la Chiesa come comunione e la Chiesa come sacramento» (n. 1).
17
Per una panoramica dell’ecclesiologia eucaristica nella Sacra Scrittura, nella tradizione liturgica e canonica e nei
documenti del Concilio Vaticano II, cfr. H. LEGRAND, L’ecclesiologia eucaristica nel XXI secolo, Città del Vaticano
2011. A proposito dell’ecclesiologia eucaristica di Joseph Ratzinger, Prefetto della CDF al momento della
pubblicazione della CN, cfr. P. BLANCO, Mysterium, communio et sacramentum. L’ecclesiologia eucaristica di Joseph
Ratzinger, in Annales theologici 25, 2011, 241-272; J.J. SILVESTRE VALOR, Con la mirada puesta en Dios: redescubriendo la liturgia con Benedicto XVI, Madrid 2014, 149-204. Circa le precisazioni della CN all’ecclesiologia
eucaristica ortodossa, e sulle polemiche suscitate da questo documento, cfr. A CATTANEO, Ecclesiologia eucaristica e
primato. Un punto cruciale nel dialogo ecumenico, in Annales theologici 14, 2000, 153-196; A. MILTOS, Le Chiese
locali e la Chiesa universale. Una rilettura ortodossa del dibattito Ratzinger-Kasper, in Il Regno-Documenti 17, 2013,
568-576; R. REPOLE, Le categorie di universale e particolare nell’ecclesiologia del Vaticano II e nella riflessione
successiva, in AA.VV., Il diritto della Chiesa tra universale e particolare, cit., 11-32.
18
Sono affermazioni che sono state poi sostanzialmente accolte dal magistero pontificio. Dopo le parole di SaCa citate
prima (vedi supra, nota 15) si afferma: «Proprio la realtà dell’unica Eucaristia che viene celebrata in ogni Diocesi
intorno al proprio Vescovo ci fa comprendere come le stesse Chiese particolari sussistano in e ex Ecclesia. Infatti,
“l’unicità e indivisibilità del Corpo eucaristico del Signore implica l’unicità del suo Corpo mistico, che è la Chiesa una
ed indivisibile. Dal centro eucaristico sorge la necessaria apertura di ogni comunità celebrante, di ogni Chiesa
particolare: attratta tra le braccia aperte del Signore, essa viene inserita nel suo Corpo, unico ed indiviso” (CN, n. 11).
Per questo motivo nella celebrazione dell’Eucaristia, ogni fedele si trova nella sua Chiesa, cioè nella Chiesa di Cristo.
In questa prospettiva eucaristica, adeguatamente compresa, la comunione ecclesiale si rivela realtà per natura sua
cattolica (Propositio 5: “Il termine “cattolico” esprime l'universalità proveniente dall'unità che l'Eucaristia, celebrata in
ogni Chiesa, favorisce ed edifica. Le Chiese particolari nella Chiesa universale hanno così, nell'Eucaristia, il compito di
rendere visibile la loro propria unità e la loro diversità. Questo legame di amore fraterno lascia trasparire la comunione
trinitaria. I concili e i sinodi esprimono nella storia quest'aspetto fraterno della Chiesa”). Sottolineare questa radice
eucaristica della comunione ecclesiale può contribuire efficacemente anche al dialogo ecumenico con le Chiese e con le
Comunità ecclesiali non in piena comunione con la Sede di Pietro. Infatti, l’Eucaristia stabilisce obiettivamente un forte
legame di unità tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, che hanno conservato la genuina e integra natura del
mistero dell’Eucaristia. Al tempo stesso, il rilievo dato al carattere ecclesiale dell’Eucaristia può diventare elemento
privilegiato nel dialogo anche con le Comunità nate dalla Riforma (cfr. ibidem)» (SaCa, n. 15). I corsivi sono
dell’originale. Di speciale interesse per il nostro tema sono le parole citate di CN e della Propositio 5 del Sinodo dei
Vescovi.
19
I corsivi di questo testo e di quelli successivi di CN sono dell’originale.
5
TESTO PROVVISORIO
partecipano nell’unica Chiesa di Cristo. Lo stesso si avverte successivamente, con ancora maggiore
chiarezza, quando si dichiara:
«L’unità o comunione tra le Chiese particolari nella Chiesa universale, oltre che nella stessa fede e nel
comune Battesimo, è radicata soprattutto nell’Eucaristia e nell’Episcopato.
È radicata nell’Eucaristia perché il Sacrificio eucaristico, pur celebrandosi sempre in una particolare
comunità, non è mai celebrazione di quella sola comunità: essa, infatti, ricevendo la presenza eucaristica
del Signore, riceve l’intero dono della salvezza e si manifesta così, pur nella sua perdurante particolarità
visibile, come immagine e vera presenza della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica (cfr. LG, n. 26 §
1)» (CN, n. 11)20.
Come si vede, è la celebrazione eucaristica ad essere considerata radice di tale comunione. E lo
stesso si può dire quando l’unità dell’Episcopato è messa in relazione con l’unità dell’Eucaristia,
anche qui considerata in quanto azione liturgica celebrata:
«Unità dell’Eucaristia ed unità dell’Episcopato con Pietro e sotto Pietro non sono radici indipendenti
dell’unità della Chiesa, perché Cristo ha istituito l’Eucaristia e l’Episcopato come realtà essenzialmente
vincolate (cfr. LG, n. 26). L’Episcopato è uno così come una è l’Eucaristia: l’unico Sacrificio dell’unico
Cristo morto e risorto. La liturgia esprime in vari modi questa realtà, manifestando, ad esempio, che ogni
celebrazione dell’Eucaristia è fatta in unione non solo con il proprio Vescovo ma anche con il Papa, con
l’ordine episcopale, con tutto il clero e con l’intero popolo (cfr. Messale Romano, Preghiera Eucaristica
III). Ogni valida celebrazione dell’Eucaristia esprime questa universale comunione con Pietro e con
l’intera Chiesa, oppure oggettivamente la richiama, come nel caso delle Chiese cristiane separate da
Roma (cfr. LG, n. 8 § 2)» (CN, n. 14)21.
Sulla stessa linea, ma in termini ancora più confacenti al nostro argomento, è quanto affermato in
un «corsivo» pubblicato, nel primo anniversario della CN, su L’Osservatore Romano (articolo
anonimo, firmato con tre asterischi, come era allora consuetudine, per indicarne il valore dottrinale
quasi-ufficiale). Indipendentemente dal suo valore magisteriale, è comunque di grande interesse per
il nostro tema la seguente asserzione, riguardante in modo esplicito l’Eucaristia, sempre in quanto
azione liturgica:
«Nella celebrazione dell’Eucaristia si realizza ed esprime in massimo grado la mutua interiorità tra la
Chiesa universale e le Chiese particolari, poiché dove si celebra l’Eucaristia, ivi è presente la Chiesa nella
sua pienezza, non solo la Chiesa locale, ma la Cattolica di cui parlava Sant’Agostino; da ciò la cattolicità
costitutiva di ogni celebrazione eucaristica locale»22.
Sulla base di queste considerazioni, penso che si possa ben sostenere che la polarità universale e
particolare non vada considerata, in primis, come una nota della Chiesa che deve poi manifestarsi
nella liturgia e nella normativa che la riguarda, come se la comunione tra le Chiese particolari nella
Chiesa universale richiedesse o postulasse, come un dovere morale o giuridico, la varietà nell’unità
della liturgia, intesa come liturgia regolata, cioè quale normativa liturgica. Al contrario. È la liturgia
20
Poco dopo, nello stesso n. 11, a proposito delle «accentuazioni unilaterali del principio della Chiesa locale», espresse
talvolta dall’ecclesiologia eucaristica, si precisa che «è proprio l’Eucaristia a rendere impossibile ogni autosufficienza
della Chiesa particolare. Infatti, l’unicità e indivisibilità del Corpo eucaristico del Signore implica l’unicità del suo
Corpo mistico, che è la Chiesa una ed indivisibile».
21
Si noti che anche qui si sta parlando della celebrazione eucaristica, cioè, dell’Eucaristia in quanto azione liturgica
celebrata. Per quanto riguarda il fedele che vi partecipa, si afferma inoltre: «l’appartenenza ad una Chiesa particolare
non è mai in contraddizione con la realtà che nella Chiesa nessuno è straniero: specialmente nella celebrazione
dell’Eucaristia, ogni fedele si trova nella sua Chiesa, nella Chiesa di Cristo, a prescindere dalla sua appartenenza o
meno, dal punto di vista canonico, alla diocesi, parrocchia o altra comunità particolare dove ha luogo tale celebrazione»
(CN, n. 10).
22
La Chiesa come comunione. A un anno della pubblicazione della Lettera Communionis notio, ***, in L’Osservatore
Romano, 23 giugno 1993, 1 e 4.
6
TESTO PROVVISORIO
(eucaristica), intesa come liturgia celebrata, vale a dire in quanto azione liturgica, che, essendo
locale e universale a un tempo, esprime e realizza, come sua causa ontologica, la comunione tra le
Chiese particolari nella Chiesa universale. In altre parole: non è che la liturgia deve essere
particolare e universale, perché le Chiese particolari sono unite nella Chiesa universale, ma è la
liturgia eucaristica, celebrata nella stessa fede, a creare la comunione tra tutte le comunità cristiane
locali, tra tutte le Chiese particolari, nella Chiesa universale23. Parafrasando le famose parole di
Henri de Lubac24, se è vero che la Chiesa (universale e particolare) fa la liturgia, è anche vero che la
liturgia – soprattutto la liturgia eucaristica, in quanto azione celebrata nella comune fede in Cristo –
fa la Chiesa (universale e particolare). In termini più ampi, è la celebrazione liturgica a rendere
presente la stessa e unica Chiesa – la Cattolica – in ogni luogo e a creare, dunque, la comunione tra
universale e particolare.
Questa comunione tra universale e particolare, radicata nella liturgia (eucaristica), si manifesta
poi in tutti gli ambiti della vita della Chiesa, non esclusa ovviamente la stessa liturgia, considerata
non già in quanto azione liturgica, bensì in quanto normativa liturgica, come afferma, tra l’altro, lo
stesso documento citato:
«“L’universalità della Chiesa, da una parte, comporta la più solida unità e, dall’altra, una pluralità e
una diversificazione, che non ostacolano l’unità, ma le conferiscono invece il carattere di comunione”
(Giovanni Paolo II). Questa pluralità si riferisce sia alla diversità di ministeri, carismi, forme di vita e di
apostolato all’interno di ogni Chiesa particolare, sia alla diversità di tradizioni liturgiche e culturali, tra le
diverse Chiese particolari (cfr. LG, n. 23 § 4)» (CN, n. 15)25.
Sono tutte affermazioni del magistero della Chiesa, conciliare e postconciliare, che, per quanto
conosciute, conviene richiamare all’attenzione a proposito del nostro argomento.
Forse è anche utile aggiungere che sulla medesima linea si è espresso recentemente Papa
Francesco, alla fine di gennaio scorso, nel suo incontro annuale con la CDF, dicastero autore del
documento a cui ci siamo riferiti, quando ha ricordato l’«ordinata pluriformità che connota ogni
tessuto ecclesiale». Parlava in quell’occasione della complementarietà nella vita ecclesiale tra doni
gerarchici e carismatici, che è certamente qualcosa di diverso, ma penso che il discorso valga
ugualmente, e forse a maggior ragione, tra universale e particolare, tra unità e varietà, in ambito
liturgico:
«La logica dell’unità nella legittima differenza caratterizza ogni autentica forma di comunione nel
Popolo di Dio. (…) Unità e pluriformità sono il sigillo di una Chiesa che, mossa dallo Spirito, sa
incamminarsi con passo sicuro e fedele verso quelle mete che il Signore Risorto le indica nel corso della
storia. Qui si vede bene come la dinamica sinodale, se rettamente intesa, nasca dalla comunione e
conduca verso una comunione sempre più attuata, approfondita e dilatata, al servizio della vita e della
missione del Popolo di Dio»26.
23
E questo vale anche, in una prospettiva ecumenica, nei confronti delle Chiese orientali ortodosse, come la CDF rileva
nel suo documento, seguendo l’ultimo Concilio: «per quanto separate dalla Sede di Pietro, esse restano unite alla Chiesa
Cattolica per mezzo di strettissimi vincoli, quali la successione apostolica e l’Eucaristia valida, e meritano perciò il
titolo di Chiese particolari (cfr. UR, nn. 14 e 15 § 3). Infatti, “con la celebrazione dell’Eucaristia del Signore in queste
singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce” (UR, n. 15 § 1), poiché in ogni valida celebrazione dell’Eucaristia
si fa veramente presente la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica (cfr. supra, nn. 5 e 14)» (CN, n. 17). Vedi anche
supra, nota 18.
24
Cfr. Méditation sur l'Église, Paris 1953, 135-136. L’espressione «l’Eucaristia fa la Chiesa» è stata accolta in CCE, n.
1396. Sull’Eucaristia principio causale della Chiesa, cfr. SaCa, n. 14.
25
Qui non si parla, infatti, della liturgia celebrata, bensì della diversità di tradizioni liturgiche e, dunque, di liturgia
regolata o, con altre parole, di normativa liturgica.
26
Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, 29 gennaio 2016, in
w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/january/documents/papa-francesco_20160129_plenaria-dottrinafede.html.
7
TESTO PROVVISORIO
Passiamo dunque all’esame della polarità universale-particolare nelle indicazioni conciliari sulla
liturgia.
2. Universale e particolare nella Costituzione conciliare sulla liturgia
Probabilmente non c’è bisogno, a questo punto, di dire che «la logica dell’unità nella legittima
differenza», richiamata da Francesco, è la stessa che è stata proclamata a più riprese dal Concilio
Vaticano II in diversi documenti27. Per quanto riguarda la liturgia, questa logica è stata confermata
con particolare chiarezza dalla SC, quando ha indicato la fede e il bene comune generale come unici
limiti che possono giustificare l’uniformità liturgica:
«La Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene comune generale, non intende imporre,
neppure nella liturgia, una rigida uniformità; rispetta anzi e favorisce le qualità e le doti di animo delle
varie razze e dei vari popoli. Tutto ciò poi che nel costume dei popoli non è indissolubilmente legato a
superstizioni o ad errori, essa lo considera con benevolenza e, se possibile, lo conserva inalterato, e a
volte lo ammette perfino nella liturgia, purché possa armonizzarsi con il vero e autentico spirito liturgico»
(SC, n. 37)28.
Si tratta di un principio in armonia con la più genuina tradizione della liturgia romana29 ,
applicabile, ovviamente, all’inculturazione, ma anche, alla polarità tra universale e particolare nella
normativa liturgica, che reclama un’adeguata articolazione che renda effettivamente operativa la
pluralità nell’unità. È significativo, infatti, che nei due numeri immediatamente successivi della SC
siano contenute due precise indicazioni pratiche, indirizzate all’autorità universale e alla
competente autorità particolare, sull’importanza di tenere presente il principio della varietà
nell’unità nella revisione dei libri liturgici:
«Salva la sostanziale unità del rito romano, anche nella revisione dei libri liturgici si lasci posto alle
legittime diversità e ai legittimi adattamenti ai vari gruppi etnici, regioni, popoli, soprattutto nelle
27
Cfr., a titolo di esempio, LG, nn. 13, 22-23; AG, n. 6; OE, n. 2, UR, nn. 4, 14, 16.
Va ricordato che nella commissione conciliare sulla sacra liturgia «si affermava che in materia di fede deve essere
mantenuta un’assoluta unità, mentre per quanto riguarda il bene comune è sufficiente un’unità relativa» (A. D’AURIA,
Inculturazione e liturgia, in AA.VV., Diritto e Liturgia, cit., 77-110 [87]; cfr. A. CHUPUNGCO, Adattamento, in AA.VV.,
Nuovo Dizionario di Liturgia, a cura di D. Sartore e A.M. Triacca, Cinisello Balsamo 1990, 1-15). A proposito del
significato dell’espressione «vero e autentico spirito liturgico», che chiude SC, n. 37, affermava san Giovanni Paolo II:
«Questo “spirito” non deriva dalle forme esteriori che provengono, in gran parte, dalle culture in cui il Cristianesimo si
è diffuso, ma sottostà ad esse come ciò che conferisce loro l’essere, come strumento e manifestazione esteriore di
convergenza dell’azione di Cristo e della sua Chiesa a livello di grazia invisibile. (…) Se la Liturgia non portasse i
fedeli a manifestare con la vita il mistero salvifico di Cristo, Dio e Uomo, e la genuina natura della vera Chiesa, dove
ciò che è “umano” è “ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà
presente alla città futura verso la quale siamo incamminati” (SC, n. 2), non si potrebbe parlare dell’applicazione del
“vero e autentico spirito della Liturgia”» (Discorso ai Presuli della Regione Nordest III della Conferenza Episcopale
del Brasile in visita ad Limina Apostolorum, 29 settembre 1995, n. 6, in AAS 88, 1996, 550-559).
29
Si deve infatti rilevare che la logica della varietà rituale nell’unità della fede ha guidato la normativa liturgica della
Chiesa romana fino al Concilio di Trento. Così lo manifesta, in modo paradigmatico, la famosa risposta di san Gregorio
Magno a sant’Agostino di Canterbury: «Interrogatio Augustini. Cum una sit fides, sunt Ecclesiarum diversae
consuetudines, et altera consuetudo missarum in sancta Romana Ecclesia, atque altera in Galliarum tenetur?
Respondit Gregorius papa. Novit fraternitas tua Romanae Ecclesiae consuetudinem, in qua se meminit nutritam. Sed
mihi placet, sive in Romana, sive in Galliarum, seu in qualibet Ecclesia, aliquid invenisti quod plus omnipotenti Deo
possit placere, sollicite eligas, et in Anglorum Ecclesia, quae adhuc ad fidem nova est, institutione praecipua, quae de
multis Ecclesiis colligere potuisti, infundas. Non enim pro locis res, sed pro bonis rebus loca amanda sunt. Ex singulis
ergo quibusque Ecclesiis, quae pia, quae religiosa, quae recta sunt elige, et haec quasi infasciculum collecta, apud
Anglorum mentes in consuetudinem depone» (BEDA VENERABILIS, Historia ecclesiastica gentis Anglorum, 1, 27, in PL
95, 58-59).
28
8
TESTO PROVVISORIO
Missioni; e sarà bene tener opportunamente presente questo principio nella struttura dei riti e
nell’ordinamento delle rubriche» (SC, n. 38)30.
«Entro i limiti stabiliti nelle edizioni tipiche dei libri liturgici, spetterà alla competente autorità
ecclesiastica territoriale, di cui all’art. 22 § 2, determinare gli adattamenti, specialmente riguardo
all’amministrazione dei Sacramenti, ai Sacramentali, alle processioni, alla lingua liturgica, alla musica
sacra e alle arti, sempre però secondo le norme fondamentali contenute nella presente Costituzione» (SC,
n. 39)31.
La prima è, infatti, una precisa indicazione del Concilio indirizzata all’autorità universale perché
nella riforma dei libri liturgici «si lasci posto alle legittime diversità e ai legittimi adattamenti» e si
tenga «opportunamente presente questo principio nella struttura dei riti e nell’ordinamento delle
rubriche». La seconda è un’indicazione rivolta, invece, alla competente autorità particolare, alla
quale spetterà «determinare gli adattamenti» negli ambiti indicati, «sempre però secondo le norme
fondamentali contenute» nella SC e «entro i limiti stabiliti nelle edizioni tipiche dei libri liturgici».
Oltre a queste indicazioni riguardanti il principio della varietà nell’unità – o dell’unità dei
particolari nell’universale – nella revisione dei libri liturgici, la SC contiene anche delle indicazioni
normative sulle autorità competenti in materia liturgica che, per quanto conosciute, è indispensabile
considerare in questa sede, anche perché hanno segnato un cambiamento epocale nei confronti del
modus operandi dei secoli immediatamente precedenti. Come è noto, il Concilio di Trento, allo
scopo di tutelare l’unità della Chiesa di fronte alle esigenze del momento, aveva accentrato nella
Sede Apostolica tutte le competenze normative in materia liturgica32. Il Concilio Vaticano II ha
promosso, invece, una diversificazione delle fonti normative e, sebbene abbia comunque
riaffermato il ruolo primario esercitato dalla Sede Apostolica sin dai primi secoli33, ha anche
riconosciuto un ruolo, seppure limitato e subordinato, anche al Vescovo e alle Conferenze
Episcopali, nella regolamentazione della liturgia:
«§ 1. Regolare la sacra Liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, la quale risiede nella
Sede Apostolica e, a norma del diritto, nel Vescovo.
§ 2. In base ai poteri concessi dal diritto, regolare la Liturgia spetta, entro limiti determinati, anche alle
competenti assemblee episcopali territoriali di vario genere legittimamente costituite.
§ 3. Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere,
togliere o mutare alcunché in materia liturgica» (SC, n. 22)34.
30
Circa la portata dell’espressione «salva la sostanziale unità del rito romano», che apre SC, n. 38, san Giovanni Paolo
II affermava: «Come nell’ambito di una Chiesa locale, oltre alle differenze esistenti nel popolo di Dio, tra i membri
della gerarchia e i laici, tra i gruppi e le culture, è sempre la Liturgia che deve manifestare e unire una Chiesa locale
(cfr. SC, n. 41), allo stesso modo, e a maggior ragione, le Chiese nate dalla trasmissione apostolica della tradizione
romana, nonostante la varietà di lingue e di culture, è nella Liturgia che devono sentirsi e incontrarsi unite. Il bisogno o
l’esigenza di unità, che è una delle caratteristiche della Chiesa, deve continuare a essere ancora più presente oggi,
nell’ambito del Rito romano, per sostenere l’intera vita della Chiesa e il suo rapporto con il mondo da evangelizzare»
(Discorso ai Presuli della Regione Nordest III della Conferenza Episcopale del Brasile in visita ad Limina
Apostolorum, cit., n. 7).
31
Tutti e tre i nn. 37-39 appartengono alla sottosezione D) Normae ad aptationem ingenio et traditionibus populorum
perficiendam, della sezione III. De sacrae Liturgiae instauratione, del capitolo I. De principiis generalibus ad sacram
Liturgiam instaurandam atque fovendam, della Costituzione conciliare.
32
Cfr. H. JEDIN, Concilio tridentino e riforma dei libri liturgici, in IDEM, Chiesa della fede, Chiesa della storia. Saggi
scelti, a cura di G. Alberigo, Brescia 1972, 391-425. Tale competenza esclusiva è stata formulata nel can. 1257 CIC di
1917 nei seguenti termini: «Unius Apostolicae Sedis est tum sacram ordinare liturgiam tum liturgicos approbare
libros».
33
Cfr. le monografie di I. GORDON, Liturgia et potestas in re liturgica, Roma 1966 e L. PIZZI, Unificazione della
liturgia in occidente: frutto della azione del papato? Interventi epistolari papali da Aniceto (c. 155) a Pio V (1570),
Thesis ad Lauream, Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo, Roma 1988.
34
Come è noto, le «competenti assemblee episcopali territoriali di vario genere legittimamente costituite» indicate nel §
2, non sono altre che le Conferenze Episcopali di cui si sarebbe poi occupato il Concilio (cfr. CD, nn. 37-38).
9
TESTO PROVVISORIO
Da un lato, si dichiara in modo tassativo che la regolamentazione della liturgia («sacrae
Liturgiae moderatio») compete in modo esclusivo all’autorità della Chiesa («ab Ecclesiae
auctoritate unice pendet»). Dall’altro, si cerca di rendere in qualche modo operativa la polarità
universale-particolare, attribuendo un certo protagonismo nella normativa liturgica all’istanza
particolare – il Vescovo, ad normam iuris, e le Conferenze Episcopali, «ex potestate a iure
concessa» e «inter limites statutos» –, che era stata completamente offuscata nei secoli precedenti,
ma mantenendo comunque la prevalenza dell’istanza universale – la Sede Apostolica –. Poi nel § 3
si afferma in modo perentorio che «assolutamente nessun altro», all’infuori dunque dei sacri
Pastori, «anche se sacerdote», abbia l’ardire «di sua iniziativa» di cambiare «alcunché in materia
liturgica»35.
Si tratta di indicazioni che sono state successivamente inserite, con piccole variazioni, nella
rinnovata legislazione canonica, di cui si potrà forse discutere la giustezza; sostenendo, ad esempio,
la convenienza di attribuire qualche competenza nella regolamentazione della liturgia anche ad altri
soggetti – come, ad esempio, le Commissioni liturgiche, nazionali o diocesane, accennate in SC
(cfr. nn. 44-45) –, oppure affermando l’opportunità di riconoscere maggiori margini di autonomia
alle istanze particolari, non esigendo, ad esempio, la recognitio dei libri liturgici nelle lingue
vernacole, stabilita in SC (cfr. n. 63, b). Tuttavia, il tenore delle disposizioni conciliari non lascia
molti margini d’interpretazione sulla volontà dei Padri conciliari nell’indicare, come uniche istanze
competenti in materia di regolamentazione liturgica, la Sede Apostolica e i Vescovi, nei modi da
essa stabiliti 36 . Il che non vuol dire che non si possa fare altrimenti in futuro, cambiando
opportunamente le regole, o che non sia stato fatto diversamente in passato, anche senza cambiarle,
come è successo in non poche questioni liturgiche concrete, in cui le indicazioni conciliari sono
state ampiamente superate, talvolta dalla prassi, talaltra dalla normativa liturgica postconciliare,
talvolta in modo irregolare o, come si suol dire, «fuori dai canoni», almeno in un primo momento37,
talaltra sin dall’inizio in modo pienamente legittimo o «secondo i canoni».
35
Ciò non toglie, ovviamente, che tutte le persone con le opportune competenze in materia – sacerdoti o no, uomini o
donne – possano contribuire con i propri apporti, e debbano essere ascoltati dai Pastori, come la stessa Costituzione
conciliare prescrive per la riforma dei libri liturgici: «I libri liturgici siano riveduti quanto prima, servendosi di periti e
consultando Vescovi di diverse regioni dell’orbe» (SC, n. 24).
36
A questo riguardo si devono ricordare le cinque successive Istruzioni «per la retta Applicazione della Costituzione
sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II», emanate dalla Santa Sede dal 1964 al 2001, attraverso le quali la Sede
Apostolica ha esercitato in modo effettivo la propria competenza, sottolineando al contempo la responsabilità e il ruolo
centrale del Vescovo in materia liturgica, di fronte ad altre istanze, quali Commissioni o gruppi di esperti. Sul valore
normativo dell’ultima di queste istruzioni (CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI [=
CCDDS], Istruzione quinta «per la retta applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II»
(ad Cost. art. 36) Liturgiam authenticam [= LA], 28 maggio 2001, in AAS 93, 2001, 685-726; in italiano in Enchiridion
Vaticanum [EV] 20, 2001, nn. 363-533), cfr. A. MONTAN, Liturgiam authenticam: problemi giuridici relativi al tema
delle traduzioni, in Rivista Liturgica 92, 2005, 211-223. In questi decenni, non sono mancate le critiche da parte degli
esperti a tali istruzioni, specialmente a LA (vedi, ad esempio, le critiche ragionate di alcuni contributi dei fascicoli 1 e 2
del 2005 della Rivista Liturgica). Tuttavia, se ci è consentito di parafrasare Papa Francesco, che a proposito delle
questioni secolari ha detto che i laici non hanno bisogno del Vescovo-pilota o del monsignore-pilota, forse si dovrebbe
dire che, nelle questioni liturgiche, la Sede Apostolica e i Vescovi non hanno bisogno del “teologo o canonista
(sacerdote o laico)-pilota”. A questo proposito è utile riportare l’affermazione del Cardinale Ratzinger circa il ruolo dei
Vescovi e degli esperti in materia liturgica: «Nella riforma liturgica non deve spettare agli esperti l’ultima parola.
Esperti e pastori hanno ciascuno il proprio ruolo (così come, in politica, i tecnici e coloro che sono chiamati a decidere
rappresentano due livelli diversi). Le conoscenze degli studiosi sono importanti, ma non possono essere
immediatamente trasformate in decisioni dei pastori, i quali hanno la responsabilità di ascoltare i fedeli nell’attuare con
intelligenza assieme a loro ciò che oggi aiuta a celebrare i sacramenti con fede oppure no. Una delle debolezze della
prima fase della riforma dopo il Concilio fu che quasi soltanto gli esperti avevano voce in capitolo. Sarebbe stata
auspicabile una maggiore autonomia da parte dei pastori» (Recensione alla monografia di A. REID, The Organic
Development of the Liturgy, London 2004. Originale tedesco in Forum Katholische Theologie 21, 2005, 36-39; in
italiano nel mensile 30 giorni, dicembre 2004, 72-75, con traduzione di L. Cappelletti e S. Kritzenberger).
37
Forse l’esempio paradigmatico di questo genere è l’introduzione in modo irregolare della distribuzione della
Comunione eucaristica sulla mano, diventata poi regolare attraverso l’approvazione delle autorità competenti. Cfr. A.
BUGNINI, La riforma liturgica (1948-1975), Roma 19972, 621-641.
10
TESTO PROVVISORIO
Quest’ultimo è il caso delle indicazioni conciliari sull’uso delle lingue vernacole nel Rito
latino38. Anche se è utile osservare che, ancor prima della riforma, in alcune regioni era stata
concessa tale possibilità39, è chiaro che il Concilio, con la sua decisione di dare ampio spazio,
accanto al latino, in modo ordinario e abituale e non solo in via eccezionale, alle lingue vernacole,
ha operato un cambiamento, anche in questo caso epocale, che è opportuno evidenziare a proposito
del nostro argomento di studio, anche perché è stata proprio questa possibilità, stabilita dal
Concilio, che ha condotto alla pubblicazione, accanto ai libri liturgici in latino, dei libri liturgici
nelle lingue vernacole, che è l’ambito dove maggiormente si manifesta attualmente l’intreccio tra
universale e particolare nella normativa liturgica40. Il Concilio aveva infatti stabilito:
«§ 1. L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei Riti latini.
§ 2. Dato però che, sia nella Messa che nell’amministrazione dei Sacramenti, sia in altre parti della
Liturgia, non di rado l’uso della lingua vernacola può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda ad
essa una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti,
secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti.
§ 3. In base a queste norme, spetta alla competente autorità ecclesiastica territoriale, di cui all’art. 22 §
2 – consultati anche, se è il caso, i Vescovi delle regioni limitrofe della stessa lingua – decidere circa
l’ammissione e l’estensione della lingua vernacola. Tali decisioni devono essere approvate ossia
confermate dalla Sede Apostolica.
§ 4. La traduzione del testo latino in lingua vernacola da usarsi nella Liturgia deve essere approvata
dalla competente autorità ecclesiastica territoriale di cui sopra» (SC, n. 36).
Sono disposizioni, come si vede, di carattere eminentemente pratico in cui si cercava di rendere
operativa la varietà nell’unità, anche attraverso la coesistenza del latino e delle lingue vernacole41.
Se, da un lato, si stabiliva, a favore dell’unità, che nei Riti latini fosse conservato l’uso della lingua
latina; dall’altro, si concedeva, in favore della varietà e per una maggiore utilità dei fedeli, l’uso
delle lingue moderne, se così fosse stato stabilito dall’autorità territoriale, ma sempre con la
approvazione della Sede Apostolica. La stessa logica seguivano le indicazioni specifiche sull’uso
della lingua vernacola nella celebrazione eucaristica e nell’amministrazione dei sacramenti e dei
sacramentali:
«Nelle Messe celebrate con partecipazione di popolo si possa concedere una congrua parte alla lingua
vernacola, specialmente nelle letture e nell’“orazione comune” e, secondo le condizioni dei vari luoghi,
anche nelle parti spettanti al popolo, a norma dell’art. 36 di questa Costituzione.
38
Per una visione panoramica dell’applicazione della SC, anche in merito all’uso delle lingue vernacole, cfr. H.
HOPING, The Constitution Sacrosanctum Concilium and the Liturgical Reform, in Annuarium Historiae Conciliorum
42, 2010, 297-316. Per una descrizione specifica dello sviluppo dell’uso delle lingue vernacole nel Rito romano, cfr. A.
WARD, «Sacrosanctum Concilium» at the Fulcrum of Developing Experience on the Vernacular, in Ephemerides
Liturgicae 118, 2004, 63-108. Cfr. anche N. GIAMPIETRO, A cinquant’anni dall’Istruzione «Inter Oecumenici», in
Ephemerides Liturgicae 129, 2015, 300-313, dove l’Autore si sofferma su alcuni interventi del beato Paolo VI
sull’ingresso delle lingue vernacole nel Rito latino.
39
È stato opportunamente ricordato che «neppure la rigida uniformità dei libri liturgici post-tridentini misconobbe
completamente l’istanza dell’adattamento. Circa la lingua, ad esempio, fu concesso, nel 1920, di usare il paleoslavo in
certi riti e feste a regioni della Ceco-Slovacchia; quindi l’edizione di Rituali bilingui per Monaco nel 1929, per Vienna
nel 1935, per la Francia nel 1947, estesi poi a diocesi di lingua francese in Belgio, Svizzera, Italia (Aosta) e Canada; il
Rituale latino-bretone nel 1949; la Collectio rituum per le diocesi tedesche nel 1950; in linea di principio, nel 1949, la
facoltà di tradurre in cinese l’Ordo Missæ, ad eccezione del Canone; infine nel 1947, il Manuale parvum latinofrancese-tedesco (edito nel 1951) per le diocesi di Strasburgo e Metz, città in cui coesistevano lingue differenti» (C.
MAGGIONI, Gli adattamenti previsti nei libri liturgici: significato, valori e problematiche, cit., 855).
40
Cfr. M. DEL POZZO, La giustizia nel culto. Profili giuridici della liturgia della Chiesa, cit., 445.
41
Un proposito simile si trova nelle disposizioni riguardanti in modo specifico l’inculturazione – o “adattamento più
profondo” (cfr. SC, n. 40) –, che tralasciamo per essere oggetto di un’altra relazione. Cfr. CCDDS, Istruzione quarta
«per la retta applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II» (ad Cost. art. 36) Varietates
legitimae [= VL], 25 gennaio 1994, in AAS 87, 1995, 288-314; in italiano in EV 14, 1994-1995, nn. 66-157.
11
TESTO PROVVISORIO
Si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti
dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi.
Se poi in qualche luogo sembrasse opportuno un uso più ampio della lingua vernacola nella Messa, si
osservi quanto prescrive l’art. 40 di questa Costituzione» (SC, n. 54).
«Non di rado nell’amministrazione dei Sacramenti e dei Sacramentali può essere molto utile per il
popolo l’uso della lingua vernacola; le sia data quindi una parte maggiore secondo le norme che seguono:
a) Nell’amministrazione dei Sacramenti e dei Sacramentali si può usare la lingua vernacola a norma
dell’art. 36.
b) Sulla base della nuova edizione del Rituale romano la competente autorità ecclesiastica territoriale,
di cui all’art. 22 § 2 di questa Costituzione, prepari al più presto i Rituali particolari adattati alle necessità
delle singole regioni, anche per quanto riguarda la lingua; questi Rituali saranno usati nelle rispettive
regioni dopo la ricognizione da parte della Sede Apostolica. Nel comporre i Rituali particolari o speciali
Collezioni di riti non si omettano le istruzioni poste all’inizio dei singoli riti nel Rituale romano, sia
quelle pastorali e rubricali, sia quelle che hanno una speciale importanza sociale» (SC, n. 63)42.
Non riferite principalmente alla lingua, ma di speciale rilievo a proposito della polarità
universale-particolare, sono le indicazioni sugli adattamenti nel rito del matrimonio:
«(…) “Se nella celebrazione del Sacramento del Matrimonio qualche regione usa altre consuetudini e
cerimonie degne di essere approvate, il Santo Sinodo desidera vivamente che queste vengano senz’altro
conservate” (Concilio di Trento, Sessio XXIV, 11 novembre 1568, De reformatione, cap. 1).
Inoltre alla competente autorità ecclesiastica territoriale, di cui all’art. 22 § 2 di questa Costituzione,
viene lasciata facoltà di preparare, a norma dell’articolo 63, un rito proprio che risponda agli usi dei
luoghi e dei popoli, fermo però restando l’obbligo che il sacerdote che assiste chieda e riceva il consenso
dei contraenti» (SC, n. 77)43.
In tutte queste indicazioni è possibile apprezzare l’intento d’integrare il particolare
nell’universale, evidenziato soprattutto nella decisione di concedere ampio spazio alle lingue
moderne, senza però abbandonare completamente il latino. Tuttavia, come è ben noto,
nell’evoluzione postconciliare l’apprezzamento generalizzato da parte di pastori e fedeli per la
decisione di ammettere le lingue vernacole nella liturgia «ha portato sotto la guida dei Vescovi e
della stessa Sede Apostolica alla concessione che tutte le celebrazioni liturgiche con partecipazione
di popolo si possano fare in lingua viva» (IGMR, n. 12)44. Una evoluzione compiutasi – come
dicevo – in modo regolare o «secondo i canoni», anche se in molti paesi, forse in modo esagerato, si
42
È utile sottolineare, come criterio pratico per tutelare l’unità nella varietà nella composizione dei libri liturgici
particolari, l’indicazione che non si omettano le istruzioni o praenotanda presenti nei singoli riti del Rituale romano.
Col senno di poi, probabilmente il punto più debole di questo numero è l’indicazione “al più presto”; una fretta che ha
portato poi alla convenienza di rivedere le traduzioni, fatte sicuramente con competenza e con la migliore volontà e
approvate regolarmente dalla Sede Apostolica, ma rivelatesi inadeguate dopo non molto tempo.
43
Anche se questo numero riguarda più direttamente il ruolo delle consuetudini locali, sembra opportuno rilevare, a
dispetto della visione corrente sulle “rigidità tridentine”, il vivo desiderio del Concilio di Trento che non solo le
consuetudini, ma anche le «cerimonie [locali] degne di essere approvate» venissero «senz’altro conservate». A
proposito dell’uso delle lingue vernacole nel rito del matrimonio il Concilio Vaticano II stabiliva: «La benedizione della
sposa, opportunamente ritoccata così da inculcare ad entrambi gli sposi lo stesso dovere della fedeltà vicendevole, può
essere detta nella lingua vernacola» (SC, n. 78).
44
È utile riportare l’intero numero – già presente nella seconda edizione dell’IGMR del 1975 – con una spiegazione
sintetica di quest’evoluzione: «Convocato perché la Chiesa adattasse ai nostri tempi i compiti della sua missione
apostolica, il Concilio Vaticano II ha, come quello di Trento, esaminato profondamente la natura didattica e pastorale
della Liturgia (SC, n. 33). E poiché non v’è ormai nessun cattolico che neghi la legittimità e l’efficacia del rito
compiuto in lingua latina, il Concilio ha ammesso senza difficoltà che “l’uso della lingua parlata può riuscire spesso di
grande utilità per il popolo” e l’ha quindi autorizzata (SC, n. 36). L’entusiasmo con cui questa decisione è stata
dovunque accolta, ha portato, sotto la guida dei Vescovi e della stessa Sede Apostolica, alla concessione che tutte le
celebrazioni liturgiche con partecipazione di popolo si possono fare in lingua viva, per rendere più facile la piena
intelligenza del mistero celebrato» (IGMR, n. 12).
12
TESTO PROVVISORIO
è arrivato al quasi completo abbandono del latino, privilegiando, almeno per quanto riguarda la
lingua, la dimensione particolare su quella universale45.
All’abbandono dell’uso del latino, si è aggiunta poi la questione della qualità o idoneità di alcune
traduzioni nelle lingue moderne e il mandato di rivedere le traduzioni dei libri liturgici, stabilito nel
2001 dalla Sede Apostolica (cfr. LA, nn. 131-133). Un argomento complesso e articolato, in cui non
sono mancate le polemiche46, e sul quale ritorneremo più avanti. Ma prima esaminiamo, seppure
brevemente e nelle sue linee generali, l’intreccio tra universale e particolare nelle disposizioni
canoniche sulla liturgia.
3. Universale e particolare nelle disposizioni canoniche in materia liturgica
Lo stesso sforzo di integrare il particolare nell’universale è presente nelle norme generali
riguardanti la liturgia del CIC, che ha recepito con poche variazioni le indicazioni conciliari circa la
revisione dei libri liturgici, le autorità competenti in materia e la lingua da usarsi nella liturgia latina
(cfr. SC. nn. 22 §§ 1-2, e 38-39). Concretamente si stabilisce:
«§ 1. Regolare la sacra liturgia dipende unicamente dall’autorità della Chiesa: ciò compete
propriamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto, al Vescovo diocesano.
§ 2. È di competenza della Sede Apostolica ordinare la sacra liturgia della Chiesa universale,
pubblicare i libri liturgici e autorizzarne le versioni nelle lingue correnti, nonché vigilare perché le norme
liturgiche siano osservate fedelmente ovunque.
§ 3. Spetta alle Conferenze Episcopali preparare le versioni dei libri liturgici nelle lingue correnti,
dopo averle adattate convenientemente entro i limiti definiti negli stessi libri liturgici, e pubblicarle,
previa autorizzazione della Santa Sede.
§ 4. Al Vescovo diocesano nella Chiesa a lui affidata spetta, entro i limiti della sua competenza, dare
norme in materia liturgica, alle quali tutti sono tenuti» (can. 838 CIC)47.
Da un lato, si precisa che la competenza per emanare norme in materia liturgica, accanto alla
Sede Apostolica ed entro i limiti stabiliti dal diritto, corrisponde non a qualunque Vescovo, ma
unicamente «al Vescovo diocesano nella Chiesa a lui affidata». Dall’altro, si stabilisce la
competenza esclusiva della Sede Apostolica per regolare la liturgia della Chiesa universale, per
pubblicare il libri liturgici in lingua latina e per autorizzare le versioni e la pubblicazione dei libri
45
Anche se il passaggio praticamente totale dal latino alle lingue moderne sia stato legittimamente stabilito dalle
Conferenze Episcopali, con la recognitio della Sede Apostolica, e sia sicuramente da condividere, per tanti motivi, non
sembra tuttavia logico che si escluda, in linea di principio o nella prassi, un uso misurato del latino, perlomeno nelle
parti invariabili della Messa, e, soprattutto, nelle celebrazioni con sacerdoti e fedeli di paesi diversi, come segno di unità
e di cattolicità. In questo senso, forse andrebbe aggiornato il testo appena riportato di IGMR, n. 12, il quale parla di
“concessione” dell’uso della lingua viva, mentre attualmente sarebbe l’uso del latino ad avere quasi bisogno di essere
concesso. Per quanto riguarda poi l’affermazione «non v’è ormai nessun cattolico che neghi la legittimità e l’efficacia
del rito compiuto in lingua latina», forse vera nel 1975, non appare molto aderente alla situazione attuale, in cui l’uso
del latino è considerato quasi fosse una caratteristica esclusiva del “rito antico” (vedi infra, nota 50), o, secondo alcuni,
uno strumento per l’autoreferenzialità.
46
Vedi supra, nota 36.
47
Come è noto, col nome di Sede Apostolica si intende «non solo il Romano Pontefice, ma anche, se non risulta
diversamente dalla natura della questione o dal contesto» i Dicasteri della Curia Romana (cfr. can. 361 CIC). Nella
regolamentazione della liturgia esercita le funzioni della Sede Apostolica la CCDDS, salva la competenza della CDF
nelle questioni che riguardano la fede e nei delitti più gravi commessi nella celebrazione dei sacramenti (cfr. GIOVANNI
PAOLO II, Costituzione Apostolica sulla Curia Romana Pastor bonus, 28 giugno 1988, art. 62, in AAS 80, 1988, 841912), e salva la competenza della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, strettamente collegata alla CDF, circa la forma
straordinaria del Rito romano (cfr. BENEDETTO XVI, Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio sull’uso straordinario
della forma antica del Rito Romano Summorum Pontificum [= SP], 7 luglio 2007, artt. 11-12, in AAS 99, 2007, 777781).
13
TESTO PROVVISORIO
liturgici nelle lingue correnti, dopo che sono stati preparati e opportunamente adattati «entro i limiti
definiti negli stessi libri liturgici» dalle Conferenze Episcopali48.
In un canone diverso viene poi recepita l’indicazione di SC, n. 22 § 3, ma solo riferita alla
celebrazione dei sacramenti:
«Nella celebrazione dei sacramenti, si seguano fedelmente i libri liturgici approvati dalla
competente autorità; perciò nessuno aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa» (can. 846 § 1
CIC)49.
Per quanto riguarda la lingua, l’unico riferimento del CIC all’uso della lingua latina o della
lingua vernacola, è quanto mai aperto e solo nei confronti della celebrazione eucaristica:
«La celebrazione eucaristica venga compiuta in lingua latina o in altra lingua, purché i testi liturgici
siano stati legittimamente approvati» (can. 928 CIC)50.
Per quanto concerne poi le materie concrete sulle quali il Vescovo diocesano, secondo le
indicazioni conciliari e il can. 838 CIC, può stabilire norme liturgiche particolari, ci limitiamo a
rimandare, come utile punto di riferimento, al capitolo dedicato al munus sanctificandi del Vescovo
diocesano del Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi 51 . e alla parte dell’Istruzione
Redemptionis Sacramentum dedicata al ruolo del Vescovo diocesano nella regolamentazione della
liturgia in generale52. In questi documenti si ricorda, tra l’altro, che il Vescovo diocesano «deve
regolare la disciplina sui sacramenti secondo le norme stabilite dalla competente autorità della
Chiesa» e che deve dedicarsi «in particolare a istruire i fedeli, perché comprendano il significato di
ogni sacramento e lo “vivano” in tutto il suo valore personale e comunitario» (AS, n. 150). In
effetti, in quanto «grande sacerdote del suo gregge», il Vescovo è il «moderatore della vita liturgica
diocesana» e il principale «responsabile del culto divino nella Chiesa particolare», al quale
compete, non solo «regolare», ma anche – e direi soprattutto – «promuovere e custodire tutta la vita
48
Per una visione d’insieme, cfr. T. RINCÓN-PÉREZ, La liturgia e i sacramenti nel diritto della Chiesa, Roma 2014, 7591; M. DEL POZZO, La giustizia nel culto. Profili giuridici della liturgia della Chiesa, cit., 431-447.
49
A proposito del valore normativo dei libri liturgici vanno comunque ricordati altri canoni riguardanti la celebrazione
dei singoli sacramenti – battesimo (cfr. can. 850 CIC), confermazione (cfr. can. 880 § 1 CIC), Eucaristia (cfr. can. 941 §
1 CIC), unzione degli infermi (cfr. can. 998 CIC), ordine sacro (cfr. can. 1009 § 2 CIC), matrimonio (cfr. can. 1119
CIC) – dei sacramentali (cfr. can. 1167 CIC), della liturgia delle ore (cfr. 276 § 2,3° CIC), ecc.
50
Attualmente, dopo la promulgazione del SP, si è arrivati, nella mentalità comune, ad una quasi totale identificazione
tra “Messa in latino” e Messa secondo il Missale Romanum del 1962, che forse sarebbe opportuno superare. Se la
Messa secondo il Missale Romanum del 2002 può essere certamente celebrata in latino, non ci dovrebbero essere
impedimenti, almeno teoricamente – se la Sede Apostolica e le Conferenze Episcopali lo volessero, in conformità a SC,
nn. 36 § 2 e 54 –, perché fossero preparate versioni del Missale Romanum del 1962, in cui fosse concessa una congrua
parte alla lingua vernacola.
51
Cfr. CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum Successores [=
AS], 22 febbraio 2004, Città del Vaticano 2004. In esso (cfr. n. 145) sono elencate le seguenti materie: la partecipazione
dei fedeli laici alla liturgia (cfr. can. 230 §§ 2-3 CIC); l’esposizione dell’Eucaristia da parte dei fedeli laici, quando il
numero dei ministri sacri risulti insufficiente (cfr. can. 943 CIC); le processioni (cfr. can. 944 § 2 CIC); le celebrazioni
domenicali della liturgia della Parola, quando manca il ministro sacro o vi sia un grave impedimento a partecipare alla
celebrazione eucaristica (cfr. can. 1248 § 2 CIC); la possibilità per i sacerdoti di celebrare due messe al giorno per
giusta causa o, se lo richiede la necessità pastorale, tre messe nelle domeniche e nelle feste di precetto (cfr. can. 905 § 2
CIC); rispetto alle indulgenze, il Vescovo ha il diritto di concedere indulgenze parziali ai suoi fedeli (cfr. can. 995 CIC).
Per l’analisi della portata di ognuna di queste competenze si rimanda ai commenti ai rispettivi canoni: cfr., ad esempio,
AA.VV., Comentario exegético al Código de Derecho Canónico, a cura di A. Marzoa, J. Miras e R. Rodríguez-Ocaña,
Pamplona 20023; in inglese AA.VV., Exegetical Commentary on the Code of Canon Law, Montreal-Chicago 2004. Cfr.
anche F. COCCOPALMERIO, L’autorità del Vescovo diocesano in materia liturgica, in Rivista Liturgica 98, 2011, 848854.
52
Cfr. CCDDS, Istruzione su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima Eucaristia
Redemptionis Sacramentum [= RS], 25 marzo 2004, nn. 19-25, in AAS 96, 2004, 549-601.
14
TESTO PROVVISORIO
liturgica della diocesi» (AS, n. 145)53. A questo proposito, viene sottolineato il compito di vigilanza
proprio del Vescovo:
«Dovrà perciò vigilare perché le norme stabilite dalla legittima autorità siano attentamente
osservate e in particolare ciascuno, tanto i ministri come i fedeli, svolga l’incarico che gli spetta e non
altro, senza mai introdurre cambiamenti nei riti sacramentali o nelle celebrazioni liturgiche secondo
preferenze o sensibilità personali (cfr. SC, n. 28; CIC, can. 838; CCE, n. 1125)» (AS, n. 145)54.
Una vigilanza che riguarda, come si vede, la normativa liturgica universale e particolare e che
va intesa, ovviamente, non in un senso meramente negativo, di evitare eventuali irregolarità, ma
anzitutto, in un senso positivo, di promozione del culto e di una migliore partecipazione dei fedeli
(cfr. AS, n. 146)55. A proposito poi del ruolo delle commissioni liturgiche, nazionali e diocesane,
nella formazione liturgica dei pastori e dei fedeli56, sono significative alcune indicazioni in cui si
percepisce la preoccupazione della Sede Apostolica perché il Vescovo diocesano si faccia aiutare
dagli esperti 57 , senza rinunciare però alla propria responsabilità e all’esercizio della propria
autorità58.
In effetti, non solo quando emana norme, ma anche quando esercita le funzioni d’istruzione, di
promozione e di vigilanza in ambito liturgico, il Vescovo manifesta la sua condizione di Pastore
della Chiesa diocesana e, quale membro del Collegio Episcopale, anche della Chiesa universale
(cfr. cann. 336, 375, 392 CIC). «Cum Petro et sub Petro», il Vescovo è partecipe della «sollecitudo
omnium ecclesiarum» e responsabile, della vita liturgica sia della Chiesa particolare sia della Chiesa
universale 59 . Con un occhio di riguardo a questa duplice responsabilità vanno, quindi,
concretamente esercitati i vari compiti di vigilanza in materia di sacramenti e sacramentali,
53
Cfr. anche RS, n. 19. Come ha dichiarato l’ultimo Concilio, i Vescovi «sono i principali dispensatori dei misteri di
Dio e nello stesso tempo organizzatori, promotori e custodi della vita liturgica nella Chiesa loro affidata» (CD, n. 15).
54
Il corsivo è dell’originale.
55
In questo contesto è particolarmente interessante per il nostro argomento la raccomandazione di RS: «Il Vescovo
vigili sempre che non venga meno quella libertà, che è prevista dalle norme dei libri liturgici, di adattare, in modo
intelligente, la celebrazione sia all’edificio sacro sia al gruppo dei fedeli sia alle circostanze pastorali, cosicché l’intero
rito sacro sia effettivamente rispondente alla sensibilità delle persone» (n. 21).
56
A proposito della necessità di una adeguata formazione liturgica e spirituale che favorisca la partecipazione dei fedeli
e la loro comprensione dei misteri celebrati, anche dopo l’introduzione della lingua vernacola, e circa il ruolo che
dovrebbero giocare in questo campo le commissioni di liturgia – create sulla spinta di SC (cfr. nn. 44-45) per
promuovere la pastorale e l’apostolato liturgico – è utile richiamare le considerazioni dell’allora Prefetto della CDF:
«Temo che i Padri conciliari in realtà abbiano sottovalutato questa complessità della “comprensibilità”, presupponendo
ancora una comune coscienza cristiana che non c’è più. La liturgia stessa non può essere trasformata in lezione di
religione, e non la si può salvare con la banalizzazione. Ci vuole una formazione liturgica o piuttosto, in generale, una
formazione spirituale, e il grande compito delle Commissioni liturgiche e delle Conferenze episcopali dovrebbe essere
proprio quello di trovare le strade e le forme per essa. Gran parte dei cristiani di oggi si trova de facto nello stato
catecumenale, e noi dobbiamo prendere finalmente questo dato sul serio nella prassi» (J. RATZINGER, I 40 anni della
Costituzione sulla Sacra Liturgia. Retrospettiva e prospettiva, in IDEM, Opera omnia, vol. XI, Teologia della liturgia.
La fondazione sacramentale dell'esistenza cristiana, Città del Vaticano 2010, 769-787 [783]).
57
«Il Vescovo saprà valersi dell’aiuto di uffici o commissioni diocesane di liturgia, di musica sacra, di arte sacra, ecc.,
che offrano un prezioso sostegno per promuovere il culto divino, curare la formazione liturgica dei fedeli e fomentare
nei pastori di anime un interesse prioritario per tutto ciò che riguarda la celebrazione dei divini misteri (cfr. SC, nn. 4546)» (AS, n. 145). Il corsivo è dell’originale.
58
Su questo punto è interessante il richiamo della Sede Apostolica affinché queste commissioni agiscano «secondo il
pensiero e le direttive del Vescovo» (RS, n. 25) e, dunque, non viceversa. Esse, infatti, «dovranno poter contare sulla
sua autorità e sulla sua ratifica per svolgere convenientemente il proprio compito e perché sia mantenuto l’effettivo
governo del Vescovo nella sua diocesi. Riguardo a tutti questi gruppi, agli altri istituti e a qualsiasi iniziativa in materia
liturgica, i Vescovi si chiedano, come già da tempo risulta urgente, se sia stata finora fruttuosa la loro attività e valutino
attentamente quali correttivi o miglioramenti vadano inseriti nella loro struttura e nella loro attività, affinché trovino
nuovo vigore. Si tenga sempre presente che gli esperti vanno scelti tra coloro, la cui solidità nella fede cattolica e la cui
preparazione in materia teologica e culturale siano riconosciute» (RS, n. 25). Vedi supra, note 36 e 56.
59
Cfr. i vari studi del volume AA.VV., Primato e collegialità. «Partecipi della sollecitudine per tutte le Chiese», a cura
di R. La Delfa, Roma 2008.
15
TESTO PROVVISORIO
specificati in modo dettagliato in AS (cfr. n. 150), con espliciti e significativi riferimenti sia alla
normativa universale sia a quella particolare. Sono tutti compiti che il Vescovo diocesano deve
esercitare con responsabilità personale e in comunione sia con la Sede Apostolica sia con gli altri
membri del Collegio Episcopale, in modo speciale, con gli altri membri della propria Conferenza
Episcopale.
Anche su questo punto è utile rilevare quanto si afferma a proposito degli adattamenti in campo
liturgico affidati alle Conferenze Episcopali:
«Ai Vescovi riuniti in Conferenza Episcopale compete adattare i libri liturgici all’indole e alle
tradizioni del popolo e alle particolari necessità del ministero pastorale, entro i margini stabiliti dai
rituali stessi (cfr. can. 838 § 3 CIC).
In questo necessario quanto delicato compito, il Vescovo terrà presente che la inculturazione
comporta la trasformazione degli autentici valori delle diverse culture mediante l’integrazione nel
cristianesimo, e, pertanto, la purificazione di quegli elementi culturali che risultino incompatibili con
la fede cattolica, in modo che la diversità non danneggi l’unità in una stessa fede e nei medesimi segni
sacramentali (cfr. SC, nn. 37-40; Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio, nn. 52-54.)» (AS, n. 148).
È significativa la presenza in entrambi i paragrafi di indicazioni indirizzate a tutelare sia la
varietà sia l’unità: si devono «adattare i libri liturgici all’indole e alle tradizioni» dei popoli, ma
«entro i margini stabiliti dai rituali stessi»; è opportuna l’inculturazione, ma si deve fare in modo
che «la diversità non danneggi l’unità in una stessa fede e nei medesimi segni sacramentali». In
ogni caso, per avere un quadro completo delle competenze delle Conferenze Episcopali sarebbe
necessario esaminare le indicazioni contenute nei praenotanda delle edizioni tipiche dei singoli libri
liturgici, e poi verificare, nazione per nazione, come tali possibilità siano state effettivamente
esercitate e formalizzate nelle edizioni tipiche dei libri liturgici nelle varie lingue e nelle varie
nazioni60, ma questo compito esula, senz’altro, dai limiti di questo contributo.
Passiamo, quindi, all’ultimo punto in cui, nell’impossibilità di esaminarli tutti, o soltanto una
parte, prenderemo come punto di riferimento il principale libro liturgico della Chiesa, vale a dire il
Missale Romanum61.
4. Le edizioni tipiche dei libri liturgici, in latino e in lingua vernacola, tra universale e particolare;
il Missale Romanum e la sua Institutio generalis.
Prima di esaminare come si manifesta la polarità universale-particolare nell’ultima edizione del
Missale Romanum, conviene comunque evitare il possibile equivoco di considerare le edizioni
tipiche in latino dei libri liturgici come se queste fossero espressione della dimensione universale e
ritenere, invece, le edizioni tipiche nelle lingue vernacole come espressioni della dimensione
particolare. Invero, anche se nelle prime può apparire come prevalente l’universale e nelle seconde
il particolare, si deve però affermare che tutti i libri liturgici, siano in latino siano in lingua
vernacola, per il fatto di essere libri liturgici della Chiesa, sono espressioni della cattolicità della
Chiesa, e si muovono tutti tra l’universale e il particolare. Anche le traduzioni, seppure siano state
preparate dalle singole Conferenze Episcopali o da gruppi di esse, non appartengono in esclusiva
alle singole Chiese particolari, ma a tutta la Chiesa, e devono perciò riflettere non solo le
particolarità dei diversi popoli, ma anche l’universalità dell’unico popolo di Dio.
D’altronde, seguendo delle precise indicazioni conciliari, tutte le edizioni tipiche dei libri
liturgici in latino hanno nelle rispettive introduzioni o praenotanda le indicazioni relative agli
adattamenti che competono ai Vescovi e alle Conferenze Episcopali (cfr. SC, n. 39); e tutte le
60
Per una visione di insieme, cfr. C. MAGGIONI, Gli adattamenti previsti nei libri liturgici: significato, valori e
problematiche, cit., 857-860.
61
Va comunque ricordato il Lectionarium, che dopo l’ultima riforma è da considerare sempre accanto al Missale
Romanum (cfr. M. SODI, Storia della messa in Italia, cit.).
16
TESTO PROVVISORIO
edizioni tipiche in lingua vernacola devono riprendere integralmente gli stessi praenotanda (cfr.
SC, n. 63, b) e sono, di fatto, nella quasi totalità dei contenuti, tranne la piccola parte in cui sono
stati apportati degli adattamenti, una traduzione dall’originale latino. In tal senso, si potrebbe ben
dire che sono, in realtà, «lo stesso libro liturgico» seppure pubblicato in lingue diverse.
D’altra parte, questa qualità di essere espressione della cattolicità della Chiesa, che può essere
predicata di ogni libro liturgico di qualunque Rito cattolico, vale ancora di più per i libri liturgici del
Rito romano e, in modo speciale, per il Messale Romano, che ha come uno dei suoi pregi e come
una delle sue caratteristiche più significative la flessibilità e la varietà nell’unità o, se si preferisce,
la capacità d’integrare il particolare nell’universale62. A proposito dell’intreccio tra universale e
particolare nei libri liturgici, sono di grande interesse alcune affermazioni, già presenti in VL, ma
significativamente inserite negli ultimi tre numeri dell’IGMR della editio typica tertia del Missale
Romanum del 2002 (cfr. nn. 397-399), come una sorta di colophon, che conferma e, in qualche
modo, aumenta la loro autorevolezza63. Sono dichiarazioni che valgono per l’inculturazione, ma che
hanno, senz’altro, una rilevanza più generale e possono essere assunte come principi ispiratori per
un retto rapporto tra particolare e universale nella normativa liturgica, in modo speciale di quella
latina. Nel primo di questi tre numeri si afferma:
«Si osservi anche il principio per cui ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa
universale, non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni sacramentali, ma anche quanto agli usi
universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica, che devono essere osservati non solo
per evitare errori, ma anche per trasmettere l’integrità della fede, perché la legge della preghiera della
Chiesa corrisponde alla sua legge di fede (cfr. VL, nn. 26-27)» (IGMR, n. 397 § 1)64.
62
Così si è sviluppato nel passato il Rito romano antico, e così potrebbe anche svilupparsi nel presente il Rito romano
rinnovato. Come affermato da san Giovanni Paolo II, «il Rito romano, dopo la riforma voluta dal Concilio, ha nelle sue
espressioni liturgiche una vitalità in grado di prendere in considerazione la sensibilità e l’espressività delle varie culture,
anche di quelle più lontane dall’area in cui originariamente è nato e si è sviluppato» (Discorso ai Presuli della Regione
Nordest III della Conferenza Episcopale del Brasile in visita ad Limina Apostolorum, cit., n. 7).
63
Circa il valore normativo dell’IGMR, anche sotto il profilo propriamente giuridico, è stato giustamente rilevato che
«sebbene venga chiamata Institutio e non Instructio, il documento possiede una particolare valenza legislativa. Dopo
l’entrata in vigore del Messale, le norme precettive dell’Institutio Generalis hanno la forza del diritto universale della
Chiesa latina, alle quali solo il Sommo Pontefice – che l’ha approvata con la sua autorità – può derogare. (…) L’aspetto
normativo dell’Institutio, pertanto, non va ignorato né sottovalutato, ma riconosciuto e considerato nel suo specifico
valore, poiché nel suo insieme essa conferisce un solido ordinamento alla liturgia, quale esercizio del sacerdozio di
Cristo nella Chiesa. Le norme, quindi, con le quali è regolata la celebrazione eucaristica sono presentate in maniera
organica e inserite in un contesto teologico, rituale e pastorale che non diminuisce affatto la forza giuridico-legislativa.
(…) L’aspetto giuridico dell’IGMR, come il resto degli altri libri liturgici, ha una sua importanza molto più profonda
rispetto alla semplice osservanza, magari asettica, di una norma, in quanto è a servizio della santificazione degli uomini
e del culto a Dio, quale garanzia del loro pieno raggiungimento. La dimensione giuridica, mentre tutela l’integrità del
contenuto dottrinale, garantisce l’autenticità della celebrazione liturgica, premunisce contro il pericolo del giuridismo
sterile, facilita una chiara sintesi dei principi teologici e giuridici e agevola il superamento di contrastanti tensioni nella
vita ecclesiale» (M. BARBA, «Institutio Generalis Missalis Romani». Prospetto delle redazioni 1969-1975, in
Ephemerides Liturgicae 122, 2008, 257-273 [257-258]). Cfr. IDEM, «Institutio Generalis Missalis Romani». Prospetto
delle redazioni 1975-2002, in Ephemerides Liturgicae 123, 2009, 3-50.
64
È comunque opportuno citare il testo originale di VL da cui proviene quest’affermazione: «La Chiesa di Cristo è resa
presente e significata, in un dato luogo e tempo, dalle Chiese locali o particolari, che nella celebrazione liturgica ne
manifestano la vera natura (cfr. LG, nn. 28 e 26). Per questo ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa
universale non soltanto sulla dottrina della fede e sui segni sacramentali, ma anche sugli usi universalmente ricevuti
dall’ininterrotta tradizione apostolica (cfr. S. Ireneo, Adversus haereses, III, 2; S. Agostino, Epistula ad Ianuarium, 54:
“Sappiamo che le tradizioni non attestate dalla Scrittura ma che noi custodiamo e che sono osservate in tutto il mondo,
sono da ritenere come affidate e stabilite dagli stessi Apostoli o dai concili plenari, la cui autorità è molto salutare per la
Chiesa…”; Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, nn. 53-54; CN, nn. 7-10). È il caso della preghiera quotidiana (cfr.
SC, 83), della santificazione della domenica, del ritmo settimanale, della Pasqua e della presentazione dell’intero
mistero di Cristo lungo l’anno liturgico (cfr. SC, 102, 106 e Appendice), della pratica della penitenza e del digiuno (cfr.
Paolo VI, Paenitemini), dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, della celebrazione del memoriale del Signore e del
rapporto tra liturgia della parola e liturgia eucaristica, della remissione dei peccati, del ministero ordinato, del
matrimonio, dell’unzione di malati» (VL, n. 26). Significativa è, infatti, l’affermazione iniziale sulla Chiesa di Cristo,
che è resa presente «dalle Chiese locali o particolari, che nella celebrazione liturgica ne manifestano la vera natura».
17
TESTO PROVVISORIO
Una dichiarazione in cui viene evocato l’antico adagio «lex orandi, lex credendi» e si rileva che
nella liturgia bisogna non solo evitare errori, ma deve essere trasmessa l’integrità della fede;
un’esigenza che giustifica la necessaria concordia di ogni Chiesa particolare con la Chiesa
universale, nella fede, nei sacramenti e negli usi trasmessi dalla Tradizione apostolica, ma che non
impedisce affatto le legittime varietà in tutto il resto. Di fatto, nello stesso numero, dopo aver
ricordato l’importanza del Rito romano nel patrimonio liturgico di tutta la Chiesa Cattolica65, si
mette nel dovuto risalto una peculiarità specifica del suo sviluppo storico e del suo presente:
«Questo Rito nel corso dei secoli non solo ha conservato gli usi liturgici che hanno avuto origine
nella città di Roma, ma in modo profondo, organico e armonico ha integrato in sé alcuni altri usi che
derivavano dalle consuetudini e dalla cultura dei diversi popoli e delle diverse Chiese particolari
dell’Occidente e dell’Oriente, acquisendo in tal modo un carattere che supera i limiti di una sola
regione. Nel nostro tempo l’identità e l’espressione unitaria di questo Rito si trova nelle edizioni
tipiche dei libri liturgici, promulgati dall’autorità del Sommo Pontefice e nei libri liturgici ad essi
corrispondenti, confermati dalle Conferenze Episcopali per i loro territori e riconosciuti dalla Sede
Apostolica (cfr. Giovanni Paolo II, Vicesimus quintus annus, n. 16; VL, nn. 2, 36)» (IGMR, n. 397 §
3)66.
Viene dunque autorevolmente dichiarato che, nonostante le differenze che si possano dare tra le
versioni nelle varie lingue vernacole di un libro liturgico, e tra queste e la sua edizione tipica latina,
in tutte troviamo «l’identità e l’espressione unitaria» del Rito romano. Anche se ci sono molteplici
versioni nelle varie lingue, non esistono molteplici «Messali Romani», uno in latino e universale e
molti in lingue moderne e particolari, ma un unico Messale Romano, che in tutte le sue edizioni,
non solo quelle attuali – il Missale Romanum del 2002 in latino, e le varie edizioni attualmente in
uso nelle lingue vernacole, alcune già riviste secondo quest’editio typica tertia, molte ancora basate
sull’editio typica altera del 1975, – ma anche quelle passate, è, come si diceva, espressione della
cattolicità della Chiesa fra universale e particolare e, dunque, patrimonio di tutti i cattolici67.
Anche di rilievo è il rimando a CN. Si deve aggiungere, infine, che la sostanza di questa dichiarazione è stata ripresa in
LA, n. 80 (vedi infra, pagina 20).
65
«Il Rito romano costituisce una parte notevole e preziosa del tesoro e del patrimonio liturgico della Chiesa Cattolica;
le sue ricchezze giovano al bene di tutta la Chiesa, tanto che la loro perdita le nuocerebbe gravemente» (IGMR, n. 397 §
2).
66
Di rilievo per il nostro tema è l’ultima affermazione, che riprende quanto era stato detto, nel 1990, in un’editoriale di
Notitiae, in occasione del ventennio della promulgazione del Missale Romanum riformato dopo il Concilio Vaticano II:
«Il Messale Romano attualmente in vigore continua ad essere, come voleva Paolo VI, uno dei segni dell’unità del rito
romano. Essa non viene intaccata dalle edizioni tipiche nelle diverse lingue, in quanto queste derivano tutte da quella
tipica latina, e come tali sono confermate dalla Sede Apostolica. Gli elementi infatti che costituiscono l’unità
sostanziale del Messale Romano si trovano invariabilmente in esse: la Institutio Generalis con il Calendario generale, lo
stesso Ordo lectionum Missae, lo stesso Ordo Missae con le quattro Preghiere eucaristiche, insieme con l’eucologia
minore. Le particolarità esistenti per concessione della Sede Apostolica nelle edizioni tipiche del Messale Romano delle
diverse Conferenze Episcopali, non alterano questa unità sostanziale, né costituiscono una novità nella storia liturgica
del rito romano, ma piuttosto tendono ad arricchire la preghiera della Chiesa» (Notitiae 26, 1990, 517-520).
67
Anche se è comune e legittimo riferirsi alle varie edizioni del Missale con il nome del Papa che le ha promulgate (il
Messale di Pio V o l’edizione del Messale di Giovanni XXIII; il Messale di Paolo VI, o l’edizione del Messale di
Giovanni Paolo II) o anche con il Concilio che le ha ispirate (il Messale di Trento e il Messale del Vaticano II), mi
sembra preferibile parlare semplicemente del Missale Romanum, indicando, ma solo quando fosse necessario, soltanto
la data e, semmai, le caratteristiche dell’edizione (l’editio princeps del Missale Romanum del 1570, l’editio typica del
Missale Romanum del 1962, l’editio typica del Missale Romanum del 1970 e la sua reimpressio emendata del 1971,
l’editio typica altera del Missale Romanum del 1975, l’editio typica tertia del Missale Romanum del 2002 e la sua
reimpressio emendata del 2008), per così rimarcare la sostanziale identità del Missale, quale libro princeps della liturgia
romana (cfr. M. NOIROT, Livres liturgiques de l’Église Romaine, in AA.VV., Dictionnaire de Droit Canonique, VI, a
cura di R. Naz, Paris 1957, coll. 595-606). Anche se, nel discorso scientifico, molte volte occorrerà evidenziare le
differenze che intercorrono tra le varie edizioni – soprattutto tra quelle precedenti e quelle successive alla riforma
liturgica – penso che sia preferibile seguire questa denominazione, che ha peraltro il vantaggio di segnalare,
indipendentemente dal diverso grado di sviluppo (rituale, ecclesiologico, ecc.), la loro comune condizione di libri
18
TESTO PROVVISORIO
Sulla stessa linea si muovono le indicazioni contenute negli ultimi due numeri dell’IGMR, in cui
si ricorda la necessità di venire incontro alle peculiarità delle varie culture senza pregiudicare
«l’indole propria del Rito romano»68, i cui libri liturgici, e in modo speciale il Messale, «anche nella
diversità di lingue e in un certa varietà di consuetudini», rimangono strumento e segno di unità69.
Per quanto riguarda poi, le caratteristiche dell’editio typica tertia del Missale Romanum, del
2002, oggetto di una reimpressio emendata nel 200870, conviene ricordare il triplice scopo con cui è
stata concepita: a) in primo luogo, per dotare la Chiesa di un Messale latino aggiornato, completo e
decoroso che possa essere usato nella celebrazione in latino; b) in secondo luogo, perché serva
come punto di riferimento per l’adattamento e l’inculturazione della liturgia specificamente
eucaristica, in linea con le indicazioni della Sede Apostolica nei confronti di tutta la liturgia romana
contenute in VL del 1994; c) e, in terzo luogo, perché serva come base per la revisione delle
precedenti traduzioni del Messale nelle lingue moderne, in armonia con le indicazioni della Sede
Apostolica per tutti i libri della liturgia romana contenute in LA del 2001.
Si tratta, infatti, di una vera nuova edizione, in cui sono stati riveduti gli elementi eucologici e
rubricali, e si è avuta una nuova stesura di «quella parte non meno importante e fondamentale
costituita dall’IGMR, documento [normativo] che offre il significato delle singole sequenze rituali e
dei particolari elementi celebrativi che compongono il rito della Messa, fornendo allo stesso tempo
utili orientamenti per l’uso e per le modalità di realizzazione»71. Per quanto ben noto agli addetti ai
lavori, è necessario ricordare, da una parte, che la principale novità dell’ultima stesura dell’IGMR è
l’inserimento di un capitolo dedicato agli adattamenti che competono ai Vescovi diocesani e alle
Conferenze Episcopali72, e, dall’altra, che il Decreto di promulgazione dell’editio typica tertia ha
disposto che tutte le traduzioni del Missale Romanum nelle lingue moderne, fatte sulla base
dell’editio typica del 1970 o dell’editio typica altera del 1975, vengano riviste ed emendate con
liturgici della Chiesa, e dunque patrimonio di tutti, e non solo di alcuni. Come disse, nel 1977, il Cardinale Ratzinger:
«il cosiddetto Messale di Paolo VI non è altro che una redazione rinnovata dello stesso Messale sul quale hanno già
lavorato Pio X, Urbano VIII, Pio V e i loro predecessori, risalendo fino all’epoca della Chiesa nascente. La
consapevolezza dell’unita intima mai interrotta della storia della fede – unità che si esprime nella sempre presente unità
della preghiera derivante da tale storia – è essenziale per la Chiesa» (Liturgia mutabile o immutabile?, in J. RATZINGER,
Opera omnia, vol. XI, Teologia della liturgia, cit., 701-717 [709]).
68
«La ricerca dell’inculturazione infine non tende affatto alla creazione di nuove famiglie rituali, ma a provvedere alle
esigenze di una data cultura, in modo però che gli adattamenti introdotti sia nel Messale sia negli altri libri liturgici non
rechino pregiudizio all’indole propria del Rito romano (cfr. VL, n. 36)» (IGMR, n. 398 § 2).
69
«Perciò il Messale Romano, anche nella diversità delle lingue e in una certa varietà di consuetudini (cfr. VL, n. 54), si
deve conservare per il futuro come strumento e segno eccellente di integrità e di unità del Rito romano (cfr. SC, n. 38;
Paolo VI, Costituzione Apostolica Missale Romanum)» (IGMR, n. 399).
70
MISSALE ROMANUM, ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI
promulgatum, Ioannis Pauli PP. II cura recognitum, editio typica tertia, Città del Vaticano 2002, reimpressio
emendata, Città del Vaticano 2008. Circa le caratteristiche generali dell’edizione del 2002, cfr. M. LESSI-ARIOSTO,
L’editio typica tertia del Missale Romanum, in Rivista Liturgica 90, 2003, 501-512. Per le caratteristiche specifiche
della reimpressione emendata del 2008, cfr. M. BARBA, L’«editio typica tertia emendata» del «Missale Romanum», in
Rivista Liturgica 95, 2008, 1098-1119.
71
M. BARBA, La nuova Institutio generalis del Missale Romanum, in Rivista Liturgica 90, 2003, 513-532; dove si
descrive l’IGMR come «una normativa che, nonostante le variazioni e integrazioni avute nel tempo, ma pur sempre
animata dal valore teologico, liturgico, rituale, spirituale e pastorale, contribuisce a dare alla celebrazione del mistero
eucaristico quella efficacia che garantisce la consapevole, attiva e fruttuosa partecipazione del popolo di Dio» (ibidem,
513-514). Cfr. anche C. BRAGA, L’«editio typica tertia» della «Institutio generalis Missalis Romani», in Ephemerides
Liturgicae 114, 2000, 481-497.
72
Cfr. A. WARD, Features and Significance of the New Chapter of the «Institutio generalis Missalis Romani», in
Ephemerides Liturgicae 114, 2000, 498-510; M. AUGÉ, Il capitolo IX dell’Institutio generalis: tra adattamento e
inculturazione?, in Rivista Liturgica 90, 2003, 533-547. Interessante quanto Augé afferma a proposito dell’IGMR in
generale, citando Maggiani, e del suo capitolo IX: «l’Institutio è composta da un “codice teologico” e da un “codice
rubricale” con referenze teologiche a carattere pastorale riguardante direttamente il modo di celebrare. Il cap. IX, però,
di cui ci occupiamo, per lo più non riguarda direttamente il modo di celebrare, ma la normativa che precede il celebrare,
e cioè l’insieme delle norme relative all’adattamento / inculturazione della liturgia della messa. Abbiamo quindi un
testo che è composto certamente da un “codice teologico”, ma anche da un “codice normativo” più complesso di quello
strettamente rubricale» (ibidem, 533-534).
19
TESTO PROVVISORIO
cura, in modo che, nel rispetto delle caratteristiche proprie di ogni lingua, siano tuttavia più fedeli
all’originale latino, e i testi tradotti vengano presentati alla Santa Sede per la necessaria recognitio73.
Secondo la Sede Apostolica, lo scopo della revisione delle traduzioni sarebbe quello di
preservare le caratteristiche del Rito romano, che è ritenuto di per sé un valido esempio e strumento
di vera inculturazione, sia per la sua capacità di assumere testi, canti, gesti e riti che derivano dalle
consuetudini e idiosincrasia dei vari popoli e Chiese particolari, sia perché realizza allo stesso
tempo una adeguata e conveniente unità, che supera i confini di qualunque regione. Si tratta,
secondo la valutazione della Sede Apostolica, di una qualità che si manifesta non tanto o non solo
negli elementi rituali, ma specialmente nei testi eucologici che, per la loro capacità di superare i
limiti delle circostanze originali, rappresentano le orazioni dei cristiani di qualunque luogo ed epoca
(cfr. LA, n. 5). Tuttavia, sempre secondo la Sede Apostolica, dall’esame complessivo delle
traduzioni realizzate sulla base delle edizioni precedenti, anche se approvate con l’opportuna
recognitio, si è vista la necessità di un miglioramento, attraverso opportune correzioni o nuove
traduzioni, in quanto, a causa delle carenze, delle omissioni o, persino, degli errori di alcune
traduzioni, non si sarebbe riusciti a compiere il rinnovamento di cui la Chiesa avrebbe bisogno (cfr.
LA, n. 6)74. Per queste ragioni, la Sede Apostolica ha cercato di promuovere, attraverso il lavoro di
revisione delle traduzioni, una nuova fase del rinnovamento liturgico che nel rispetto
dell’idiosincrasia e delle tradizioni delle Chiese particolari, assicuri anche la fede e l’unità di tutta la
Chiesa (cfr. LA, n. 7).
Sotto il profilo prettamente giuridico del necessario rispetto delle rispettive competenze nella
normativa liturgica è opportuno riprendere per esteso l’indicazione della Sede Apostolica
riguardante l’intervento delle Conferenze Episcopali e la portata della recognitio nell’approvazione
delle nuove traduzioni:
«La prassi di domandare la recognitio della Sede Apostolica per tutte le traduzioni dei testi liturgici
(cfr SC, n. 36; Inter œcumenici, nn. 20-21; can. 838 CIC) offre la necessaria garanzia che la traduzione
è autentica e corrispondente ai testi originali ed esprime, nonché favorisce, il vero legame della
comunione tra il successore di san Pietro e suoi fratelli nell’episcopato. Inoltre questa recognitio non è
tanto una formalità quanto un atto della potestà di governo, assolutamente necessario (in caso di
omissione, infatti, gli atti delle Conferenze dei Vescovi non hanno forza di legge), che può comportare
delle modifiche, anche sostanziali (Communicationes 15, 1964, 882, 884). Così, non è permesso
pubblicare testi liturgici tradotti, o testi di nuova composizione per l’uso dei celebranti o, in genere,
del popolo, se manca la recognitio. Siccome è sempre necessario che la lex orandi concordi con la lex
credendi e manifesti e corrobori la fede del popolo cristiano, le traduzioni liturgiche non possono
essere degne di Dio se non rendono fedelmente nella lingua vernacola la ricchezza della dottrina
cattolica del testo originale, cosicché il linguaggio sacro sia adeguato al suo contenuto dogmatico (cfr.
Paolo VI, Allocutio ad Sodales et Peritos Consilii «ad exsequendam Constitutionem de S. Liturgia»,
13 ottobre 1966; Allocutio ad Sodales et Peritos Consilii «ad exsequendam Constitutionem de S.
Liturgia», 14 ottobre 1968). Inoltre, bisogna osservare il principio secondo cui ciascuna Chiesa
73
«Ex præsenti tertia typica editione Conferentiæ Episcoporum curabunt ut, intra congruum tempus, novæ versiones
vernaculæ Missalis Romani fideliter atque adamussim fiant, præcedentibus versionibus adhuc in usum accurate
emendatis ad fidem textus originalis Latini, a Sede Apostolica ad normam iuris recognoscendæ» (CCDDS, Decretum
de editione typica tertia Tertio ineunte millennio, 20 aprile 2000, in Notitiae 38, 2002, 452-453). A proposito della
disparità tra la data del Decreto di promulgazione e la data della pubblicazione effettiva della terza edizione del Missale
Romanum, cfr. M. LESSI-ARIOSTO, L’editio typica tertia del Missale Romanum, cit., 501.
74
Non bisogna comunque dimenticare che una tale valutazione dei limiti delle prime traduzioni non è sorta nel 2001,
ma era già stata espressa nel 1988 da san Giovanni Paolo II: «Le conferenze episcopali hanno avuto il grave incarico di
preparare le traduzioni dei libri liturgici (cfr. SC, nn. 36 e 63). Le necessità del momento hanno a volte portato ad
utilizzare traduzioni provvisorie, che sono state approvate ad interim. Ma ora è giunto il tempo di riflettere su certe
difficoltà emerse successivamente, di porre rimedio a certe carenze o inesattezze, di completare le traduzioni parziali, di
creare o di approvare i canti da utilizzare nella liturgia, di vigilare sul rispetto dei testi approvati, di pubblicare
finalmente i libri liturgici in uno stato da considerarsi stabilmente acquisito e in una veste che sia degna dei misteri
celebrati» (Lettera apostolica nel XXV Anniversario della Costituzione conciliare «Sacrosanctum Concilium» sulla
sacra Liturgia Vicesimus quintus annus, 4 dicembre 1988, n. 20, in AAS 81, 1989, 897-918). Cfr. A. WARD,
«Sacrosanctum Concilium» at the Fulcrum of Developing Experience on the Vernacular, cit., 88-89.
20
TESTO PROVVISORIO
particolare deve concordare con la Chiesa universale non solo in ciò che riguarda la dottrina della fede
e i segni sacramentali, ma anche ciò che riguarda gli usi universalmente ricevuti dall’ininterrotta
tradizione apostolica (cfr. IGMR, n. 397); in tal modo la recognitio de la Sede Apostolica ha per fine
di vegliare affinché le traduzioni stesse, così come i diversi adattamenti legittimamente introdotti, non
nuocciano all’unità del popolo di Dio, ma piuttosto la rafforzino in misura sempre maggiore (cfr. LG,
n. 13; Giovanni Paolo II, Apostolos suos, n. 22» (LA, n. 80)75.
Sono, infatti, significative per quanto riguarda il nostro argomento, le parole in cui si sottolinea
che la vigilanza della Sede Apostolica, esercitata attraverso lo strumento della recognitio, è rivolta
ad assicurare che le traduzioni siano corrispondenti alla dottrina cattolica e che le variazioni
legittimamente introdotte non arrechino danni all’unità del popolo di Dio, che sono beni
sicuramente più importanti dell’unità del Rito romano, che è pure necessario tutelare, ma solo quale
strumento per tutelare il bene superiore della comunione nella Chiesa. In questo senso, penso che si
possa ben affermare che la ragione della richiesta di una maggiore fedeltà delle traduzioni
all’originale latino, soprattutto degli elementi eucologici, non sia dovuta – come potrebbe sembrare
in una visone superficiale – ad una difesa ad oltranza dell’unità del Rito romano considerata in sé
stessa, né tanto meno ad una visione quasi mitica della lingua latina, come se venisse considerata
una lingua sacra76, ma, più semplicemente, come un mezzo per garantire una maggiore fedeltà delle
traduzioni alla fede della Chiesa nei misteri che vengono celebrati. Questa è stata peraltro la ragione
fondamentale, fin dal secolo VIII, dell’insistenza dei Romani Pontefici di seguire la regola romana:
preservare, anzitutto, le verità di fede che vengono celebrate nella liturgia e, soltanto dopo, l’unità
rituale o disciplinare.
È anche noto che buona parte di questo lavoro di revisione delle traduzioni è ancora in corso
d’opera. Per quanto riguarda la revisione delle traduzioni del Missale Romanum nelle lingue
moderne più diffuse, finora sono state pubblicate soltanto l’edizione in inglese (The Roman Missal,
approvato nel 2011, in uso in Australia, Canada, Inghilterra e Galles, India, Irlanda, Nuova Zelanda,
Filippine, Scozia, Stati Uniti, Sudafrica, e altri) e alcune edizioni in spagnolo (la versione argentina
del Misal Romano, approvata nel 2009, in uso in Argentina, Bolivia, Cile, Paraguay e Uruguay; e la
versione messicana, approvata nel 2013, in uso in Messico, Costa Rica, Honduras, Stati Uniti,
Venezuela e altri). Sono invece in fase di recognitio presso la CCDDS le edizioni in francese, in
tedesco, in italiano, in portoghese e in spagnolo (per la Spagna e per altri paesi di lingua
castigliana). Alcune voci dicono che l’approvazione della Sede Apostolica di queste traduzioni sia
questione di pochi mesi, ma tenuto conto dell’esperienza degli ultimi anni, forse è meglio non fare
previsioni77.
75
È utile riportare le indicazioni date da Paolo VI, nel 1965, direttamente ai traduttori: «Est demum animadvertendum
textus liturgicos, a competenti auctoritate approbatos et ab Apostolica Sede confirmatas, tales esse, ut religiose debeant
servari. Nemini ergo licet eos ad suum arbitrium mutare, minuere, amplificare, omittere. Quodsi Ecclesia in re
liturgica Matrem se praebet benignam ac liberalem, ut filii sui sacros ritus “actuose, conscie, pie” queant participare,
tamen ea, quae legitime sunt constituta, iam vim habent legum ecclesiasticarum, quibus e conscientiae officio omnes
obsequi debent; idque vel magis, cum de legibus agatur, quibus actio omnium sanctissima regitur» (Allocutio in aula
Clementina habita iis qui operam dant liturgicis textibus in vulgares sermones convertendis, cum Romae Conventum
agerent, 10 novembre 1965, in AAS 57,1965, 967-970).
76
In questo senso, mi sembra che l’espressione “linguaggio sacro” («sermo sacer»), adoperata in LA, n. 80, non si
riferisca alla lingua latina né a nessuna lingua in particolare, bensì ad ogni linguaggio in cui si cerca di esprimere le
realtà sacre.
77
In ogni caso, se si tiene conto di questo fatto, penso che si possa affermare che la riforma liturgica, per quanto
riguarda la normativa propriamente liturgica, è ormai praticamente compiuta solo nella lingua latina, ma ancora
incompiuta nelle lingue vernacole. Solo quando saranno pubblicate le nuove edizioni tipiche dei libri liturgici, con le
nuove traduzioni, nelle più importanti lingue moderne, sarà possibile affermare che la riforma liturgica, avviata dal
Concilio Vaticano II, è felicemente conclusa. E questo solo dal punto di vista normativo. Poi sarà necessario fare tutto il
possibile, mediante un’adeguata formazione liturgica e spirituale dei ministri e del resto dei fedeli, perché la liturgia
rinnovata raggiunga il suo obiettivo principale, cioè favorisca il loro coinvolgimento e la loro partecipazione attiva, in
modo che la liturgia regolata nelle norme e nei libri liturgici venga rettamente celebrata e alimenti abbondantemente la
vita dell’intero popolo di Dio. Cfr. C. MAGGIONI, Valore e significato del libro liturgico, cit., 404-406 e 410-414.
21
TESTO PROVVISORIO
Ma accenniamo, prima di concludere, alle indicazioni normative contenute nell’IGMR in cui si
manifesta la polarità universale-particolare, a cominciare dalla peculiarità del titolo del capitolo IX.
Come è stato notato, infatti, «se confrontiamo il titolo del nostro capitolo con quello dei luoghi
paralleli degli altri libri liturgici, vediamo che in questi ultimi vengono nominati come soggetti
responsabili dell’adattamento solo le Conferenze Episcopali, o, nell’ordine: prima queste e poi i
Vescovi. Nel titolo del nostro capitolo invece vengono nominati prima i Vescovi diocesani e in
seguito le loro Conferenze, e così si procede anche in seguito nell’esposizione tematica»78.
Il capitolo IX si apre con una dichiarazione sul fondamento della legittimità e necessità degli
adattamenti (cfr. IGMR, n. 386), che, come è stato opportunamente rilevato, può essere «ricondotto
al diritto-dovere dei fedeli, in forza della condizione di battezzati, di essere in tutto favoriti
nell’esercitare “quella piena, cosciente e attiva partecipazione, che è richiesta dalla natura stessa
della liturgia” (SC, 14)»79. Segue poi, in un unico numero, una sintesi dei compiti del Vescovo
diocesano, con i riferimenti ai numeri dell’IGMR in cui tali compiti sono considerati in modo
specifico:
«Il Vescovo diocesano, che è da considerare come il grande sacerdote del suo gregge, dal quale in
qualche misura deriva e dipende la vita dei suoi fedeli in Cristo (cfr. SC, n. 41), deve promuovere,
guidare e vigilare sulla vita liturgica nella sua diocesi. A lui, in questo Ordinamento generale è affidato
il compito di regolare la disciplina della concelebrazione (cfr. nn. 202, 374), stabilire le norme circa il
compito di servire il sacerdote all’altare (cfr. n. 107), circa la distribuzione della sacra Comunione
sotto le due specie (cfr. n. 283), circa la costruzione e la ristrutturazione delle chiese (cfr. n. 291). Ma a
lui spetta prima di tutto coltivare nei presbiteri, nei diaconi e nei fedeli lo spirito della sacra Liturgia»
(IGMR, n. 387).
Tra le materie indicate, la più significativa è, senz’altro, la distribuzione della sacra Comunione
sotto le due specie, che è sicuramente una delle principali novità della nuova edizione del Missale
Romanum. Anche di rilievo è l’indicazione finale, in cui si ricorda che il primo compito del
Vescovo diocesano è coltivare nei ministri e nei fedeli «lo spirito della sacra Liturgia».
Seguono poi ben sei numeri dedicati alle competenze delle Conferenza Episcopali, da esercitare
in collaborazione sinergica con la Sede Apostolica, il cui necessario intervento di conferma viene
segnalato espressamente a più riprese, a cominciare dalla preparazione dell’edizione «di questo
Messale» nelle lingue moderne approvate:
«Alle Conferenze Episcopali spetta anzitutto preparare e approvare l’edizione di questo Messale
Romano nelle lingue moderne approvate, affinché, dopo la conferma della Sede Apostolica, si usi poi
nelle rispettive regioni (cfr. can. 838 § 3 CIC).
Il Messale Romano, sia nel testo latino che nelle traduzioni nazionali legittimamente approvate, si
deve pubblicare integralmente» (IGMR, n. 389).
È anche significativa l’indicazione della pubblicazione “integrale” del Messale Romano, onde
evitare omissioni che potrebbero eventualmente oscurare qualche aspetto della fede della Chiesa o,
pregiudicare l’unità del Rito romano.
Successivamente vengono elencate le materie in cui le Conferenze Episcopali possono stabilire
adattamenti, ma solo dopo la conferma della Sede Apostolica, con i riferimenti ai numeri
dell’IGMR dove tali materie sono considerate in modo specifico:
78
M. AUGÉ, Il capitolo IX dell’Institutio generalis: tra adattamento e inculturazione?, cit., 534. L’Autore vede
giustamente in questo cambiamento una precisa e significativa scelta ecclesiologica.
79
Ordinamento generale del Messale Romano. Commento e testo, a cura di R. Falsini e A. Lameri, Padova 2006, 98,
che nel loro commento aggiungono: «Gli adattamenti proposti in questo capitolo e quelli affidati al giudizio del
Vescovo o delle Conferenze Episcopali nazionali sono, quindi, non tanto una concessione della Sede Apostolica, quanto
piuttosto un modo per rispondere “più pienamente alle norme e allo spirito della sacra Liturgia”».
22
TESTO PROVVISORIO
«È proprio delle Conferenze Episcopali, dopo la conferma della Sede Apostolica, definire e
introdurre nel Messale gli adattamenti che sono indicati in questo Ordinamento generale nel rito della
Messa, come:
- i gesti dei fedeli e gli atteggiamenti del corpo (cfr. n. 43);
- i gesti di venerazione verso l’altare e l’Evangeliario (cfr. n.273);
- i testi dei canti all’ingresso, all’offertorio e alla Comunione (cfr. nn. 48, 74, 87);
- le letture della sacra Scrittura da usare in particolari circostanze (cfr. n. 362);
- la modalità dello scambio di pace (cfr. n. 82);
- il modo di ricevere la sacra Comunione (cfr. nn. 160, 283);
- la materia dell’altare e della sacra suppellettile, specialmente dei vasi sacri, e anche la materia, la
forma e il colore delle vesti liturgiche (cfr. nn. 301, 326, 329, 339, 342-346)» (IGMR, n. 390).
Va anche rilevata la necessità del riconoscimento della Sede Apostolica anche perché altri
eventuali documenti (direttori o istruzioni pastorali), ritenuti utili dalle Conferenze Episcopali,
possano essere introdotti nel Messale Romano in un luogo opportuno (cfr. IGMR, n. 390).
Seguono poi varie indicazioni date alle Conferenze Episcopali circa: a) la cura particolare che
devono adoperare nella «traduzione dei testi biblici che si usano nella celebrazione della Messa»
(cfr. IGMR, n. 391); b) la grande diligenza con cui devono preparare la «traduzione degli altri testi,
cosicché, nel rispetto anche del carattere proprio di ciascuna lingua, venga reso pienamente e
fedelmente il senso del testo originale latino» (cfr. IGMR, n. 392)80; c) la loro competenza per
l’approvazione delle melodie adatte per il canto durante la celebrazione della Messa e sul loro
giudizio circa le forme musicali, le melodie e gli strumenti musicali da ammettere nel culto divino
«perché siano veramente adatti all’uso sacro o possano adattarvisi» (IGMR, n. 393); e d) la
preparazione di un Calendario proprio della nazione «o, con le altre Conferenze, un Calendario per
una più vasta regione, da approvarsi dalla Sede Apostolica» (IGMR, n. 394)81.
In definitiva, sono tutte disposizioni in cui la richiesta dell’intervento congiunto della Sede
Apostolica, dei Vescovi diocesani e delle Conferenze Episcopali manifesta in modo non teorico e
astratto, bensì pratico e concreto, l’intreccio e la polarità tensionale e sinergica tra universale e
particolare nella normativa liturgica per il bene dei fedeli e dell’intero popolo di Dio. Rimandiamo
dunque ad ulteriori studi l’esame dettagliato di come siano state messe in pratica nelle varie nazioni
le possibilità offerte dal rinnovamento liturgico promosso dal Concilio Vaticano II.
80
«Nel compiere questo lavoro, conviene prestare attenzione ai diversi generi di espressioni che si usano nella Messa,
quali le orazioni presidenziali, le antifone, le acclamazioni, i responsori, le invocazioni litaniche, ecc. Si tenga presente
che la traduzione dei testi non ha come primo scopo la meditazione, ma piuttosto la proclamazione o il canto nell’atto
della celebrazione. Si usi un linguaggio adatto ai fedeli della regione; tuttavia sia dignitoso e dotato di qualità letteraria,
ferma restando la necessità di una catechesi sul senso biblico e cristiano di alcune parole ed espressioni. È opportuno
che, nelle regioni che hanno la stessa lingua, per quanto possibile, si abbia la stessa traduzione dei testi liturgici,
soprattutto dei testi biblici e del rito della Messa (cfr. SC, 36 § 3)» (IGMR, n. 392).
81
E viene precisato: «Nel fare questo lavoro, si deve rispettare e difendere la domenica, come festa primordiale, quindi
ad essa non siano anteposte altre celebrazioni, se non sono davvero di grandissima importanza (cfr. SC, n. 106). Inoltre
si presti attenzione che l’anno liturgico, rinnovato per volere del Concilio Vaticano II, non sia oscurato da elementi
secondari» (IGMR n. 394).
23