testo integrale

Transcript

testo integrale
ANIMALE
Ancora un anno da impiegato
• CAP I
L’amico fantasma, pag. 1
• CAP II
Bakunin alla finestra, pag. 8
• CAP III
Primavera con Mary, pag. 37
• CAP IV
Sguardi tra le foglie, pag. 57
• CAP V
Dell’animale incerto, pag. 72
• CAP VI
Incontro col passato 1, pag. 88
• CAP VII
Incontro col passato 2, pag. 101
• CAP VIII
“Blowing in the wind”, pag. 120
CAPITOLO I
L’AMICO FANTASMA
Nella camera da letto il buio non è totale. Una luce giallognola filtra dalle persiane
semichiuse, si smorza leggermente attraverso le tende della finestra e si adagia sulla
mobilia, delineandone i contorni e le superfici. Il mio sguardo insonne, ormai abituato a
percepire anche i dettagli in quell’ombra imperfetta, recepisce informazioni visive che,
senza scampo, si tramutano in messaggi inquietanti. L’atmosfera, come al solito, è
opprimente, angosciante, terrificante. E, come al solito, costringo i miei occhi a fissarsi
sulla fonte di quella luce : il lampione della strada antistante l’edificio della mia abitazione,
che si intravede nella fessura tra le persiane semichiuse. Al di là di quelle persiane la luce è
vita. E’ di un intenso e vivido colore giallo, che conferisce una corposa dignità alle mura
antiche dei palazzi del quartiere. Si tratta, infatti, di palazzi siti nel cosiddetto “centro
storico” della mia città, e gli amministratori comunali hanno “oculatamente” scelto di
installarvi un impianto di illuminazione artificiale “consono” alle sue fattezze di
indiscutibile pregio architettonico. Esso nasconde i segni di decadenza, di incuria, e di
abbandono puntualmente evidenziati dalla luce solare, ed esalta invece, quasi
magicamente, gli elementi di valore storico : gli archi, i fregi, le scalinate in pietra di epoca
medioevale, le facciate originali ripristinate “a nudo”. Nell’insieme, sotto il manto
“protettivo” di questa luce artificiale, il borgo antico ispira sensazioni di intimo
raccoglimento, di concordia e sicurezza, pur nel tetro silenzio delle ore notturne.
Però le mie orecchie agognano di poter captare in lontananza, come era successo
diverse volte in passato nelle stagioni più appropriate, lo stridulo verso di richiamo di un
barbagianni in volo o il simpatico “chiacchiericcio” di una civetta appollaiata sui tetti.
Inconfondibili e affascinanti segnali di una vita - quella in fin dei conti così labile, rispetto
alla vita umana, di altri esseri, ma sicuramente più “vera” perché primordiale, trasparente,
priva di sovrastrutture culturali dissimulanti - che trova ancora ospitalità, nonostante tutto,
nell’ambiente proprio della specie animale dominatrice.
Perché non vi lasciate ascoltare ora che ne ho bisogno ?
Mi trovo al di qua di quelle persiane, oppresso da un’atmosfera affatto diversa, quasi
soffocato da quella luce gialla che, penetrando all’interno della stanza, si posa, sugli
1
oggetti, fredda e tagliente, messaggera di morte; e non odo voci animali, nemmeno magari accadesse - di miei consimili.
Mamma, dove sei ? Ho paura.
Gli occhi sbarrati, uniche parti del corpo rimaste fuori dalla coperta del letto, si posano
febbrilmente ora su un oggetto ora sull’altro della stanza, per assicurarsi che tutto sia a
posto, che tutto risulti immutato, aderente alla confortante normalità di sempre.
Là, di fronte e perpendicolarmente al letto, l’armadio in frassino ad ante scorrevoli. Una
manica di camicia chiara penzola fuori mostrando distintamente il bottone bianco del
polsino, che riflette il soffuso chiarore della maledetta luce giallognola.
Chi ha aperto l’anta dell’armadio ? Che idiota ! L’ho dimenticata aperta quando mi sono
coricato, certo !
Nell’angolo a destra la sagoma quadrangolare del sofà in stoffa chiara, intonata al
colore delle delicate venature del frassino della mobilia. Accanto ad essa la cassettiera col
soprastante grosso specchio rettangolare che, per fortuna, a causa dell’inclinazione della
sua superficie rispetto alla direzione di provenienza della luce, non riflette immagini di
sorta.
Nell’angolo a sinistra, accanto alla porta aperta della camera, l’appendi abiti. Un
brivido percorre per intero tutto il mio corpo quando gli occhi si posano sulla sagoma della
vestaglia, appesa con una stampella.
Che ridicolo che sono ! Sapevo bene che era lì quella vestaglia. In quale altro posto la
posso appendere ?
Lo sguardo fugge, con la coda dell’occhio, sul comodino adiacente al letto, all’estrema
sinistra accanto al cuscino in piume d’oca, nel quale affonda, quasi impietrita, la mia testa.
Il pulsare ritmico del led di luce verde del cordless, appoggiato sul comodino, ha la
capacità di rianimarmi.
La batteria sta caricandosi. La luce pulsa perché è viva. E’ come un cuore : il cuore della
comunicazione mondiale. Pulsa, e io posso aggrapparmi alla cornetta per contattare
qualsiasi persona al mondo. Ma quale persona posso contattare a quest’ora di notte? A
chi posso raccontare le mie angosce? Chi mi può aiutare ? Mamma, dove sei ?
Il terrore riprende il sopravvento. Il sudore freddo scende copioso sotto le ascelle,
dietro la nuca, sopra le tempie. Con la bocca ed il naso sotto le coperte, respiro con
affanno, respiro per gran parte la stessa aria in precedenza consumata. I globi oculari
vorrebbero arrestarsi puntati in direzione di quel led, che pur si è già rivelato una falsa
2
ancora di salvezza. Ma una forza irresistibile, spaventosa, li trascina piano, piano, dalla
parte opposta, in direzione di quell’angolo della stanza dove sanno già che cosa
incontreranno : il “dondolo” di legno “made in China”. E il dondolo, con la sua consueta
puntualità, mi aspetta all’angolo ; con la sua consueta, ossessionante ferocia, sembra
oscillare lentamente avanti e indietro. SEMBRA oscillare, ma non oscilla. No, questa volta
non può oscillare ! E invece SI. Non può farne a meno, è nella sua natura. Oscilla per ME.
E’ quell’entità mostruosa che ospita sopra di sé a farlo oscillare. Un’entità assolutamente
impalpabile, eterea, priva di forma e sostanza corporea. Eppure presente, terribilmente,
infinitamente presente. Non ha connotati fisici, eppure mi osserva, mi scruta, mi dilania. La
SENTO che mi osserva. E non mi lascia scampo. Sono soggiogato dalla sua presenza
imperscrutabile, rimango paralizzato. Non riesco a parlare, a urlare. Con fatica indicibile
riesco solo a balbettare.
Chi...sei ?..Co..co..sa..vuoi ?
Per tutta risposta la sento sogghignare come una vecchia megera.
Ma CHI sogghigna ? Chi.. sei ?..Che..vuoi..da..me ?..Vat..te..ne !..Lasc..ia..mi..in..pace !
Il dondolo di colpo si immobilizza. L’entità impalpabile sembra assorbire la tenue luce
giallognola diffusa nella stanza, e tramite essa acquisisce quasi fisicità e dinamismo.
Assume le sembianze di una corporeità comunque indefinibile....e SI MUOVE. La
sento...la vedo alzarsi dalla sedia a dondolo. Si approssima, maestosa e irresistibile verso di
me. Il panico raggiunge il culmine. Sono sconvolto. Mi sento perduto. Ma una forza
interiore di ribellione, insperata fino a pochi attimi prima, prende il sopravvento.
Non soccomberò al terrore. Questa volta no!
Sento di poter scandire senza balbettii il mio urlo di guerra.
Vaffanculo, stronza !
E come una bestia ferita a morte, senza più speranze di fuga, riesco a convertire il panico in
furia cieca ed esplosiva. Voglio colpire la......”cosa”. E la “cosa” ora è sopra di me, sta per
avvolgermi, risucchiarmi nel suo “non-essere”. Provo a sollevare le coperte e a scalciare
contro di essa. Non ci riesco. NON CI RIESCO. Sono ancora paralizzato.
ASSOLUTAMENTE incapace di muovermi.
VATTENE , maledetta !
Ma..le..det..ta...va..i..via..da..me..MAM..M..M..MA..a..iu..to..mam..ma..do..ve..se..i..
Spalanco gli occhi. Con la fronte imperlata di sudore, il respiro affannoso, sollevo di
scatto tutta la parte superiore del corpo e mi dispongo seduto sul letto. Lancio uno sguardo
3
repentino sugli oggetti della stanza, pervaso dal terrore e in preda a una furiosa tachicardia.
Appena un attimo per rendermi conto di essere stato in balia dell’inestirpabile e ricorrente
incubo che mi perseguita, con pochissime varianti nel suo impianto strutturale, da quando
ero bambino. Poi mi infilo di nuovo, con rapidità, sotto le coperte, mugolando e
farfugliando imprecazioni.
Superato il frangente in cui lo stato di veglia, appena raggiunto, rimane ancora paludato
nelle immagini e nelle connesse emozioni del sogno, subentra l’appagante sensazione di
scampato pericolo.
“Era soltanto un sogno. Il solito stramaledetto incubo di sempre”.
E come la lumaca che, dopo essersi ritratta per aver subìto un disturbo esterno,
torna progressivamente ad allungare le piccole antenne fuori dal guscio, ora anch’io mi
faccio coraggio e tiro fuori testa e braccia dalle coperte. Anche perché, sotto di esse, stavo
rischiando di asfissiare. Ma ancora una volta non posso fare a meno di notare l’incredibile
“veridicità” del sogno. Tanto che non riesco a sentirmi totalmente “in salvo”; anzi, avverto
una perdurante, anche se controllabile, ansietà.
I particolari del sogno, ancora così vivi e chiari nella mente, sono tutti, o quasi, identici
a quelli della realtà che mi circonda nella stanza. La stessa tenue luminosità prodotta dal
lampione della strada, gli stessi mobili nella stessa identica posizione, persino il cordless
sul comodino che lampeggia ad indicare il ricaricamento delle batterie. Fortunatamente
nessuna manica di camicia a penzolare fuori dell’armadio aperto; sarebbe stata a dir poco
inquietante la coincidenza di un simile particolare. E soprattutto – dirigo lo sguardo ancora
timoroso nell’angolo alla mia destra - la sedia a dondolo non si muove. Non è spiritata, non
ospita mostruose presenze occulte.
Come in tutte le altre occasioni nelle quali mi sono svegliato in preda allo stesso
incubo, avverto una fugace ma chiara sensazione di conoscere quella presenza terrificante
che mi perseguita, di identificarla in qualcosa di preciso, di reale, di familiare. Ma è solo la
sensazione di un attimo che soccombe subito dopo, invariabilmente, all’impulso di
rimuovere quella consapevolezza, di nasconderla perché insopportabile. Risulta
estremamente difficoltoso dare una tranquilla spiegazione razionale al persistere di quelle
immagini mostruose dell’inconscio. Uno psicanalista, si sa, ne saprebbe fornire diverse, e
tutte perfettamente logiche e plausibili. Ma sono sempre stato riluttante a ricorrere alla
consulenza dello specialista in materia; non per scetticismo nei confronti dei paradigmi
interpretativi che hanno radici nel genio freudiano. Né, tanto meno, per stupida presunzione
4
di autosufficienza intellettuale, la quale mi impedirebbe di sottoporre “il caso” alle
interpretazioni di qualcun altro. Ma semplicemente perché “il caso” riesco a figurarmelo
solo come una sfida personale contro me stesso, una sfida “all’ultimo sangue” nella quale
debbo attrezzarmi tanto con armi razionali, quanto con adeguate risorse emotive. Così,
talvolta, mi soffermo a meditare sul perché di questo incubo ricorrente. Paura della morte,
contro la quale si rivelano insufficienti gli ordinari meccanismi difensivi? Plausibile e
probabile, questa spiegazione. Progressivo distacco dalla protezione materna vissuto con
esagerato senso di insicurezza e mai superato completamente nelle successive fasi di
formazione della personalità e di strutturazione del carattere? Plausibile anche questa,
come spiegazione, la quale, d’altronde, potrebbe considerarsi come una specificazione o
integrazione della precedente, suffragata dal costante ricorso alla richiesta di aiuto materno
nell’epilogo, tenace e quasi invariabile, del sogno.
La mia sfida personale si sta arricchendo anche di una capacità di reazione emotiva fino
ad oggi mai riscontrata. Per la prima volta, in quest’ultimo episodio, posso constatare la
nascita di una forza interiore di ribellione contro l’entità mostruosa dell’incubo (vaffanculo,
stronza !).
Socchiudo le labbra, ancora aperte a compensare l’insufficienza di ossigeno appena
patita, in un ghigno di soddisfazione. Mi sento quasi un Prometeo. Ho voglia di gridare ad
alta voce:
“Vaffanculo, stronza. Finalmente posso e VOGLIO combatterti”.
Insieme con l’ossigeno respiro coraggio. Che sensazione affascinante ! Rare volte ricordo
di averla provata.
Eppure, trascorsi questi brevi momenti di autoanalisi ed autocompiacimento, non riesco
a trattenere il braccio destro che, sotto la pressione di una residuale inquietudine, si
precipita, con un gesto repentino, sull’interruttore dell’abat-jour. La luce, finalmente ! Di
colpo scompare l’atmosfera spettrale prodotta dal tenue chiarore giallognolo del lampione
stradale.
Dovrò ricordarmi a serrare completamente le persiane della finestra nelle notti a venire.
Il proposito non mi rincuora più di tanto, cosciente del fatto che, pur ricordandomi
puntualmente di attuarlo, non potrò cancellare, con altrettanta facilità, i mostri che turbano
i miei sogni.
Le cose della stanza mi appaiono di nuovo nella loro materiale, rassicurante familiarità.
Sento di avere irrimediabilmente perso ogni stimolo al sonno, e la sveglia digitale sul
5
comodino indica appena le 3 e 15 del mattino. Ma ormai è da lungo tempo che mi sono
abituato a brevi e interrotti periodi di sonno. Non ricordo più nemmeno a quando risalgono
gli ultimi periodi di sonno tranquillo e continuato, di almeno 7-8 ore, dei quali ho goduto.
Decido di alzarmi dal letto. Infilo pantofole e vestaglia. Sto per imboccare il corridoio
quasi buio, poi esito un istante, volto lo sguardo in direzione del letto appena lasciato, per
rivivere, sotto la spinta di un bisogno impellente, la candida immagine seminuda di Stella. I
graziosi seni, piccoli ma prospicienti, i riccioli neri ricadenti sulle spalle, le sopracciglia
lunghe, nere e folte in netto contrasto con i lineamenti delicati e tondeggianti del volto, gli
occhi grandi, scuri, leggermente a mandorla, la piccola cicatrice sul lato sinistro del labbro
inferiore. Il timbro di voce penetrante, di irresistibile sensualità - ora me ne accorgo ! - con
il quale mi domanda, sicura di una precisa risposta : “Enrico, perché non vieni a letto ?”.
Una delle tante volte passate insieme - quasi un secolo fa - in quello stesso letto dei miei
incubi, stretto ma sufficiente a contenere i nostri due corpi avvinghiati. Ora una struggente
malinconia, mista ad un accenno di vigorosa eccitazione (percepisco un sussulto del pene
nello slip), cancella via persino il ricordo delle trascorse traversie oniriche. E subito dopo
rimuovo con forza anche quest’ultimo, fugace flashback, e con esso l’insopportabile e
contraddittorio stato emotivo che l’accompagna.
Varco l’uscio della stanza, attraverso, senza accendere la luce, il corridoio ed entro
nella cucina buia. Schiaccio l’interruttore di corrente e mi dirigo ai fornelli della stufa a
gas. Preparo minuziosamente la moka del caffè e la depongo sulla fiamma di un fornello.
Nell’attesa che il gradevole e vivificante aroma del caffè si sprigioni dalla moka - già
pregusto quella scossa vitale che riesce sempre a infondermi - mi accosto alla finestra,
l’apro e mi affaccio sulla strada. Una sferzata di aria rigida, consueta per una mattina
invernale, mi investe sul petto e sul volto, costringendomi a sollevare il bavero della
vestaglia e a stringere i palmi delle mani intorno alle braccia, mentre incurvo la schiena sul
davanzale. Tutto sommato, quell’improvviso contrasto termico, che solitamente non
produce certo un effetto gradevole sulla pelle, mi sembra davvero tonificante. Mi espongo
senza ritrosia a quella carezza gelida e mi soffermo a scrutare, in una sorta di riverenza
estatica, i giochi d’ombra creati dalla luce dei lampioni sulle pietre di peperino dei palazzi
adiacenti al mio e sulla basaltina del pavimento stradale. Il silenzio è assoluto. Il lampione
più vicino (quello responsabile del chiarore spettrale nella camera da letto) emette un
ampio cono di calda luce gialla. Avverto provenire da dietro le spalle il borbottio della
moka. Indietreggio e, mentre richiudo la finestra, l’aroma del caffè inizia a stuzzicarmi le
6
narici. Lo inalo profondamente e rivolgo un sorriso beffardo al mio interlocutore
inconscio :
“Alla prossima volta, inossidabile amico fantasma”.
7
CAPITOLO II
BAKUNIN ALLA FINESTRA
Cliccando col “mouse” ripetutamente su alcuni files elaborati molto tempo fa, inutili e
ingombranti anche per l’archivio, li trascino con la freccetta sul “cestino” dei rifiuti
(virtuale, ovviamente) per sbarazzarmene, constatata la scarsa disponibilità di kbytes sul
dischetto, e creare così spazio sufficiente per approntare una lunga e urgente deliberazione.
Ho sempre simpatizzato per questa singolare invenzione di marca Macintosh, così
esplicita, diretta, accattivante, come molte altre invenzioni di tale famigerato sistema
operativo. Non ho mai avuto dubbi nel preferire il linguaggio Macintosh al barboso e
meticoloso linguaggio in MS-Dos. E noto con soddisfazione che la storia, una volta tanto, è
in sintonia con i miei stessi gusti, visto che i mezzi di elaborazione informatica, almeno
quelli di larga utilizzazione, si sono progressivamente orientati ad imitarne il modello,
semplificando e “umanizzando” sempre più l’interfaccia comunicativo. Sento dire, da
profano in materia, che presto riusciremo letteralmente a parlare col nostro personal
computer, ad usare comandi verbali per chiedere che effettui le sue prestazioni. Seguo di
buon occhio l’evoluzione della tecnologia potenzialmente proiettata a liberare l’uomo dagli
aspetti più tediosi e faticosi del lavoro, fino al punto di farci magari dimenticare un giorno
dei significati negativi fino ad oggi impliciti nel concetto di lavoro. Fino da quando ebbi
modo di conoscere il pensiero di Pollock sull’automazione, mi convinsi pienamente delle
possibilità liberatrici ad essa intrinseche. Salvo a ragguagliarmi sulla possibilità del tutto
opposta - e anche più verosimile - che l’automazione continui a liberare dalla schiavitù del
lavoro solo alcuni e a liberare molti altri dall’opportunità stessa di lavorare per
sopravvivere o vivere decentemente, o che addirittura possa essere utilizzata come
strumento “in primis” di dominio, controllo e sopraffazione. Questo è senz’altro un
affascinante argomento di sociologia che, mi rendo conto, merita attente considerazioni.
Seduto sulla mia scrivania posso solo giovarmi, per il momento, delle mirabili invenzioni
tecnologiche.
Richiamo il programma di scrittura, imposto il tipo e il formato dei caratteri e inizio a
riprodurre il testo della deliberazione sul video.
“Cazzo..... !”
8
Una breve interruzione di alcuni secondi nell’erogazione della corrente nel palazzo oscura
il video e smorza il neon della stanza.
“....non avevo ancora ‘salvato’ !”.
Inconveniente non molto infrequente che capita agli utenti di p.c. come me sprovvisti di un
gruppo di continuità.
“Per fortuna avevo battuto solo poche righe...”
Appena tornata la corrente ripeto la sequenza di operazioni di avvio e impostazione e
riprendo la battitura da capo, col proposito di interrompere con assiduità per “salvare”.
Toc-Toc.
Bussano alla porta. Prima ancora che riesca a rispondere “avanti” e a voltare la testa verso
la porta, questa si schiude...
“Buongiorno Enrico....già al lavoro ?”
La bella figura di Francesca, da poco tempo annessa all’organico del settore, produce in me
una leggera scossa di eccitato imbarazzo. Ogni mattina è sempre elegantemente vestita, per
lo più con tailleur variamente colorati ; il viso e le mani sapientemente curati con raffinati
prodotti cosmetici, senza mai eccedere in grossolane esagerazioni, la capigliatura
rigorosamente in ordine con acconciature morbide e flessuose, con mille pieghe e
ondulazioni ed ognuna sempre al posto giusto....ed un profumo...che profumo ! Non saprei
proprio a quali essenze assimilarlo.
Non riuscirò mai a capire come certe donne trovino il tempo e la pazienza di imbellettarsi
a tal punto da risultare così...perfette !
“Oh...salve Francesca...ho una proposta di deliberazione urgente da consegnare stamattina
e allora....eccomi qua ! Tu piuttosto....un po’ in ritardo rispetto al solito....come mai ?”
“Be’....si ! Mi sono alzata tardi....avevo un sonno incredibile !...”
E poi il tempo necessario per truccarsi così !
“...Comunque ho i miei dubbi che riuscirai a completare la tua proposta di deliberazione”.
La guardo con espressione interrogativa.
“Perché ?”
“Be’ perché lungo la strada mi sono imbattuta in un grosso corteo di studenti che credo si
stia dirigendo qui al palazzo....per le solite rivendicazioni sai....e capirai il frastuono, gli
schiamazzi assordanti...ecco ! Se ascolti attentamente si sentono già avvicinarsi...nemmeno
a dirlo !”
9
Ma me lo dice con un risolino divertito, come a dire “povero te !”. E mentre mi volgo con
l’orecchio in ascolto verso la finestra per captare il lontano vocio, mi saluta sempre più
divertita:
“Allora...auguri di buon lavoro...ci vediamo !”
“Ciao”.
Chiude sommessamente la porta e la sento allontanarsi nel corridoio con i suoi
inconfondibili tacchi a spillo. Rimango fermo in ascolto per alcuni secondi del vocio che
sembra in effetti si stia avvicinando.
Non mi posso lasciare distrarre, devo ad ogni costo finire questa cazzo di proposta,
altrimenti....
Si riapre la porta. Fa capolino il viso di Teodoro.
“Allora.....questo Milan ! Strepitoso, non ti pare ?”
“Oh...Teo...si ! Formidabile, davvero ! Ma c’era da aspettarselo, con quei talenti che ha in
squadra.”
“Dai, vieni di là, c’è Ernesto che tiene banco....è avvelenato per l’arbitraggio...sai...quando
non sa come buttarla se la prende con gli arbitri...c’è da morire dalle risate. “
“No. Adesso non posso. Ho una cavolo di deliberazione da sbrigare e....”
“Perché...pensi di poter lavorare stamattina ? Non li senti gli studenti come strillano ?”
“Già, li sento, ma non posso interrompere. Ho delle scadenze strette.”
“O.K., ci vediamo dopo...poi ti racconto. Ciao.”
“Ciao.”
Si richiude la porta. Mi sento un po’ contrariato, forse per gli slogans degli studenti che ora
comincio a distinguere bene nella loro ritmicità incalzante.
Sembra proprio che tutti vogliano che io non appronti questa deliberazione oggi !
Mi sollevo dalla poltrona, vado alla finestra e la spalanco, mi affaccio per rendermi conto
personalmente dell’evento. In fondo alla via antistante la sede amministrativa si affaccia la
massa caotica urlante e variopinta del corteo studentesco. A far da battistrada tre auto dei
carabinieri che procedono lentamente, seguite da una ventina di uomini - in parte in divisa,
in parte in borghese - delle forze dell’ordine. Subito dietro, in prima fila, un lungo
striscione tenuto a braccia da una quindicina di studenti : SIAMO SEMPRE QUI
CONTRO LA SCUOLA DEI PADRONI.
Come un fulmine a ciel sereno mi colpisce l’impronta fortemente politicizzata che
trapela dalla massimalistica frase. Certo, dalla lettura dei quotidiani avevo già appreso della
10
crescente ondata di fermenti studenteschi in tutto il paese, ma non sospettavo affatto,
soprattutto per una tranquilla, piccola città come quella in cui vivo, che avesse raggiunto un
tale grado di maturità politica. Pensavo si trattasse di un rivendicazionismo spicciolo,
contro la cronica disfunzione organizzativa degli istituti scolastici. Da alcuni anni a questa
parte ho assistito al ripetersi puntuale di un simile fenomeno, in corrispondenza del periodo
iniziale dell’annata scolastica, poi invariabilmente esauritosi nel periodo successivo.
Questa volta no. Questa volta sembra qualcosa di diverso. Man mano che il corteo avanza,
si evidenziano alcuni particolari non secondari che confermano la mia impressione : alcune
bandiere rosse con tanto di falce e martello (erano diversi anni che non facevano più
comparsa nei cortei studenteschi), immagini del Che Guevara e di Mao Tse-tung, alcune
isolate ma significative bandiere rossonere, quelle degli anarchici (appena le distinguo mi
lascio prendere dall’emozione), un fazzoletto rosso o una kefiah araba a scacchi bianchi e
neri intorno al collo di molti studenti, pugni alzati alla cadenza ritmata degli slogans.
Preso da entusiastica incredulità mi adagio con i gomiti sul davanzale a scrutare con lo
sguardo attento ogni più piccolo particolare della massa festante, in atteggiamento
rabbioso, che avanza. Il corteo sembra molto consistente. Per il tratto scoperto alla mia
visuale, ora di quasi 200 metri, è fortemente stipato per tutta la larghezza della strada, fino
a rasentare le vetrine dei negozi, dalle quali si affaccia timoroso il volto di qualche
esercente. Ed ho la sensazione che la coda sia ancora lontana. Davvero un corteo molto
grosso, ed anche molto partecipato, a giudicare dal caotico e assordante sovrapporsi degli
slogans urlati ai diversi stadi del suo flusso di scorrimento. Come se ne vedevano solo....ai
“miei tempi”. Già ! Quei mitici tempi che sconvolsero gran parte del pianeta, nei quali ebbi
la fortuna di vivere, lasciandomi coinvolgere, con tutto l’entusiasmo adolescenziale di cui
disponevo, nel proposito di distruzione delle fondamenta istituzionali e della cultura
dominante. Con quanto orgoglio li ricordo ! Non mi è mai piaciuto far vanto pubblico di
essere stato partecipe di quella “rivoluzione”. Ho sempre provato fastidio e quindi evitato
di assumere paternalistici atteggiamenti da “eroe in pensione”, soprattutto dinanzi a
interlocutori più giovani di me, quando si è presentata l’occasione di discorrere di quei
tempi. Ma non posso negare che quell’”io c’ero”, almeno dentro di me, ha sempre fatto
vibrare corde emotive di profonda e convinta soddisfazione. Proprio come in questo
momento, in questo interiore revival nostalgico del passato dal quale mi sento
improvvisamente sopraffatto alla vista del corteo.
11
Ora però avverto anche un’altra sensazione mista all’orgoglio : la rassegnata tristezza
di chi sa di essere stato spazzato via dalla storia, di chi si sente inesorabilmente superato
dal tempo. L’obsolescenza. Ecco il terribile tarlo che corrode, anno dopo anno, anche le più
gloriose reminiscenze del nostro vissuto. C’è una radicale ambivalenza di significato nella
percezione del proprio accantonamento come una sorta di anonima reliquia museale. Da
una parte, certo, cresce l’autovalorizzazione in senso “archeologico”, dall’altra si rafforza
la
convinzione
di
essere
divenuti
“cadaveri
ambulanti”.
“Santificazione”
e
“zombificazione” marciano di pari passo. Così, con l’animo un po’ da “papà” del
ribellismo giovanile e studentesco, un po’ da “scheletro dissepolto”, sto qui incantato a
rimirare la mia storia nella storia degli altri, nella lacerante ambiguità emotiva causata dal
ritorno di un passato che non vuol morire nel presente.
Che belli quei volti freschi e sorridenti che si lanciano occhiate di perfetta intesa
reciproca, di ingenua convinzione in una comunanza indistruttibile di idee e di valori !
Come li riconosco, e come mi riconosco in essi ! Vedo quello che ero e quello che era bello
essere, sentirsi, ossia innovatori della storia, portatori di un messaggio ardito, giusto,
universale. Ma vedo anche la morte dei sogni, la marcia cieca dell’illusione, ignara del
destino fallimentare ineluttabile che la cinica realtà riserva ad essa. L’ideale è sempre
ingenuo là dove richiede una cieca fedeltà all’oggetto che persegue, e finisce per essere non
solo irriso ma anche inesorabilmente sconfitto dal pragmatismo, dal realismo calcolatore e
disincantato dell’ossequiente conservatore. E’ per questo che provo, oltre tutto, un
fastidioso senso di vergogna nel rispecchiarmi in quei volti e in quegli ideali che da essi
traspaiono. Con la mia esperienza rievoco, senza possibilità di dissimularlo e di reprimerlo,
lo scoramento prodotto dallo scherno, dal risolino canzonatorio dell’adulto benpensante. E
così rimango in balia di una tumultuosa miscela di emozioni che si sovrappongono e si
scontrano, senza ordine, in modo incontrollato. E per fortuna il senso di fierezza non viene
meno, resiste supportato dalla convinzione razionale - anch’essa frutto dell’esperienza che l’ideale, seppur ingenua e facile preda della maligna irrisione, è sempre stato una spina
nel fianco con la quale lo strapotere del reale e del realismo deve comunque fare i conti, e
deve saperli fare bene, con il raggiro ma anche con le concessioni, con l’astuzia e con
“onorevoli ritirate strategiche” al momento opportuno. Al di là di ogni giustificato
pessimismo, consola il fatto che anche l’ideale ha una sua parte, nonostante tutto, nella
storia.
12
Le urla, gli schiamazzi, gli slogans e le invettive, i cori di denigrazione che cantano
sulle note rubate a popolari ritornelli, divengono assordanti, rimbombano fragorosamente
tra le mura dei palazzi e fanno vibrare i vetri delle finestre. Il corteo ha raggiunto la sede
amministrativa, e come un fiume in piena che straripa dagli argini, si allarga e defluisce
piano piano su tutta la piazzetta antistante la sede, che si rivela insufficiente a contenere
tutti i manifestanti. E ancora non si distingue la coda del corteo. Grandioso ! Ne rimango
affascinato. Mille colori si incontrano e si allontanano fra loro, ondeggiano, si muovono
caoticamente in ogni direzione, cercando di assestarsi in spazi sempre più ristretti,
fornendo alla vista l’impressione di un gigantesco formicaio impazzito. Le mura dei
palazzi che circondano la piazzetta trasudano curiosità. Tante sono le persone affacciate
alle finestre o a spiare dietro i vetri, alcune con un accenno di sorriso sulle labbra, ma tutte
con lo sguardo impressionato per l’inatteso e inusuale trambusto, giunto d’improvviso a
sconquassare la routine quotidiana. Ora si percepiscono distintamente le parole di battaglia.
“CHI NON SALTA - ASSESSORE - E’ - E’...”
Una gran massa di giovani urla questa frase sorridendo e saltellando. Alcuni pugni isolati si
sollevano in aria, accompagnati dal grido :
“BUF - FO -NI, BUF -FO -NI...”,
subito imitato da un poderoso coro collettivo. Evidentemente l’offesa è diretta verso i
presunti responsabili del malcontento, ossia verso gli amministratori pubblici in genere.
Man mano che il coro si spegne, da un angolo appartato della piazza si solleva , ma senza
trovare un grosso seguito, uno slogan ormai “storico”, uno di quelli scanditi da decenni
nelle strade, e che hanno contraddistinto un certo, inconfondibile, schieramento politico :
“ NE’ DIO - NE’ STATO - NE SERVI NE’ PADRONI...”
Uno slogan così palesemente radicale e impegnativo, così agguerrito, seppur con scarsa eco
tra i presenti, che subito evidenzia un colorito gruppetto di anarchici, caratterizzato dalle
più stravaganti e fantasiose capigliature, da giubbotti che riluccicano in abbondanza di
borchie e metalli vari, da jeans consunti, strappati e tagliuzzati, da scarponi e anfibi ed altri
vari contrassegni di “guerra”.
Bakunin, Proudhon, Kropotkin, Malatesta....questi “mostri” sacri dell’egualitarismo
libertario, e più che altro il significato che essi racchiudevano per il mio oltranzistico
idealismo di gioventù, riemergono alla coscienza d’improvviso come lampi nella notte,
provocandomi un fremito che mi scuote tutto. Rimango per alcuni secondi suggestionato
come un bambino che riceve elogi in pubblico per la prima volta.
13
Ecco ! Io queste cose le urlavo 20..25 anni fa !
“BUF - FO - NI, BUF - FO - NI...”
Vivo questi attimi come un solenne riconoscimento postumo della giustezza del mio
ribellismo giovanile, quello già consegnato ai libri di storia, anche se in realtà non è altro
probabilmente che un “autoriconoscimento” (quanti tra i presenti hanno una chiara
coscienza storica di quegli anni trascorsi che ho vissuto ?).
“LADRI MANGIASOLDI, TORNATE DENTRO A LAVORARE !”
Una voce isolata si solleva dalla piazzetta, subito seguita da un’assordante coro generale :
“LA -DRI, LA -DRI, LA -DRI.....”
Il gelo - ma non quello dell’aria mattutina che non è poi così pungente - interrompe
quell’autocompiacimento. Al suo posto subentra un dubbio scioccante.
Ma...con chi ce l’hanno ?
“LA -DRI, LA - DRI, LA - DRI....”
Con la coda dell’occhio scorgo molti volti affacciati alle finestre che si ritraggono e
scompaiono all’interno delle stanze. Volto lo sguardo a destra e a sinistra...e ricevo la
conferma.
Ce l’hanno con noi ?...noi impiegati ?...
“LA -DRI, LA -DRI, LA - DRI...”, sempre più forte.
Come è possibile !..ce l’hanno con noi...con me ?...
Mi ritraggo istintivamente colto da un senso di vergogna incontrollabile, che mi lascia di
stucco, e avverto delle vampe di calore alle gote. Sempre d’istinto, faccio due passi indietro
per nascondermi dagli sguardi della folla.
Ma noi che c’entriamo ?..eh si ! Per loro c’entriamo anche noi ! Ci vedono come parte
integrante del sistema...come i tirapiedi della macchina statale...
“LA - DRI, LA - DRI, LA - DRI...”, il grido collettivo non accenna a placarsi.
..Ma noi siamo qui a guadagnarci il pane ! Come fanno a non rendersene conto ?...
Non ho più il coraggio di riaffacciarmi al davanzale, mi giro e passeggio nervosamente per
la stanza.
La deliberazione...debbo riprendere a battere la deliberazione...ma come cazzo fanno a
prendersela con noi ?...
Poi il grido si spegne. Decido di tornare a sedere davanti al video. Lo fisso ancora
frastornato, resto immobile per alcuni minuti senza riuscire a battere nemmeno una parola
sulla tastiera. Alle orecchie mi giungono gli slogans ritmati che si susseguono e si
14
sovrappongono senza interruzioni. Non riesco a ragionare. Quel senso di vergogna mi ha
completamente svuotato e reso incapace di connettere e di agire. E gli slogans mi
martellano senza pausa; non più padronanza di me stesso.
“LA - DRI, LA - DRI, LA - DRI....”
Si solleva di nuovo dalla piazza quel coro ingiurioso. Il frastuono è infernale. La
partecipazione dei presenti al grido è pressochè totale. Forse qualcuno degli impiegati ha
osato continuare la “provocazione” restando affacciato o tornando alla finestra. E il corteo
di manifestanti sembra essersi compattato, con gratificazione, nell’intento di schernire il
visibile, presunto “nemico”.
Come è possibile ?...ma come è possibile ?...Non possono far di tutta l’erba un fascio,
come se un impiegato, un dirigente, un Assessore, un Presidente, siano tutti la stessa cosa,
abbiano tutti le medesime responsabilità !
“LA - DRI, LA - DRI, LA - DRI....”
Ma forse sono io che pretendo assurdamente una maturità e una capacità di discernimento
da parte di giovani, per lo più studenti medi, con età compresa tra i 15 e i 20 anni, molti
dei quali magari aggregatisi per la prima volta al movimento degli studenti...
“LA - DRI, LA - DRI, LA - DRI....”
Forse, anzi sicuramente, anch’io inveivo nei cortei contro tutto e tutti senza pormi tanti
problemi di fare distinzioni, almeno al principio della mia svolta esistenziale in favore
della rivoluzione. Forse l’ideale esplode sempre in una troppo sommaria, ma inevitabile,
contrapposizione alla realtà costituita, per poi aggiustare il tiro lungo il percorso di
crescita collettiva di chi se ne fa portavoce. Però...è davvero esagerato prendersela con
semplici impiegati !
“LA - DRI, LA - DRI, LA - DRI....”
Resto costernato, quasi inebetito, piantato con lo sguardo sullo schermo del computer,
senza riuscire a coglierne alcuna immagine.
Non è possibile ! Non posso accettare di essere considerato alla stregua di un meschino e
ossequiente servitore dell’apparato istituzionale. Io sono un lavoratore, come l’operaio
della fabbrica, come il carpentiere dei cantieri edili, come...
“LA - DRI, LA - DRI, LA - DRI....”
....e sono stato un convinto militante anarchico !...e quelle idee..quel pensiero..non li
rinnego...anzi ! La squallida esperienza di vita di questi lunghi anni di lavoro presso
l’Amministrazione pubblica mi ha, con continuità, fornito le prove tangibili della verità
15
insita in quelle idee, anche se non ho più l’entusiasmo e l’ingenuità giovanili di
considerarle come una “terra promessa” che un futuro ineluttabile ci consegnerà. Ora so
quanto siano concrete quelle aspirazioni di libertà, uguaglianza, fratellanza, tanto quanto
so con quale facilità risultino vulnerabili ai colpi inferti da parte di chi brama il potere e il
privilegio.
“LA - DRI, LA - DRI, LA - DRI....”
Quell’ingiuria non cessa di martoriarmi.
“Certo !...perché no ?”
Un’idea ammaliante balena improvvisa nella mia mente.
“Non posso lasciar credere che qui stiamo tutti dall’altra parte della barricata !”
Scatto in piedi scrutando con rapidità ogni angolo della stanza alla ricerca di qualcosa che
possa fare al caso mio.
“Eccoli là !”
Appoggiati di lato alla libreria, accatastati alla rinfusa, ci sono ancora dei vecchi manifesti
arrotolati. Manifesti propagandistici relativi a convegni, mostre, iniziative pubbliche di
vario genere, realizzate in passato dall’Amministrazione, e che ricordavo di avere
conservato. Mi dirigo a passi veloci verso di essi, ne srotolo parzialmente alcuni fino a
che...
“Ecco, questo è grande a sufficienza, proprio ciò che stavo cercando”.
Distendo il manifesto sulla scrivania esponendo la parte posteriore bianca, prendo un
pennarello di colore rosso dal cassetto e mi predispongo a scrivere, incurvando la schiena
sul grosso foglio. Esito, immobile, per circa un minuto, con lo sguardo fisso nel vuoto,
elaborando mentalmente “la frase” a cui intendo affidare una funzione di “riscatto morale”.
“Perfetto !”
Allargando le labbra in un risolino di soddisfazione, e sotto la pressione di un desiderio di
riscossa, inizio a scrivere la frase a grossi caratteri in stampatello, con la speranza che
risulti leggibile a distanza. Nel frattempo quell’ingiuria che ha provocato il mio
risentimento, viene sopraffatta dal susseguirsi di slogans più politici. Ma ha ormai lasciato
il segno dentro di me.
Appena terminato di scrivere, dal un cassetto della scrivania prendo anche il nastro
adesivo, quindi afferro per il margine superiore il manifesto e mi dirigo alla finestra.
Giunto presso il davanzale vengo di nuovo assalito dal senso di vergogna, dal timore di
incrociare gli sguardi sollevati della folla giovanile. Non posso fare a meno di accucciarmi
16
per evitare di espormi di nuovo a quella sorta di linciaggio morale subìto poc’anzi, ma
anche per precauzione, al fine di non essere riconosciuto da colleghi del palazzo. Ma
nonostante la vergogna e l’apprensione, non so resistere all’esaltazione fanciullesca che mi
assale e mi riporta indietro di almeno 20 anni.
Devo farlo ! Non posso rinunciare.
Con lo stato d’animo di chi crede di compiere il suo piccolo ma significativo gesto eroico quante volte provai questa sensazione quando imbrattavo di notte i muri della città con le
“A” cerchiate e gli incitamenti alla sovversione - “protetto” dietro il muro del davanzale,
faccio scivolare il manifesto fuori dalla finestra, fissando al telaio il margine superiore con
il nastro adesivo.
IERI
OGGI
DOMANI
W IL MOVIMENTO
DEGLI STUDENTI
Per fortuna non c’è vento. L’operazione sembra “tecnicamente” riuscita. Ora rimane da
attendere che tipo di effetto avrà sui manifestanti. Mi ritraggo dalla finestra sempre
accucciato, mi rialzo in piedi e riprendo a passeggiare per la stanza. Provo la soddisfazione
di chi sa di aver compiuto il proprio dovere...vada come vada. E la soddisfazione tramuta
in autentica euforia ora che si fa chiara la percezione di essere riuscito a colpire nel segno.
Il fragore degli slogans si è quietato, sostituito da un brusio generale che somiglia al
sommesso e diffuso chiacchiericcio di una folla al mercato. Comprendo di aver indotto una
certa titubanza e un certo imbarazzo tra gli studenti.
Stanno leggendo, commentano, discutono il contenuto del manifesto, forse stanno
valutando la serietà del messaggio. Certamente non sembrano più così sicuri di avere
nemici, solo nemici, di fronte a loro. Bene !...molto bene ! Serpeggia la confusione e
l’incertezza. Era quello che mi proponevo...gettare uno stimolo alla riflessione autocritica,
oltre che “salvare” la mia dignità personale.
Per due o tre lunghissimi e gradevolissimi minuti persiste questa situazione di “tregua”
riflessiva, più che sufficiente a convincermi di aver vinto una battaglia. Prima di tutto
contro me stesso, interrompendo un lungo periodo di stagnazione spirituale e di
atrofizzazione degli impulsi vitali nel quale ero scivolato, in conseguenza del cumularsi di
delusioni e disillusioni esistenziali ; poi contro l’irrazionalità in genere, quella bestia nera
17
che insidia come un’ombra il nostro essere e ci accompagna fino alla tomba. In effetti
questa vittoria ha la capacità di riaccendere in me un fuoco ormai spento da tempo, di
riattivare quella volontà di razionalità che costituì uno dei miei capisaldi ideali di gioventù.
E l’assaporo come un trionfo della ragione.
Poi odo alzarsi alcune urla isolate, sento la folla rianimarsi. Tornano a rimbalzare tra i
palazzi gli echi di rabbia e di scontento, di gioia e di divertimento. Riprendono gli slogans
ritmati, le canzoni e le invettive, e ancora con ironia graffiante e canzonatoria...ma non odo
più quelle parole ingiuriose, quelle offese sommarie, quel “LA - DRI” o quel “BUF - FO NI”.
L’orgoglio. Sono orgoglioso di questo gesto, di aver appeso il manifesto.
Già !...il manifesto ! E’ ancora lì....e se lo vede qualche impiegato, o qualche Assessore, o
il Segretario Generale ?
Al senso di orgoglio si sostituisce l’ansia, innescata dalla improvvisa preoccupazione di
avere forse - nonostante i quaranta anni di esperienza di vita sulle spalle - esagerato nelle
proprie azioni, di essermi lasciato trasportare da impulsi di una ingenuità infantile.
Se scoprono il mio gesto, che rischi corro ? Potranno avviare procedure disciplinari nei
miei confronti ?
Alla crescente preoccupazione si affianca anche un certo risentimento verso me stesso, per
la stupidità con la quale, ancora una volta, ho sopperito con scarso autocontrollo
all’emotività della situazione.
Sono sempre lo stesso ! Hai voglia a proporti di mantenere sempre e comunque la
razionalità o, come si suole dire,...i piedi per terra in ogni occasione ! Quando imparerò a
ponderare i miei desideri, le mie azioni ?
Adesso ho proprio paura.
Forse faccio ancora in tempo a rimediare...
Mi precipito alla finestra, mi accuccio di nuovo dietro il davanzale, strappo il nastro
adesivo e ritiro dentro il manifesto, mentre il fragore delle grida studentesche ha
riguadagnato un assordante livello di sonorità.
...quel “LA - DRI” non lo sento più.
Straccio il manifesto e lo getto nel cestino dei rifiuti. Ritorno alla scrivania, mi lascio
cadere sulla poltrona e la faccio roteare ripetutamente a destra e a sinistra sull’asse
portante, incollo lo sguardo sulle schermo luminoso del video.
18
Non ci sono più prove..non succederà niente..chi vuoi che venga a cercare un manifesto
appeso alla finestra ?
Mi sento svuotato, non ancora tranquillo ; scarico di tensione, liberato, per effetto
catartico dell’azione appena compiuta, da ogni pastoia emotiva. Passo i minuti con la
mente che naviga in una dimensione remota e lo sguardo perso sui caratteri “Times New
Roman” impressi nel video. La poltrona ruota qua e là, qua e là, con ritmo regolare e lento.
Le urla che giungono alle mie orecchie sono divenute concitate, caotiche, confuse.
Sono urla che si sovrastano l’un l’altra, che non hanno più cadenza e musicalità, che
producono un chiasso infernale. E la poltrona ruota qua e là, qua e là. Non mi scompongo,
non ho voglia di scompormi, di interrompere quel movimento quasi consolatorio, quello
stato di torpore mentale e di rilassamento fisico.
D’un tratto quel gran chiasso sembra come se venisse inghiottito, costretto dentro un
ambiente chiuso ; sembra dileguarsi in lontananza...poi irrompe di nuovo da un’altra
direzione, con più fragore. Evidentemente il corteo sta affluendo nel cortile interno del
palazzo. Il rimbombo della urla, costrette nello spazio chiuso del cortile, produce un effetto
esplosivo. Non c’è ombra di dubbio : la massa studentesca sta penetrando nella sede
amministrativa, sconvolgendo la tranquillità ordinaria dell’attività impiegatizia. Riesco a
sorridere al pensiero delle difficoltà che incontreranno i funzionari e gli impiegati nel
proseguire le rispettive pratiche di lavoro. Immagino, non senza un pizzico di divertita
malignità, le loro facce imbarazzate e i loro commenti, mentre continuo senza sosta a
dondolarmi qua e là con la poltrona.
Toc - Toc.
Un sussulto al cuore. Bussano alla porta.
Sarà stato mandato qualcuno per identificare l’autore del manifesto ?
Non ho il tempo di prepararmi ad una simile eventuale infausta evenienza, né di rispondere
“avanti”, che la porta si apre ed appare uno degli uscieri del piano della presidenza.
“Buongiorno Dr. Porena....il Presidente la desidera con urgenza”.
Il Presidente !
“Il Presidente ?...”.
Credo mi si leggano in faccia segni palesi di sconcerto. Con immediatezza il mio cervello
connette questa imprevista, quanto laconica, convocazione con l’azione dimostrativa di
poc’anzi, eseguita sotto l’egida di una rediviva tempra “rivoluzionaria”.
Mi manda a chiamare per il manifesto ?...possibile abbia già saputo ?
19
“Sì, il Presidente.....mi ha chiesto di riferirle di scendere al più presto nella sua stanza.”
Dopo alcuni attimi di esitazione...”D’accordo...ora scendo. Grazie.”
La porta si richiude. Esito ancora lunghi attimi, in attesa che improbabili risorse interiori
mi tirino fuori dall’impasse psicologica, poi ne esco nell’unico modo possibile :
“Be’, ormai è fatta, sentiamo cosa ha da dirmi !”
Poche altre volte era capitato in passato che il Presidente mi interpellasse direttamente, ed
era stato sempre per risolvere alcuni peculiari problemi, in relazione ai quali possiedo una
certa competenza professionale - o così almeno lui sembrava credere. E tutto sommato, a
parte l’inevitabile carico imprevisto di lavoro che ciò aveva comportato, ne ero rimasto
lusingato, non fosse altro che per la fiducia dimostrata verso le mie capacità lavorative. Ma
questa volta, considerata la delicata e anche un po’ eccezionale situazione creatasi
all’interno dell’Amministrazione per via dell’inattesa invasione studentesca, mi appaiono
quanto meno misteriosi i motivi della convocazione, della quale, oltretutto, mi è stata
sottolineata l’urgenza.
Mi alzo dalla poltrona ed esco dalla stanza. Attraverso lunghi corridoi prima di
accedere all’ascensore, quindi scendo al piano della presidenza. Ovunque transito odo il
rimbombo delle grida studentesche, ora ovattate, ora esaltate, al mutare della prospettiva di
ascolto. E in ogni angolo incontro capannelli di impiegati, quali divertiti, quali scocciati, a
parlottare sul fatto del giorno. Qualcuno più “coraggioso”, o ignaro del rischio di venire
preso di mira, indugia alle finestre che si affacciano sul cortile interno, a caccia di
particolari curiosi tra la massa di manifestanti. Oltrepasso senza indugio l’uscio sempre
aperto dell’ufficio di segreteria del Presidente.
“Salve Porena...”
Una delle due avvenenti segretarie, che conosco da molti anni, mi riceve sorridendo,
mentre l’altra resta assorta in un colloquio alla cornetta telefonica (qui il telefono è assai
difficile trovarlo in riposo).
“...dai che ti sta aspettando !”
Sbarrando gli occhi e inarcando le sopracciglia, onde incutermi solerzia, fa un cenno con la
mano di invito ad entrare nella stanza comunicante alle sue spalle. Non ricambio il saluto,
attanagliato come sono dalla preoccupazione per i motivi dell’incontro, proseguo lungo un
piccolo corridoio di pochi metri, con lo sguardo abbassato sul pavimento e mi arresto sulla
soglia della stanza attigua, che ha la porta quasi completamente aperta. L’arredo
dell’interno appare tale e quale l’avevo visto l’ultima volta che ero entrato lì :
20
assolutamente scarno ma “prezioso”, come si addice al massimo rappresentante di
un’Amministrazione Pubblica. Una grande scrivania in noce di legno massello in stile
classico, delle maestose poltrone in pelle nera, un piccolo armadio a lato in legno con vetri
di tonalità grigio-fumo, dai quali traspaiono pochi grandi volumi con ottima rilegatura, due
quadri alle pareti, con molta probabilità originali e “d’autore” (anche se non so dire di
quale autore, sono ignorante nel campo), una bellissima “kentia” dal fogliame rigoglioso e
lucido accanto alla finestra. Un grosso abat-jour acceso getta luce sulle carte sparse
appoggiate sulla scrivania. Il Presidente, illuminato solo parzialmente in volto, ha la testa
china su alcuni fogli e non si è ancora accorto della mia presenza all’ingresso.
“Posso.... ?”
Il Presidente solleva prima gli occhi, poi la testa.
“Ciao Porena....entra, ti stavo aspettando !”
Un vago e composto accenno di sorriso, per quanto non faccia certo trapelare una
disposizione di esuberante cordialità, è comunque sufficiente ad alleviare all’istante la
preoccupazione che covo dentro e a tranquillizzarmi sui motivi della convocazione (non è
a causa del manifesto !). E in quelle scarse frazioni di secondo mi torna in mente l’invito
rivoltomi dal Presidente, in precedenti occasioni, ad usare confidenzialmente il “tu” nei
suoi riguardi.. Ma dare del “tu” ad un interlocutore non è cosa facile quando manca il
presupposto di una frequentazione reciproca assidua, quando si frappongono delle
oggettive, rilevanti differenze di posizione nella gerarchia sociale condivisa e, soprattutto,
quando si insinua il sospetto che l’”egualitarismo” del linguaggio informale è in realtà
usato per mascherare insuperabili disuguaglianze di potere. D’altronde persistere a dare del
“lei” di fronte ad un’esplicita richiesta del “tu”, quasi certamente palesa una scortese
volontà di mantenere le distanze o addirittura di sottolineare le reali differenze di ruolo
esistenti. Paradossalmente, non ha l’effetto di dimostrare un atteggiamento di cortesia,
ossequio e rispetto verso l’interlocutore, come ci si attende che dimostri, ma ha quello
opposto di rivelare scortesia e disprezzo. Pertanto, come già in tante altre occasioni simili
era capitato, mi rivolgo impulsivamente al Presidente utilizzando un’indecifrabile
soluzione colloquiale intermedia.
“Salve, Presidente !...cosa succede ?”
Nel contempo mi avvicino alla scrivania.
“Be’ ...sai Porena...(e qui il tono della sua voce assume una modulazione paternalistica,
come di solito gli accade nei colloqui con i dipendenti - credo per procacciarsi
21
“democraticamente” un’entusiastica collaborazione)...checché se ne pensi, fare il
Presidente non è cosa agevole. La gratificazione che deriva dal poter svolgere un ruolo di
così grande levatura e responsabilità, non ripaga sempre appieno delle frustrazioni e delle
difficoltà con le quali si deve fare i conti nel cercare di amministrare le risorse pubbliche
con oculatezza ed efficacia. Ma...bando a queste che forse possono sembrare retoriche
considerazioni...(negli attimi di sospensione che si concede, i lineamenti del suo volto si
fanno seri, e intanto indica con la mano la poltrona sulla quale andarmi ad
accomodare)...oggi, per esempio, mi trovo impelagato non soltanto con le questioni di
ordinaria amministrazione - già esse stesse impegnative e spesso delicate - ma mi capita
anche tra le mani questa inaspettata patata bollente...gli studenti...ti sarai accorto degli
studenti ! ?”
“Oh, si, certo ! E’ un po’ difficile non accorgersene....bisognerebbe essere proprio sordi !”,
rispondo scherzosamente, apparecchiando per lui un amichevole disponibilità, che per altro
già sembra aver messo in conto come scontata e dovuta.
“Bene ! Anzi MALE !”, sottolinea in tono gravoso.
“Vengo al dunque.”
Mi costringo ad esibire anch’io un atteggiamento serio e attento, come il caso impone.
“Gli studenti mi hanno fatto pervenire poco fa la ‘richiesta’, diciamo così, di potersi
confrontare pubblicamente con me sulle loro rivendicazioni, che risultano non ben
specificate. Ora - a parte l’ovvia, e perciò scusabile, intemperanza nel modo in cui mi è
stata fatta recapitare la richiesta....un modo del tutto ‘giovanile’ - credo sia opportuno non
disdegnarla. Non possiamo sottrarci a questo obbligo di democraticità. E, d’altronde, credo
anche che questa Amministrazione abbia sempre assolto, per quanto di propria
competenza, le funzioni di sostegno e assistenza a favore degli istituti scolastici e della
pubblica istruzione. L’assessore preposto, purtroppo, ha assunto il proprio ruolo solo di
recente, in sostituzione dell’assessore dimissionario ; pertanto ritengo che il suo contributo
in questa occasione possa rivelarsi non...come dire...non all’altezza per ovvi motivi di
inesperienza in materia. Il guaio è che, proprio oggi, non si trova in sede il responsabile
attualmente incaricato delle funzioni anzidette ....il Dr. Antiochia, che ben conosci,
immagino.”
“Sì, certo che lo conosco...”, sento crescere dentro di me una certa inquietudine. Credo di
comprendere dove va a parare il suo discorso. Con cogenti argomentazioni e pochi scrupoli
mi sta passando in mano quella patata bollente...che scotta davvero !
22
“E’ assente per motivi di salute, perciò assolutamente indisponibile...”
Più chiaro di così !
“...Ecco. Mi sono ricordato che, se non vado errato, fino ad alcuni mesi fa ti occupavi tu, ed
anche in modo egregio....” (figuriamoci !) “...dei contributi per gli interventi di
manutenzione degli istituti scolastici, così come della programmazione delle iniziative di
sostegno didattico per le scuole medie superiori...”
Mi sta delicatamente tastando il polso per appurare se sono pronto ad accollarmi la rogna ;
e so già che esito avrà la diagnosi, ma non posso sottrarmi all’esame.
“Fino a sei mesi fa, per la precisione. Me ne sono occupato per tre anni consecutivi e...”,
era il punto al quale voleva arrivare fino da principio.
“Perfetto !”
Perfetto un cazzo !
Comprendo di essere stato raggirato e anche di non poter fare niente per eluderne le
conseguenze. Mi limito - subendo il giogo dello sguardo di chi è abituato ad ottenere
sempre quello che vuole - a continuare la parte dell’ingenuo che non ha ancora capito
niente.
“Che cosa....perfetto, Presidente ?”
“Caro Porena.....ancora ‘Presidente’ mi chiami ? Lascia perdere i titoli, gli appellativi
formali....qui stiamo tutti su una stessa barca e tutti egualmente remiamo per farla andare.
Antonio...ti ricordi che mi chiamo Antonio, no ? E dunque....”
“Scusami !”, rispondo con rassegnata consapevolezza di essere stato ormai fregato ed
arrendendomi ad entrare nella sintonia confidenziale che lui predilige.
“Bene. Ciò che voglio dirti è che, ora come ora, soltanto una persona può con competenza
‘trattare’, diciamo così, sulle questioni che gli studenti vogliono sottoporci e fronteggiare
così la delicata emergenza che si è imprevedibilmente creata. D’altronde, ripeto, non
possiamo esimerci dal confronto...ne va della rispettabilità di questa Amministrazione.”
Sta attendendo la mia esplicita autocandidatura allo scopo, non vuole, non ha mai voluto non è nel suo stile - pretendere o lasciare trasparire una qualche forma di coercizione
nell’assolvimento delle funzioni all’interno dell’Ente. L’attende da me, ex-anarchico,
dichiarato nemico dello Stato (ma lui questo non lo sa). Proprio io dovrei salvare la
rispettabilità dell’Amministrazione ! E sa - lo sa con assoluta certezza - che non posso
deludere la sua aspettativa.
“Io....Antonio ?”
23
“Certo, Porena, chi altri se non tu.....Enrico - se non sbaglio - vero ?”
Annuisco con la testa, ma la mia mente è già immersa con apprensione in un immaginario
confronto (scontro ?) con la massa studentesca. Mi sorge un dubbio che debbo chiarire
all’istante.
“Ma il confronto avverrà, suppongo, con una rappresentanza degli studenti non con...”
“Ma certo ! E’ evidente. Darò disposizioni che nella Sala Consiliare, dove farò svolgere
l’incontro, non abbiano accesso più di 10-15 studenti. E poi anch’io sarò presente, almeno
inizialmente, per esprimere la solidarietà di questa Amministrazione nei confronti del
legittimo protagonismo cui gli studenti vogliono adempiere. Sarà comunque determinante
il tuo apporto...tecnico, in quanto dovrai fornire le dovute spiegazioni e giustificazioni al
nostro operato passato e presente in ordine alle competenze dell’Ente in materia, e qui ti
potranno essere di aiuto le esperienze che hai acquisito in passato. Importante è anche poter
abbozzare - ma soltanto abbozzare per grandi linee - programmi di intervento futuri
tenendo conto delle istanze che saranno avanzate, di quelle più ragionevoli ovviamente....e
qui dovrai far conto più sulle tue capacità di ‘improvvisazione’, cercando di risultare
credibile...non so se mi spiego !”
Annuisco ancora con un cenno del capo. Queste brevi “istruzioni” mi suggeriscono
abbastanza chiaramente gli accorgimenti dialettici che dovrò adottare : equilibrismi
funambolici e piroette da saltimbanco, mediante l’uso ponderato, mai troppo
circostanziato, delle parole. Tutto ciò che, non solo non ho mai saputo fare, ma ho anche
sempre provato repulsione a fare.
“Ma ora penso...(non mi lascia il tempo di riflettere, né tantomeno di cercare eventuali vie
di scampo per eludere l’incarico) ...sia il caso di muoverci e di andare in Sala Consiliare.
Sai....ogni istante che passa cade benzina sul fuoco, con il rischio che divampi e diventi
incontrollabile...non credi ?”
Si alza diritto prima ancora che riesca a rispondergli, invitandomi di fatto a fare altrettanto
e a seguirlo. Mi lascia così privo di qualsiasi spazio di manovra, togliendomi il terreno da
sotto i piedi.
Attraverso lunghi e stretti corridoi - dei quali, fino a quel momento, supponevo solo
l’esistenza - mi conduce alla Sala Consiliare, arrestandosi una sola volta lungo il percorso
per dare, sottovoce, alcune disposizioni ad un usciere in divisa grigia. Appena entrati nella
Sala, essa mi appare anche più enorme del solito, forse perché deserta, forse per la
particolare prospettiva visuale, dalla quale ora, per la prima volta, la osservo. E ne rimango
24
impressionato. Il Presidente va a sedersi nella poltrona posta in posizione centrale dinanzi
al lunghissimo tavolo semicircolare, ove usano raccogliersi tutti i consiglieri durante le
sedute preordinate. Mi fa cenno di imitarlo sedendo al suo fianco, nel posto di norma
occupato dal vicepresidente. Assesta il microfono davanti a sé, spinge un pulsantino su un
apparecchio di comando, verifica il funzionamento battendo due piccoli colpi con il dito
indice sullo stesso microfono, che subito li trasmette amplificati per tutta la Sala. Quindi
volge lo sguardo verso di me.
“Prova anche tu !”
Mi affretto ad eseguire le medesime operazioni. Appena premuto il pulsantino di
accensione, dal lato destro in fondo all’aula, dirimpetto a noi, odo provenire un confuso
brusio.
“Sono loro”, egli mormora, restando in atteggiamento tranquillo, da persona “navigata” in
ogni genere di incontri. Di fronte a questa ostentata sicurezza mi sento come un pulcino
spelacchiato. Provo sempre una incoercibile ansia quando debbo parlare in pubblico,
soprattutto quando so di doverlo fare per mezzo di un microfono. E ora non ho nemmeno il
tempo di adattarmi psicologicamente all’idea. La porta per l’accesso di giornalisti ed ospiti
vari, durante le sedute di Consiglio, si spalanca. Un usciere ha appena il tempo di
affacciarsi sulla soglia, ma non quello di annunciare l’arrivo degli studenti, i quali lo
sopravanzano con irruenza e senza andar troppo per il sottile. Affluiscono nella sala
creando un certo trambusto. Le facce sono quelle che mi aspettavo di vedere : fresche,
sorridenti, traboccanti di una disarmante vitalità, propria solo di chi è sostenuto da potenti
ideali che non hanno ancora conosciuto la sconfitta. Alcune dimostrano un’età superiore
alla media. Presumibilmente sono quelle di studenti universitari. Il che rafforza
l’impressione che ho ricevuto in prima mattina sull’elevato grado di maturità e
politicizzazione di questo movimento. Di certo il confronto si preannuncia impegnativo, e
il Presidente, nel colloquio avuto con me, su questo aspetto del problema ha del tutto
sorvolato (forse per evitare di scoraggiarmi ?).
Entrano 10, 15, 20 studenti, e il flusso caotico continua. Rivolgo lo sguardo verso di lui
come per cercare una spiegazione. Egli lo ignora, restando immobile
a fissare la
consistente flotta che si intravede assiepata dietro l’uscio e che non accenna ad esaurirsi.
D’improvviso i suoi occhi tradiscono un lieve allarmismo. Si alza in piedi di scatto e tende
deciso il braccio in direzione dell’uscio.
25
“No..no ! Scusate...gli accordi presi prevedevano che a parlamentare intervenisse una
rappresentanza di 10-15 studenti massimo !”
Dal fondo della Sala, lontana ma nitida e risoluta nel tono, si leva una voce di risposta :
“Ci dispiace deluderla, Presidente, ma durante l’attesa abbiamo considerato che, in
rappresentanza di tutti gli istituti scolastici di città e provincia, nonché delle varie facoltà
universitarie che hanno aderito a questa manifestazione, sono assolutamente insufficienti
15 persone. Nessuna delle varie organizzazioni di lotta che si sono autonomamente
costituite, e sono tante - glielo assicuro - ha rinunciato a inviare propri rappresentanti...ed è
giusto che sia così. D’altronde il movimento non ha ritenuto opportuno eleggere fino ad ora
un organo ristretto che possa con piena legittimità farsi portavoce di tutte le istanze presenti
al suo interno, in quanto i tempi sembrano prematuri.”
La perspicacia dimostrata dal giovane ammutolisce il Presidente che, visibilmente irritato,
si risiede incassando la sconfitta. Fingendo di accettare senza disappunto la variazione al
programma, il fatto compiuto, abbozza un sorriso di generosa accondiscendenza e si volta
verso di me.
“Be’...tenendo conto di una così ampia e articolata partecipazione alla protesta, credo sia
opportuno soprassedere e lasciare entrare tutti i rappresentanti che vogliono. D’altronde
nella sala c’è ancora molto spazio, inutile arroccarsi su questioni di principio...non
trovi ?...però sono astuti questi studentelli !”
“Già !”, gli rispondo, sorridendo anch’io. Con un sorriso che nasconde un lieve imbarazzo
per le goffe giustificazioni con le quali egli ha cercato di salvare il prestigio e il carisma
della sua alta carica sociale, sminuiti dalla logica semplice ed efficace di uno studente.
La sala si va riempiendo, fino ben oltre il numero di posti a sedere previsti per ospitare
il pubblico ; cosicché gli studenti si dispongono via via lungo gli spazi laterali a ridosso
delle pareti. Il presidente tamburella con frenesia le dita Sul tavolo, spaziando con lo
sguardo spazientito ora a destra, ora a sinistra. Poi si alza di nuovo in piedi, si aggiusta il
microfono portandolo all’altezza delle labbra.
“Ora basta !...per favore ! Ora basta ! Possiamo dare inizio all’incontro....la sala è
colma....”
Alcuni fischi lo interrompono. Una voce dal tono sarcastico sembra addirittura voler
redarguire l’impazienza dimostrata :
“Egregio Presidente...molti rappresentanti sono ancora fuori, e davanti al tavolo c’è ancora
spazio sufficiente per ospitarne altri, magari seduti in terra...”
26
“Per favore....per favore ragazzi, non creiamo problemi ; è già anche abbastanza tardi e non
posso trattenermi a lungo...altre questioni urgenti mi attendono....se lo ritenete opportuno
fate entrare pure i vostri rappresentanti ma...in silenzio, vi prego, in silenzio. Intanto diamo
inizio alla seduta....all’incontro. Chi di voi intende prendere per primo la parola ? Chi vuole
illustrare le richieste ?”
Il presidente rimane in attesa di una risposta, con l’atteggiamento spavaldo di chi sa che
una risposta la può pretendere. Ma gli studenti, intanto, una seconda concessione già
l’hanno ottenuta e si riuniscono in capannelli per consultarsi, a momenti anche con una
certa animosità.
“Allora...ragazzi ? Chi si fa avanti per primo ?”, egli sollecita con aria quasi di sfida, e
aggiunge : “Vi consiglio di utilizzare i microfoni a voi più vicini che si trovano sul tavolo
dei consiglieri”. Una terza concessione, questa però volontaria, elargita all’evidente scopo
di sottolineare la perfetta democraticità del confronto. Proseguono per alcuni minuti
frenetiche consultazioni tra gran parte degli studenti, sotto lo sguardo indagatore, iniettato
di ira malcelata, del Presidente. Poi dal raggruppamento più rumoroso si stacca lo studente
che, con la sua concisa arringa, aveva inflitto poc’anzi la prima lezione dialettica al “Gran
Capo” dell’Amministrazione. Alto, magro, dal volto pallido e incavato, sporcato da una
rada peluria, gli occhi piccoli e stretti, di forma quasi orientale, ben visibili dietro sottili
lenti circolari, capelli cortissimi a spazzola, lo sguardo fiero tipico del leader carismatico.
La sua voce è ferma e convinta, come di chi ha mille ragioni da vendere :
“Signor Presidente...”
“Al microfono, prego, al microfono...così possiamo ascoltare tutti bene .”
Con quell’aggeggio spera forse di indurlo ad un atteggiamento timoroso ? Con me
potrebbe....
“Sì....d’accordo.”
Avvicinatosi al banco dei consiglieri e preso in mano il microfono più vicino, lo studente,
quasi sicuramente universitario, spinge il pulsantino di accensione dietro suggerimento di
alcuni compagni e riprende a parlare :
“Signor Presidente ! Messi così alle strette, gli studenti qui presenti hanno designato il
sottoscritto ad illustrare le richieste del movimento. Resta inteso che, quanto andrò
esponendo, non rappresenta necessariamente tutto il movimento, né tantomeno esaurisce le
sue rivendicazioni. Posso solo garantire che cercherò di enucleare le principali esigenze
27
maturate tra gli studenti della nostra provincia in questi ultimi mesi di lotta ; le loro
esigenze più sentite, almeno fino a questo momento...”
“Bene ! Molto bene ! Le esponga, se possibile, provando ad essere il più chiaro e sintetico
possibile.”
Perché queste continue interruzioni ? Tatticismo ?Azioni di disturbo per provocare
nervosismo al nemico ? O sta cercando di entrare in più stretta confidenza con esso ?
Mi sento confinato in un cantuccio come un coniglio in gabbia, ma almeno ho evitato la
mischia, ho eluso ogni attenzione diretta...per il momento.
“Innanzitutto voglio mettere in primo piano, come credo che meriti, la cronica precarietà
delle strutture e delle attrezzature a disposizione tanto delle scuole medie superiori, quanto
delle facoltà universitarie. E vi includo i mezzi di trasporto per i fuori sede. Assolutamente
insufficienti, arretrati, carenti, malsani, disorganizzati e quant’altro di indecente si riesca a
immaginare.... (scroscia un applauso fragoroso)....La nostra provincia, rispetto a tante altre
province del territorio nazionale - ci siamo documentati - offre dei servizi per l’istruzione
pubblica a dir poco vecchi di almeno 20-30 anni. Dove erano, in questi ultimi decenni, i
nostri amministratori pubblici ? Che fine hanno fatto i soldi stanziati e in molte altre
province spesi per migliorare il servizio scolastico ?... (altro applauso scrosciante)
...Chiediamo, pertanto, che per l’inizio del prossimo anno scolastico e accademico si
avviino concretamente i lavori di aggiornamento e miglioramento delle strutture, degli
impianti, dei mezzi di trasporto e ....., in proposito, abbiamo stilato una lista completa e
dettagliata delle cose da fare, riferite ad ogni singolo istituto, che però non le leggo - tanto
per accogliere la sua richiesta di sinteticità.
“In secondo luogo, ma non certo al secondo posto per importanza, il movimento rileva
l’inadeguatezza degli organismi di consultazione e di rappresentanza studentesca
istituzionalizzati da oltre 15 anni. In questi anni di funzionamento essi hanno dimostrato, in
modo inequivocabile, di essere dei raffinati strumenti di controllo degli umori e delle
aspirazioni
della massa studentesca, giammai degli strumenti di cogestione e
compartecipazione all’organizzazione degli indirizzi didattici e dei sistemi di
insegnamento. Si era voluto far credere che essi potessero svolgere delle funzioni di
innalzamento dei livelli di democraticità all’interno del mondo della scuola, ma è risultata
subito abbastanza chiara la loro vera natura di mezzi subdoli per carpire il più largo
consenso possibile nei confronti dei programmi e delle direttive calate dall’alto. In altre
parole, costituiscono una beffa e una mistificazione, un ingannevole paravento contro le
28
autentiche istanze di partecipazione diretta, da parte dei giovani, alla propria formazione
(altro applauso ed incitamenti all’autogestione della scuola).
“In terzo luogo...”
“Un momento...un momento !”, interrompe il Presidente, “Va tutto molto bene, ragazzi,
sono soddisfatto della maturità e lucidità con le quali il vostro rappresentante sta
esponendo le legittime rivendicazioni del...movimento. Ma affinché il suo non risulti un
monologo o, peggio ancora, un comizio sterile - e questo lo dico nel vostro interesse - vi
consiglierei di procedere con un metodo...come dire...più redditizio, sottoponendo punto
per punto al parere tecnico del funzionario competente che siede al mio fianco, il Dr.
Porena. Lui, persona di indiscutibile serietà e professionalità, saprà dare le risposte
esaurienti ai vostri dubbi e ai vostri quesiti...(avverto sopra di me gli sguardi puntati degli
studenti come fossero canne di fucile di un plotone di esecuzione, ma non ho il coraggio di
verificare sollevando gli occhi, che sono proiettati su un oggetto indeterminato del
tavolo)....e, inoltre, saprà illustrare le reali possibilità che questo ente amministrativo ha di
accogliere, sostenere, agevolare o, in qualche modo, venire incontro ad ogni richiesta (sono
proprio cotto a puntino). Personalmente, ora, non posso che limitarmi ad esprimere piena
solidarietà, anche a nome dell’Amministrazione che rappresento, nei confronti della
protesta e delle modalità, fino a questo memento civili, con le quali è stata condotta.
Qualsiasi amministratore, credo, non può che guardare di buon occhio la vitalità che si
annida in essa, questa sacrosanta voglia di partecipazione, di impegno democratico
finalizzato, almeno implicitamente, a dare impulso di ringiovanimento alle istituzioni
pubbliche e alla società tutta, troppo spesso ancorate a sclerotici, superati ordinamenti. Ciò
che dico spero possa aiutarvi a vedere, nella nostra Amministrazione, non necessariamente
una controparte nemica da sconfiggere, ma un possibile alleato per migliorare la qualità
della vita di tutti, in primo luogo di voi giovani che rappresentate il futuro. Ora, con questa
speranza, sono costretto a congedarmi da voi per riprendere l’attività di tutti i giorni che,
capirete, non può essere trascurata per riguardo agli interessi di tutta la popolazione. So,
comunque - e questo mi conforta - di lasciarvi alla qualificata assistenza tecnica del
funzionario qui presente, che reputo, senza ombra di dubbio, all’altezza della situazione.
Egli saprà avviare un fattivo momento interlocutorio per instaurare una successiva,
duratura intesa tra il vostro movimento e questa Amministrazione (una perfetta uscita di
scena che mi lascia immerso nella merda fino al collo).
29
Seguono alcuni secondi di quasi assoluto silenzio. Il Presidente spegne il pulsantino del
microfono e si accinge ad abbandonare l’aula. Non ha il tempo di voltarsi completamente
che una sonora bordata di fischi e schiamazzi ingiuriosi si solleva contro di lui.
Visibilmente scosso dall’esplosiva reazione - seppur non credo si aspettasse di ricevere
applausi e omaggi floreali - si arresta pietrificato per pochi istanti, poi, con lo sguardo
abbassato, allarga le braccia per mimare l’impossibilità di trattenersi in aula ulteriormente.
Quindi si avvia con passo deciso verso la porta dalla quale eravamo entrati insieme,
ostentando sicurezza d’intenti, senza mostrare tentennamenti e senza voltarsi indietro, sotto
una pioggia furiosa di fischi.
Rimango disarmato e solo in questa baraonda, frastornato e incapace di abbozzare un
qualche tipo di reazione. Non sono certo abituato a fronteggiare simili situazioni, non da
questa angolazione prospettica, del tutto atipica per la mia esperienza di vita. Comprendo
che è il momento della mia entrata in scena obbligatoria, ma lo scoramento mi paralizza.
Poi, d’istinto, rimanendo seduto e con mia stessa grossa sorpresa, mi trovo a gesticolare
con le braccia un supplichevole invito alla calma rivolto agli astanti.
“Vogliamo il Presidente...vogliamo i responsabili dell’Amministrazione qui davanti a
noi !”, grida una voce anonima in fondo all’aula, seguita da un rinforzo di fischi e da
invettive (“buffoni”, “non ti nascondere Presidente”, “esci fuori coniglio”....).
Devo fare qualcosa al più presto.
Mi alzo in piedi mentre accosto il microfono alle labbra. Alcune parole mi escono di bocca,
dopo aver superato, non so come, il blocco alla gola. Ma nella sala non echeggiano. Il
pulsantino....lo spingo, e finalmente :
“Scusate....per favore....scusatemi...” - la voce si disperde tra gli insulti e i fischi - “...vi
prego...scusatemi...”, alzo sensibilmente il tono di voce. Con gradualità lo scontento si
affievolisce e si trasforma in un diffuso brusio. Ne approfitto.
“Ragazzi....” - a questo paternalistico appellativo, già usato dal Presidente, non riesco a
trovare alternative accettabili (come li potrei chiamare senza risultare freddo e
distaccato ?) - “...io ritengo si possa intavolare una discussione anche in assenza del
Presidente, considerato che il suo apporto non può estendersi al di là delle dichiarazioni di
impegno e disponibilità già esplicitamente espresse. A questo punto occorre valutare quali
siano i problemi e le difficoltà tecniche da superare per avviare a soluzioni praticabili le
vostre istanze, facendo leva, nei limiti del possibile, sulle risorse e le prerogative
istituzionali di questa Amministrazione. E dunque, al momento,...”
30
“Parla come mangi !”, mi interrompe burlescamente una voce nascosta nella calca
assiepata lungo le pareti laterali, cui fa eco una risata generale.
“Sì..scusate il mio linguaggio un po’ burocratico al quale sono ormai assuefatto...cercherò
di evitarlo. E, dicevo, al momento, per questo scopo, non abbiamo più bisogno del
Presidente. Appena saremo riusciti a fissare dei punti di intesa minimi, potremo allora
sottoporli all’avallo definitivo del Presidente e della Giunta reggente.”
“Bene, d’accordo !”, riprende a parlare il “leader” alto e pallido interrotto poc’anzi.
“Raccolgo i suoi suggerimenti, come ho già raccolto quelli del suo superiore, e propongo di
affrontare subito la discussione del primo punto che ho, per sommi capi, già esposto. Si
potrà così valutare immediatamente la ‘praticabilità’ delle soluzioni tecniche che questa
Amministrazione intende offrirci”(segue applauso). “Per maggior concretezza le
sottopongo la lista delle necessità che abbiamo compilato, cui prima avevo accennato.” Si
avvicina con passo deciso e mi consegna alcuni fogli dattiloscritti.
Chinato con la testa su quei fogli da alcuni minuti, credo di riuscire a dare
l’impressione di una persona che sta seriamente esaminando e valutando il loro contenuto.
In realtà, già da un semplice primo rapido sguardo mi sono subito reso conto dell’enorme
distanza che separa quell’interminabile elenco di richieste e le scarse disponibilità
finanziarie di cui può disporre l’Amministrazione in materia, almeno stando ai ricordi della
mia precorsa esperienza nello svolgimento delle mansioni inerenti. Mentre gli studenti si
concedono una pausa tra risolini e battute scherzose, presi dall’eccitazione per l’esaltante
momento che stanno vivendo, ho così tutto il tempo di piangermi addosso. Invece che
cercare possibili risposte da dare alle singole richieste elencate - già so che non esistono
risposte concrete ed esaurienti da fornire, se non, ad essere ottimisti, per una piccolissima
percentuale di quelle richieste - mi trovo a fare i conti con gli effetti di uno scoramento che
annichiliscono ben anche il desiderio di rispondere. Sono in un vicolo cieco. Anche le
gocce gelide di sudore che scendono dalle ascelle sul torace, producendo un tremito della
pelle, me lo dicono. Non è la prima volta che mi trovo in mezzo ai guai per essermi lasciato
lusingare dalle dimostrazioni di fiducia (astute o sincere il risultato non cambia) nei
confronti della mia presunta capacità a risolvere un certo problema. Ma questa volta credo
di aver toccato il fondo della coglioneria. Lasciarmi ammaliare dalle sirene di potere per
meschini giochi di nascondimento delle responsabilità nel malgoverno della cosa
pubblica ! Proprio io che non ho mai creduto alla buona fede di chi esercita il comando ! E
sì che, in questi lunghi anni di attività lavorativa presso l’amministrazione pubblica, non mi
31
sono certo mancate le conferme concrete di quanti interessi, calcoli politici, bramosie
carrieristiche, favoritismi, clientelismi, ed altre più o meno oscure finalità, siano infarcite le
relazioni interpersonali tra chi occupa i diversi livelli della gerarchia di potere.
“Avanti, facciamola finita ! Dateci delle risposte concrete !”, grida la solita voce anonima
della protesta. Esplode di nuovo un boato di urla, accompagnato da un ritmato battito di
piedi sul pavimento. Il frastuono è indescrivibile, vibra tutto, intorno e sotto di me. Sento
accapponarmi la pelle. Il tremore degli oggetti mi lascia pensare agli effetti di un sisma.
Rimango imbambolato ed inerme sotto la percussione prolungata di quel boato. Percepisco
lo sbriciolarsi di ogni capacità di resistenza interiore. I miei incubi non sono peggiori della
situazione che sto vivendo.
D’improvviso la porta laterale, la stessa dalla quale ero entrato insieme al Presidente, si
spalanca e si affaccia trafelato un usciere in divisa. Prende a gesticolare vivacemente con le
braccia per far calmare gli animi. Questo nuovo elemento del contesto, forse anche un po’
comico, agisce in me come un’endovenosa di glucosio, mi ricarica di energie. Scatto in
piedi imitando i gesti dell’usciere. Pian piano nell’aula si ristabilisce una relativa calma, e
l’ometto in divisa grigia si mette a parlare a gran voce :
“No...no...così non va bene ! Il Presidente mi manda a dire che non può assolutamente
tollerare un simile baccano all’interno del palazzo e che, se si ripeterà ancora, sarà costretto
a far intervenire le forze dell’ordine”.
Si solleva all’istante un coro di fischi e insulti.
“Torna fuori servo del padrone !”, “Va a lavorare in fabbrica, leccaculo !”
Risate e fischi si susseguono senza sosta. L’usciere insiste per un po’ con i gesti per far
cessare gli schiamazzi, poi desiste scoraggiato, forse vergognoso e intimorito, ritornando
sui suoi passi a testa china e richiudendo la porta alle sue spalle.
Mi ritrovo da solo in piedi, come un carciofo, a subire gli scherni della massa scatenata.
Ma proseguo a gesticolare.
“Calma, per favore !”, ripeto più volte, “Riprendiamo il confronto sereno. Procediamo a
discutere in dettaglio le richieste della vostra lista.” E finalmente torna la quiete, ma
tornano anche a convergere gli sguardi su di me.
“Sì, andiamo al sodo. Vogliamo concrete risposte e subito !”, grida un’altra voce anonima.
“Bene !”, rispondo prontamente per anticipare un altro probabile applauso. “Allora...nella
vostra lista è riportato, a quanto vedo, un elenco lungo e dettagliato di...disfunzioni,
carenze relative ad ogni singolo istituto scolastico. Mi pare di capire che alcune siano di
32
tipo organizzativo, altre di tipo strutturale, ovverosia riferite all’obsolescenza degli edifici e
degli spazi fisici nei quali vi trovate ad operare (come farò ad arrivare all’ultimo punto
della lista ?)”. Cerco di riprendere fiato e coraggio. “Faccio innanzitutto presente che
questa Amministrazione non ha ancora impiegato i fondi annuali dei quali dispone per far
fronte a questo tipo di problemi, in quanto deve, prima ancora, approntare una graduatoria
delle priorità d’intervento, e credo anzi che questa vostra lista possa tornare utilissima allo
scopo. La cosa si complica là dove leggo che è necessaria la costruzione ex-novo di un
edificio per l’istituto tecnico per Geometri e di un edificio per il Liceo Scientifico. Ora
domando : avete un’idea di quali risorse finanziarie occorrono e di quante difficoltà
tecnico-burocratiche esistono per edificare due nuovi e moderni istituti ? Siete al corrente
di quali invece siano le risorse finanziarie assegnate dagli organi centrali, statali e regionali,
a questa Amministrazione ed entro quali e quanti vincoli burocratici essa si trovi
normalmente costretta a svolgere le proprie competenze ?”
Negli attimi di silenzio che seguono passo in rassegna gli sguardi titubanti degli studenti, e
mi soffermo per ultimo su quelli del loro portavoce, che però non sembrano tradire alcuna
insicurezza. E’ proprio lui che, con misurata compostezza, risponde alle mie domande :
“Vede, Dr...... Porena - se non vado errato - (annuisco con la testa) a noi studenti non
interessa tanto sapere chi è che deve risolvere i nostri problemi, e nemmeno tanto in che
modo li possa o li debba risolvere, ma ‘quando’ si deciderà a risolverli una volta per tutte.”
Una tipica frase fatta che però non è certo priva di un fondo di verità e che, nemmeno a
dirlo, suscita l’ennesimo applauso di approvazione. “Se ci rivolgiamo alla vostra autorità è
perché essa costituisce il più diretto punto di riferimento locale di tutta la macchina statale.
E a voi dunque spetta il compito di agire, o di far agire chi di dovere ; non potete sottrarvi
alle vostre precise responsabilità sul malfunzionamento, per non dire peggio, del servizio di
istruzione pubblica.”
“D’accordo. Non intendo mettere in discussione le responsabilità che questa
Amministrazione, in quanto ente di governo, comunque in una certa misura viene a
ricoprire ; ma soltanto evidenziare i limiti operativi e finanziari entro i quali essa si trova
costretta a svolgere le proprie competenze. Per quanto concerne gli interventi di
manutenzione, di miglioramento, di adeguamento delle strutture scolastiche esistenti, i
margini di manovra sono sicuramente ampi e i tempi di realizzazione relativamente brevi.
Non altrettanto si può dire a proposito della costruzione ex-novo di istituti scolastici. In
questo caso le esigenze finanziarie sono ingenti e occorre ricorrere al supporto straordinario
33
di organi statali superiori. Di conseguenza, i tempi di realizzazione necessariamente si
allungano, e si complica di molto l’iter burocratico che deve essere percorso. Ecco...ritengo
che, in questo secondo caso, dovremo approntare insieme...., dico insieme questa
Amministrazione e il vostro movimento, una strategia congiunta per far pressione e....”
“Mi scusi se la interrompo, Dr. Porena. A noi risulta che, per quanto riguarda il primo caso
- quello della manutenzione e dell’adeguamento delle strutture - i tempi di realizzazione
non siano affatto così brevi come lei afferma, o almeno non lo sono stati per il passato. E
infatti, nella lista che le abbiamo presentato, sono incluse richieste atte a migliorare ed
adeguare l’efficienza degli impianti che risalgono ad anni indietro, ove non addirittura a
decenni (segue un lungo mormorio di approvazione). Riguardo invece al secondo
punto....be’....ci risulta che i nostri padri già avvertissero l’esigenza, quando frequentavano
la scuola, di un nuovo istituto per geometri e.....va be’, lasciamo perdere ! Voglio solo
aggiungere che ho l’impressione che si voglia continuare a nascondere o minimizzare le
responsabilità con il consueto gioco dello ‘scaricabarili’...”
“Ha ragione !”, lo sostiene un altro studente dal fondo della sala, che si distingue per
l’evidente capigliatura alla ‘moicana’. “Smettiamola con le chiacchiere ! Vogliamo i fatti, e
li vogliamo subito !”
Esplode la sala in un nuovo fragoroso applauso, che questa volta sembra interminabile.
Urla, fischi, invettive. Centinaia di piedi riprendono a battere ritmicamente sul pavimento.
Una spaventosa vibrazione si trasmette dal solaio ai muri delle pareti, ai vetri delle finestre,
alla mobilia. “BUF-FO-NI, BUF-FO-NI...”, e ancora “LA-DRI, LA-DRI...”. Una bolgia
infernale. Sopraffatto dallo sconforto, ho l’impressione di vivere l’avvenimento in una
dimensione surreale, sento vacillare le mie capacità cognitive. Non distinguo più un insulto
dall’altro. Solo l’insulto. La spietata denigrazione. Le frustate. Una frustata appresso
all’altra. Ognuna mi dilania, approfondisce il solco scavato dalla precedente. L’orgoglio è a
pezzi, si sbriciola. Una frustata dopo l’altra. Un calore intensissimo, che cresce sempre più,
prende possesso delle mie viscere, come lava incandescente sul punto di eruttare. Un fuoco
che brucia, che divampa, che sale fino alle gote e preme per uscire, prorompere senza freni.
E non sento più freni, inibizioni, meccanismi di autocontrollo. Solo un’onda, un’onda
travolgente alla quale non posso, non voglio opporre resistenza. Scatto in piedi come una
molla, abbranco il microfono.
“Come cazzo vi permettete di offendermi ?...”, urlo a squarciagola, e nemmeno capisco se
la mia rabbia venga amplificata, percepita, ascoltata. “...Io non sto prendendo per il culo
34
nessuno ! Avete capito ?...(avete capito ? mi potete capire ?)...Non potete fare di tutta
l’erba un fascio ! Io sono un lavoratore, un semplice lavoratore e basta !..(lo sapete cosa
significa lavorare, guadagnarsi da vivere, umiliarsi giorno dopo giorno per
sopravvivere ?)...Io non sono il portavoce dello Stato...non governo io questo paese, questa
città...mi ascoltate ?”
Il caos generale. Nessuna risposta, tante risposte, grida, insulti, offese di ogni genere,
slogans di rabbia. E la mia rabbia, inefficace, impotente, ridicola. Un putiferio
indescrivibile in cui brancolo confuso, smarrito, avvilito, vilipeso ed assolutamente
incompreso. Vedo (è un’allucinazione ?) la porta spalancarsi in fondo all’aula. Da sopra le
teste degli studenti esagitati distinguo, come in un sogno, un coacervo di caschi blu che
preme per entrare da quella porta. Vi riesce. Alcune aste scure si sollevano in aria
(manganelli ! ?). Urla di paura si stagliano distinte nel frastuono generale e danno il ‘là’ ad
una baraonda terrificante che all’istante dilaga nella sala.
“La polizia ! No...la polizia no ! Non è possibile...è inconcepibile !”
La massa studentesca, come un’onda di piena, si proietta compatta verso il tavolo dei
consiglieri, verso di me, travolgendo tutto. “Assassini !...Assassini !...” Le sedie, la pedana
di legno, il lungo tavolo semicircolare scricchiolano, poi si frantumano. La ressa mi
trascina verso le vetrate alle mie spalle. I tendaggi in velluto rosso davanti alle finestre si
staccano, precipitano al suolo ammantando gli studenti. Alcuni vetri si infrangono, cadono
con fragore a terra in un tintinnio agghiacciante. La calca ondeggia in ogni direzione, mi
trasporta con se di qua e di là. Sono schiacciato dai corpi. La pressione sui polmoni mi
toglie il respiro. Ogni resistenza fisica è vana. Ho i timpani martoriati dalle grida atterrite.
Riesco ad emettere un filo di voce: “La polizia no !...no !” Alcuni studenti vengono
afferrati per le braccia, altri per i capelli. I manganelli si abbattono ovunque, sulle teste
sulle spalle, sulle gambe. “Polizia assassina !”, “Ecco come sapete rispondere alle nostre
richieste !”, e ancora, “Bastardi !” Qualche ragazzo abbozza una reazione istintiva con calci
e pugni, subito sommerso da 4 o 5 poliziotti che menano furibondi. “Basta !...Assassini !”
Gli abiti si lacerano, parti del corpo si denudano, scarpe volano via, pezzi di legno fendono
l’aria intorbidita dalla polvere e dal fumo andando a colpire improbabili destinatari. Riesco,
con gran fatica, ancora a respirare, e respiro il puzzo acre del sudore, del terrore, del
sangue. Il sangue ! “Maledetti, il sangue !” Sventolano le bandiere, le bandiere rosse, le
bandiere rossonere, le bandiere nere con la ‘A’ cerchiata nel mezzo. I pugni alzati, le
macchine rovesciate, i cassonetti dell’immondizia incendiati. La rivoluzione. W LA
35
RIVOLUZIONE. I fazzoletti che coprono il volto fino sotto gli occhi, i passamontagna
neri, i lunghi e grossi bastoni di legno agitati in aria, le vetrine dei negozi infrante, i
tascapane a tracolla colmi di biglie di ferro e di molotov, i cubetti di porfido divelti dal
selciato. NE’ DIO NE’ STATO, NE’ SERVI NE’ PADRONI...W MARX, W LENIN, W
MAO TSE THUNG. Il fumo denso che avvolge tutto, la tosse violenta e irrefrenabile, gli
occhi che bruciano gonfi di lacrime, i conati di vomito, e via... le fuga precipitosa, a
perdifiato, lungo i vicoli, il terrore che incalza alle spalle. Malatesta, Bakunin, Kropotkin,
Proudhon.
La
rivoluzione.
W
LA
RIVOLUZIONE,
W
L’ANARCHIA,
W
L’ANARCHIA...
36
CAPITOLO III
PRIMAVERA CON MARY
E’ il 5 di aprile. Una stupenda giornata di sole, con il cielo terso, senza nemmeno una
piccola “pecorella” bianca a macchiarlo (stando almeno alla visione limitata che ne ho
dalla finestra dell’ufficio). Sono appoggiato da pochi minuti con gli avambracci sul
davanzale e un leggero alito di vento mi soffia in faccia, insufficiente a scomporre i miei
capelli. E’ una di quelle giornate che ravviverebbero anche un moribondo, che non possono
lasciare indifferenti, ma, al contrario, riescono ad elettrizzare anche coloro che sono
abituati a trascorrere gran parte del proprio tempo nel chiuso di stanze illuminate al neon
(anzi, spesso, soprattutto questi). Non faccio di certo eccezione io a questa “regola
naturale”, che rimango addirittura frastornato dall’influsso vivificante di tale bagno di luce
e di tiepido calore primaverile. E questa sensazione risulta forse più accentuata dal fatto
che sono appena trascorse giornate molto grigie e piovose, con connotazioni tipicamente
invernali, strascichi di una stagione fredda ormai terminata per il calendario. E che la
sensazione di ebbrezza, questo corporale “effetto primavera”, si manifesti come un
fenomeno di dimensione sovra-individuale, come una sorta di “anima collettiva”, non
dipendente da semplici predisposizioni caratteriali personali - dimostrazione della potenza
plasmante degli elementi ambientali sull’uomo - riesco a dedurlo, nel piccolo della mia
“nicchia” di mondo, dall’insolito e pronunciato vocio che sento provenire dall’atrio al
piano terra della sede amministrativa, in cui da molti anni ormai offro le mie prestazioni di
lavoro. Sono le ore 14,00 e gran parte del personale impiegatizio si appresta, con
inconsueta vivacità, al rituale della timbratura del cartellino per l’uscita. Accensioni di
motorette (mezzi prediletti da molti impiegati per sfuggire al caos del traffico urbano),
rombi di automobili, sportelli che sbattono, risatine che seguono a battute d’occasione,
saluti più o meno formali, più o meno amichevoli, accordi dichiarati e appuntamenti
improvvisati : come al solito, certo, in una routine che si compie da tempo immemore, ma
con quel pizzico di allegria in più, di euforico dinamismo, che può non essere notato solo
da chi dispone di scarsa capacità riflessiva e poco spirito di osservazione.
Avrei dovuto trattenermi ancora in ufficio, per evitare noiosi rientri di recupero d’orario
a fine mese, ma non so resistere. Accosto i battenti della finestra, metto in ordine alcune
pratiche sulla scrivania, richiudo la mia “24 ore” dopo avervi riposto la pipa, il quotidiano
37
ed altri effetti personali, infilo il soprabito (sarà il caso con questo tepore ?) lasciandolo
slacciato, spengo il personal computer e mi precipito fuori dalla stanza e giù per la
scalinata di servizio. Appena mi affaccio sul cortile interno, un intenso bagliore mi investe
e mi convince definitivamente : passerò il pomeriggio all’aperto, farò una lunga
camminata...
“Ciao, Enri.”
“Oh, ciao Filippo.”
...ai margini del fiume Filante, nella Valle della Polledrara, così approfitterò per vedere se
le “spugnole” sono uscite.
“Mi scusi, Dr. Porena, la troverò domani in ufficio ?”
“Salve, Sig. Castellini...certo che mi troverà...è per la questione dei contributi alle attività
imprenditoriali ?”
“Esatto. Spero proprio che riusciremo a trovare una soluzione accettabile, tenuto conto
delle limitate disponibilità finanziarie dell’ente....”
“Non si preoccupi. Non è la prima volta che vengono concessi simili contributi ; si tratta di
evidenziare la rilevanza sociale dell’intervento e....comunque ne parleremo domani,
d’accordo ?”
“Bene, dottore. Arrivederci a domani, allora.”
“A domani, arrivederci.”
Un sorriso d’occasione, una decisa stretta di mano e proseguo verso il portone d’entrata,
estraendo dal portafogli il cartellino magnetico. Ma è sempre qui, per la miseria ! Anche
all’ora di uscita. Bisogna che domani appronti assolutamente una proposta di
deliberazione, poi deciderà il dirigente di settore se sottoporla all’approvazione oppure....
“Porena..hei Porena...sei disponibile oggi alle 16,00 per una partitella ?”
“Oggi ?...Mi dispiace, oggi non posso Costantini, ho da fare. Se non sbaglio ne avevamo
programmato già una per martedì prossimo...a quella ci sarò senz’altro. Ma oggi...”
“Ho capito, sei proprio una frana. O.K., ciao.”
“Ciao”, oggi proprio no! Debbo controllare le spugnole..saranno uscite ? Il periodo è
quello giusto. E poi una giornata così...troppo bella ! Immagino lo spettacolo della
valle...così piena di vita...ci saranno chissà quanti fiori, il via vai degli uccelli per
accoppiarsi..
La prima metà della stagione primaverile mi ha sempre affascinato in modo irresistibile.
Non posso fare a meno di trascorrere, gran parte dei pomeriggi di questo periodo, all’aria
38
aperta. Anche negli altri periodi dell’anno fuggo spesso dalla città e me ne vado ad
esplorare gli angoli più selvaggi del territorio circostante, ma all’inizio della primavera non
vi posso proprio rinunciare. Troppo forte il richiamo che sento, troppo potente il desiderio
di cedere agli stimoli vitali che quegli ambienti riescono a trasmettermi.
“bip” - USCITA - ORE 14,05
La schermata sul video della macchina segna-orario, posta nell’atrio del palazzo, registra
l’uscita all’inserimento del cartellino. In questa operazione giornaliera, reiterata per anni,
accompagnata dalla solita discreta sonorità (bip), ormai non avverto più l’avvilente
sensazione di essere marchiato come un capo di bestiame. La sincronizzazione ai ritmi di
funzionamento dell’apparato burocratico è divenuta parte integrante dei miei stessi ritmi
biologici. Comunque sono ancora una volta fuori. Il tempo di giungere a casa, consumare
in fretta un paio di panini, cambiarmi d’abito e...via al fiume.
La “station wagon” che acquistai quattro anni fa risponde molto bene quando schiaccio
il pedale dell’acceleratore, e non ha problemi di tenuta di strada, nemmeno su questo
tracciato provinciale secondario con il manto tutto scassato, frequentato soprattutto da
trattori e autocarri. Ogni volta che esco in automobile per delle escursioni nel “verde”, in
particolare in simili giornate di sole, non riesco a domare quella frenesia che mi prende
dentro, come se qualcosa mi stesse per sfuggire e non volessi a tutti i costi lasciarla
sfuggire. Sempre all’andata, mai al ritorno, quando invece mi sento scarico, appagato,
talvolta malinconico. Le note furibonde del rock dei Litfiba, che escono dall’impianto
stereofonico, compiono il resto, fanno vibrare i finestrini dell’auto, rimbombano nel petto,
coprono il rombo del motore e tengono incollato il mio piede sull’acceleratore. Infondono
coraggio, si sa. Il rock duro ha questa capacità : distrugge i timpani ma ammalia
demoniacamente, trascina in un sabba orgiastico dove tutto è consentito. Chi è abituato ad
ascoltarlo, quando l’ascolta, è tentato di osare. Si accoppia bene col mio senso di frenesia,
trova in esso un alleato viscerale. Insieme mi inducono a provare l’ebbrezza della velocità,
che nei momenti di “saggezza” ordinaria reputo stupida e ridicola. E corro per non
lasciarmi scappare...qualcosa, come la belva bracca la sua preda, ai limiti della prudenza,
bussando all’uscio del diavolo, là dove i precetti e i consigli per l’autoconservazione
suonano come una barbosa litania da bacchettoni moralisti.
Lasciata la provinciale e imboccata una stradina di campagna ricoperta di ghiaia,
intravedo in lontananza, stagliarsi nitida, la sagoma nera del castello medioevale “RoccaRuggeri”. Un castello di perimetro rettangolare ottimamente conservato nelle sue fattezze
39
strutturali, con tanto di fossato difensivo circostante, quattro torrioni merlati circolari agli
angoli, una piazzetta interna, un portone enorme al centro della facciata anteriore - al quale
si accede mediante un ponte costruito a cavallo del fossato - un tetto ricoperto da una
miriade di comignoli. Proprio come nelle fiabe. E come in un incantesimo fiabesco mi
sentii trasportato la prima volta che ebbi modo di visitarlo al suo interno, passeggiando
sulla sua balconata delimitata da una serie contigua di archi e colonne, e sbirciando dalle
aperture esterne negli ampi saloni arredati di recente con mobilia in stile d’epoca (e forse
anche con autentici pezzi d’antiquariato). Il castello si erge su un pianoro, nel punto più
alto di un colle, e la stradina che percorro vi ascende gradatamente. Man mano che mi
avvicino, distinguo sempre più precisa la silhouette delle numerose taccole che svolazzano
intorno ai torrioni. Quando tutte insieme si appollaiano sul tetto formano una estesa e
compatta macchia scura. Una grandiosa comunità di questi corvidi ha scelto come propria
dimora le solitarie vestigia del sontuoso monumento storico ; ciò, d’altronde, rientra nelle
normali abitudini comportamentali di tali volatili, tanto che, un castello senza i suoi ospiti
corvini, risulterebbe probabilmente sminuito di quel fascino inquietante che esercita
sull’immaginario collettivo. Un castello senza taccole - ovvero senza corvi o cornacchie
che siano - è come un castello senza fantasmi. Illustrare una fiaba ai bambini, incentrata
sulla vita di un castello, omettendo questi tipici elementi di contesto, significa mutilarla di
alcuni suggestivi stimoli emozionali, privarla della sua vibrante carica di mistero.
Giunto in prossimità del maniero, dal finestrino aperto dell’automobile mi investe lo
“schioccare” assordante delle taccole, un po’ meno stridulo di quello prodotto dai loro
parenti stretti, cornacchie e corvi, ma egualmente efficace nell’evocare una certa atmosfera
- del tipo “dark” per intenderci - anche se la luminosità del giorno non si addice ad essa.
Parcheggio l’automobile al posto di sempre e mi avvio per il sentiero che scende verso il
fiume Filante (in realtà un fosso a modesto carattere torrentizio). Nel suo tratto iniziale il
sentiero schiude alla vista un panorama esaltante. Ogni volta che lo percorro rimango,
invariabilmente, costernato. Alla sensazione di meraviglia per la grandiosità dello scenario
che la morfologia del paesaggio realizza, si accompagna quella di frustrazione per
l’impossibilità di godere, oltre il mero apprezzamento visivo, degli elementi che
compongono lo scenario stesso. Vorrei potermi integrare “tangibilmente” con essi, potermi
materialmente “liquefare” in essi, in un approccio sensoriale esaustivo che coinvolga tutto
il mio essere. Avverto con rabbia il bisogno di perdermi in ogni luogo, “dentro” ogni
luogo, allo stesso tempo, del paesaggio che ho di fronte, in una sorta di simbiosi integrale
40
che consenta di ritrovarmi, di rispecchiarmi nella sua essenza intima. Un bisogno che
provo sempre in simili occasioni e che ogni volta viene schiaffeggiato dal senso di
impotenza, dalla percezione di un’estraneità incolmabile. A volte, riflettendoci sopra, credo
di interpretare, ma senza troppa convinzione, questo mio stato psicologico come il riflesso
indesiderato di un conflitto latente che l’uomo moderno, in genere, porta dentro di se,
incapace ad esplicitarlo. Il conflitto rimosso fra una “realtà virtuale” vissuta e la realtà
autentica aborrita, nascosta, mascherata. Fare della vita un grande ed unico videogame è
stata, forse da sempre, l’inconfessata aspirazione dell’uomo per sopprimere l’angoscia di
vivere una realtà assai meno allettante. E l’uomo moderno sembra essersi avvicinato molto
al raggiungimento di questo obiettivo. Salvo poi a ripiombare d’improvviso nell’incubo
della sua essenza vera, quando i segni insopprimibili di essa riemergono in circostanze
fortuite. E quando però a volte, come credo succeda a me in questa occasione, il bisogno di
ricongiungimento col nostro essere reale si impone di prepotenza, si rivela tutta la nostra
incapacità di riuscire a superare la condizione di estraneità. E allora mi domando : è
l’aberrazione della società moderna che ci ha condotto ad un’insuperabile sradicamento o
semplicemente è destino dell’uomo, fin dalle sue origini, quello di ritrovarsi alla fine solo
nel cosmo, di scoprirsi alieno nel proprio universo ?
Davanti a me si estende, a perdita d’occhio, una serie di rilievi collinari contigui,
ammantati da una foresta compatta di querce, carpini e ornielli, la cui tonalità di colore
dominante è ancora quella grigio-marrone tipica delle caducifoglie in inverno. Solo ai
margini del corso del fiume la tonalità della vegetazione incomincia ad assumere una
colorazione giallo-verdastra , dovuta all’emissione primaticcia dei fiori e delle foglioline
della flora riparia (salici, pioppi, ontani, frassini, sambuchi). Là dove la boscaglia degrada
verso il fosso, aprendosi in ampi pascoli e radure, spiccano grosse macchie biancastre, che
denunciano la fioritura degli arbusteti di prugnolo. Sulle pareti di roccia calcarea che, in
alcuni tratti, costeggiano e delimitano le anse del fiume, e sui pendii rocciosi esposti a
mezzogiorno, appaiono, inconfondibili, le macchie di colore verde, più o meno scuro, che
connotano la presenza della flora mediterranea, con essenze sempreverdi quali il leccio, la
fillirea, il mirto, il lentisco, l’erica, il corbezzolo.
Man mano che scendo lungo il sentiero questa grandiosa prospettiva d’insieme si
riduce progressivamente fino a scomparire. La visuale si restringe tra due ali laterali di
alberi e arbusti ancora spogli, ma colme di un rigoglioso sottobosco di colore verde
splendente. Il mio interesse è attratto dagli esemplari vegetali più appariscenti : i cespugli
41
di ferula e asparago, le piante a foglie lanceolate dell’asfodelo prossime alla fioritura, il
curioso elleboro fetido e l’elegante erba laurina. Il biancospino mostra già foglioline ben
formate che preannunciano anch’esse la fioritura, il corniolo è già carico dei suoi fiorellini
gialli. E poi berette da prete, ligustri, emeri sparsi ovunque. A tratti il sentiero è delimitato
da pareti in roccia tufacea, con le sue sfumature di colore rossiccio, o da sistemi colonnari,
anche spettacolari, di roccia basaltica di colore grigio topo, entrambi testimonianza di
un’antica attività eruttiva svoltasi in quest’area geografica. Ma il particolare più eccitante
ed emblematico del ritorno della stagione primaverile, quello che meglio simboleggia
questo periodo dell’anno e che ci si aspetta di ritrovare con puntualità ogni volta, è la
straripante vivacità della presenza floreale. Le spallette e i declivi boscosi che degradano
verso l’alveo del fiume sono tempestati di macchie di ogni colore. Uno spettacolo di fronte
al quale è assai difficile rimanere indifferenti. Anemoni viola, rosa e bianchi, primule,
ciclamini, mammole, pervinche, scille, colombine, favagelli, botton d’oro, in giochi e
contrasti di colore esaltanti. Solo con molto scrupolo e attenzione si può riuscire ad evitare
di calpestare alcuni steli di questa immensa comunità. I tratti prativi aperti, che invitano
con la loro soffice erba a sdraiarsi per godere dei raggi di sole, sono pennellati da
un’infinità di margherite bianche, meglio note come “pratoline”. Non mancano all’appello
rappresentanti del rinomato genere delle “orchis”. Mi imbatto nei primi rappresentanti di
“orchis purpurea”, una delle più vistose e belle specie di orchidee del mio territorio.
L’incontro, anche questa volta, è emozionante, e anche questa volta vengo colto dal
desiderio di impossessarmi di uno o due esemplari, asportandoli con tutto il “pane” di terra
per tentarne la coltivazione in vaso. Prevale poi il senso di colpa per aver provato questo
impulso di avidità, che considero abbastanza stupido e inutile, e lascio perdere. Ancora
qualche secondo per ammirare la perfetta architettura a “pannocchia” della specie in
questione e proseguo senza rammarico.
Il sovrapporsi caotico dei richiami degli uccelli è piacevolmente assordante. Rondoni e
balestrucci già sfrecciano in cielo e scendono in picchiata sfiorando i prati. Rivedo l’upupa
nel suo inconfondibile volo “saltellante”. Di lontano mi giunge la caratteristica “risata” del
picchio verde. La ciclicità dei mutamenti stagionali, che si manifesta in questi normali
quanto puntuali ricorsi viventi, mi conforta non poco, se penso alle insidiose incognite che
pesano sull’evoluzione futura della vita del pianeta. Non è ancora silenziosa la primavera.
Persino qualche solitaria farfalla resiste, mi svolazza accanto, sopravvive alla generale
contaminazione chimica delle cose.
42
Con passo lento proseguo a “zigzag” sulla sponda del fiume. Ho lo sguardo abbassato a
scrutare tra l’erba, in speranzosa attesa di scorgere il carpoforo di una “morchella”. Rovisto
tra le piante di cicuta e in particolare mi soffermo con attenzione tra le distese di “consolida
femmina” e nelle vicinanze della curiosa “latrea squamosa”. L’esperienza mi ha insegnato
che questo è uno degli habitat prediletti dalle spugnole. Un segno inequivocabile della loro
probabile, vicina presenza è un ‘altra specie fungina dalla consistenza cartilaginea,
appartenente al genere delle “peziza”, che somiglia a una grande orecchia di colore
marroncino. Quando trovo questa specie, so di poter trovare, in prossimità, le appetitose
spugnole, con le quali essa condivide sia l’ambiente che l’epoca di crescita. Inoltre torno a
rivisitare gli stessi identici luoghi che in passato mi hanno consentito ritrovamenti più o
meno cospicui. Per circa un’ora persisto nell’intento, sotto un cielo che comincia a velarsi
di un sottile strato di nubi. Un vento moderato si solleva, producendo un leggero
abbassamento della temperatura dell’aria. Il sudore mi si asciuga addosso in poco tempo.
Niente ! Niente di niente ! Nemmeno un piccolo esemplare fungino, che possa almeno
lasciar sperare in un ritrovamento nei prossimi giorni. Sento scemare gradatamente
l’intensità di concentrazione nella ricerca. Subentra la delusione, come succede sempre in
questi casi, e ne subisco i suoi inevitabili riflessi somatici, una tenue spossatezza fisica che
raramente avverto quando, al contrario, la tensione psicologica della ricerca si alimenta
ancora di una fiduciosa attesa.
Come diavolo è possibile ? Sono proprio imprevedibili queste spugnole ! Il loro ritardo
nella crescita sarà forse imputabile al prolungarsi della stagione fredda ? Il terreno non
ha avuto modo di scaldarsi a sufficienza ?....
Qualcosa si muove nell’erba. Istantanea è la sensazione di paura che provo. Arresto
l’andatura.
“Una natrice !”
Un esemplare di circa due metri di “natrix natrix”, ovvero di “biscia dal collare”, striscia
con lento ma deciso movimento ondulatorio, a pochi passi dai miei piedi in direzione del
fiume, cercando rifugio nell’acqua. La mia attività cardiaca cresce ferocemente di intensità.
Le pulsazioni mi giungono fino alla gola. Non si contano le volte che ho avuto modo di
imbattermi, durante le mie consuete escursioni, negli spostamenti e nelle varie attività di
questi rettili. Oltre tutto dispongo di una discreta conoscenza scientifica circa le poche
specie di ofidi che popolano questa area geografica. Grazie a tale conoscenza e
all’esperienza maturata, ho acquisito la capacità di distinguere con precisione, in pochi
43
secondi, una specie dall’altra, e ho l’assoluta certezza dell’innocuità di quella che ho
dinanzi. D’altronde sono altrettanto consapevole della mitezza comportamentale della
temuta vipera aspis e delle sue limitate possibilità deambulatorie. Volendo, è sufficiente
non portarsi a tiro dei suoi terribili incisivi per evitare ogni spiacevole sorpresa e potersi
godere con tranquillità i suoi movimenti. E, sempre volendo, con un bastone
sufficientemente lungo, si può arrestare la sua fuga e osservarne da vicino le
ornamentazioni della pelle. Eppure...eppure anche in questo caso, per l’ennesima volta,
invariabilmente, non riesco a sopprimere un certo stato iniziale di tensione, di paura. Non
so spiegarmene, con piena convinzione, la ragione. Non riesco a trovare altra plausibile
giustificazione che quella di una predisposizione genetica orientata all’autoconservazione,
un meccanismo di sopravvivenza. Solo in tale veste posso spiegare la sua tenace
persistenza ad insorgere.
Fatto sta che, con scatti repentini dirigo lo sguardo ora a destra, ora a sinistra, alla
ricerca di un “utensile” per il mio scopo, possibilmente un bastone lungo e robusto quanto
basta. Purtroppo, però, negli scarsi secondi di cui posso disporre, solo un colpo di fortuna
mi può consentire di trovarne almeno uno che faccia al caso e che si trovi a portata di
mano. Per lo più, a terra, scorgo solo residui e frammenti legnosi marcescenti. (Pazienza !).
Non ho il tempo di esitare. Faccio un balzo in prossimità di uno di questi frammenti,
l’unico che sembra lungo abbastanza per poter tentare (spero non si spezzi). Lo afferro e
con altri due balzi raggiungo il malcapitato rettile il quale, nel frattempo, ha già quasi
immerso la testa nell’acqua. Non gliene lascio il tempo. Con gesto fulmineo appoggio la
punta del pezzo di legno sul dorso dell’animale, a circa dieci centimetri dalla testa,
cercando di contenere l’intensità della pressione. Per tutta risposta la natrice si ritrae, si
divincola e poi si libera dalla stretta. Solleva la parte anteriore del corpo, ricurva il collo
all’indietro e rivolge gli occhi in segno di sfida contro di me. Emette il classico sibilo di
minaccia. Volendo antropomorfizzare il suo comportamento e il suo linguaggio, è come se
mi dicesse : “Figlio di puttana. Lasciami in pace o sono fatti tuoi.” Ovviamente non mi
lascio intimidire più di tanto, trattandosi di un atteggiamento del tutto preventivato, al
quale ho assistito molte altre volte. Tra l’altro, la precedente emozione di paura si è quasi
del tutto esaurita, incalzata dalla concentrazione che spendo nell’eseguire l’azione
predatrice. Allungo di nuovo il bastone (per fortuna sembra che regga) appoggiandolo,
questa volta con precisione, sul collo della biscia. La scaravento a terra e ne immobilizzo la
testa. Non sono andato tanto per il sottile. Non credo abbia avvertito il peso del bastone
44
come una carezza tra amici, anche se il mio scopo (vaglielo un po’ a spiegare !) non
oltrepassa la pura volontà di imporre un “colloquio amichevole”. E’ fatta ! In fin dei conti è
sempre così semplice avere il sopravvento su simili esseri. Per quanto provi ancora a
divincolarsi, avvolgendo su se stessa la parte libera del corpo e tentando di rintracciare un
qualsiasi sostegno su cui far leva per sfuggire alla morsa, la sua testa resta saldamente
inchiodata a terra. E il bastone regge. Ha svolto in modo egregio la sua funzione, oltre la
mia stessa aspettativa. Ora, alla sua morsa, sostituisco quella assai più sicura della mia
mano intorno al collo. Sollevo la biscia da terra e con l’altra mano trattengo la parte
centrale del corpo per limitarne i movimenti convulsi. La parte restante, verso la coda,
rimasta libera, si avvolge intorno al mio avambraccio con vigore. Tra le mani percepisco il
suo tentativo ostinato di sottrarsi alla stretta. Non desiste ancora, ma questa velleitaria
resistenza so che ha ormai i secondi contati. Ripetutamente estrae la lingua biforcuta (mi
sta “annusando”). Come in tutte le precedenti occasioni del genere, soffermo l’attenzione
sulle caratteristiche ornamentali che ne disegnano l’epidermide. Sulla tonalità di fondo di
colore grigio-azzurro si evidenzia una trama regolare di piccole macchie nere e una striscia
chiara a mo’ di collarino alla base della testa. Al tatto la pelle è fredda - anche se tra breve
si riscalderà col calore che il mio corpo le trasmette - e molto ben levigata. Il corpo è di
forma lungamente affusolata.
Alle narici mi giunge un lezzo nauseabondo. “Ci risiamo !” La biscia ha emesso una
secrezione di odore sgradevolissimo. Ciò fa parte del suo repertorio comportamentale
difensivo. Alle minacce mimiche e sonore, già messe in atto, lascia seguire, come in ogni
caso in cui quelle risultano insufficienti a scoraggiare le intenzioni aggressive del
predatore, una scarica di sostanze puzzolenti. Per ultimo, se si rendesse necessario, sa
ricorrere ad un ulteriore stratagemma, questo davvero singolare e di indubbia efficacia....
“No ! Non farlo !”
Lo sta già mettendo in atto. Speravo che non accadesse. In passato, alcune volte,
perpetrando in sequenza rapida le operazioni di cattura, e limitando gli effetti negativi dello
“shock” indotto, adottando gesti, per così dire, più suadenti (cioè evitando movimenti
bruschi e rumori forti, attenuando la stretta delle mani per consentirle una certa possibilità
di movimento), riuscivo a carpire la sua “fiducia”, a tal punto da ottenere che rinunciasse
ad attuare fino in fondo il suo rituale difensivo. Questa volta non ci sono riuscito. Spalanca
la bocca, in modo così esagerato come non è certo consentito alle nostre mandibole di poter
fare. Lascia penzolare la lingua da un lato e fuoriuscire delle goccioline di sangue,
45
irrigidisce il corpo per poi afflosciarlo, pian piano, completamente. Sta simulando la morte.
Alcune specie animali, compresa questa, attuano simili strategie deterrenti in circostanze in
cui si sentono minacciate da predatori, e nella maggior parte dei casi ottengono l’effetto di
scoraggiare l’aggressore nel portare a compimento la predazione. La vitalità della preda, il
suo ostentato dinamismo, sono, infatti, lo stimolo principale per lo scatenamento di
un’azione predatrice. Ove tali sintomi non si manifestino, o cessino di colpo di
manifestarsi, viene meno, assai spesso, anche la volontà di predazione. Evidentemente, in
questo caso, la carica aggressiva messa nella cattura, come forse anche il tempo eccessivo
in essa impiegato, non mi hanno consentito di instaurare quel rapporto che, in termini
antropomorfici, mi piace definire di “fiducia”. Ora l’animale è qui, apparentemente morto,
afflosciato tra le mie mani, a rammentarmi la stupidità della bravata appena compiuta.
Provo di nuovo un senso di delusione. Mentre lo depongo a terra, non posso sfuggire alla
mortificazione di un tardivo pentimento (quando imparerò a controllare i miei impulsi
“amichevoli” ?).
“Ciao, bella. Mi dispiace, davvero ! Sappi che te la cavi bene, però.”
Riprendo il cammino lungo la sponda sabbiosa del fiume. La biscia resta immobile a terra a
mostrare il pigmento di colore giallo chiaro, con riflessi verdognoli, del ventre.
Non sarà più lì al mio ritorno, ne sono certo ! Però quella bocca aperta...quella lingua
penzoloni....
Il vento si placa, il sole ha la meglio sulle nuvole. Avverto di nuovo il tepore dell’aria sulla
pelle. Ho in mente un luogo, particolarmente bello, che di rado ometto di rivisitare quando
giungo da queste parti. Ancora dieci minuti di cammino, durante i quali avvisto un martin
pescatore sfrecciare controcorrente sul letto del fiume, e giungo al luogo prefissato. Un
incantevole angolo in cui la corrente dell’acqua attenua il suo impeto, diviene silenziosa
per l’assenza di dislivelli, si allarga vistosamente tra ampie rive sabbiose che evocano la
piacevole rilassatezza di soste ricreative. Anche questa volta colgo al volo l’implicito
suggerimento dell’ambiente. Mi fermo nei pressi di un salice bianco col fusto reclinato
verso il fiume, che ha alcuni rami pendenti fino al pelo dell’acqua. E’ carico di amenti e di
fresche emissioni fogliari . Le sue radici fuoriescono dalla sabbia, alcune si insinuano
nell’acqua. Mi sdraio, utilizzando la giacca verde militare che ho indosso a mo’ di cuscino,
badando di espormi per intero ai raggi del sole. Scalda ancora, con prepotenza, nonostante
ormai si trovi basso all’orizzonte. Gli uccelli hanno ripreso a cantare e a svolazzare tra i
rami degli alberi, dopo la momentanea pausa che si erano concessi quando il cielo si era
46
velato di grigio. Le delusioni subite non riescono a togliermi il gusto di rilassare le membra
stanche. E’ appagante, e chiudo gli occhi.
Passano i minuti, non so quanti, e odo in lontananza un indistinto vocio.
Saranno pescatori, probabilmente giovani, a giudicare dal timbro acuto e vivace delle
voci.
Man mano acquista maggiore definizione. A momenti è interrotto da squillanti, brevi
risatine.
“Sono voci femminili !”
Apro gli occhi, sollevo il busto sostenendolo coi gomiti affondati nella sabbia.. Protendo
un orecchio in direzione delle voci, con la curiosità di accertare a quale sesso appartengano.
L’ultima risatina che mi giunge è inequivocabile : è di donna, come lo è pure la voce che
interloquisce scherzosamente. Provo eccitazione, euforia, imbarazzo, ma soprattutto una
crescente curiosità che mi sta divorando. Mi dispongo in posizione seduta (ho vergogna
che qualcuno, in particolare se donna, possa sorprendermi in una poco onorevole
pennichella). Le voci, ora vicine, lasciano pensare a donne mature, sulla quarantina come
me. La curiosità diventa morbosa. Istintivamente, con la mano, aggiusto la capigliatura, poi
estraggo pipa e tabacco dalla tasca della giacca (devo darmi un contegno). Carico la pipa e
l’accendo. Con le prime boccate si sprigiona una nube densa di fumo tutto intorno, che per
alcuni istanti sembra galleggiare nell’aria. Va tutto bene, adesso sono a posto ! Percepisco
il fruscio prodotto dagli abiti che strusciano sui cespugli di rovo o di prugnolo. Sale il
livello di ebbrezza, si fa più rapida la palpitazione cardiaca (quasi come quando ci si è
appena fatti uno “spinello”, per il ricordo almeno che ancora ne ho). Con la coda
dell’occhio intravedo, tra gli arbusti poco distanti alla mia sinistra, due sagome che si
avvicinano. Simulo uno stato di assorta contemplazione del lento deflusso delle acque,
fingo ignara indifferenza, e aspiro ampie boccate di fumo, ma sono in realtà impaziente che
si verifichi chissà quale improbabile evento.
“Oh.....buonasera !”
Mi giunge questa spontanea espressione di stupore da dietro le spalle. Perseverando nella
simulazione, mi volto di scatto e fingo un contenuto stupore. Approfitto dei brevissimi
istanti di apparente sorpresa che ostento per lanciare uno sguardo d’insieme alle due figure.
Ma non esagero, non voglio risultare indiscreto, e rispondo :
“Buonasera !”
47
Seguono altri attimi di silenzioso imbarazzo, durante i quali approfondisco l’osservazione.
Nel loro atteggiamento percepisco un certo timore. Appaiono esitanti, titubanti, come se
fossero indecise tra l’andare avanti, arrestarsi o tornare indietro. Comprendo che è il caso
di dimostrare all’istante cordialità e rispettose intenzioni, onde ripristinare la loro
spensierata tranquillità, bruscamente interrottasi. Sorrido e aggiungo :
“Una passeggiata ?.....con questa bellissima giornata di primavera !”
Nel frattempo ho già compiuto un esame estetico delle due donne. Entrambe con un’età
compresa - come avevo supposto - tra i 35 e i 40 anni. Una ha i capelli di un colore biondo
oro, lunghi e lisci, è alta, magra, il volto ovale, il naso pronunciato ma non sgraziato, i seni
appena accennati sotto una maglietta rosa, non proprio bella , ma, nel complesso, attraente.
L’altra, assai più bassa, coi capelli neri, lunghi e ondulati, sopracciglia scure ma esili, il
volto dai lineamenti tondeggianti, un naso delicato, occhi grandi, i seni vistosi, prominenti,
sotto un pullover scuro, una silhouette eccitante con i fianchi perfettamente sagomati dagli
abiti aderenti, nel complesso molto bella, almeno secondo le mie preferenze. Entrambe in
jeans. La donna bionda ha in mano un mazzo di fiori, un misto coloratissimo di anemoni,
primule, mammole, pervinche ed altre specie delle quali la zona abbonda. La donna più
bassa mi trasmette un’incomprensibile sensazione di familiarità. Ho l’impressione di averla
già conosciuta. E’ lei che arresta per prima l’andatura, abbozza un morbido sorriso - come
a dimostrarmi di non essere affatto intimorita per l’incontro fuori programma - e risponde :
“Già ! Una bellissima giornata....ci troviamo qui con un gruppo di amici per una
scampagnata. Gli altri ci attendono più indietro, nelle vicinanze del castello”.
Faccio appena in tempo a capire il significato implicito di questa non richiesta precisazione
(che mi vuole dire : “non siamo sole, quindi niente grilli per la testa”), e subito quella voce,
così delicata e sensuale come un soffio tiepido sulla pelle nuda, produce un tumulto
improvviso nel mio petto, uno sconquasso, un disordine emotivo. Sento crollare quella
ridicola corazza di falso contegno e simulazione dietro la quale mi stavo nascondendo. Non
posso, non voglio sopprimere una furiosa concitazione.
“Mariangela ! ! !”
Nella pausa di imperturbabile sospensione che segue, gli occhioni scuri della donna dai
capelli neri si smarriscono, cercando una spiegazione nei miei. La donna bionda aggrotta le
sopracciglia, è perplessa, cerca una spiegazione nello sguardo della compagna.
“Ma...tu...sei....”
48
“Si, sono io”, e le rivolgo un sorriso scomposto, senza ritegno, la mia gioia non
protocollata.
“Enrico ! !”
Anche sul suo volto svaniscono d’incanto i segni di imbarazzo e cautela. Anche lei ora
sorride con un sorriso vero, di allegra meraviglia. E sorride anche l’amica che, saltando con
lo sguardo a ripetizione nello occhi di entrambi, sembra come essersi liberata da un peso
che l’opprimeva.
“Mary....ti ricordi ?...come ti chiamavano con quel vezzo d’epoca, quell’anglofilia così di
moda ?”
Lascio cadere la pipa sopra la giacca, mi alzo in piedi, spolvero i residui di sabbia rimasti
attaccati sui pantaloni, mi dirigo a passi rapidi verso di lei. Giunto vicino, esito un
momento, sono incerto se proporle una stretta di mano, rispettosa ma formale, o allargare le
braccia per invitarla ad un abbraccio, forse inopportuno ma decisamente più sentito. Lascio
la decisione ad un impulso, apro le braccia. Ritrovo le sue membra accasciate
morbidamente sulle mie, in un estasiante riscontro ad un folle desiderio. L’abbraccio, in
apparenza, è contenuto e composto, ma avverto un incontenibile lascivia, sento il suo corpo
adagiarsi sul mio in un contatto fisico ai limiti della lussuria, prodigo e carezzevole, intimo
e affettuoso, senza pudori (come quella bellissima prima volta !). Ne rimango rapito,
sublimemente sconvolto dalla tenerezza.
“Cara, come stai ?”, le rivolgo quasi sottovoce questa espressione che in passato mi era
sempre sembrata così banale, svenevole, d’opportunità...... adesso no. Mi esce spontanea,
una voce dal profondo. Per tutta risposta con le sue labbra sfiora la mia guancia sinistra, in
una schiva effusione, un bacio abbozzato, fuggevole. Abbassa le palpebre - forse è troppo
forte per lei il carico emotivo della situazione - e reclina fiduciosa la sua testa sul mio
petto, con delicatezza (proprio come una volta, in stridente aporia, si sottrae e si concede,
si dilegua alla lusinga e si offre spudoratamente senza ritrosie).
“Quanto tempo è passato !”, mi ricorda con un sospiro di nostalgia, il volto nascosto al mio
sguardo intenso.
“Già... venti..... anzi venticinque anni...”, il sorriso mi si smorza sulle labbra. “Come è
incredibile incontrarsi di nuovo, inaspettatamente, dopo tutto questo tempo, in questo
posto !....”
Solleva la testa, allontana il suo corpo dal mio, con movimenti leggeri : “Scusami... lei è
Marilena, un’amica. Passiamo molto tempo insieme. Sai... abbiamo tante cose in comune.”
49
Protendo la mano destra verso la donna bionda. “Piacere... Enrico.” Ella mostra un
atteggiamento di divertita curiosità e mi stringe la mano. “Piacere...ho sentito il suo nome
pronunciato poco fa. Sembra vi conosciate molto bene, o perlomeno che vi siate
conosciuti... come dire...approfonditamente, anche se in un passato quasi remoto.” Il tono
di benevola ironia mi lascia immaginare il carattere di questa amica come sfacciatamente
simpatico e gioviale, di allegra e spontanea esuberanza. Certo così diverso da quello della
Mary dei miei ricordi.
Io e Mary ci concediamo un risolino spontaneo, con il quale dimostriamo di aver
apprezzato la battuta e alleggeriamo appena la tensione emotiva. Poi i nostri sguardi
tornano ad incrociarsi, intensamente. In essi riaffiora una sottile nostalgia. Impossibile
evitare il ritorno di lontane immagini, frenare la valanga di sensazioni confuse che ci
rimandano tutte indietro, a quel felice anno trascorso insieme. E la tristezza, inesorabile,
ora si va facendo strada dentro di me. Con grosso sforzo cerco di nasconderla. Mary
abbassa di nuovo lo sguardo vinta dalla timidezza, poi lo risolleva come per comunicarmi
di non aver nulla di cui doversi vergognare. Ma poi cede ancora sotto il peso della caparbia
e impietosa fissità dei miei occhi. La perseguito, non le do scampo, cerco voracemente le
sue pupille.
”Mary... Mary... dimmi che è vero !” E scruto ogni dettaglio del suo volto, sul quale si
diffonde un tenue rossore. Certo, quaranta anni - uno più uno meno - lasciano il segno. Il
tempo presenta il conto anche ai ricordi, tenacemente aggrappati alle giovanili illusioni di
eternità e immutabilità. Eppure....è ancora lei, la Mary di allora, che aveva appena 14-15
anni. Il tempo ha spazzato via la freschezza della sua pelle, ma non quell’affascinante,
ambiguo essere che era in lei, quell’identità fuggiasca e insieme smoderata che mi
accalappiava come un pesce all’amo. E la sua sensualità, quella poi e addirittura
accresciuta. Queste non sono illusioni, il tempo non se le è portate via, non ancora almeno.
Cerco le sue mani, le trovo, le stringo, sento ricambiare la stretta.
“Sei sempre la stessa, sei bellissima !” Non so nemmeno come mi escano di bocca queste
parole. Nemmeno queste avrei mai immaginato di poter dire a qualcuno. In quale momento
del mio passato non mi sarebbero apparse come spudorate menzogne ? Non ora,
comunque, non ora.
Sul suo volto si disegna una moina, un sorriso amaro, sembra volermi rimproverare di
non essere sincero, di aver usato una cortesia. “No, ti prego.... lascia stare. Dimmi,
piuttosto, come mai ti trovi qui ? Sei solo ? Oppure.....”
50
“Scusate se interrompo il vostro idillio...”, interviene Marilena, “...che ne pensate se vi
lascio ai vostri appassionanti ricordi giovanili, e intanto mi incammino da sola verso la
strada di ritorno ? Ovviamente non ti devi preoccupare, “Mary”,...” - sottolineando
espressivamente l’inglesismo - “...procederò con molta tranquillità, così potrai
raggiungermi. Voglio rimpinguare il mazzolino di fiori.”
“Ma sì, vai pure e scusami Marilena. Mi trattengo qualche minuto poi ti raggiungo. Ma tu
aspettami...non tornare al gruppo da sola, mi raccomando !”.
“Fai con comodo, non ti preoccupare....arrivederci Enrico !”, e mi allunga la mano con un
sorriso cordiale.
“Ah... arrivederci Marilena, piacere di averla conosciuta.” Le stringo la mano, ricambio il
sorriso, e mi sento dentro prendere fuoco come la paglia. Sono solo con Mary. Incredibile
immaginarlo appena dieci minuti fa. La simpatica donna bionda ci volta le spalle e si
incammina a ritroso lungo il sentiero già percorso. Torno a fissare gli occhi di Mary, lei
fissa i miei. Questa volta riesce a resistermi, la sento più disponibile. Un imbarazzo residuo
la costringe nel goffo movimento di incrociare le gambe, come a cercare un’improbabile
quanto scomodo equilibrio. Ma i suoi occhi non mollano, non sono più occhi di bambina,
vogliono prendersi le proprie responsabilità.
“Ci sediamo ?”
Lei stacca la presa di una mano, ma non l’altra, si dispone al mio fianco, ci abbassiamo
insieme restando a contatto di gomiti.
“Se avessi soltanto immaginato di poterti incontrare un giorno in questo posto, ne sarei
divenuto un assiduo frequentatore. Durante le mie abitudinarie escursioni pomeridiane
sono tornato di frequente a visitarlo ; ma con la speranza di rivederti... be’....avrei
sicuramente intensificato le mie visite. Sai..., per rispondere anche alla tua domanda di
poco fa, mi trovo qui perché assai spesso provo il bisogno di restare solo con me stesso. Ci
riesco soltanto quando sono in un bosco, lungo il margine di un fiume, insomma, in posti
come questo.” Mary mi ascolta con attenzione, il suo sguardo sembra aver superato anche
il più piccolo imbarazzo. “Innumerevoli volte mi sento trascinato da un desiderio
imperioso di imbattermi in stimoli vitali, di potermi specchiare in qualcosa che mi faccia
sentire vivo e..., credimi, ci riesco solo qui, in luoghi come questo, quando vedo i fiori,
incontro d’improvviso un animale che fugge, quando vedo volare gli uccelli o spuntare le
gemme dai rami degli alberi. So bene che per te, questo mio modo di essere, è del tutto una
sorpresa, è una versione del tutto nuova di conoscermi. Allora, quando mi conoscesti la
51
prima volta, questo genere di inquietudini non albergavano, come avrebbero potuto, nella
mia anima. Non credere però che sia diventato uno stralunato poeta, o roba simile. Non so
scrivere poesie. Credo.... forse.... di volere vivere la poesia. La mia vita ordinaria in città, il
mio lavoro, il mio rapporto con le persone, ne sono assolutamente privi, sono aridi, sono
deserti che non consentono nemmeno di sognare. Tutte le cose che faccio durante una
giornata, da quando mi sveglio per andare a lavorare, fino alla sera quando torno a letto per
dormire - per provare a dormire - sono per me una sorta di corazza, una pesante copertura
che stringe, che mi soffoca...ed allora... ed allora prorompe l’esigenza di scrollarmela di
dosso, di sbarazzarmene, almeno per poco tempo, e fuggo in campagna, in un bosco, fuori
dalla civiltà. Ecco, qui, finalmente, non sono più in competizione con nessuno, non sono
costretto a mostrarmi per quello che non sono, non c’è più bisogno che faccia l’ipocrita con
gli altri, e tantomeno con me stesso. Questo noi siamo, ipocriti. Tutti quanti, almeno un
po’, durante il giorno, siamo ipocriti...io penso. O sono presuntuoso a pensarlo ?” - Lei è
sempre attentissima, ma non mostra alcun cenno, nessun assenso, nessun diniego “Conservo poche, cosiddette, amicizie, lo stretto indispensabile, per non morire di noia, di
malinconia. Chiamarle amicizie è un puro eufemismo .......si tratta per lo più di
conoscenze, di compagnie d’occasione, di frequentazioni d’obbligo più che di scelta. Ti
potrà sembrare assurdo, inverosimile, ma l’amicizia con la “A” maiuscola ..... be’.....
confesso che non so cosa sia. Ecco perché mi trovi qui da solo. Le mie fughe sono quasi
sempre solitarie. Forse esagero, mi lascio sopraffare facilmente dallo scoramento, dal
pessimismo, forse sono un depresso, uno scontento della vita che si autoemargina per
fuggire i problemi del mondo. A volte proprio non riesco a capire cosa sono in realtà, e
questa incertezza, questo dubbio angosciante sul mio essere, sul mio ruolo nel mondo, mi
fa terribilmente soffrire. Ma ..... scusa .... ora basta, basta. Ti ho investito con un fiume di
parole ....mi sono lasciato trascinare dallo stato d’animo .... credo di essere troppo
problematico, contorto forse...scusami...scusami davvero.... non parlo più.”
Ho la sensazione di averla letteralmente stordita. Non so cosa mi sia preso.....
abbandonarmi così ! Il suo silenzio è preoccupante. Ho sbagliato tutto ! Cosa vuoi che
gliene freghi di quello che io penso del mondo.........
“Non hai niente di cui scusarti, Enrico”, con una calma indecifrabile Mary interrompe il
suo silenzio. “Sono esterrefatta.... sorpresa di conoscerti...... così ! Sì, vedi,.....in quell’anno
che passammo insieme - ti ricordi ? - da fidanzatini..... forse da innamorati, persi nella
nostra ingenuità adolescenziale, non parlavamo quasi mai. La nostra conoscenza reciproca
52
era ... come dire....... istintiva, intuitiva. Qualcosa ci legava l’uno all’altra, condividevamo
un influsso magico che ci univa, sentivamo di appartenerci, senza nemmeno avere la
benché minima idea di come ciò potesse avvenire. Non è così ? Non era così anche per
te ?”
Le annuisco con la testa, questa volta io sorpreso dalla sua perspicace, per quanto succinta,
analisi.
“Ecco.... non mi vergogno a dirlo..... credo di averti amato, senza saperne il perché, senza
chiedermene il perché. Non avevamo l’abitudine di parlare, di discutere fra noi, non sapevo
come la pensassi, non sapevo chi fossi, eppure......era come se ti conoscessi da sempre, in
ogni tuo più intimo dettaglio. Presagivo - è proprio questo il termine giusto - ogni
atteggiamento che tu avresti avuto nei miei confronti, nelle varie occasioni, belle o brutte
che fossero, prima ancora che tu lo assumessi, ed ero felice quando poi constatavo che i
miei presagi si verificavano. Non sentivo alcun bisogno di chiederti niente sul tuo conto.
Eri per me come un libro stampato. Eri quello che apparivi, punto e basta. Ti potrà
sembrare inverosimile, ma è così. Ero totalmente convinta e appagata di possedere questa
misteriosa, per me esaustiva, capacità di sondare il tuo animo, che ritenevo fosse superfluo
cercarne un riscontro esterno, una conferma esplicita da parte di altri o da parte tua. Ed
ora.....così, di colpo......dopo tanti anni......ti ritrovo così irrequieto.....così desideroso di
rivelarti tutto d’un fiato, seppellendomi di parole, di farmi comprendere, con questa
esplicita confessione, quello che sei diventato, le tue convinzioni, i tuoi desideri, le tue
paure.......come se.......scusami se te lo dico.......come se tu fossi preoccupato di lasciare un
immagine errata o incompiuta di te stesso .........o come se ti affannassi a rincorrere il
tempo perduto. Ebbene...... certamente questo, per me, è un modo diverso di
conoscerti.......ma, in fin dei conti, mi dimostra che non sei cambiato affatto, che sei lo
stesso Enrico di un tempo. In questa tua voglia di scoprire subito le carte del gioco....sei
davvero il solito Enrico che si concede generosamente e completamente. E sono felice di
constatarlo. Il tuo aspetto fisico, è ovvio.....è cambiato......sono cambiati i tuoi capelli.....”
Sorride. Con un sorriso spontaneo....e allunga una mano, le sue dita leggere si insinuano
con dolcezza tra i miei capelli. Mi lascio sopraffare da una vibrazione, un moto di
commozione. Il mio sguardo vola via verso il niente. La tenerezza colpisce alla sprovvista
e ne rimango intimidito, allo stesso momento, infinitamente confortato, cullato, incapace di
reagire. Mi sento paralizzato, con gli occhi gonfi, la mente fuori servizio, un nodo alle
corde vocali. La sua libertà mi sconvolge, ancora una volta, come allora, la sua libertà che
53
cattura,
ammansisce,
stordisce.
E’
tornata
a
sconvolgermi,
ancora......come
è
possibile ?COME E’ POSSIBILE ? Scivolo in una sorta di trance ...poi mi accorgo di
stringere la sua mano, la tengo stretta, per non lasciarla scappare. Lei adesso tace. Avverto
un silenzio di profondo rispetto, avverto il suo sguardo consolatorio. Faccio uno sforzo,
uno sforzo terribile per sciogliere quel nodo alla gola....
“Mary....Mary.....come sei....come vorrei.....aiutami, ti prego !...vorrei poterti....dire....”
“Dimmi, ti ascolto !” Sicura, energica, ma dolce...troppo dolce. I miei occhi troppo gonfi
per resistere. Appoggio la testa sulla sua spalla.
“Oh caro.....caro”, il suo alito caldo sull’orecchio.
Il pullover che indossa è umido....quanto tempo è che mi trovo così ?.....comprendo di aver
superato un limite, è il momento di fare, dire qualcosa.....Sollevo la testa, la fisso negli
occhi con gli occhi bagnati, i miei vicinissimi ai suoi....
“Mary....credo di amarti....ancora.... non ho mai cessato di farlo...”
“Anch’io Enrico....anch’io.”
“Mary....voglio fare l’amore.....non l’abbiamo mai fatto.....per una volta almeno
facciamolo...forse non ne avrò più l’occasione....Mary...”
“Anch’io lo voglio....non perdiamo tempo...ne è rimasto così poco !”
Ci ritroviamo distesi, io sopra di lei, le labbra sul suo collo caldo, morbido, i denti nella sua
carne, ma piano, piano, mentre la saliva scende. Le passo la lingua dappertutto, non c’è
angolo che non ne valga la pena....cerco la sua bocca...(mi puzzerà l’alito ? Il corpo ? Il
sudore ?).... sono già a rovistare nella sua bocca, a bagnarla, a bagnarmi dentro di
essa...vorrei poterla prosciugare. Le mani se ne vanno ovunque, e ovunque palpano il
morbido, il caldo, il fremito della pelle. Il membro duro, sempre più duro, e dolorante,
schiacciato sulle sue cosce, strozzato nelle mutande, intrappolato nella peluria, ha voglia di
scoppiare.
“Amami....Enri.......amami...”
Le sollevo il pullover, lei se lo toglie di dosso. Mi sollevo in ginocchio, slaccio i pantaloni,
lei fa altrettanto coi suoi jeans. Calo i pantaloni, non provo alcuna vergogna, è come se lo
avessi rifatto già mille volte insieme a lei....e calo anche gli slip. Salta fuori il pene turgido
e palpitante......lei arresta la sua opera di svestimento, si solleva sui gomiti, allunga la mano
destra, lo afferra, avidamente, lo stringe, allenta la presa, lo accarezza, lo massaggia, fa
scorrere il prepuzio con movimento ritmico e lento.
“Si.....no....no...non ce la faccio”
54
Arresta anche il movimento della mano, solleva il busto, ce l’ha di fronte agli occhi il
membro, gonfio e caldo....apre le labbra e chiude gli occhi, ingoia per intero il glande, lo
stuzzica con la lingua, e con l’altra mano accarezza i testicoli. Scosse elettriche....la sua
lingua che struscia....brividi intollerabili, gemo, non trattengo mugolii.... e odo anche i suoi,
più cupi, prigionieri in bocca, nasali e affannati. La sua mano riprende un ritmo incalzante,
serrata intorno al membro, ora anche la sua testa segue lo stesso ritmo, le labbra strusciano
sul glande, la saliva lo inonda...ci sono, lo sento.....non resisto....il cazzo sta per vomitare.
“Ti prego....” - la voce flebile e alterata - “...fermati ......voglio entrare in te....”
Interrompe la suzione.... ed è come una cascata d’acqua sopra il fuoco.
“Si....certo caro......”
La testa china, finisce di spogliarsi....via le mutandine merlettate, via il reggiseno troppo
piccolo per contenere seni debordanti.....si distende, si apre....
“Vieni Enrico......vieni.....”
Sono stordito, inebriato, la sua nudità è eccezionale, la sua carne bianca mi riaccende come
la paglia sul fuoco. Distendo il corpo sopra il suo, il contatto è travolgente, vertiginoso. Il
calore del pube contro il pube sta per dare inizio ad un amplesso incandescente.....è così
tenue, in confronto, il calore dei raggi del sole al tramonto sulla nostra pelle. Sollevo
frettolosamente camicia e canottiera, per offrirle l’addome, il petto, tutto quanto mi è
possibile. Il pene palpita tra le sue gambe, è lì, per entrare, si conficca in mezzo al
pelo....Mary divarica le cosce, senza ritegno, le solleva, solleva i piedi, li avvinghia sui
miei glutei....sto per penetrare, senza sforzo...
“Entra...Enrico....entra....amami....”
Una lunghissima, fresca folata di vento si abbatte sulla piazzola di sabbia, solleva
polvere, foglie secche dell’inverno. Gli arbusti di rovo e biancospino vibrano
rumorosamente, le ramificazioni alte dei cerri e dei carpini oscillano. Le infiorescenze dei
salici, dei cornioli, dei noccioli si staccano dai rami, si disperdono nell’aria, mi piovono
addosso. Ho la fastidiosa sensazione di un mutamento dei fattori climatici. E’ da qualche
minuto, in effetti, che non odo più il cinguettio degli uccelli, il pigolio dei rondoni in volo.
Un terribile rombo congela la mia eccitazione, spalanco gli occhi appena socchiusi. Sopra
di me il cielo è torvo, minaccioso, a tratti intensamente plumbeo. Del sole non c’è più
traccia. Mi sollevo bruscamente a sedere.
“Porca puttana !....”
Un temporale incombe (Era da mettere in conto ad inizio di primavera).
55
“E ora ?...Mary....perché proprio adesso ?....”
La radiosa luminosità di poc’anzi si è dissolta, un’ombra compatta, tetra, ha preso il suo
posto. Addirittura è quasi buio. Guardo l’orologio.. “Porca troia !”, sono quasi le 19,00
(come ho fatto a non accorgermi del tempo che passava ?). Un temporale, più che
probabile, in arrivo, la luminosità disponibile scarsa, ancora qualche decina di minuti da
sfruttare prima che.... D’improvviso sento freddo, sono percorso da un brivido, mi stringo
tra le braccia. Mi alzo precipitosamente, indosso la giacca militare, riprendo il cammino
lungo il sentiero di ritorno a rapide falcate. Un altro tuono, ancora più potente, sempre più
vicino...e un lampo accecante che conferisce, per un attimo, una luminosità spettrale alla
boscaglia. Il fluire delle acque del fiume sembra aver trasformato la sua gioiosa vivacità in
impeto, fa paura. Inizio a trotterellare, e quasi subito dopo inizia pure l’affanno a farsi
sentire. Avanzo saltellando tra le asperità e i dislivelli del terreno. I primi goccioloni
colpiscono la mia testa (piove, non c’è dubbio !). Tuoni e lampi, con fragore assordante, a
ripetizione. In men che non si dica una pioggia torrenziale, violenta, mi investe e mi
fradicia completamente. Ora corro a velocità sostenuta, col rischio di rotolare in mezzo al
fango e magari di fratturarmi un arto. La fatica diviene insostenibile, decido di fermarmi a
riprendere fiato...(tanto ormai...). Con il fiato grosso alzo il viso verso il cielo quasi nero....
una cascata d’acqua mi sommerge. Sono confuso, disorientato, intimorito. Difficile
rimanere indifferenti quando la natura ti esplode intorno con simile violenza. Più che altro,
però, subisco l’assalto di una tristezza indicibile...e rimango lì, a lasciarmi inondare dallo
scroscio d’acqua, lo sguardo fisso nel cielo...(che venga giù anche il cielo !...).
“Mary....”
Non so come , non so perché, scoppio a ridere (o forse a piangere)...una risata sguaiata,
scomposta...incomprensibile.
Che venga giù il cielo, tanto ormai...sono tutto bagnato...sono bagnato anche dentro...
56
CAPITOLO IV
SGUARDI TRA LE FOGLIE
Le foglie del carpino tremano, in un caldo e afoso tardo pomeriggio d’estate. L’aria
immobile. Nemmeno un alito di vento. Il ronzio prodotto dagli insetti che volano tra i rovi,
l’ortica, gli alti steli di cicuta e i folti cespugli di ginestra, sottolinea questa staticità
imperturbabile. E le foglie del carpino tremano. Per la paura. Un tremolio appena
percettibile che, il contatto con un corpo preda della paura e dell’eccitazione, trasmette
loro. Il mio corpo. Un corpo infuocato e bagnato di sudore, sotto i pur esili indumenti di
cotone che lo rivestono. Indumenti di colore “mimetico”, opportunamente scelti in
previsione di una simile occasione. Vergogna ! Che vergogna provo nel sapere di essere
condizionato persino nella scelta degli abiti, quando vado a cercare proprio la mia più
selvaggia libertà nei boschi. Ma forse anche questo inevitabile travestimento è frutto di un
prepotente, istintivo bisogno di autenticità. Una consolazione ? Una scusa per farmi
perdonare da me stesso ? No ! Ma almeno un’attenuante sì ! E allora riesco a sopprimere,
inibire momentaneamente la vergogna. Ma poi la vergogna cos’è se non dominio
interiorizzato del sociale ? Il superamento della vergogna consente dunque di infrangere il
dominio, di spezzare le catene che, nel subdolo travestimento dell’autocontrollo personale,
del divieto interiore, esplicano l’ultima e forse più efficace risorsa di imposizione contro il
desiderio e la volontà di trasgressione. Perché allora non usare un travestimento contro un
travestimento ? Oltrepassare il limite, scalzare le remore morali, osare contro se stessi
quando in se stessi si ravvisa un potere “altro”, adagiarsi al di là del bene e del
male.....Nietzsche mi conforta.
E mi lascio sovrastare dal desiderio. Dalla paura e dall’eccitazione. Che incredibile
“melange” emotivo è questo ! Un’autentica esplosione pulsionale che non ha eguali nella
normalità, cosiddetta o presunta “normalità”, dell’erotismo. Non tanto per l’intensità,
quanto invece per la qualità del piacere alla quale si associa. Non fosse altro che per la
specifica e atipica componente che di essa è parte integrante e insostituibile : la paura. La
paura che, in qualsiasi altro contesto sessuale, è fattore inibente o di disturbo sullo stato di
eccitazione raggiunto, in questo caso precede e accompagna costantemente l’evolversi
della fase eccitativa, o addirittura vi svolge un’azione catalizzatrice, enzimatica. Ma è una
paura che non deve trascendere, deve mantenersi entro limiti di tollerabilità, non
57
trasformarsi in panico. E’ sempre prossima al panico : basta un nonnulla, un piccolo
rumore inatteso o di origine indecifrabile, perché scivoli senza rimedio in esso. Nel qual
caso, cessa d’incanto il travolgente miscuglio emotivo. Perciò la paura deve potersi
mantenere in precario equilibrio ai confini del panico, senza mai superarli. E’ questa
precarietà, in fin dei conti, che conserva attivo il trasporto erotico.
E poi la peculiarità di questo piacere è anche un’altra : l’oggetto sessuale è
assolutamente “gratuito”. Non comporta alcuna spesa psicologica in termini di umilianti e
ipocriti corteggiamenti o di altro qualsivoglia genere di dispendio energetico di approccio.
E’ il piacere di animali sessualmente “pigri”, in senso lato, che non hanno voglia di
perdersi in noiosi preamboli o di prostituirsi moralmente in ammiccamenti e promesse
intentati allo scopo di circuire la preda. Si entra subito in possesso, in certo modo,
dell’oggetto desiderato, senza sacrificare alcunché di sé a favore di chicchessia. E’ il
piacere di animali egoisti. Perché.....esistono animali che non siano egoisti ? Che pur
prodigandosi nei più generosi e “disinteressati” atti di apparente altruismo, non facciano, in
ultima analisi, il proprio tornaconto ? E inoltre. E’ il piacere di animali violenti ? Che
usano violenza nell’atto di imporsi al proprio oggetto del desiderio senza chiedere
permessi, senza presentarsi, senza nemmeno rivelarsi ? Forse, anzi certamente. Ma....siamo
sinceri ! La loro, la nostra, è una violenza così tenue, così “indolore”, almeno fintanto che
rimane nascosta, che non lascia traccia, che non crea drammi e lacrime, che non sconvolge
la vita di nessuno. Di entità assolutamente incommensurabile alle atrocità che la
quotidianità riserva agli esseri mortali. E quando, per accidente o imprudenza, si disvela,
crea tutt’al più qualche attimo di sgomento, di imbarazzo e di rabbia a chi si è disvelata ,
senza gravi strascichi futuri per la psiche. L’impatto della disvelazione è assai più
traumatico sul soggetto stesso che ne è l’attore, messo a nudo nell’azione libidinosa. Da
questo infausto momento una macchia indelebile sporcherà, forse per sempre, la sua
memoria.
Ed ecco allora perché quella paura. Di quale paura l’animale pigro, egoista,
violento, è, allo stesso tempo, vittima e fruitore beneficiario ? Non la paura di chissà quale
improbabile castigo, ma la paura pura e semplice di essere scoperto, ovvero la paura della
vergogna. La solita stramaledetta vergogna che ne conseguirebbe. Quella vergogna che
emerge sotto forma di senso del peccato, di incoercibile senso di colpa in chi sa, o crede, o
non può fare a meno di credere, di trovarsi in flagrante comportamento delittuoso. E che
emerge comunque, nonostante siano state erette le più solide difese, le più ardite e razionali
58
convinzioni di inesistenza di una qualsiasi colpa. Quella vergogna che ti ferisce prima,
durante e soprattutto dopo lo svolgimento dell’iter ritenuto comunemente “peccaminoso”.
E dopo agisce come una mano invisibile che vuol toglierti via il godimento appena
“usurpato”. Questa sì che è violenza ! Violenza alla quale è difficile opporre resistenza, che
ti perseguita da dentro, ti colpisce, ti umilia e non ti riconosce attenuanti, ti giudica e ti
condanna e ti macchia d’infamia per l’eternità. Dimostrazione del potere smisurato di
coercizione che la società riesce ad esercitare sull’individuo. Contro questo potere trovo
dignitoso perseverare nella ricerca del piacere “illecito” e continuare ad essere debitore
della paura.
Sguardi impauriti e voluttuosi si fissano sui gesti voluttuosi degli amanti,
avvinghiati nell’abitacolo dell’automobile, e ne carpiscono i sottili segreti del godimento.
La carne chiara, morbida, sinuosa e palpitante. Le mani avide che si serrano su di essa e vi
affondano, quasi per impossessarsi della bramosia che la corrode dal di dentro. E il mio
sguardo famelico cattura tutto, dentro e fuori, e chiude un circolo orgiastico sfrenato ed
esaltante. Una mano sollecita il membro eretto e lo prepara all’amplesso. Anche la mia
mano stringe con prepotenza la carne turgida e calda, la scuote, quasi la percuote. Quel
corpo candido e desideroso si scompone, si apre come una voragine e si deposita sul pene
per fagocitarlo e per lasciarsi penetrare. Il sudore, il calore, la febbre del piacere, il respiro
ansimante, i battiti del cuore a mille, il cigolio sempre più ritmico e veloce dei sedili
appiccicosi. E lo sfogo estasiante negli attimi culminanti, le secrezioni dense che
imbrattano l’oggetto amato, il seme che si disperde sulla polvere e irrora le foglie amiche.
Poi tutto tace, tutto si ferma. Il piacere ammutolisce, il circolo dell’amore si spezza. Solo la
paura continua a martellare, e la vergogna torna a tormentare.
Perché mi trovo qui ? E’ il momento di scappare, dalla paura e dalla vergogna.
Esito ancora alcuni istanti per sincerarmi che intorno a me ci siano solo presenze amiche :
alberi, arbusti, fiori ed altri animali. Trattengo il fiato e guardo nelle varie direzioni. Poi
scivolo via di soppiatto e lentamente dal nascondiglio, per non fare rumore e non essere
intravisto, anche se l’impulso è quello di mettermi a correre, per lasciare subito più spazio
possibile tra me e il luogo dell’illecito”, tra me e.........me. Ed avallare di fatto, ma senza
gradimento, il mio sdoppiamento schizofrenico.
Appena fuori portata del pericolo, gradatamente riacquisto la “normalità” condivisa
da tutti. La carica eccitativa si è esaurita e la tensione si è spenta. Anche la paura non c’è
più. Svuotato come succede alle zucche nelle ricorrenze annuali di Halloween , esausto
59
come potrebbe sentirsi uno scaricatore di porto alla fine della giornata lavorativa. A passi
lenti e pesanti, che sprofondano nel soffice humus boschivo, con i muscoli ancora
indolenziti per le inconsuete posizioni assunte nell’opera di voluttuosa osservazione, mi
dirigo verso il luogo in cui ho parcheggiato l’automobile. Spompato e vagamente intristito.
Un voyeur, un guardone rincoglionito !
Tutto cominciò parecchi anni addietro. Durante un agosto incandescente, trascorso,
peraltro meravigliosamente, in Grecia insieme a Stella e insieme a...Cucciolo. Sì, quel
bastardo di un cane, amatissimo compagno della mia vita per 12 lunghissimi anni. Al quale
attribuisco il merito esclusivo della maturazione di una fondamentale presa di coscienza :
quella di essere un animale. Non la devo alle letture darwiniste, che hanno invece fornito
una sistemazione teorica postuma a questa presa di coscienza. Fu Cucciolo il medium che
mi consentì di trasformare la mia visione esistenziale ancora ottusamente antropocentrica
in una visione di eguaglianza cosmica disincantata, di trasporre i principi dell’anarchismo
dall’ambito dei rapporti sociali umani a quello dei rapporti naturali fra tutte le forme
viventi.
Ancora così giovani, con entusiasmo da buttare via e la voglia di avventura, con
una piccola utilitaria ed un’essenziale attrezzatura da campeggio, a spasso tra i paesaggi
aspri ed assolati del Peloponneso e lungo le sue coste incantate, eravamo una triade
perfetta. Lo sguardo radioso di Stella, pur velato dalla stanchezza per le stressanti giornate
di viaggio in automobile ; lo sguardo pietoso di Cucciolo che implorava il consueto bagno
nelle acque marine, sbavando decilitri di saliva ovunque ci trovassimo ; il profumo intenso
delle essenze mediterranee e della salsedine, il cielo sempre terso e la luce accecante
diffusa, senza scampo, in ogni angolo del paesaggio : tutto contribuiva ad infondermi il
desiderio di vivere la vita come non mai. Non avevamo tempo di rattristarci di alcunché, né
tanto meno di annoiarci. E sì che le occasioni per riflessioni dolorose non mancano mai,
nemmeno durante una gita di piacere. Rivisitando i ricordi di quei luoghi, al di fuori
dell’influsso vitalizzante diretto del mare e del sole, compaiono anche impressioni dolorose
della Grecia di allora. La povertà, innanzitutto, di gran parte della popolazione che abitava
nei piccoli comuni e agglomerati urbani, attraversati durante l’itinerario di viaggio. I
bambini malvestiti che attorniavano la nostra utilitaria durante le soste di rifornimento,
attratti dallo straniero “benestante” (proprio così !) in vacanza. Davvero avvilenti e
corrosivi, quegli occhi grandi di ignara e ingenua bramosia. E poi i nugoli di mosche e di
vespe che, normalmente, stazionavano sulle porzioni di carne bovina appese nelle
60
macellerie, prive di apparecchiature refrigeranti. L’acqua delle fontane pubbliche - con le
quali riempivamo le taniche di scorta - che lasciavano depositare un visibile strato terroso.
Le facce, rugose e stanche, delle attempate signore che, nelle stradine dei piccoli centri, si
guadagnavano da vivere vendendo gustosissimi “spiedini” di carne (ahimé!, quale era il
loro nome locale ?). Ma gli occhi, gli occhi della gente greca....... questo è il ricordo più
indelebile che conservo. E’ come se gli sguardi dei greci riflettessero un tratto intrinseco
comune, un aspetto inconscio dello spirito di quel popolo. E comunque io quel tratto ve lo
scorgevo, anche se la logica mi dice che potrebbe, assai più verosimilmente, trattarsi di un
“transfert” dei miei desideri, dovuto alla stima che ho sempre nutrito per le nobili origini di
quel popolo. In quegli sguardi scorgevo umiltà e dignità nel contempo, coscienza del limite
e insieme fiera determinazione a non soccombere ad esso. Vi leggevo il triste desiderio di
una drammatica sfida all’impossibile. Di questa dolorosa impressione che conservo non ho
riscontri obiettivi, come il mare o il sole, solo sguardi, atteggiamenti, messaggi impliciti.
Solo questo. E soltanto oggi riesco ad evocarla. In quei giorni di agosto la mia mente
affondava nel mare azzurro, caldo, trasparente, volava nell’aria brillante, di una luminosità
accecante, si inebriava delle profumate essenze del pino, del rosmarino e del sale marino, si
abbandonava sulla pelle e negli occhi eccitanti ed eccitati di Stella, rincorreva la giocosa,
ingenua, selvaggia natura di Cucciolo, si lasciava trascinare nel vorticoso, ludico,
inebriante appagamento degli impulsi primordiali. Le stonature, le note dolorose, non
avevano la capacità di coinvolgermi, di disturbarmi. Dalla retina passavano direttamente in
un angolo remoto del cervello, senza passare dalla regione delle emozioni, attendendo una
rivisitazione successiva più approfondita, che sicuramente ci sarebbe stata, come è vero che
poi c’è stata.
Dopo le estenuanti tappe di marcia giornaliera, verso il tramonto, la nostra unica
preoccupazione era quella di trovare un posto idoneo - lontano dai centri abitati - per la
sosta della notte. Niente di più facile, avevamo l’imbarazzo della scelta. La Grecia dei
nostri ricordi non sembrava ancora brutalmente antropizzata, conservava meraviglie
ambientali ovunque giungessimo : grandi foreste d’alto fusto, macchie intricate, garighe
cespugliose e sassose, spiagge deserte per chilometri, paludi incontaminate, speroni di
roccia a strapiombo sul mare. Sorpresi e affascinati ogni volta dalle caratteristiche dei
luoghi incontrati, ripetevamo il solito rassicurante e, allo stesso tempo, eccitante rituale di
bivaccamento. Montavamo in pochi minuti la tendina a due posti (di quella grossa ci
servivamo nelle soste prolungate di più giorni), preparavamo le cuccette con i sacchi a pelo
61
per dormire e quella speciale per Cucciolo (uno spazioso cuscino in gomma piuma), che
esso quasi sempre disdegnava per godere della frescura notturna all’aria aperta.
Accendevamo un piccolo fornello per improvvisare una frugale cena calda e, prima e dopo
la consumazione del pasto, ci raccontavamo le impressioni del giorno e le aspettative per il
giorno seguente. Cucciolo, dopo essersi rifocillato, aveva l’abitudine di acquattarsi sul
ventre, con il muso appoggiato sulle zampe anteriori e le lunghe orecchie pendenti e pelose
(ereditate probabilmente da un progenitore di razza cocker) sollevate di quel tanto
necessario ad una perfetta ricezione sonora. Teneva sotto controllo tutta l’area circostante
per centinaia di metri. Questo era il suo momento, uno dei suoi prediletti. Si “sentiva”, per
così dire, utile. Era il momento della guardia. Quando calava la notte, nell’indisturbata
cantilena dei grilli, era irresistibilmente chiamato a proteggere la sua piccola comunità da
eventuali intrusioni entro i confini territoriali, marcati dalla propria straordinaria capacità
olfattiva e uditiva. Lo scricchiolio prodotto da qualche insetto o piccolo roditore sulle
foglie, la caduta di un ramoscello secco al suolo, il verso improvviso di una civetta o un
barbagianni, erano più che sufficienti a scatenare la sua reazione spropositata di paura e
violenza aggressiva insieme. Per un uomo, forgiatosi in millenni di progressiva
razionalizzazione comportamentale, una tale reazione potrebbe risultare incomprensibile al
vaglio di una considerazione superficiale. Io e Stella ormai avevamo imparato a
comprenderla, non ci stupiva affatto ; anzi, col tempo, ci risultò persino bella ed esilarante,
al punto di invogliarci spesse volte a gustarne l’intera sequenza, evitando di intervenire per
frenarne l’irruenza.
Intorno alla fine di Agosto - dopo aver visitato innumerevoli località, comprese
quelle di maggior rinomanza turistica come Olimpia, Sparta ed Atene - decidemmo di
fermarci alcuni giorni in un luogo situato sulla costa del versante occidentale, non molto
distante da Patrasso. Era semplicemente incantevole, quanto di meglio potevamo auspicarci
di trovare prima di congedarci da questa magnifica terra. Penetrammo, mediante uno
stradino sabbioso, all’interno di una fascia boschiva litoranea, dall’aspetto maestoso ed
integro. Era una foresta dominata da giganteschi esemplari di pinus pinea, volgarmente
detti pini domestici, con i loro caratteristici altissimi fusti dal colore rossastro e screpolati
in grosse placche, sulla sommità dei quali si aprivano rigogliose chiome dalla tipica forma
di ombrello (mi chiedo spesso se quelle secolari testimonianze siano ancora oggi
sopravvissute all’avidità umana). Il sottobosco era denso ma lasciava, al proprio interno,
frequenti ampi spazi di agibilità sulle dune sabbiose, ideali per il campeggio. Un fosso
62
dagli argini paludosi - con canneti che ospitavano una ricca fauna limicola e avifauna
acquatica - attraversava longitudinalmente la foresta e la separava da una fascia di macchia
più fitta, bassa, cespugliosa, composta da una variegata comunità di specie vegetali
mediterranee, quali il mirto, il corbezzolo, il lentisco, il ginepro coccolone, il cisto e il
terebinto. Solo un piccolo ponticello in legno, costruito a cavallo del fosso, metteva in
comunicazione le due fasce vegetazionali e consentiva di accedere alla spiaggia, ma
soltanto a piedi, che si estendeva nuda e solitaria oltre la macchia. E si estendeva davvero
per chilometri e chilometri, in una sequenza interminabile di dune sabbiose modellate dalla
brezza marina, senza altri ospiti stabili viventi che l’ammofila, avanguardia conquistatrice
dei litorali. Qua e là tracce di animali di passaggio e di uccelli di ripa, o residui cadaverici
di animali marini, sbattuti lì dalle correnti e dalle onde (non potrò mai dimenticare
l’enorme carapace di tartaruga di mare, non ancora scarnificato completamente, che
trovammo in fase di decomposizione durante una delle nostre passeggiate serali). I segni di
presenza umana, per quanto inverosimile possa apparire, erano molto rari. Non
rintracciammo nemmeno un’impronta recente di uomo su quella distesa di sabbia fina e
chiara. Il giorno in cui scoprimmo questo sperduto e strabiliante angolo di mondo, dopo
una faticosa tappa in macchina, tutti sudati e stanchi sotto il sole incandescente di
mezzogiorno, ebbene, potrà risultare retorico dirlo, ma non ci sembrò vero. Sembrò
impossibile potesse esistere, in una qualche parte dell’Europa civile e industrializzata, sul
finire del secondo millennio, un posto così selvaggio e nel contempo così ospitale. Appena
guadagnata la spiaggia, dopo una camminata entusiastica di centinaia di metri sotto
l’ombra tonificante dei pini e la cantilena assordante delle cicale, non perdemmo nemmeno
il tempo per descriverci le sensazioni e l’ebbrezza del momento. In pochi secondi ci
denudammo completamente e raggiungemmo Cucciolo che, sbuffante come una
locomotiva, si era già tuffato, senza nemmeno i consueti tentennamenti, tra le lievi onde
del mare. Ed altra grande sorpresa : l’acqua era così calda come mai in passato ci era
riuscito di trovarne in uno qualsiasi dei tratti di litorale mediterraneo visitati, e sono stati
tanti. Sguazzammo felici tra le onde carezzevoli, divertendoci, come al solito, a fare
dispetti a Cucciolo, il quale, in quell’occasione, non ebbe voglia di prendersela più di tanto.
Anch’esso venne travolto dagli effetti vivificanti di quell’ambiente magico e si offrì
integralmente, com’era peraltro nella sua natura, all’ubriacante contesto di stimoli. Ci
dimenticammo persino di pranzare quel giorno e restammo per ore in acqua e poi a
ruzzolare sulla sabbia incandescente. Quel paradiso fu come se si trovasse lì per noi e per
63
nessun altro. Nessun essere umano sembrò volesse o potesse condividere con noi il
miraggio di quel posto. A pomeriggio avanzato, ormai esausti ed appagati, tornammo
indietro alla macchina per scaricare l’attrezzatura da campeggio e montare la tenda grande
per l’ultima sosta, la più lunga, delle nostre vacanze. Accendemmo, con molte cautele, un
piccolo fuoco. Il crepitio dei rami secchi sulle fiamme, l’odore appetitoso delle bistecche
arrostite sulla brace e quello più avvolgente della resina dei pini, lo sciacquio lontano delle
onde marine, in contrasto con il silenzio assoluto del buio circostante : questi pochi
elementi esaltavano la consapevolezza di trovarci in quel luogo. Ci sentivamo come gli
unici fortunati sopravvissuti ad una catastrofe planetaria. Sembrava fossimo solo noi a
godere lì di quel che rimaneva. E Cucciolo a far da guardiano intransigente dei nostri sogni.
Quasi impossibile non destarsi al bagliore dell’alba, quando inonda l’interno della
tenda penetrando dai suoi porosi tessuti, così come al canto mattutino della capinera. E
anche quella mattina dopo aprii gli occhi, subito rinfrancato dai gioiosi segnali di vita ; per
poi riassopirmi immancabilmente come tutte le mattine passate in tenda, dopo aver coperto
le spalle infreddolite rimaste alla mercé della frescura umida della notte. Alcune ore dopo,
quando il sole aveva già prepotentemente surriscaldato l’aria, Stella si alzò delicatamente,
come al solito, badando a non infastidire troppo il mio sonno (lei sapeva quanto amavo
dormire nelle prime ore della mattina). Sentì Cucciolo festeggiare come sempre, con lo
stesso inconcepibile entusiasmo, il ritorno tra i vivi della sua amica. Con salti, piroette,
gemiti ed un andirivieni frenetico intorno a lei.
“Buono, Cucciolo.... mi graffi tutta..... e svegli Enrico !”
La caffettiera sul fornello iniziò poco dopo a borbottare. L’aroma del caffè giunse
puntuale ai miei sopiti organi olfattivi. Di soppiatto Cucciolo si avventurò all’interno della
mia cuccetta, passando attraverso lo spacco della chiusura lampo, lasciato aperto da Stella.
Me lo ritrovai addosso a slapparmi tutta la faccia con la sua linguaccia ruvida e umida.
“Vattene Cucciolo..... lasciami dormire in pace !”
Finalmente, dopo pochi minuti, sentì giungere la voce di Stella come provenisse da
un angolo remoto :
“Vado in spiaggia, Enrico... ci vediamo più tardi.”
Farfugliando, ebbi la capacità di risponderle. “Sì....ti raggiungo più tardi.” Mi voltai
sul lato opposto, sprofondando con enorme soddisfazione la testa sul cuscino, nonostante la
foresta fosse ormai in balia di un cicaleccio assordante. Il mio sonno durò ancora per circa
un’ora, fino a che il sole fu così alto, e i suoi raggi così cocenti, da costringermi, già tutto
64
sudato, ad uscire fuori dalla tenda. Mi soffermai alcuni momenti ad osservare incantato lo
spettacolo prodotto dalle sfumature di colore delle grandi masse verdi che mi
circondavano. Non so perché, non l’ho mai capito con precisione, ma la foresta è un luogo
all’interno del quale mi sono sempre trovato a mio agio. In quell’occasione, lo ricordo
bene, provai, insieme ad una confortante sensazione di protezione, anche un vorace
desiderio di esplorazione. Chissà quanti nascondigli, quanti microcosmi viventi, quanti
angoli di magica bellezza poteva accogliere al suo interno un habitat così sconfinato e
selvaggio. Mi ripromisi di scandagliarne, metro per metro, le sue profonde intimità, di
sondarne i più segreti recessi, nei pochi giorni che ci rimanevano a disposizione.
Preparai l’irrinunciabile colazione a base di caffè, latte e biscotti, mi lavai i denti e
il viso con l’acqua contenuta in una ghirba e, nudo così come mi ero alzato, mi diressi
verso il sentiero per raggiungere Stella alla spiaggia. Mi sembrò di così naturale plausibilità
la nudità in quel contesto, da non prendere nemmeno in considerazione l’eventualità,
peraltro assai remota, di un incontro con esseri umani ai quali doverne rendere conto. Mi
soffermai per alcuni istanti sul traballante ponticello in legno (chissà da chi, in quale epoca
e per quale scopo fu costruito, mi venne logico domandarmi) a scrutare l’acqua di un verde
torbido del fosso sottostante, che si perdeva con piacevoli curve a serpentina tra il fitto
della macchia cespugliosa, da una parte, e la serie grandiosa dei fusti di pino, dall’altra.
Dalle sue sponde fangose, orlate da canne e giunchi, si levava l’intenso gracidare di
un’innumerevole popolazione di rane. Di quell’ambiente tutto mi apparve superlativo,
quasi di esagerata ridondanza. Puntai quindi deciso verso la spiaggia. Fervevo dalla voglia
di rivivere, con Stella e Cucciolo, le emozioni del pomeriggio precedente. Risalii la china
dell’ultima duna sabbiosa, oltre alla quale attendevo si scoprisse la visuale del mare. Così
fu, ma un particolare di quello che vidi mi costrinse ad arrestare di colpo il passo e a
indugiare sulla sommità della duna. Stella e Cucciolo non erano soli : accanto alle
impudiche sinuosità del corpo nudo e disteso di Stella - che teneva sollevata solo la gamba
destra, reclinandola all’interno, in modo che le fungesse da foglia di fico, per sopperire
forse ad un residuale imbarazzo - e accanto a Cucciolo che se ne stava accovacciato da una
parte in atteggiamento sospettoso e vigile, si trovava un giovane in costume inginocchiato
sulla sabbia, dalla pelle scura e i capelli neri, dai tratti del volto decisamente mediterranei.
Il giovane, quasi sicuramente un greco, e Stella colloquiavano con disinvoltura. Stella non
è mai stata il tipo da lasciarsi intimorire, né tanto meno da trovarsi in disagio, per gli
“abbordaggi” dell’altro sesso. Donna molto graziosa e di carattere espansivo, per indole
65
ben disposta all’esperienza senza remore verso il mondo esterno. Questa sua spontanea
inclinazione, col tempo rinforzata e razionalizzata da una mentalità libera, maturata in
un’epoca di grande affermazione dei valori del femminismo, hanno fatto di lei una donna
ben dotata nel cercare, gestire, controllare, indirizzare a proprio gradimento i rapporti
interpersonali. Una personalità, insomma, esattamente opposta alla mia, e forse proprio per
questo, riuscimmo per lungo tempo a far convergere i nostri destini, come se, ciascuno di
noi due, avesse trovato nell’altro il proprio completamento spirituale. E questa sua
personalità le ha anche consentito, prima d’incontrarmi, una nutrita esperienza con l’altro
sesso. In altre parole, ha saputo sempre far fronte, col proprio estro caratteriale e una
spiccata padronanza emotiva, all’avance di un bel giovane. Una dote che non ho potuto
fare a meno di ammirare. In un modo o nell’altro, a seconda dei desideri del momento, ha
saputo sempre come uscirne a suo piacimento. Credo fosse capace anche di districarsi, col
minor danno possibile, da pericolosi accostamenti di eventuali malintenzionati. In
quell’occasione sulla spiaggia non ritenni, comunque, si trattasse affatto di un caso del
genere.
Dopo alcuni attimi di esitazione mi gettai sulla sabbia, al di sotto del limite
superiore della duna, per togliermi dalla loro visuale. Sarei rimasto molto imbarazzato se
mi avessero scorto in piedi fermo ad osservarli. Provai l’impulso irresistibile, fino ad allora
mai provato in vita mia, di curiosare sull’evolversi della situazione. Il cuore prese a
battermi violentemente. Sollevai la testa di quel tanto che mi consentii di spiare, senza
essere scoperto, attraverso i cespugli di cisto. Neanche il prodigioso fiuto di Cucciolo poté
smascherare la mia presenza, dato che la brezza marina soffiava sul suo naso l’odore della
salsedine, non certo quello del mio corpo ben lontano alle sue spalle. Qualcosa di
profondamente inconsueto ribollì dentro di me. Avvertì una graffiante gelosia, mai provata
con tale veemenza prima di allora. Ma non c’era solo quella. E no che non c’era soltanto
quella ! Il corpo abbronzato di Stella, formoso e splendente sotto i raggi ancora inclinati del
sole, alle 10,30 circa del mattino, mi sembrò palpitante di vita, così eccitante come mi
capitava di scorgerlo solo dopo prolungati periodi, peraltro infrequenti, di forzata astinenza
sessuale fra noi. Quel corpo, e quello al suo così vicino del giovane, asciutto ed atletico, di
ostentato vigore, accesero, infiammarono in me strane fantasie morbose che sul momento
non compresi appieno. Frammista alla rabbiosa gelosia si stava impossessando di me un
altrettanto furiosa eccitazione. Il membro parlava chiaro. Era divenuto così turgido che,
compresso dal peso del corpo sulla sabbia, si scavò una nicchia in essa. Quel misto di
66
emozioni fece impazzire il mio cuore. Se non fosse stato sano e ben funzionante, credo
sarebbe scoppiato come una bolla di sapone. Stavo perdendo anche la capacità di ragionare.
Cosa fare ? Come comportarmi ? Mi sollevai in ginocchio e guardai timoroso intorno.
L’imprevista presenza di quel giovane mi rese d’improvviso insicuro sull’apparente stato di
selvaggio abbandono del luogo. Avrebbero potuto esserci altri individui nei paraggi. E se
mi avessero visto in quelle condizioni, carponi e nudo col pene eretto, quasi volessi
copulare con la sabbia, come succede in certi riti tribali ? Nonostante i più che giustificati
timori, la rigidità dell’organo sessuale non venne meno. Fu la prima volta che provai quello
strano, quanto travolgente “mélange” di paura ed eccitazione, ignaro che si sarebbe
ripetuto, mutatis mutandis, innumerevoli volte in futuro. E la prima volta, come già detto,
fui tormentato anche dalla gelosia. Quante forti emozioni tutte insieme ! Che non sapessi
più cosa fare, be’, penso sia quanto meno comprensibile. Assicuratomi che non vi fosse
alcun altra presenza umana, almeno alle mie spalle, tornai a voltarmi verso la spiaggia con
lo sguardo protetto dalle foglioline di cisto. Il giovane si stava sedendo comodamente ancor
più vicino alle delicate membra di Stella (oh, come mi apparvero delicate e belle le sue
membra !), e Stella si sollevò con il busto, poggiando i gomiti e offrendo un primo piano
dei suoi seni. Mi sembrò stessero entrando in maggior confidenza colloquiale. Cucciolo
non gradì quell’ulteriore accostamento ed iniziò ad abbaiare. Ma le carezze di lei, quanto
quelle sfacciatamente opportunistiche di lui, riuscirono a tranquillizzarlo e forse anche a
rendere ad esso sopportabile la presenza estranea. Cucciolo non tollerava gli estranei dalle
maniere rudi. Ma quel giovane sembrava avere maniere dolci e pacate. Dimostrò di saper
trattare un cane.
In quello stato di turbolenza interiore, non sapevo a quale me stesso dar retta.
Scappare per la paura di essere sorpreso in tale frangente da qualcuno ? Avvicinarmi a loro
indifferente per interrompere l’evolversi dell’incontro ? Come, col pene eretto, che non
voleva saperne di sgonfiarsi mettendo a riposo la sua voglia irriverente ? E poi, seppure
fossi riuscito a interrompere l’evoluzione dell’incontro, magari con un’entrata in scena
civile e senza creare imbarazzo, come avrei mai potuto sapere con certezza quale sarebbe
stato il comportamento di Stella ? Certo, lei si aspettava che sarei sceso prima o poi in
spiaggia. Ma cosa le avrebbe impedito, se lo desiderava, di andarsene con il giovane in un
luogo nascosto a sfogare i suoi impulsi sessuali ? E me lo avrebbe mai poi confessato ?
Fino a quel momento il nostro rapporto era sempre stato molto franco e basato su
presupposti di libera, reciproca fiducia. Ci eravamo detti, e continuavamo sempre a dirci,
67
tutto quello che di importante ci era capitato e ci capitava. Almeno così era da parte mia.
Persino i nostri semplici desideri verso terze persone non rimanevano inconfessati fra noi.
Questa mi parve l’occasione per verificare la sua fedeltà ai presupposti di sincerità sui quali
si reggeva, o sembrava reggersi, il nostro rapporto. Optai così di ritornare, senza esser
visto, sui miei passi, pur dopo molta ritrosia e ancora stordito dai caotici sommovimenti
emotivi interiori. Non riuscivo a spegnere quell’incendio dentro di me, ma col pene duro
stretto nella mano destra, quasi a farmi male, mi incamminai frettolosamente per tornare
alla tenda. Vedendomi in tale circostanza, penso che qualsiasi persona non avrebbe potuto
reagire che in due modi alternativi o anche complementari : scoppiare a ridere per il mio
aspetto comico, o preoccuparsi seriamente per il mio aspetto di esagerata stravaganza.
Fatto sta che raggiunsi la tenda in pochi minuti, senza aver scorto anima viva. Mi
infilai nella cuccetta in posizione supina, sempre con il coso in mano. Incredibile a dirsi,
ma per tutto il tragitto di ritorno, non aveva subìto che una leggera flessione. Nella
tranquilla riservatezza della tenda la mente tornò a macinare le immagini di poc’anzi e altre
ancora. Fu tutto un susseguirsi di scene erotiche, durante le quali non potei trattenere la
mano destra dal rendersi utile. Vidi Stella sdraiata, a gambe divaricate e sollevate in aria,
che gridava estasiata sotto i violenti e rapidi colpi di ventre del giovane, che la penetrava
senza risparmiare nemmeno un centimetro del suo enorme membro. Su e giù, su e giù, su e
giù. Bagnato di sudore, quasi privo d’aria per respirare, esplosi in un’eiaculazione copiosa
e sprizzante, inzaccherando il sacco a pelo e il tessuto della cuccetta.
Questa fu dunque la prima volta da guardone. Fu la volta che scoprì di essere
posseduto da impulsi sessuali “diversi” di quelli della cosiddetta “normalità”. Da allora non
sono rimasti più latenti, ma hanno avuto modo di palesarsi e trovare gratificazione in
tantissime altre occasioni, anche se in situazioni non fortuite ma cercate, e con “oggetti” di
osservazione non più familiari. Tutte le reiterazioni successive sono risultate cioè epurate
del fattore gelosia, che pure non costituì, in quell’unica occasione in cui si manifestò, un
elemento di disturbo, caso mai di complicazione ed amplificazione dei livelli eroticoemotivi.
Appena conclusasi, nel senso di un soggettivo appagamento con l’atto
masturbatorio, quella prima volta si trasformò in un profondo senso di svuotamento e
sfinimento. Che durò, per la verità, molto poco, rimpiazzato da un’affluente rabbia frutto
della gelosia. Questa non poté certo sopirsi, e si trovò anzi libera di imperversare. Fui
sopraffatto da essa. Mi ritrovai in piedi a gironzolare intorno alla tenda, incazzato come
68
una iena. Nella retina dei miei occhi si era fissata l’immagine di quel giovane muscoloso e
superdotato, mentre cospargeva di sperma l’addome e i seni di Stella. Non scorgevo più
niente delle bellezze ambientali che mi circondavano. Fui tentato di correre all’impazzata
verso la spiaggia. E se l’avessi fatto forse ero ancora in tempo ad imprimere un corso
diverso al destino futuro del mio rapporto con Stella. Ma, per stupido e malimpiegato
orgoglio, non volli andare ad interrompere l’incontro. Rimasi a consumarmi di ira ed ansia,
girovagando, ancora tutto nudo, tra il sottobosco dei dintorni, convincendomi di stare ad
esplorare le ricchezze vegetali del luogo. Passarono all’incirca altre due lunghissime ore,
durante le quali, se le mie orecchie erano martellate dal frastuono sempre più incalzante
prodotto dal coro di cicale, la mia mente era invasa di danze orgiastiche di mille demoni
forti e nerboruti, dotati di membri spropositati che sputavano in continuazione. E Stella era
nel mezzo, nuda e distesa, a far da vittima sacrificale in estatica accondiscendenza e con le
mani protese per non lasciar disperdere il malefico liquido seminale.
Il sole era alto e soffocante quando finalmente comparve a spazzare via i miei
incubi ad occhi aperti. Era bella come non mai, così delicata e provocante, in andatura
tranquilla e lievemente ondeggiante, col pelo pubico e i seni tondi e prominenti in mostra
senza un minimo accenno di vergogna. Fui affascinato da quella visione. Il suo sguardo
sicuro e dolce intercettò i miei occhi e si fermò su di essi. Sembrò volermi denudare anche
dentro, privandomi di ogni capacità di iniziativa.
“Enrico....ma tu sei rimasto qui tutta la mattina ! ?”
Non seppi distinguere l’inflessione della sua voce : era interrogativa o esclamativa ?
Chiedeva a me una conferma, o stava facendo una constatazione ?
Esitai alcuni istanti non sapendo cosa risponderle. Non le avevo mai mentito fino
ad allora, nemmeno su questioni di irrisoria importanza. Mi tolse dall’impaccio
(involontariamente ?) lei stessa.
“Non sei venuto a farti un bagno ! Non sai cosa ti sei perso. Cucciolo non voleva
saperne di uscire dall’acqua.....era così tiepida e carezzevole ! Ma cosa hai fatto tutto
questo tempo ? Non mi dire che hai dormito !”
“No, affatto. Ho gironzolato nei dintorni. Sai.....questo posto è un paradiso
incantato.....”, mi limitai a dire solo una piccola parte della verità. Allo stesso tempo
desiderai ansiosamente che ella rivelasse ciò che avevo visto (dimmi del giovane, Stella. Ti
prego !).
69
“Oh....ma avremo il tempo per perlustrare in largo e lungo questo posto, nei giorni
che ci rimangono !”
“Già”, risposi senza alcuna aggiunta, mentre carezzavo meccanicamente, privo
d’entusiasmo, Cucciolo che mi scodinzolava intorno. Poi decisi, fingendo indifferenza, di
metterla alle strette incalzandola con domande che pretendevano precise risposte.
“E tu cosa hai fatto ? Sei rimasta in spiaggia tutto il tempo a prendere il sole e a fare
il bagno ? Non hai fatto altro di particolare ?” - dimmelo Stella, dimmelo ! - quasi volessi
incitarla per via telepatica a porre fine ai miei dubbi laceranti. Sul suo volto notai un lieve
malcelato imbarazzo, che nascose voltandosi verso il fornello a gas.
“Bisogna che prepari qualcosa da mettere sotto i denti. Non c’è proprio speranza
che tu impari a cucinare, vero ? Si.... ho fatto anche qualcos’altro. Ad un certo punto,
siccome non ti facevi vivo, ho passeggiato con Cucciolo lungo la spiaggia. Che
meraviglia ! Avessi visto quante conchiglie.... andremo insieme a prenderne qualcuna delle
più belle..... e quante impronte di uccelli ! Deve essere un vero paradiso anche per loro
questo posto.”
Dimmelo Stella, dimmelo...ti prego....dimmi piuttosto che ci hai scopato, invece di
nascondermi tutto..., ormai la imploravo col cuore e con la mente.
Le mie suppliche nascoste non ebbero alcuna risposta. Né allora, né mai più in altro
momento. Il nostro bellissimo gioco di accordo, libertà e verità, costruito con passione ed
entusiasmo da entrambi, si interruppe in quell’occasione. I nostri fulgidi ideali e propositi
andarono a farsi fottere. Passai il resto di quei giorni d’agosto amareggiato, senza più
voglia di tuffarmi in quel sole, in quel mare. Mi rimase persino un ricordo angosciante di
quel luogo. E ancor oggi mi risulta difficile non attribuire ad esso quasi la responsabilità
dell’accaduto. A quella natura così amica, così nemica, così piena di vita come di morte.
Lei non poté non accorgersi del mio stato psicologico. Ed io mi accorsi che lei si
era accorta. Sapevamo entrambi di aver tradito un impegno tante volte professato e
dichiarato. Sapevamo che qualcosa di irreparabile si era verificato. Non abbiamo più avuto
il coraggio, e forse nemmeno il desiderio, di porvi rimedio. Eravamo, e lo siamo tuttora,
consapevoli di aver non soltanto tradito un impegno fra noi, ma anche un impegno più
radicale con noi stessi, col nostro essere. L’impegno, al quale ci applicammo in tutta buona
fede, affinché si riuscisse a guardare in faccia sempre, in ogni occasione, la realtà della vita,
senza ipocrisie. Un impegno che forse sanno mantenere gli animali, ma non,
evidentemente, l’animale uomo. Fu dunque anche un’amara disillusione esistenziale che
70
coinvolse tanto me quanto, ne sono sicuro, lei. Ritengo che siamo stati abbastanza
intelligenti da non cercare scusanti al nostro comportamento in quel frangente. Non ci sono
scusanti alla debolezza e finitezza umani. E non ne cercammo mai. Il nostro rapporto
sopravvisse ancora per alcuni mesi, tra sospetti e incertezze di ogni genere. Si allentarono
sempre più le nostre frequentazioni. Desiderammo sempre meno di stare insieme e sempre
meno facemmo all’amore. E con quanto poco entusiasmo ! Non avemmo bisogno di
confessarci quel senso di estraneità che si era intromesso fra noi. Non inventammo
nemmeno scuse per non vederci. Semplicemente, alla fine, non ci cercammo più. Senza
preliminari addii e lacrime. L’addio ce lo scambiammo quel giorno sotto il sole cocente
della Grecia. Le lacrime le abbiamo consumate in silenzio, pian piano, dentro di noi.
Sicuramente io dentro di me.
Fu anche la morte improvvisa di Cucciolo, avvenuta tre mesi dopo la gita in Grecia,
- a causa di un boccone avvelenato durante l’ultima escursione in ambiente selvaggio che
facemmo tutti e tre insieme - ad accelerare il processo di separazione. In effetti Cucciolo
costituiva l’ultimo legame fra noi, l’ultimo ingombrante motivo di congiunzione tra le
nostre vite. Sia perché con esso, e addirittura mediante esso, avevamo condiviso lunghi
anni di meravigliose esperienze, sia perché la sua compagnia impresse un cambiamento
radicale nel nostro modo di concepire la vita, sia infine perché lo amavamo molto
entrambi, proprio per tutto ciò che rappresentava per noi, e nessuno dei due avrebbe mai
accettato di separarsene. Il destino ci sgombrò la strada da questo arduo scoglio da
superare. Senza più Cucciolo, nulla ci costringeva a restare insieme. E nulla, di fatto, ci
tenne più uniti.
Sono passati molti anni da quando ci lasciammo. 12-15 anni.... non ho voluto più
contarli. Ora sono qui, seduto davanti al volante della mia station wagon. Dopo l’ennesima
fuga da me stesso. Gli unici testimoni, miei complici ed amici, gli alberi, le foglie, gli
animali. Ingrano la marcia, ma prima di rilasciare la frizione, accendo il mangianastri e
inserisco una cassetta. Partono le struggenti note di “Unchained Melody”, cantate dai
Righteous Brothers, e io parto con esse, di nuovo in pace con la mia anima.
71
CAPITOLO V
DELL’ANIMALE INCERTO
“L’autentica dimensione della conoscenza umana, così come dell’esperire
quotidiano, nonostante facciamo di tutto per non accorgercene o per far finta di non
accorgercene, è la dimensione dell’incertezza. Voglio dire..... l’esperienza e la conoscenza
che noi facciamo del mondo esterno, e anche del nostro mondo interiore, sono incerte, non
sono supportate da punti di riferimento veritativi, da assiomi di orientamento permanente,
capaci di garantirne un fondamento certo ed asaustivo. Solo un sapere tautologico, che
ripeta nel predicato, nelle conclusioni, quanto contenuto nel soggetto e nelle premesse del
discorso, può spudoratamente vantarsi di essere vero, certo, indiscutibile. Ma è il vanto di
chi possiede la verità dell’aria fritta, non della realtà delle cose. La realtà delle cose che
fanno parte del mondo esterno, e ben anche del mondo soggettivo interiore, conserva in sé ,
sempre e comunque, un aspetto di alterità, un “esser altro”, che per sua natura non può
accontentarsi di un ambito cognitivo tautologico, di un procedimento esplicativo che si
riavvolge perennemente in se stesso, che non ha la capacità né la volontà di uscire fuori di
sé e di......”
“Scusa....scusa, Enrico. Non ti seguo più. Sai bene che non ho molta dimestichezza
con le questioni filosofiche, anzi proprio per niente. Oltretutto, ti confesso che non ho
molta fiducia nella filosofia. Spesse volte mi da l’impressione di essere...., ti rubo il
termine, proprio aria fritta. Mi trovo assai più in sintonia con il linguaggio tecnicoscientifico e con l’approccio conoscitivo delle scienze. Comunque....” - gli sorrido, un po’
per farmi perdonare il trasporto passionale alle care rimembranze dei miei studi filosofici,
un po’ per ironizzare sulle sue affermazioni antifilosofiche (non so se ha afferrato questo
doppio significato del mio sorriso) - “....se ho capito bene, al di là delle elucubrazioni da
intellettuale,...” - sorride anche lui, ironicamente - “...tu sostieni che la conoscenza umana
non può avere certezze di se stessa, e che quindi, esser certi di qualcosa, è una pia illusione
da poveri presuntuosi. E’ così ? Ho capito bene ?”
“Tutto sommato il linguaggio filosofico non sembra ti risulti poi così agnostico. Il
concetto di fondo l’hai afferrato perfettamente. Proprio questo, in ultima analisi, volevo
dire.”
72
“Allora ho capito bene ! Secondo te l’uomo, nell’evoluzione millenaria che lo ha
portato praticamente ad elevarsi dallo stato di animale a quell’essere padrone del mondo
che è ora, circondato di comfort e proiettato alla conquista degli spazi siderali, ha
proceduto a tentoni, per tentativi, cieco e insicuro degli effetti del proprio agire, incerto
delle proprie conoscenze sempre più complesse e sofisticate. Il suo inarrestabile progresso
sarebbe il frutto di una ricerca e di una conoscenza casuali, o il regalo di chissà quale
combinazione fortuita di fattori extra-umani distribuiti nel tempo e nello spazio. L’ingegno,
le capacità creative e artistiche, il pensiero razionale, la scienza, la tecnologia, pure e
inconcludenti divagazioni, fantasie, scherzi, passatempi senza senso né scopi di una specie
zuzzurullona. E’ qualcosa del genere che sostieni ? Ho davvero capito bene ? Non credi ci
sia un pizzico, solo un pizzico però, di presunzione ed esagerazione in una simile
convinzione ?”
“O.K.. Se vogliamo continuare a sfotterci, facciamolo pure. Potrebbe essere
divertente. Però il discorso è maledettamente serio, credimi. Prova a prenderlo sul serio,
d’accordo ? A ciò che ti dirò ora, ci credo davvero, perciò smettiamola di prenderci per il
culo. Va bene ? Allora ascolta. Ciò che hai detto poco fa mi suggerisce subito due
argomenti di discussione. Quello sul concetto di ‘animale’ e quello sul concetto di
‘progresso’. Iniziamo con il primo. Allora..... tu, forse senza rendertene conto, hai parlato
dell’uomo come di una specie che, nel corso dei millenni, ha saputo ‘elevarsi’ - hai usato
proprio questo termine - dalla condizione di essere animale a quella, non meglio definita, di
essere padrone del mondo. Cosa significa : che la sua raggiunta capacità di padroneggiare e comunque entro certi limiti - i rapporti con le altre forme viventi, la sua capacità di
affermarsi sul pianeta e di colonizzarlo - e non sta scritto da nessuna parte che sarà eterna,
nulla può garantire che duri più di un battito di ciglia nell’arco dei tempi evolutivi,
tutt’altro - che questo suo momentaneo, quanto fortunato, successo, ottenuto seminando
dietro di se chissà quali e quante disgrazie planetarie, sono i segni espliciti di elevazione ad
uno status di specie ‘denaturalizzata’, disancorata dalla propria condizione originaria di
animalità ? Significa che l’uomo non è più un animale ? E cosa è se non è più un animale ?
E chi sarebbe l’artefice di questo suo salto qualitativo che lo porterebbe fuori del regno
animale e gli farebbe raggiungere una collocazione esistenziale, una dimensione di vita ‘sui
generis’ ? Una forza divina, o cosa altro ?”
“Piano..... non correre troppo. Sai bene che anch’io ho una visione materialistica
della vita. Non credo che nell’evoluzione della specie umana intervengano fattori divini. E
73
comunque sono indimostrabili, perciò faccio sempre ricorso a spiegazioni naturali, da buon
assertore della conoscenza scientifica, nelle mie interpretazioni. Questo poi non significa
negare la possibile esistenza di entità sovrannaturali. Semplicemente non ritengo opportuno
chiamarle in causa per spiegare fenomeni materiali, che nascondono in loro stessi le ragioni
del proprio divenire. Si Tratta di indagarle e scoprirle, magari con molta pazienza, tutto
qui. Ma accantonando questo discorso che ci porterebbe assai lontano..... come puoi non
ammettere che l’uomo non è più, propriamente, un animale ? I fattori che gli hanno
consentito di operare il salto qualitativo, di affermarsi come specie a se stante, superiore ad
ogni altra specie animale, si trovavano embrionalmente in lui stesso, al momento della sua
comparsa sulla terra. Le sue primordiali predisposizioni a far valere l’arma della razionalità
e a produrre cultura, col tempo, espandendosi fino all’inverosimile, si sono rivelati i
principali responsabili del suo destino, della sua fuga dall’appiattimento animalesco nel
quale inizialmente era impigliato. Quale specie animale ha potuto condividere l’incredibile
e affascinante ascesa evolutiva dell’uomo ? Nessuna, caro Enrico. Questa è la prova più
lampante che rende inutile l’ostinazione a considerarci ancora, umilmente e ottusamente,
degli animali. Noi siamo uomini, punto e basta. Tutte le altre forme viventi sono animali,
vegetali, o forme intermedie tra le due.”
“Questa è la prova di un bel niente, caro Teodoro. Sei un ottimo ingegnere, e sai far
bene il tuo lavoro. Come tutti coloro che si prodigano con serietà nella propria professione.
Ma come tutti coloro che si sottomettono in modo acritico ai dettami scientifici della
propria professione, più lo fai con convinzione e coscienziosità, più ti lasci confinare in un
sapere parcellizzato, che è forse il frutto più aberrante dell’iperspecializzazione scientifica.
Voglio dire che, più cerchi di applicare nel tuo lavoro il rigoroso metodo di indagine che la
madre scienza ti consiglia, più perdi di vista le connessioni generali del sapere, che un po’
tutti gli scienziati e i professionisti che applicano la scienza non sembrano tenere in grossa
considerazione. Per connessioni generali intendo quella capacità, perché no, proprio
filosofica, di riflettere sui significati, di estrapolare sintesi, di rischiare spiegazioni sovra e
inter-specialistiche....”
“Non capisco proprio dove vuoi arrivare”, e me lo dice di nuovo con un sorriso
ironico.
“E’ presto detto dove voglio arrivare. Tu sostieni che l’uomo è uomo, in quanto è
uomo e non è animale. Nulla più di ciò, non so se te ne rendi conto ! Questo è proprio il
tipo di verità tautologica di cui ti parlavo poco fa. E’ la verità sull’aria fritta, quella che non
74
cerchiamo né io e, almeno credo, nemmeno tu. Considerare l’uomo come un’entità che non
ha apparentamenti di sorta con qualsiasi altra entità, o che non ne ha più almeno da tempo
immemorabile ; considerare la civiltà, la cultura umana, come realtà avulse dal contesto
naturale, come realtà non contaminate, nel bene e nel male, da elementi di naturalità, è cosa
normale, direi quasi ‘naturale’, tanto tra la gente comune, quanto tra gli stessi scienziati e
addirittura tra chi si fa strenuo difensore della natura. Sia che la si voglia tenere lontana
dalle questioni umane perché non più pertinente al loro sofisticato livello di espressività,
sia che la si voglia a tutti i costi difendere dalle scelleratezze di un progresso miope e
distruttivo, sempre ad una natura ‘altra’ da noi stessi ci si riferisce. ‘La civiltà ha distrutto
la natura’, ‘Le specie animali sono minacciate dall’uomo’, in espressioni come queste, che
si sentono assai di frequente nei discorsi della gente, si dà per scontato che la civiltà sia
altra cosa dalla natura, che le specie animali siano altra cosa dalla specie umana. A questo
punto, per farla breve, ti domando : cos’è questo strano essere che chiamiamo uomo se non
è un animale ? Cosa sono la civiltà, la tecnologia, la cultura, il progresso, se non hanno
niente a che spartire con la natura ? Cosa sono la razionalità, l’intelligenza, la capacità
ideativa e creativa dell’uomo se non sono forme espressive della natura ? O tu ammetti, e
lo puoi fare solo fideisticamente, che un’entità divina ha creato il tutto e lo ha poi
differenziato a suo piacimento, riservando all’uomo una condizione e un significato
peculiari, diversi da ciò che lo circonda, oppure non ti preoccupi, come tu dici di fare, di
ricercare spiegazioni del divenire cosmico in entità e fattori extra-materiali, e allora non
troverai nient’altro che natura da indagare, studiare, comprendere. Natura nella quale vanno
compresi, a pieno titolo, l’uomo, la sua civiltà, la sua cultura, il suo cosiddetto progresso.
Altro non esiste, o non ci è dato di capire se esista.”
“Ma .....sì.....certo, cerca di capirmi, non ho mai voluto dire che l’uomo non abbia
niente a che fare con la natura. L’uomo ha la sua origine nella natura, è il prodotto
dell’evoluzione delle specie animali. La teoria darwiniana ha un fondamento che ritengo
sia indiscutibile. Semplicemente penso che, a un certo punto, la comparsa dell’uomo abbia
stravolto i meccanismi evolutivi. Esso stesso è diventato un fattore essenziale
dell’evoluzione del pianeta. E’ divenuto in certa misura padrone del proprio come
dell’altrui destino. E in questo sta’ la sua unicità, che lo differenzia dalle altre forme
viventi e non lo fa essere più un semplice animale. Questo intendo dire quando dico che
l’uomo non è un animale, o non è più un animale.”
75
“Sì, ma la mia domanda non si esaurisce dopo queste apparenti spiegazioni.
L’uomo, oggi, cos’è divenuto ? In questa sua grandiosa, come tu la valuti, capacità di
padroneggiare il proprio e l’altrui destino, oggi, cos’è l’uomo ? Non è un problema di
definizione, che ti pongo, ma di contenuto. Voglio sapere cos’è diventato, perdendo la sua
identità naturale, animale. Fortunatamente non sono l’unico a porsi tali domande.
Attualmente, non so se tu ne sia al corrente, cultori di nuove scienze sono approdati a
spiegazioni assai più rispondenti e coerenti - se me lo consenti - delle tue. Mi riferisco ad
etologi e sociobiologi. Molti di costoro usano, per l’uomo, l’appellativo di ‘animale
culturale’. Affermano che l’uomo è un animale fra gli animali, solo con la specificità di
saper produrre cultura. Quelle caratteristiche - quali l’intelligenza, le capacità raziocinanti e
di trasmissione del sapere, la capacità di espandere ed approfondire le conoscenze e di
trarne continui benefici concreti - vengono valutate non come segni di una rottura col
passato ancestrale e naturale, ma come una peculiarità di specie animale, una
specializzazione al pari di tutti gli altri tipi di specializzazioni che ogni altra specie animale
può vantare. Se i pesci si sono specializzati a dominare le acque e gli uccelli a dominare il
cielo, l’animale-uomo si è specializzato a non specializzarsi troppo in questa o quella
funzione, ma nell’unica che può emularle tutte, e cioè nell’uso, biologicamente
predeterminato, delle risorse raziocinanti. Tra l’altro - te lo riferisco a titolo di cronaca - da
alcuni dei suddetti rappresentanti delle nuove scienze naturalistiche, l’attitudine alla
produzione di cultura, non costituirebbe un tratto unico della specie umana, ma comune ad
altre specie animali, in particolare ad alcuni primati filogeneticamente prossimi all’uomo.
Pertanto essa denoterebbe, non tanto una disposizione di specie qualitativamente originale,
quanto invece quantitativamente rilevante. Ossia, tra noi ed alcune altre specie animali,
esisterebbe solo una differenza di grado, di quantità, più che di qualità.......mi spiego ?”
“Sì....sì...., certo che ti spieghi, anche se non so cosa dicano questi scienziati che tu
citi....etologi e ........sociobiologi ? Così si chiamano ?”
“Esatto, sociobiologi........inutile che ti spieghi ora perché si definiscano così, con
un tale innesto di significati apparentemente stridenti tra loro.....ci vorrebbe troppo tempo
per spiegarlo....”
“No, ti prego, già mi hai indottrinato abbastanza fino ad ora.......comunque,
lasciamo perdere......usa pure il termine ‘animale culturale’, se ti aggrada, io preferisco dare
all’uomo l’appellativo che ha sempre avuto, cioè ‘uomo’. Non mi sembra, tutto sommato,
che ci sia una grossa differenza di contenuto tra le due definizioni.....e d’altronde.....mi sto
76
domandando cosa centri tale argomento con il problema che hai sollevato all’inizio
dell’incertezza del conoscere. Non vi trovo il nesso....”
“Bene. Lasciamo perdere il concetto di ‘animale’ o di ‘animale culturale’, forse ti
risulterà più chiaro alla fine, dopo che avrò sviscerato il secondo argomento che mi hai
suggerito, quello sul concetto di ‘progresso’. La tua faccia mostra un po’ di
insofferenza......la comprendo. Ma abbi ancora pazienza per qualche minuto.....”
“O.K., vai avanti.....ma cerca di stringere”, mi sollecita con aria bonaria, anche se
un tantino annoiata.
“Allora.....vado subito al sodo. Il termine ‘progresso’ implica in sé il significato di
miglioramento,
ossia
ha
l’immanenza
di
una
trasformazione
in
positivo,
di
un’incontrovertibile evoluzione verso il meglio. Facciamo un esempio concreto.....ne userò
uno attinente ai tuoi interessi professionali. L’uomo primitivo, in un certo periodo della sua
storia, utilizzò le caverne per ripararsi dalle intemperie e da altri pericoli. Sviluppando le
proprie capacità intellettive e sfruttando la potenzialità di manipolare oggetti mediante
l’uso degli arti superiori, iniziò ad edificare di persona le proprie abitazioni, prima di
paglia, di legno, poi di fango, di pietra, poi inventando ed utilizzando leganti artificiali, poi
aggiungendo via via altri materiali più efficaci e resistenti e applicando tecniche costruttive
sempre più sofisticate e complesse. Ed eccoci ai grattacieli. Facciamo ora una
supposizione, di comodo, ovviamente...... solo per arrivare al punto che mi preme.
Supponiamo che, tra l’epoca di frequentazione delle caverne e quella nella quale sono
comparsi i grattacieli, siano intercorsi 2000 anni, e che in questo arco di tempo non si siano
verificati intralci, inconvenienti di sorta capaci di arrestare o modificare il corso
dell’evoluzione delle abitudini abitative. Questo processo, che ha condotto l’uomo a
spostare, attraverso mille tappe intermedie, la propria dimora dalle grotte ai grattacieli, nel
tuo modo di ragionare assume il significato, appunto, di progresso. Non è così ?”
“E’ evidente che, per quanto grossolanamente descritto, questo processo
rappresenta il progresso. Come credo risulti evidente a qualsiasi persona ragionevole. O
forse tu vuoi mettere in discussione che questo sia il progresso ?” Teo accenna con le
labbra ad un sorriso nel bel mezzo di un’espressione incredula che disegna tutto il suo
volto.
“Non ti allarmare.... non dirò niente di sconvolgente. Ecco ..... ora immagina che,
passati questi 2000 anni, intervenga un episodio catastrofico, che durante quell’evoluzione
bimillenaria non era mai capitato.....che ne so.....un uragano......meglio ancora, un
77
terremoto. Una scossa sismica di una certa potenza, quasi sicuramente farebbe crollare
case, palazzi e grattacieli costruiti senza accurati criteri antisismici, provocando
un’ecatombe, una strage tra i suoi abitatori. Le grotte e le cavità non artificiali, formatesi in
conseguenza di particolari fenomeni in migliaia o milioni di anni, probabilmente non
subirebbero danni, e in ogni caso, quantunque ne subissero, risulterebbero di gran lunga
meno rilevanti e di scarse o nulle conseguenze per i suoi eventuali abitatori. Il sisma
distruggerebbe pure case di paglia, fango e legno, ma risparmierebbe la gran parte dei suoi
abitatori. Insomma, voglio dire, il frutto di ciò che tu chiami progresso si rivelerebbe
estremamente fragile di fronte ad una imprevista calamità naturale, non altrettanto fragili
dimostrerebbero di essere i rimedi abitativi poco progrediti, rimasti vincolati ed adattati
alle risorse ambientali di un determinato ecosistema. In definitiva.....”
“Ora capisco dove vuoi arrivare....” - i suoi occhi brillano di vittoria - “.... ma ci
vuoi arrivare bluffando ! Ora ascolta me. Il tuo esempio è veramente di comodo, come tu
stesso ammetti. Ma lo è a tal punto da risultare un imbroglio, che ha per obiettivo quello di
far quadrare comunque i conti. Vuoi farmi credere che il progresso non porta con sé sempre
un miglioramento, ma alle volte (e spero tu non creda che sia invece una sua costante)
fallisce, produce disastrose sconfitte, è fonte di guai inimmaginabili. Insomma, può essere
brutto e cattivo. E in ciò le tue idee somigliano molto a quelle professate da tanti
movimenti utopistici, ancorate a ingenue, infantili aspirazioni di purezza naturistica ed
ecologista.” - Teo di nuovo sorride, anzi quasi ride beffardamente - “A parte il fatto
che.....”
“No, aspetta Teo, non è come pensi....”
“Sì, sì.....è proprio come penso.....ora fai finire me, per favore. Stavo dicendo...... a
parte il fatto che il tuo esempio è così grossolano, così irreale, così....., permettimi di dirlo,
puerile. Il progresso non si verifica mai in una forma così lineare, così ingenuamente cieca
come vorresti far credere....”
“Ti avevo avvertito che era di puro comodo per.....”
“...Ma a parte ciò, a parte ciò...” - continua imperiosamente a parlare - “....il
progresso reale, caro Enrico, si alimenta e si rafforza proprio dai continui, inevitabili errori
e parziali fallimenti che incontra nel suo cammino. Ripeto....il progresso non è un processo
lineare. Aggiusta il tiro, corregge la propria direzione strada facendo, intoppando di tanto in
tanto in esperienze negative. Ma da queste ne esce rafforzato e prosegue sempre più
stabilmente verso il futuro. E pure restando al tuo banale esempio, ti guardi bene dal
78
domandare che fine potrebbero aver fatto, nei 2000 anni trascorsi, tutti i fedeli abitatori di
caverne e case di paglia. Probabilmente - ammesso e non concesso che sarebbero scampati
a certi cataclismi naturali - sai abbastanza bene che non avrebbero potuto scampare a
pericoli assai più irrilevanti, per chi abita in confortevoli e moderni aggregati urbani. Una
semplice polmonite, una ridicola infezione e tutte le patologie che possono svilupparsi in
condizioni di indigenza...... patologie che certamente non preoccupano più coloro che
usufruiscono dei vantaggi del progresso. Prova a fare i conti, Enrico, di quanti morti ci
sarebbero stati, in 2000 anni, tra i tuoi abitatori di caverne e quanti invece ci sarebbero stati
tra le popolazioni che avessero scelto di affidarsi al progresso, e che avessero subìto, dopo
2000 anni, un terremoto, catastrofico quanto vuoi. Se provassi a fare queste, ben più
realistiche, considerazioni, i tuoi conti non tornerebbero più, puoi starne certo.”
“Sei partito in quarta. Come immaginavo, non ti sei soffermato a riflettere
sull’esempio, per quanto banale, che avevo improvvisato per farti piacere, tenuto conto che
costruire case è al centro dei tuoi interessi professionali. Con quell’esempio non intendevo
portarti a stilare preventivi sulle probabilità di morte insite in certe modalità abitative o in
altre. Il mio scopo era tutt’altro. Ma vedo che non l’hai capito.....sicuramente per colpa
mia. Cercherò di spiegarmi meglio. Le considerazioni che hai fatto sono, in gran parte,
valide. Quello che si chiama ‘progresso’ è servito, senza ombra di dubbio, ad allungare la
vita media delle popolazioni e ad elevarne notevolmente l’agiatezza. Anch’io, è evidente,
ho scelto di giovarmi del cosiddetto ‘progresso’, almeno in una certa misura e per certi
aspetti. E non nutro ideali di francescanesimo, hippismo, o altri ideali similari che la storia
ci ha fatto conoscere. Con l’esempio mi ero solo proposto di evidenziare i limiti di
esperibilità umani. Ciò che può sembrare e anche risultare vantaggioso in un determinato
contesto temporale ed esperenziale, in un contesto più dilatato potrebbe rivelarsi non più
così vantaggioso, o addirittura dannoso. L’evoluzione della vita sulla terra ci fornisce
un’infinità di esempi che convalidano questa affermazione. Tantissime specie viventi che si
erano evolute traendo vantaggio da peculiari adattamenti al proprio ambiente di vita, si
sono poi improvvisamente estinte al mutare di certi fattori dello stesso ambiente. E ti parlo
di specie che erano sopravvissute per milioni di anni prima di estinguersi. Le centinaia di
specie viventi, animali e vegetali, che in questi ultimi decenni, come ben saprai, si vanno
estinguendo sulla terra, non avevano mai fatto esperienza, in milioni di anni di evoluzione,
della comparsa di un essere così.....come dire ....condizionante come l’essere umano. E
questa nuova esperienza l’hanno pagata, e la stanno pagando, con la propria vita. Tutto ciò
79
che, nella loro esperienza, pur millenaria, si era rivelato vantaggioso alla sopravvivenza, in
brevissimo tempo, con una dilatazione del contesto esperenziale, si è poi rivelato fatale. Per
l’uomo le cose non stanno diversamente. Per quanto dotato di capacità conoscitive e
predittive di molto superiori a quelle di tutte le altre specie viventi, le sue possibilità
esperenziali restano comunque limitate nel e dal tempo, nel e dallo spazio. Per questo ho
tanto insistito sulla sua insuperabile identità animale, sulla sua sostanziale uguaglianza alle
altre specie animali. Ciò che noi possiamo conoscere, prevedere, immaginare, ha una
valenza limitata, è una piccolissima finestra sulla catena evolutiva della vita dell’universo.
Quello che attraverso una prospettiva finita può apparirci come un progresso, cioè
un’evoluzione verso il meglio, in una prospettiva più dilatata nel tempo e nello spazio - e
non voglio parlare di una prospettiva infinita - può acquisire tutt’altro significato,
addirittura l’opposto. Man mano che la nostra stessa esperienza si spinge in avanti, certe
cose, certe conoscenze certi significati che ritenevamo assodati, si possono d’improvviso
rivelare delle illusioni, peggio ancora, delle vere e proprie minacce alla sopravvivenza. E’
ciò che sta accadendo anche oggi, sotto i nostri occhi. Pensa al buco nell’ozono, alle piogge
acide, all’effetto serra, agli armamenti nucleari, all’insicurezza delle centrali atomiche,
all’inquinamento dell’aria, dell’acqua, degli alimenti, alla povertà nel mondo, alla
sovrappopolazione, ai mille focolai di guerra sparsi in ogni parte del globo, alle sconosciute
malattie virali ed epidemiche che di continuo fanno la loro comparsa, ecc.. Solo per parlare
di ciò che ci è noto, senza considerare quello che non ci è ancora dato di capire o
prevedere. Ebbene, tutto questo fa parte, o ne è in qualche misura la conseguenza, di ciò
che comunemente si definisce ‘progresso’. Il progresso che, per ammissione unanime, ci ha
portato alle stelle, potrebbe, di colpo, farci ritrovare, come si suole dire, nelle stalle, per
non dire di peggio. E’ vero che l’uomo possiede delle qualità che gli consentirebbero forse
di apportare le dovute correzioni alle proprie aberrazioni, prima che diventino esiziali.
Diciamo che non ho ancora perso la fiducia nelle sue capacità di riformulare e reindirizzare
il progresso, magari per freddo calcolo e cinico opportunismo. Dalla conversione ecologica
della tecnologia industriale possono ricavarsi lauti profitti, così come si possono ricavare
dalla limitazione geografica e dal controllo della conflittualità bellica, più che da una
guerra nucleare totale. E si possono ricavare dalla diffusione planetaria di medicinali per le
vecchie, quanto per le nuove, malattie. Non so se mi spiego. Questo cinismo, comunque,
non mi tranquillizza più di tanto, ed è anzi proprio una delle fonti principali di inquietudine
per il futuro dell’umanità, getta lugubri ombre sulla longevità della specie umana. Ecco ....
80
a questo punto.... non so se ti è chiaro il senso dell’esempio banale di cui abbiamo
discusso. Non credi sia il caso di riflettere sul significato di ‘progresso’, non credi sia il
caso di sottolinearne, quanto meno, la sua valenza contraddittoria invece che starne
beatamente a rimirare i suoi presunti splendori ?”
“Devo ammettere che la tua è una logica, seppure un poco contorta e pesante,
alquanto penetrante. Ora mi è chiara la sua coerenza dall’inizio fino a questo punto del
discorso. Finalmente credo di poter ricomporre il mosaico di argomenti che mi hai
sottoposto, e di comprenderne appieno il nesso che lo sostiene. In parole povere, tu ritieni
che questo essere chiamato uomo, in quanto animale tra le altre specie animali, e perciò
stesso in quanto essere limitato nelle proprie capacità conoscitive e veritative, non può, in
nessun caso, garantire certezze al proprio esperire. Così se crede di indirizzare i suoi sforzi
a fin di bene, potrebbe poi accorgersi, successivamente, di aver fatto solo del male, per se e
per gli altri. E magari, perché no, viceversa. In linea di massima è questo che volevi dirmi anche se avresti potuto dirlo assai più sinteticamente - o no ? “
“In linea di massima è proprio questo, e una maggiore sinteticità di esposizione
avrebbe probabilmente pregiudicato la cogenza del discorso, l’efficacia dimostrativa dei
suoi vari passaggi e collegamenti.”
“Che il tuo discorso abbia una certa consequenzialità e linearità, posso ammetterlo
senza problemi, ma in quanto ad efficacia dimostrativa penso ci troviamo ancora al punto
di partenza, mi dispiace dirtelo. Tutto il tuo discorso, per quanto logico e coerente, non è
affatto sufficiente a dimostrare che ogni forma di esperienza conoscitiva umana debba per
forza essere incerta. Insomma ...., se pure posso convenire con te che la scienza, nei
risultati, possa talvolta aver fallito, possa aver provocato guai, anche grossi, imprevisti e
non voluti ....ma la scienza.... il metodo scientifico d’indagine, che in pochi secoli ha
trasformato radicalmente il mondo, come può essere messo in discussione ? Come si può
dubitare della conoscenza scientifica, delle sue ferree regole dell’induzione, della
deduzione, della sperimentazione ? Sembra quasi tu voglia contrapporti, da solitario eroe,
da patetico Don Chisciotte, contro la storia degli ultimi 4 - 5 secoli.”
“Ancora una volta, Teo, vai troppo per le spicce con i tuoi giudizi. Non ho mai
sostenuto un rifiuto in assoluto del metodo scientifico, non ho mai voluto invalidare toutcourt il pensiero scientifico. Critico, più semplicemente, il loro arenamento mitologico, il
loro arroccarsi nell’olimpo degli dei, in sostituzione o in compagnia degli antichi oggetti di
culto. Il vero pericolo della scienza è di aver sostituito i vecchi miti con il proprio, e di
81
ritenersi a sua volta insostituibile. E in questa critica, permettimi di non sentirmi solo.
Credo di essere in compagnia di valenti pensatori. En passant te ne cito due, solo perché mi
è caro ogni volta ricordare il debito spirituale che nutro nei loro confronti : Adorno e
Horkheimer, due dei maggiori rappresentanti della Scuola di Francoforte. Ma credo tu non
li conosca questi, che definiresti, patetici eroi donchisciotteschi, e non è il momento
opportuno per esporti il loro pensiero, troppo complesso e ....”
“Ti ringrazio vivamente della cortesia.”
“Non c’è di che.....ecco......ciò che contesto alla scienza è la sua incapacità di
problematizzarsi, di mettersi in discussione, di recepire un autentico momento di incertezza
nell’ambito del proprio assetto teorico. Non basta la raccomandazione cartesiana di
adottare un procedimento sempre dubitativo per arrivare alla comprensione della verità ;
non bastano certi sviluppi della scienza, quali il relativismo storicistico, o il probabilismo,
che smussano soltanto il dogmatismo ingenuo di certi assunti originari del pensiero
scientifico. Occorre molto più coraggio alla scienza, quello di sapersi radicalmente mettere
in discussione come modello conoscitivo, come apparato esperenziale veritativo nella sua
interezza. A questo proposito, credo di essere confortato, ancora per mia fortuna, da certi
altri recenti sviluppi della scienza stessa. Mi riferisco, ad esempio, a Thomas Kuhn, che ha
saputo mettere in luce come la scienza, in realtà, non si sviluppi seguendo un tracciato
lineare di progressiva cumulazione e di graduale perfezionamento dei propri metodi e delle
proprie conoscenze, ma proceda per improvvisi mutamenti di paradigmi, per successive
rivoluzioni che schiudono strade inesplorate, conoscenze e metodi innovativi, capaci di
obliterare precedenti indiscussi capisaldi teorici. E questa concezione, secondo me, rende
più giustizia tanto della complessità della vita quanto della difficoltà umana ad esplorarne
con certezza i fondamenti. E mi viene da pensare ai duri colpi inferti, da eminenti
scienziati, ai canoni e ai principi lungamente e unanimemente condivisi da tutta la
comunità scientifica internazionale. Così la visione deterministica ed esaustiva della
scienza classica - di stampo newtoniano, per intenderci - con i suoi sacri concetti di
causalità e reversibilità, ha subìto una seria incrinatura da parte dei contributi di Prigogine e
Stengers alla termodinamica evolutiva, quali l’enunciazione dell’esistenza di strutture
dissipative dell’energia e di processi autoorganizzativi in condizioni di lontananza
dall’equilibrio. E mi vengono in mente i molteplici e multidisciplinari contributi alla teoria
della complessità, come quello di Atlan, con il concetto di informazione mancante, di
ignoranza dell’informazione. E gli attacchi, via via crescenti, alla scienza riduzionistica,
82
meccanicistica e neo-darwinista da parte dei sostenitori di modelli interpretativi che
pongono l’accento sulla capacità autoorganizzativa, autopoietica ed autoreferenziale del
vivente. E mi vengono ancora in mente tanti altri autori, come Morin, Bateson, Margulis,
Eigen, Gallino, Varela, e poi.....”
“Basta......basta ! Ti scongiuro......basta ! Mi hai davvero frastornato con le tue
citazioni. Se il tuo obiettivo è farmi sentire un ignorante in materia di idee, concetti, autori,
teorie della scienza, be’....ci sei riuscito. Confesso di non saperne un gran che sulla teoria
della conoscenza, o sulla storia del pensiero scientifico, o su che altro diavolo può essere
tutto ciò di cui hai parlato fino ad ora. D’altronde non mi è stato mai richiesto di saperlo
durante il mio corso di laurea in ingegneria, né è necessario che io lo sappia quando
progetto strade o palazzi. E poi lascia che te lo dica : il tuo fumoso sfoggio di parole, il tuo
armamentario filosofico di nozioni, con i quali ti stai impegnando per impressionarmi, non
sono sufficienti a convincermi che io debba essere per forza incerto delle mie esperienze
quotidiane. Che cazzo ! Come posso essere incerto del fatto che al giorno segue la notte,
che domani sorgerà di nuovo il sole, che le rondini sanno volare e io no, che ho bisogno di
nutrirmi per sopravvivere e di andare ogni tanto al cesso per non scoppiare ? E......e
un’altra cosa ti volevo domandare....” - con la testa inclinata mi lancia uno sguardo astuto,
ed esita così per alcuni istanti - “...mi era balenata in mente pochi minuti fa, poi le tue
chiacchiere quasi riuscivano a farmela dimenticare. Tu.....e tutti i tuoi bei discorsi
sull’incertezza della conoscenza......tu non sei incerto dei tuoi discorsi, delle tue
affermazioni, dei concetti che hai cercato con tanta perspicacia di propinarmi come la
verità del secolo ? Non mi sei sembrato affatto titubante nell’esporli. Al contrario, ai
mostrato un’eloquenza spedita, imperturbabile, formidabile nel perseguire un tracciato
logico e coerente dall’inizio alla fine. Proprio un bel modo di convincermi dell’incertezza
del conoscere umano, che è già una contraddizione in sé ! Cosa mi dici, Enrico ?”
E ancora una volta sogghigna, ha un’espressione sardonica. Ora appare anche
agitato, come se non riuscisse a stare nella pelle.
“Tranquillo, Teo. Dico che la tua è un’acuta osservazione, che consente di
imprimere una svolta decisiva alla nostra discussione....non sto scherzando. Abbiamo fatto
un importante passo avanti. Grazie a te siamo giunti al punto cruciale verso il quale, te lo
confesso, avrei voluto giungere fin dall’inizio, ma senza forzare lo spontaneo svolgimento
argomentativo, evitando di inserire degli astuti, quanto poco produttivi, by-passes
discorsivi. E ci siamo giunti prima di quanto mi aspettassi. Bene ! Il punto è questo.....” -
83
ora invece mi guarda come qualcuno che ha appena fiutato puzza di bruciato - “.....bisogna
distinguere l’incertezza come principio teoretico, quale momento aprioristico sussunto
nell’atto conoscitivo in generale, dall’incertezza quale concreta esperienza del nostro
vivere quotidiano. Quest’ultima, fortunatamente - ma anche sventuratamente, come
vedremo - è una situazione marginale, sporadica, in definitiva assai poco frequente, tanto
nell’arco di una nostra qualsiasi giornata quanto nell’arco della nostra intera vita.
Fortunatamente perché, essendo quella dell’incertezza un’esperienza che può produrre solo
un ventaglio di reazioni emotive stressanti e dolorose, quindi pericolose per la fragilità
della struttura psichica umana - tipo ansia, angoscia, malumore, abbattimento, sfiducia,
amarezza, disperazione ecc. - ci preserviamo dalle inevitabili conseguenze negative per
l’integrità della nostra salute, che ne deriverebbero, ove tale esperienza fosse reiterata con
assiduità. E sappiamo bene quali sono queste conseguenze : dalle più banali forme di
nevrosi, astenia, apatia, depressione, fino a giungere, attraverso una scala di livelli intensivi
crescente, alla vera e propria crisi esistenziale, a varie patologie psicosomatiche
autolesioniste, alla follia e, come livello estremo, al suicidio. Quando ci imbattiamo nelle
situazioni che producono incertezza, invariabilmente reagiamo nel tentativo cosciente e/o
incosciente di ripristinare il normale equilibrio psico-emotivo che è stato interrotto e messo
alla prova (talvolta assai duramente). I mezzi che in tal senso adottiamo sono, forse in gran
maggioranza, mezzi inconsci, irrazionali, sono meccanismi difensivi, nel senso freudiano
del termine. Meno frequentemente adottati sono quelli che si avvalgono di uno sforzo
raziocinante, che si fondano su una comprensione razionale della situazione, vuoi perché
più faticosi e impegnativi, vuoi perché, comunque, non sempre questi riescono a sbrogliare
l’impasse e quindi a restituire l’equilibrio interiore momentaneamente perso. Ove i mezzi
adottati, sia del primo che del secondo tipo, fallissero nel loro scopo, ecco che si va
incontro a quelle conseguenze cui ho appena accennato....”
“Allora me ne dai atto che è impossibile rinunciare alla certezza del nostro esperire
e conoscere quotidiano ! Allora è normale essere certi di ciò che facciamo, vediamo,
comprendiamo durante il giorno !”
“Esattamente......è ‘normale’, come tu dici. E aggiungo....è indispensabile alla
sopravvivenza, almeno in termini mentali, per non uscire di senno.”
“E allora ? Di cosa hai parlato fino ad ora ?”
“Se mi lasci continuare a parlare lo capirai. In questo momento, probabilmente, stai
opponendo qualche forma di resistenza alla comprensione di quanto cerco di comunicarti. I
84
tuoi meccanismi difensivi cercano di salvarti da una sgradita rivelazione, il tuo inconscio
tenta di ostacolare un’inquietante presa di coscienza. E’ questo il punto. Ho detto poc’anzi,
non so se l’hai notato, che, da un certo altro punto di vista, è una sventura questa nostra
predisposizione ad esperire con certezza durante quasi tutto l’arco della nostra vita. E’ una
disgrazia, per quanto inevitabile. E’ un limite.....un limite invalicabile, che ci salva dal
decadimento psicofisico, che ci rende più bella e agevole la vita e più gioioso
viverla.......ma è pur sempre un limite, un grosso limite che si contrappone alle nostre
possibilità conoscitive. Frena la nostra volontà indagativa, distorce la comprensione dei
fenomeni, imbriglia la fantasia creativa e lo sforzo veritativo, scoraggia le aspirazioni
innovative e lo slancio propositivo, ci costringe al riposo accomodante, ci sottrae al flusso
perpetuo e reale della vita e.....e potrei continuare a lungo. Dunque, per rispondere alla tua
domanda, è vero che, come tutti i mortali, non posso sottrarmi alla ‘normalità’ del bisogno
di certezza esperenziale ; è vero che sono certo - o meglio, ‘mi sento’ certo - delle tesi che
ho finora sostenuto in questa discussione. Ma riconoscendo tale certezza come un limite,
un limite naturale dell’animale-uomo, mi ritengo in obbligo di denunciare l’immanenza di
un’alterità nel conoscere umano, di quell’alterità incolmabile che ci condanna alla ricerca
perpetua della verità. Solo tale denuncia lascia aperta una via di fuga verso il possibile, una
porta verso l’ignoto. Ci rende disponibili a tentare, osare nuove strade, a superare le
apparenze, oltrepassare pregiudizi e barriere mentali, a percorrere con spregiudicatezza la
strada impossibile verso l’infinito. Dalla dialettica certezza-incertezza si sprigiona la forza
inesauribile della conoscenza, l’irrefrenabile propensione ad andare avanti che,
ovviamente, ha il potere di esprimersi quando, di tanto in tanto, riesce a liberarsi dalle
secche delle certezze quotidiane, e quando ciò non compromette definitivamente la nostra
salute psicofisica. In definitiva, l’incertezza alla quale ho fatto costante riferimento è un
assunto teoretico, non è il riconoscimento di un concreto status esperenziale, al quale è
impossibile, come ho già detto, potersi adattare impunemente. L’incertezza come momento
teoretico intrinseco ed aprioristico del conoscere si rende necessario con la constatazione
dell’impossibilità, per la vita, di potersi esplicare in altro modo che come certezza del
conoscere e dell’esperire.”
“Ho la netta sensazione che tu stia continuando a bluffare. Pur ammettendo che tu
possa accettare così a cuor leggero questa sorta di sdoppiamento schizofrenico tra l’essere
una mortale creatura certa e il voler essere un’immortale creatura incerta - perché di questo
mi pare di aver capito si tratti - voglio farti ancora una domanda, e sono proprio curioso di
85
sapere come te la caverai. Tra le tue possibili, per quanto rare, esperienze concrete di
incertezza, prova ad aggiungerne una : se ti imbattessi in qualche sapientone del tuo livello,
che riuscisse a dimostrarti l’infondatezza del tuo impianto teorico, o comunque a farti
dubitare che sia poi così necessario essere certi dell’incertezza per il progresso della
conoscenza, che sia l’incertezza il vero motore della conoscenza......ovvero, in altri
termini,....se la tua incertezza astratta facesse concreta esperienza di incertezza di se stessa,
cosa succederebbe ? Che fine farebbe la tua filosofia dell’incertezza ?”
“Altra acutissima domanda. Sei entrato in perfetta sintonia con i miei ragionamenti.
Ebbene.....farebbe la fine che fanno tutte le certezze in simili circostanze : crollerebbe, si
annienterebbe. L’assunto teoretico dell’incertezza della conoscenza, che si alimenta dalla
consapevolezza della limitante certezza dell’esperire quotidiano, farebbe esperienza
concreta del proprio limite, trasformandosi in incertezza dell’incertezza. Ora ti faccio io
una domanda : questa concreta esperienza della negazione di sé, non offre una chance,
all’incertezza teoretica, di ricandidarsi, ovvero, di riformularsi, ad un superiore livello di
radicalizzazione teoretica, appunto come incertezza dell’incertezza ? Quell’incertezza
originaria che muore, non ha forse il diritto di tornare in vita come incertezza
dell’incertezza ?”
Teo mi guarda sbigottito. Poi si riprende.
“Ma questo è un circolo vizioso che non finisce mai ! Mi ricorda il cane che tenta di
mordersi la coda e gira su se stesso senza riuscirci mai.”
“E chi ti dice, Teo, che il nostro appetito di conoscenza non sia poi un tentativo di
mordere qualcosa che continuamente ci sfugge ? Qualcuno, di cui non cito il nome - stai
pure tranquillo - ha parlato di qualcosa del genere, in altri termini e in modo negativo,
coniandolo con la definizione di ‘cattiva infinità’. Sarebbe un cattivo infinito questo nel
quale ci troviamo condannati a rincorrere una verità che scappa sempre in avanti, o
indietro, che dir si voglia. Ma chi ti dice che la vita non ci riserbi una tale condanna ? Così
l’incertezza, mutatasi in incertezza dell’incertezza, alla successiva esperienza negativa di se
stessa muterebbe in incertezza dell’.......”
“Ma tu mi stai prendendo per il culo.....” - serio e allibito in volto - “....è un’ora e
mezza, forse due, che mi stai prendendo per il culo, Enrico !”
Non riesco a trattenere una risata forsennata, mentre mi contorco sulla poltroncina
di vil pelle.
86
“Ascolta........basta.......facciamola finita. Parliamo del Milan e del gioco a zona. Su
questo per il culo non mi ci prendi.”
E scoppia a ridere anche lui, mentre questa giornata di fine Settembre fluisce nella
morsa di un caldo afoso, di un’estate che ancora persiste, senza tregua. E continuiamo a
ridere nel piccolo ufficio in cui lavoro. I rondoni - mi giungono i loro versi striduli dalla
finestra aperta - non ne vogliono sapere di tornarsene a casa.
87
CAPITOLO VI
INCONTRO COL PASSATO 1
DLIN - DLON.........DLIN -DLON
Apro gli occhi. La luce del giorno è diffusa nella camera da letto, ma non invadente
o fastidiosa.
Il campanello. Hanno suonato alla porta. Che ore sono ? La sveglia segna le 10,15.
Nemmeno nei giorni di ferie si può dormire ! Controvoglia, anzi proprio scocciato, esco
fuori dalle coperte.
“Ma chi diavolo viene a rompere.....” Non ricordo più neanche quando è suonato il
campanello di casa l’ultima volta. Ma poi il giorno dei morti....il 2 Novembre.....chi mi può
cercare ? Ho parcheggiato male l’auto in strada, stanotte.... ? Non mi pare !
DLIN - DLON........DLIN - DLON
Insistono pure !
Vado alla finestra, la spalanco, mi affaccio. Non oso pensare all’aspetto che devo
avere in volto.
“Forza zio, siamo noi !”, sento gridare da basso una voce di bambino.
“Evelina..... !”, mia sorella e i suoi due marmocchi. Imbarazzato passo una mano tra
i capelli.
“Ciao Enrico......stavi ancora dormendo ? Pensavo ti saresti ricordato.....”
“Ciao.....scusa, ora ti apro.” I bambini scoppiano a ridere, credo di avere un aspetto
proprio buffo. Una spazzolata rapida ai capelli, una stropicciata agli occhi, indosso la
vestaglia e mi affretto verso l’ingresso. Quando schiaccio il pulsante che comanda
l’apertura del portoncino d’entrata al piano terra, i bambini si precipitano dentro
arrampicandosi di corsa sulla scalinata in peperino. Me li vedo di fronte sorridenti.
“Ciao, zio dormiglione !”
“Ciao Paolo.......cavolo come sei cresciuto !.....e anche tu Erica !”. Mi chino e li
abbraccio tutti e due insieme, li bacio. Che sensazione strana quei due corpicini teneri,
freschi e profumati tra le braccia. Ho paura a stringerli, lo faccio con delicatezza e
accarezzo la loro nuca.
“Hai comprato il computer zio ? Ci avevi detto che lo avresti comprato.....”
“Oh....certo Paolo, appena un mese fa.....”
88
“WOWWWW...”, “EVVIVA .....”, gridano insieme.
“Un modello nuovo, molto potente, con tanto di CD-ROM, casse stereo e ....”
“WOWWWW...”, di nuovo all’unisono.
“Però....” - provo una sincera mortificazione nel doverli deludere - “...non ho fatto
in tempo a rifornirmi di giochi. Ho appena un dischetto !”
“Va benissimo zio....ci abbiamo pensato noi.” Paolo tira fuori dalla tasca del
piumone un intero contenitore di floppy-disk, rigirandolo sotto i miei occhi.
“Perfetto !”, mi sento rincuorato.
“Dov’è zio, nello studio ?”, si affretta a domandarmi Erica.
“Piantatela voi due....non fate altro che pensare ai videogiochi !”, li rimprovera alle
loro spalle Evelina, che si avvicina sorridente, con addosso un elegante soprabito in pelle di
renna.
“Enrico.....come stai ?”, i suoi occhi tradiscono una leggera commozione. “Devi
perdonarmi, avrei dovuto telefonarti prima .” Ci scambiamo baci sulle guance. “Ma....sai, è
ormai da anni che vengo a trovarti il 2 Novembre. E’ diventato per me così irrinunciabile
venire a far visita alle tombe di mamma e papà, almeno in questo giorno, che ho dato per
scontato che te ne saresti ricordato. D’altronde anche noi non ci vediamo che in questa
unica occasione....”
“No....scusami tu, Evelina. Mi era passato proprio dalla testa....fortuna che ho preso
alcuni giorni di ferie !”
Con gesto repentino e furtivo, i piccoli approfittano del nostro scambio di saluti per
sgattaiolare in cucina.
“Dai Enrico, vai a vestirti. Nel frattempo ti preparo una bella colazione.....latte e
caffè, se non sbaglio, vero ?”
“Sì, sorellina....ti ringrazio, ma non c’è bisogno che ti disturbi....”
“Figurati....ne approfitto per prendermi un caffè anch’io.”
“Ma ......a proposito, dov’è Giovanni ? Non è venuto tuo marito ?”
“Purtroppo no. Ti manda le sue scuse. Ha dovuto presenziare ad una
commemorazione, organizzata dalla società sportiva della quale è socio dirigente. Ma....i
bambini ? Dove si sono ficcati ?” Si guarda intorno vagamente allarmata. Già, i
bambini.....quelli mi sfasciano tutto !
“Non ti preoccupare, saranno nello studio. Ora vado ad accendere il computer per
farli giocare”, prima che mi combinino qualche casino da soli....
89
La mattinata, o meglio, quello che resta della mattina, si esaurisce tra non poche
apprensioni che sono costretto a subire, per lo scompiglio apportato dalle due piccole pesti
alla monotona regolarità delle mie giornate e tra gli elementi giustapposti e maniacalmente
ordinati del mio guscio casalingo. Passi, quando si intrattengono al computer, sul quale
peraltro si sanno districare con disinvoltura (si sa, i bambini oggi sono allevati dalla nascita
tra i computers) ; passino pure gli schiamazzi e i loro mille giochi rumorosi che
sconvolgono l’ammuffito silenzio delle mie stanze ; ma quando la loro infinita curiosità
allunga i tentacoli sull’impianto stereo e poi, soprattutto, tra i sacri testi della ridondante
biblioteca (cosa avranno mai da cercare tra i libri alla loro età ?), controllo a stento
l’irritazione e la voglia di lasciarmi sfuggire qualche rimprovero, di dimostrare magari un
tangibile disappunto.
Però quando ci troviamo tutti e quattro insieme intorno al tavolo, a consumare il
gustoso pasto preparato per pranzo da Evelina, il bilancio che faccio tra me e me di questa
insolita mattinata, non è affatto negativo. Per il momento non nutro alcun desiderio di
ritornare alla mia cupa solitudine di tutti i giorni. Lo stridente apporto di queste presenze
quasi estranee al contesto abitudinario del mio tempo giornaliero, mi frastorna, è vero, e fa
anche di peggio. Ma non posso non rendermi conto che ha aperto di prepotenza un varco
luminoso nel grigiore delle mie giornate. Sono contento, in fin dei conti, sono pervaso da
un’ebbrezza che mi distoglie dal languore quotidiano cui sono assuefatto. Sembra come se
il sangue nelle vene abbia ripreso a circolare dopo una perpetua stagnazione.
“Vieni con me al cimitero, dopo pranzo ?”, mi chiede risoluta Evelina mentre
appoggia sul tavolo, sotto il mio sguardo concupiscente, un vaporoso e stuzzicante risotto
alla pescatora, quasi volesse comprare il mio consenso.
“Se vuoi vi accompagno, Evelina. Non ho alcun problema. Però...”- le rivolgo un
risolino - “.....sai come la penso. Non è che senta un gran trasporto a far visita ai cimiteri !”
“Già ! Sei il solito ateo materialista. Inguaribile miscredente....non cambi mai !”
“Che significa ateo materialista, mamma ?”, domanda, con tutta la curiosità tipica
di una bambina di nove anni, Erica.
“Lo imparerai quando sarai più grande. Te lo insegnerà tuo zio.....puoi contarci !”
Divoro già con gli occhi la pietanza, ma sento, con un briciolo di imbarazzo, lo
sguardo indagatore dei nipotini addosso. “Buon appetito!”, cerco così di sminuire
l’attenzione su di me. Dopo essermi assicurato che i bambini abbiano iniziato a ingurgitare
il loro pasto, assaporo anch’io il primo magnifico boccone.
90
“Ma...vedi Evelina, non è soltanto per questo. E’ che per ricordare la mamma e il
babbo, non credo sia affatto necessario andare a far visita alla loro tomba. E poi, anche
intendessi eventualmente farlo, potrei andare al cimitero in qualsiasi giorno. E’ a 15 minuti
di macchina da casa. Non capisco perché dovrei farlo in questa ricorrenza
preordinata.....troppa formalità, non ti pare ?”
“Anche per forza anticonformista vuoi essere.....è vero, me ne ero dimenticata. Io
che invece sono una borghese conformista.....”
Il suo sarcasmo mi appare giustificato. Con la mia ingenuità credo di averla un po’
offesa, anche se mi conosce abbastanza bene da non sospettare affatto che possa nutrire
intenzioni polemiche nei suoi confronti, in questo frangente.
“Scusa.... forse hai frainteso, non mi riferivo al tuo comportamento. Tu abiti in
un’altra città e, giustamente, non ti puoi permettere di far visita alle tombe dei nostri
genitori ogni volta che ne senti il desiderio. So bene che, venire il 2 Novembre, per te non è
una formalità, ne sono sicuro.”
“Lascia perdere ! So bene anch’io che non ti riferisci a me....e anche se fosse....” - le
sue labbra si aprono in un sorriso canzonatorio - “...sai che dispiacere mi fa, ricevere le
critiche da un miscredente come te !”
“Mamma....che vuol dire miscredente ?”, la curiosità di Erica è sempre desta.
“Oh...lascia perdere anche tu con le domande....sono cose da grandi queste !
Continua a mangiare piuttosto .”
Sollevando le sopracciglia e sorridendo, suggerisco ad Erica, che mi scruta con gli
occhi come se fossi un marziano, di ascoltare la mamma.
“Certo che con le tue idee - che chissà quale diavolo te le ficcò in testa - ne portasti
di scompiglio in casa quando eri molto giovane, anzi iniziasti da adolescente, ricordi ?
Prima con i capelli lunghi, i ‘beatniks’, i ‘figli dei fiori’, poi con la politica, la
contestazione, l’anarchia....”
Con la coda dell’occhio vedo Erica che interrompe il pasto e mi guarda fisso.
Quante provocazioni alla sua voglia di sapere ! Poi quando la madre si volta verso di lei, si
rassegna a tacere e riprende a mangiare.
“Mi rendo conto di aver creato scompiglio in casa, e non soltanto in casa, mettendo
in discussione i sacri principi sui quali si fondano la famiglia, la convivenza sociale, le
istituzioni. Ma conosci un modo meno traumatico per manifestare nuove idee in un
contesto sclerotizzato di valori e comportamenti ? C’è un modo meno doloroso di
91
stimolare le menti ad un riesame critico dei propri pensieri, da sempre ciecamente acquisiti,
e delle proprie fossilizzate convinzioni ?” - Paolo ed Erica mi guardano attoniti con la
bocca aperta, senza curarsi del risotto ; forse si stanno domandando a quale bislacca
categoria di uomini appartenga loro zio - “In realtà penso che, ciò che tu definisci col
termine ‘scompiglio’, sia soltanto la paura e la pigrizia che tutti hanno, compreso il
sottoscritto, di trovarsi costretti, di punto in bianco, a ripensare il proprio modo di essere.”
“E caro il mio fratello ! Per quanto tu mi reputi una bigotta tradizionalista, anch’io
credo che la nostra generazione sia stata portatrice di idee nuove, coraggiose, se
vuoi....giuste, entro certi limiti. La società in cui vivevamo allora senz’altro andava
svecchiata. L’ipocrisia sulla quale tanto le sue istituzioni, quanto il comune ‘buon senso’
delle sue generazioni adulte, erano infarciti, doveva essere necessariamente svelata e quindi
rifiutata. Ma, santo Dio, c’è modo e modo di far questo ! Il modo che tu e tanti altri
sceglieste - la gran parte dei giovani di quell’epoca, per la verità - fu di esagerata irruenza e
irriverenza, che si tramutava spesso in gratuita violenza. Povera mamma ! Con quante
apprensioni e paure dovette convivere in quegli anni. Tu non te accorgevi, probabilmente.
Eri troppo rapito dalle idee di libertà e uguaglianza. Lungi da me il proposito di fartene
oggi una colpa, per carità ! Ma quando, per intere giornate e nottate, te ne andavi in giro
chissà dove con i tuoi compagni, per riunioni politiche, scorribande da incallito
rivoluzionario o per più frivole esperienze, come il mitico rituale dello spinello collettivo o
l’uso sconsiderato di chissà quale altra robaccia - non credere, certe cose si sapevano o si
intuivano, seppur le nascondevi - ...be’, io rimanevo spesso a casa con la mamma. Ti lascio
immaginare quante volte non poté fare a meno di confessarmi le sue angosce e le sue
preoccupazioni per ciò che ti sarebbe potuto capitare. Diciamolo francamente....l’altruismo
non albergava certo nei tuoi sentimenti, la tua vita volevi viverla senza remore, senza limiti
di alcun genere.”
China la testa sul piatto e riprende a mangiare il suo risotto, ancora quasi intatto. I
bambini hanno finito di mangiare il proprio, rinunciando ad ogni velleitaria curiosità per
una discussione che non ha né capo né coda nella semplicità del loro mondo intellettivo. Si
stuzzicano l’un l’altro con dispetti, sono già pronti per abbandonare la noiosa postazione di
commensali. Anch’io ho terminato di gustare la pietanza preparata da Evelina. Per la verità
gli ultimi bocconi non mi è riuscito di gustarli come meritavano. Ho percepito la sottile
vena malinconica che ha imboccato l’ultima parte del discorso di mia sorella. Non le
rispondo. Già abbiamo affrontato simili discussioni. Non so proprio cosa aggiungere di più
92
convincente a quanto le ho ripetuto infinite volte in passato. E seppure ne avessi, di
argomenti da aggiungere, a che cosa servirebbe farlo ? Non credo che la solleverei dal triste
ricordo della mamma. E comunque, per Evelina, sono e resterò sempre uno scapestrato
egoista, misantropo e amato fratello. Incondizionatamente.
Sta’ consumando con lentezza i suoi bocconi, è rimasta solo lei, per ultima, è ovvio.
Come tutte le mamme, sempre le ultime a soddisfare i propri bisogni. Ora, poi, con quello
sguardo mesto, malamente occultato dagli svogliati gesti con i quali adempie alla
nutrizione, mi ricorda proprio il volto della mamma. Ne ha ereditato i tratti estetici, ma
soprattutto i moti interiori dell’anima che vi si leggono in tutta trasparenza. La
mamma....quella faccia......quella notte d’inverno piovosa che tornai a casa molto tardi.
Avrò avuto non più di 18 anni. Quel giorno, dopo cena, mi incontrai con i compagni del
gruppo anarchico cui facevo parte, per discutere i dettagli di un’iniziativa di
‘controinformazione’ (come allora chiamavamo la nostra propaganda antagonista al
sistema) da intraprendere nelle scuole medie superiori della città. Il piccolo locale che
fungeva da sede politica, anche quella sera, come di norma, si trasformò ben presto in una
sorta di fumeria. Tanto eravamo presi a scazzarci, come di norma, sulle modalità più
opportune di condurre in porto l’iniziativa programmata, che il fumo denso di sigari,
sigarette e pipe, poteva pure friggerci gli occhi e farci ansimare come asmatici. Non ce ne
accorgevamo. Occorreva andare avanti a oltranza fino all’accordo, che giunse finalmente
intorno alla mezzanotte. La nostra mente era così carica - non solo di fumo e chiacchiere,
ma anche del rumore infernale prodotto da un vecchio ciclostile a manovella, azionato da
un compagno - che accogliemmo tutti con entusiasmo l’idea di uscire all’aperto per
imbrattare le mura cittadine con scritte rivoluzionarie. Fu anche un modo di suggellare
l’accordo raggiunto. La nottata, peraltro, era ideale. Pioggia, freddo e ora tarda, quindi
nessuno a spasso per la città, probabilmente poche volanti della “pula”. Cosa ci poteva
essere di meglio per spazzare via la nebbia dal cervello e per scaricarlo del senso di
pesantezza accumulata ? Il fascino dell’illegalità e del rischio, per la verità abbastanza
relativi, riuscivano sempre a stuzzicare l’entusiasmo di giovani e convinti ribelli, nemici
dell’autorità. Ci distribuimmo le “armi” per compiere il “delitto”, bombolette spray di
vernice, rigorosamente di colore rosso o nero. Ne avevamo sempre una scorta in sede. Ci
dividemmo in piccoli gruppi di due o tre individui ciascuno, accordandoci sulle rispettive
aree urbane da colpire e sulle parole chiave mediante le quali veicolare i messaggi. Quindi
ci sparpagliammo alla chetichella sotto la pioggia sottile e insistente, quasi tutti con la testa
93
nascosta sotto il cappuccio dell’eskimo, la nostra preferita divisa di battaglia. In questi casi
era necessario non farsi notare troppo in giro, per non sollevare sospetti e causare, di
conseguenza, un rinforzo della vigilanza notturna. Occorreva giungere a destinazione
percorrendo vicoli, piccole stradine scarsamente illuminate e poco frequentate, evitando
attraversamenti di piazze e altre zone troppo scoperte. Quindi, giunti nell’area prefissata,
colpire in fretta e poi squagliarsela , sempre attraverso i vicoli, cercando di raggiungere,
inosservati e nel più breve tempo possibile, le proprie macchine o direttamente le proprie
abitazioni. Quella notte sembrava tutto più facile del solito, stante le condizioni di pioggia.
Anche i cani avevano rinunciato ad accreditare quei proverbi nei quali sono chiamati in
causa come termini di paragone. Eravamo soli, ci sentivamo padroni della città. Fu
quell’eccesso di sicurezza, probabilmente, che ci fece abbassare la guardia, costringendomi
alla prima esperienza di fuga a perdifiato con la polizia alla calcagna. “RIPRENDIAMOCI
LA VITA, AUTOGEST .......” Interruppi a questo punto la frase con lo spray nero, su un
bel muro rivestito di un candido, immacolato travertino. Due occhi luminosi mi puntavano
di lontano. Inconfondibile la luce azzurrognola roteante sul tettuccio. “LA PULA !”, urlò
Francesco, e già aveva imboccato come una saetta il vicolo più vicino, imitato subito da
Michele che si inoltrò nell’altro vicolo, che scendeva buio e stretto in direzione opposta.
Un lungo momento di panico e stordimento, inchiodato dai fari davanti al muro con la
bomboletta in mano. Poi mi rimbalzò in mente quella regola tattica, mille volte fra noi
ripetuta, per la quale nelle situazioni di pericolo occorreva separarsi. Sacrosanta. Ma non
avevo più possibilità di scelta. I vicoli erano esauriti. Solo la strada larga e ben illuminata
di fronte a me. Le mie gambe scattarono come una molla in quell’unica direzione. Dovevo
percorrere cinquanta metri o più, fino alla prossima “uscita”, l’altro vicolo della salvezza.
Un rombo potente alle mie spalle, l’accelerazione improvvisa impressa al motore dell’auto.
Quanto stava accadendo era ormai chiaro anche alla polizia. Quei due occhi sempre più
luminosi stavano radiografando ogni centimetro del mio corpo scomposto nella fuga
disperata. Riuscii a imboccare il vicolo quando il muso dell’Alfa stava per mordermi il
sedere. Gettai via la bomboletta, qui forse non mi inseguiranno, pensai, cercando di farmi
coraggio. Lo stridio dei pneumatici sull’asfalto. La frenata. Sgassate e manovre rapide per
riportare la vettura in condizioni di proseguire lungo il vicolo. Non mollarono. Ma quelle
manovre mi consentirono di guadagnare attimi preziosi per allungare le distanze e
raggiungere l’incrocio col vicolo successivo. Ebbi a benedire il centro storico, il suo rione
più antico, con la sua fitta trama intercomunicante di vie strette. Una casbah dove quasi
94
sempre puoi riuscire a farla franca. Il pericolo ormai era nelle comunicazioni via radio, con
le quali, ben presto, si sarebbero potute far convogliare altre autovetture nella zona per
consentirne la perlustrazione. Così avvenne. Solo che, per mia fortuna, riuscii ad inoltrarmi
in un quartiere ove i vicoli spesso si connettono tra loro con lunghe scalinate, inaccessibili
alle automobili. Con circospezione e batticuore sfuggii alla caccia e raggiunsi, alle 3 o alle
4 circa del mattino la mia abitazione. La pioggia non aveva mai cessato di scendere. I
chilometri che percorsi, e quanti poi di corsa, non saprei proprio dirlo. Su una delle
scalinate, tra l’altro, ebbi modo di appurare la durezza del peperino, la pietra di origine
vulcanica con la quale sono state costruite. Per la fretta, la paura e il bagnato, ruzzolai per
una decina di gradini. In ogni parte del corpo riportai escoriazioni, più o meno vistose, ma
senza fratture. Vi lascio immaginare in quali condizioni varcai l’uscio di casa. Inzaccherato
fradicio, sporco, i vestiti laceri e strappati in più punti, ecchimosi e sangue rappreso sulle
articolazioni e al volto. Pensate che la mamma, le mamme di tutto il mondo, non stiano in
piedi sveglie ad aspettare il figlio che rientra ad ora mattutina ? Pensate sarei potuto
sfuggire al suo sguardo indagatore ?
“Enrico.....cosa hai fatto ! ? Perché a quest’ora ?”
La banale scusa che le rifilai, come è ovvio, non servì a nulla. Come a nulla sarebbe
servita la verità. Tutta la verità era già davanti ai suoi occhi. Non aveva bisogno di credibili
e particolareggiati resoconti. Suo figlio era tornato a casa tardi malconcio. Tanto bastava. E
non perse tempo in vani rimproveri, che ormai sapeva bene non le avrebbero più restituito
un figlio ligio ai dettami comportamentali di una gioventù tranquilla e regolare. Magari mi
avesse sommerso di rimproveri e ingiurie, o avesse cercato il sostegno della più concreta
autorità paterna ! Sarebbe stato assai più facile, meno problematico, prenderla per il culo,
sbeffeggiare le sue ramanzine, e soprattutto sfuggire al rimorso futuro. Invece il suo
silenzio, i suoi occhi angosciati e tristi, mentre mi coccolava, mentre puliva e disinfettava
con mani tremolanti le ferite, come quando ero bambino, stracciarono il mio morale e si
fissarono nella mia mente. Sono riemersi, in immagini fuggiasche, di tanto in tanto, a
martoriarmi l’animo. E non credo che potrò più rimuoverli dal profondo della psiche.
Quello sguardo afflitto, il suo silenzio, il silenzio del babbo e di Evelina che dormivano
nelle loro stanze. O forse non dormivano affatto. Tutto questo congiura ancora, contro la
resistenza della mia coscienza tranquilla, e ogni tanto mi appicca dentro fiammate di
rimorso.
95
“Perché non mangi qualcos’altro ?” Evelina interrompe il suo silenzio e i miei
interiori ritorni tormentosi. “Nel frigo ho visto che ci sono....”
“No....basta ! Sono sazio. Ho fatto colazione troppo tardi e non ho molto appetito.
Se ho mangiato il risotto lo devo solo alla tua maestria di cuoca.” Le sorrido. Vorrei
addolcirla. Lei si alza in piedi.
“Bene. Allora sparecchio.”
“Oh no, ti prego, oggi sei mia ospite ! Capita così di rado ! Ci penserò più tardi io a
caricare la lavastoviglie....” Il mio gesto con la mano per farla rimanere seduta, non la
dissuade affatto. Era scontato. Raccoglie rapidamente i piatti. Non sembra ancora essersi
rianimata.
“O.K.. Allora io nel frattempo preparo il caffè.” I bambini si sono dileguati da un
pezzo. Non mi sento troppo tranquillo.
“Suppongo avrai imparato abbastanza bene a preparare il caffè con la tua moka.
Sono ansiosa di assaggiarlo.” Segni di ripresa, finalmente !
“Cara la mia sorellina ! Credo rimarresti assai soddisfatta se un giorno ti degnassi di
assaggiare anche qualche pietanza preparata da me. Non so, tipo....spaghetti alle vongole,
bucatini alla matriciana, frittata do cipolle e poi.....”
“Lascia perdere, mi accontento del tuo caffè !”
Povera Evelina. Riesce sempre a trasmettermi la sua tristezza ogni volta che la
rivedo. E a sbattermi in faccia gli occhi della mamma. Quello sguardo da cui non si
sfugge. Che non chiama in causa direttamente. Che in tali momenti non si solleva quasi
mai oltre dieci centimetri dal pavimento. E che pure lo sento addosso come un vento gelido
di tramontana. Che nel momento stesso in cui mi annienta, pure mi rinvigorisce,
stranamente ha l’effetto di alimentare il coraggio in me per continuare ad essere ciò che
sono sempre stato. Quello sguardo della mamma. In quella mattina che mi svegliai presto,
mi vestii e mi preparai molto nervoso, impaurito come un pulcino - come solo lei poteva
vedermi - in attesa di essere “giudicato”. La mia prima esperienza, e fortunatamente anche
l’ultima, di cittadino imputato per un reato dal quale, allora, per un soggetto a rischio come
me, non era facile esentarsi dal compiere. Vilipendio alle istituzioni. Non che rischiassi
gran che. Il perdono giudiziale per aver commesso il fatto in età da minorenne. Ma aveva
pur sempre un lato terrificante sapere di essere in balia del giudizio, del pregiudizio e delle
inclinazioni umorali di un rappresentante fedele delle istituzioni vilipese. Il mio stato
d’animo, mentre mi lavavo i denti, facevo colazione, indossavo gli abiti, per mia madre era
96
evidente come la luce del sole. Come poteva non esserlo, nonostante mi sforzassi di
nasconderlo con un atteggiamento di altezzosa, quanto puerile, noncuranza ! Alla sua solita
maniera, seguì tutti i miei preparativi di lontano, con la coda dell’occhio. Solo poche parole
di rimprovero esplicito. “Lo vedi in che guaio ti sei cacciato ?” E nessun altro commento
finché varcai la soglia. La sentii dietro di me. Mi voltai col cuore in gola. Il suo sguardo
sempre piantato a terra, senza possibilità di trovare riparo e di risultare innocuo.
“Ciao, ma.”
“Coraggio. Le tue idee ti daranno almeno un po’ di coraggio !”
“Enrico....” - Evelina affronta di nuovo i miei occhi - “...che ne diresti se ti
risparmiassi di accompagnarmi tra i defunti e ti concedessi il privilegio di occuparti per un
paio d’ore dei miei adorati bambini ? Mi solleveresti dalla preoccupazione di correre loro
dietro nei viali del cimitero, di modo che potrei prodigarmi con più raccoglimento ad
accudire alle tombe di mamma e papà .....in compenso ti offro l’occasione di divagarti un
po’.”
“Idea eccellente, sorellina. Mi mancava l’esperienza del bambinaio. Purché
prometti di non costringermi a venirti a cercare. Potrei condurre al parco i bambini, se sono
d’accordo. Che ne dici ?”
Una soluzione accettabile per entrambi, per il nostro rapporto di fratello e sorella,
seppur posso supporre che lei avrebbe preferito la mia compagnia. Non fosse altro che per
il fatto che abbiamo così poche occasioni di stare insieme. Alla fine ha prevalso il suo
altruismo di non chiedere troppo al mio egoismo. Ma posso esserle grato soprattutto perché
mi ha dato modo di trovarmi a tu per tu, per la prima volta, anche se per brevissimo tempo,
con il mondo dei bambini.
Un pomeriggio tiepido, il cielo sereno, solo a tratti adombrato da inconsistenti nubi
passeggere. Sono circondato da maestosi cedri dell’atlante, dal portamento eretto e dalle
ramificazioni estese e spioventi, da aceri riccio ricoperti di meravigliose foglie gialle, da
secolari e nodosi lecci con una densa, impenetrabile chioma verde scuro. Sembrano rimasti
tali e quali a quando facevano da sentinelle inosservate dei miei giochi infantili, o a quando
si rendevano complici silenziosi delle mie trasgressioni e avventure adolescenziali. Ma solo
adesso mi rendo conto della loro grandiosa, eppure così discreta, vitalità. E’ forse la prima
volta che osservo intensamente, direttamente, da adulto maturo, la fanciullezza di altri e la
mia che non c’è più. Paolo ed Erica scappano, si rincorrono, si dileguano, ricompaiono,
non ce la faccio a tenerli a bada coi miei richiami così poco autoritari. Ma chi vuole tenerli
97
a bada ! Che facciano pure. Magari potessi essere al posto loro, o io con loro ! Quando
riesco a trattenerli vicino per pochi attimi, mi frastornano di domande. Perché quel cigno
nel laghetto è tutto nero ? Come è strano quell’uccello, come si chiama ? Come mai
quell’albero ha le foglie tutte rosse ? Ti piaceva giocare a pallone quando eri bambino ?
Perché non hai bambini ? Perché non sei sposato ? Già, perché non ho bambini ! Benché ci
abbia messo un entusiastico impegno per rispondere esaurientemente a tutte le loro
domande, a questa domanda non credo di aver dato risposte convincenti. A dir la verità
sono rimasto un po’ imbarazzato. Mentre si gustano un gelato fuori stagione, dondolando
sulle altalene dell’area attrezzata per i giochi, questa domanda mi rimbalza di continuo in
testa. Non valgono a nulla gli sforzi per distrarmi. Come forse succede spesso, l’ingenuità
dei bambini è capace di evidenziare alcune nostre crepe interiori o di attizzare la fiamma di
fuochi che sembravano spenti. Ho fatto ben poco, fino agli attuali quarant’anni suonati, per
abituarmi semplicemente all’idea di una mia nidiata di pargoli. Anzi, proprio nulla. Non ho
potuto, non ne ho avuto occasione, non ho voluto. La differenza è minima, quando non si
arde dal desiderio, e non l’ho mai misurata fino in fondo. Certo è che, se mi ritrovo con
inquietudine a riflettere sulla domanda di un bambino, i conti non tornano. O io ho mentito
fino ad oggi a me stesso, o d’improvviso sto intenerendo, se si preferisce, sto
rincoglionendo. D’un tratto, in un giorno qualsiasi oltre la metà statistica del mio cammino,
pungolato da un banale, effimero stimolo, sento vibrare corde sconosciute. E se fossi
attorniato di cuccioli del mio stesso sangue, dai quali farmi sommergere di domande, e da
sommergere con affettuose, impegnative, importanti risposte ? E’ bello immaginare che i
tentativi della mia vita possano usufruire di chances infinite, possano prolungarsi in una
catena di sangue, fino magari giungere ad un sospirato appagamento, pur non avendo il
tempo di goderne in prima persona, ma per via mediata di discendenza parentale. E’ bella
di per sé già la speranza di un simile accadimento. Ma come la mettiamo se invece di una
catena di successi, incrementassi col mio seme una catena di fallimenti ? Se lasciassi in
eredità solo angustia e desolazione, incapacità di affermazione, disgusto per la vita ? Ardua
sentenza lascio ai vivi e ai posteri che non si lasciano e non si lasceranno sopraffare da
eccessivi scrupoli.
Giungiamo a casa quando è ormai quasi buio. Le giornate si sono molto accorciate.
Evelina ci attende fuori il portone.
“Sei già qui ? Vedo con piacere che non ti sei persa.”
98
Saliamo di sopra in studio. I piccoli rioccupano subito le postazione per le guerre
stellari. Ci rimane qualche minuto di tempo durante i quali le faccio assaporare un delicato
tè al bergamotto. I bambini preferiscono la classica fetta di pane con la nutella spalmata,
immancabile persino nella mia dispensa.
“Ragazzi, dobbiamo andare se vogliamo essere a casa per ora di cena. Se facciamo
tardi papà si preoccupa.”
“Zio, la prossima volta ci fai trovare qualche gioco nuovo ?”
“Sicuramente, ve lo prometto. Scusate se oggi mi avete trovato sguarnito.
Comunque portatevi via il dischetto che ho, la prossima volta.....”
“WOWWW !”, all’unisono.
“La prossima volta sarà bene che venga tu a farci visita. Sarebbe ora ! Enrico,
quando ti decidi a farci visita ? Da noi puoi fermarti quanto desideri e quando desideri. Lo
sai, vero ?”
“Ma certo, sorellina, lo farò prima o poi. Devo solo trovare il momento opportuno,
quando potrò assentarmi per qualche giorno dal lavoro, e quando....”
“Sì, ho capito, ci vedremo il prossimo 2 Novembre....Piuttosto, promettimi almeno
che la prossima volta mi darai la lieta notizia......hai capito che cosa intendo....insomma,
che non ti troverò più solo a vegetare da scapolone.”
“Di questo puoi stare veramente tranquilla....” - le offro un sorriso smagliante “....troverò la donna che fa per me. Se ti fa piacere saperlo, ti confesso che ne tengo
sott’occhio già una da un po’ di tempo....”
“Davvero ?”
“Davvero, lo giuro !”
“Allora posso proprio dormire tra due guanciali.”
E’ il momento dei saluti, quello che ogni volta desidererei volentieri poter evitare.
Sono soddisfatto della giornata trascorsa. Sono contento di aver rivisto mia sorella.
Soprattutto di aver passato un pomeriggio coi nipotini, esperienza unica che non so se avrò
più modo di reiterare. Però comincio a sentire anche un po’ di stress “da compagnia”. Tutto
sommato sono anche contento di ritornare al silenzio delle mie stanze, alla routine del mio
quotidiano senza sorprese, alle mie passeggiate solitarie nei boschi. Abbraccio di nuovo
quei corpicini esili.
“E’ bionda o mora la tua futura sposa, zio ?”, mi domanda sottovoce in un orecchio
Paolo.
99
“A te come piacciono le donne ?”
“More.”, non esita a rispondere.
“Allora avrai di che essere fiero di tuo zio, vedrai. Ciao Paolo, ciao Erica.”
Mi sollevo e abbraccio mia sorella. Bacio le sue guance, ancora molto giovanili,
con l’aiuto forse di qualche crema.
“Ciao Evelina.”
“Ciao Enrico.”
Di nuovo quello sguardo abbassato, da cui non si sfugge, che non sa trovare riparo,
che non riesce ad essere innocuo. Lo sguardo della mamma.
100
CAPITOLO VII
INCONTRO COL PASSATO 2
LA SPECIE UMANA
RACCONTA
NELLA TUA MORTE
LA SUA FOLLIA OMICIDA
A CHI INSEGNASTI
AD ABBAIARE
TU RACCONTERAI
SEMPRE LA VITA
“Non credevo di trovarla ancora così leggibile questa epigrafe. Dopo tutti gli anni
trascorsi. Anche il legno su cui è incisa.......certo, è molto scolorito e consunto dal sole e
dalle intemperie. Ma è anche più bello.....più suggestivo. Non trovi ?”
“Hai ragione Stella. Ora questa tomba sembra davvero integrarsi all’ambiente che la
ospita. Sembra come se ci fosse sempre stata qui, al pari delle pietre, degli alberi, di tutte le
cose che vi si trovano. Hai scelto la parola giusta, ‘suggestiva’, come un vecchio albero,
tarlato, piegato dal vento, che mostri in ogni sua parte i segni del tempo trascorso.”
Già, proprio Stella ! In carne ed ossa. Non mi sarei mai immaginato di incontrarla
ancora. Sapevo che era partita e si era stabilita in altra città. Ma più che la lontananza
fisica, l’improbabilità di incontrarla ancora pensavo derivasse dal desiderio di entrambi di
fuggire il più lontano possibile mentalmente, sottrarsi dal ricordo, di quel qualcosa di non
detto in quel giorno d’agosto. Credevo che una forza di repulsione, uguale e contraria, ci
avesse tenuto sempre a distanza, come succede a due poli dello stesso segno. E
invece.....eccoci qui, a contatto di gomito, come una volta, ancora una volta insieme tra le
grinfie della natura selvaggia, insieme a Cucciolo, al suo fantasma imperituro.
E’ successo ieri mattina, una grigia mattina novembrina. Ero uscito dal palazzo
dell’Amministrazione per una missione di lavoro, un incontro con funzionari di vari enti
pubblici per l’organizzazione di un’iniziativa in comune. Un’iniziativa per la quale non
nutro un grosso entusiasmo. Come non lo nutro per gran parte delle funzioni di lavoro che
svolgo normalmente. Ma che devo fare ! Mi pagano per questo, cerco di ripetermi. Ho
ridottissimi margini di scelta e quasi nessuna possibilità di esprimere potenzialità creative e
101
capacità individuali nei miei compiti. Di ciò sono ampiamente convinto. Ho imparato fin
troppo bene come la burocratizzazione e la standardizzazione della prassi di lavoro
nell’ente pubblico esiga soltanto adattamento e renda sterile ogni disposizione
personalistica. Troppe regole, protocolli, vincoli di ogni genere limitano le attitudini
all’azione e le abilità di inventiva. Annoiato come al solito, dunque, attraversavo il traffico
cittadino. Ad un certo punto ho svoltato in una stradina chiusa al transito veicolare e l’ho
percorsa per una cinquantina di metri.
“Enrico !”
Ho percepito chiaramente il mio nome gridato in una strana accentuazione
esclamativa. Mi sono arrestato e voltato. 4 o 5 persone alle mie spalle che camminavano
per i fatti loro. Nessuna, a prima vista, aveva un volto familiare.
“Enrico....sono io !”
Allora l’ho riconosciuta, con grande sorpresa e un tuffo al cuore.
“Stella ! ?”
“Esatto.....proprio io ! E’ vero che il mio look è un po’ cambiato, ma.....cavolo !
Sono sempre io !”
Un sorriso vero sulle sue labbra, non d’occasione, ha fatto breccia nel mio cuore.
Emozionato, incredulo, mi sono avvicinato con andatura impacciata. Lei mi aspettava a
braccia aperte. Ci siamo abbracciati e baciati con tenerezza, come se quella forza repulsiva,
che ci aveva tenuti lontani l’uno dall’altra per tanto tempo, non fosse mai esistita, o
riguardasse due altre persone. In effetti....ora non siamo due altre persone ? Siamo rimasti
così per alcuni secondi. Mi sentivo sciogliere come la neve al sole. Il leggero affanno del
suo respiro, il suo corpo così cedevole alla mia stretta, tradivano la forte emozione che
anche lei stava vivendo. Nessuna preoccupazione è riuscita a costringerci a nasconderla. E
Perché mai nasconderla ? Io e lei avevamo già vissuto tanti momenti insieme di
spontaneità. Sapevamo quanto era bello viverli con tutto il nostro essere. Non aveva alcun
senso tradire il ricordo della nostra esperienza in comune e comportarci diversamente da
allora. Così, ieri, abbiamo ritrovato quell’intesa del nostro passato. Anche se, almeno io,
ero fuori allenamento in fatto di intimità emotiva con altri esseri. E forse è proprio questo il
motivo che mi ha spinto impulsivamente, dopo quei pochi secondi di smarrimento, a dare
un taglio alla situazione di passionalità che rischiava di divenire insopportabile. Si è
imposto il bisogno di ritornare d’urgenza alla normalità del mio presente, di non farmi
102
travolgere dai fantasmi del passato. Ho preso con delicatezza distanza dal suo corpo e l’ho
guardata fissa negli occhi.
“Per la miseria ! Ma come ti sei conciata ?”, le ho domandato, cercando con grande
sforzo di non balbettare e scrutando i lineamenti del suo volto, i capelli, le labbra, il collo.
Anche lei ha subito ripristinato un contegno. Il viso le si è di nuovo illuminato in un
sorriso, ma meno impegnativo del precedente, ostentando una dentatura ancora perfetta.
“Perché.....non ti piaccio più ?”
“Per carità ! Non pensarlo nemmeno. Hai un magnifico aspetto....aggressivo e dolce
allo stesso tempo, moderno e .....perché no, anche maturo. Questo taglio corto dei capelli,
senza più riccioli, le sopracciglia molto più esili, ogni tratto così ben curato.....ti confesso
una cosa : non scorgo più quella genuinità che si prediligeva ai nostri tempi. Ma, a parte
questo, permettimi di dirtelo, sei di una bellezza provocante, sei quanto di meglio possano
esigere i canoni estetici di questi tempi e....”
“Dillo pure, ma non esagerare ! Mi sono soltanto un po’ adattata ai tempi.....tutto
qui ! E in quanto alla genuinità....” - sul suo volto si è disegnato un cruccio scherzoso “....cosa vorresti intendere, che per seguire la moda ho perso per strada la mia spontaneità
giovanile ?”
Le ho sorriso affettuosamente e non ho potuto trattenermi dal carezzarle una
guancia.
“Oh.....non ti devi affatto preoccupare, l’hai soltanto mascherata ! La cosmesi non
può mica cancellare quello che c’è dentro.....ti sprizza fuori da ogni sillaba che pronunci,
così come dal tuo sguardo. Non credo te ne potresti liberare facilmente, neanche lo
volessi.”
Mi ha afferrato la mano, prima che l’allontanassi, stringendola sul suo collo.
“Enrico....sono proprio felice di averti incontrato di nuovo.”
Poi è stata lei a sforzarsi di raffreddare gli animi, spostando il colloquio su temi
meno intrisi di ricordi.
“Ma dimmi....” - ha abbassato la mia mano appoggiandosela al ventre e
stringendola con tutte e due le sue - “...cosa fai oggi ?.....voglio dire il lavoro, la
professione. Lavori ancora presso l’amministrazione pubblica ?”
“Sì, purtroppo ! Hai toccato un tasto dolente....”
“Perché, purtroppo ? Non va ? Sei insoddisfatto del tipo di lavoro ?”
103
“Ecco, sì, mettiamola come dici tu, senza approfondire troppo. Ci vorrebbe un po’
di tempo per darti un’idea precisa di come me la passo. Per farla breve, credo sia
sufficiente, affinché tu comprenda il mio stato d’animo in proposito, dirti qual è l’augurio
che faccio a me stesso da diversi anni, la speranza alla quale mi sono ostinatamente
aggrappato : non morire da impiegato.”
“Addirittura a questo punto !”, ha esclamato meravigliata. “In effetti.....ricordo bene
la tua forte personalità, le tue doti creative. Forse risultano stridenti in un ambiente troppo
piatto e monotono, come immagino che sia quello di un’amministrazione pubblica. Ma ero
convinta che saresti riuscito in qualche modo ad importi, a trovare i giusti canali per
esprimerti adeguatamente, magari all’interno stesso di quell’ambiente....”
“Non è così. O non è stato così per me, Stella. Non immagini nemmeno fino a che
punto quell’ambiente riesca a... ‘comprimerti’, ‘nullificarti’....faccio uso di neologismi, non
riesco a trovare parole migliori. Ma lasciamo perdere, ti prego. Voglio sapere di te. Non so
quasi nulla....solo che allora, prima di...., ti stavi laureando e che ad un certo punto - non
ricordo nemmeno come lo venni a sapere - ti sei trasferita in altra città....”
“Sì, mi laureai in sociologia e poco tempo dopo, grazie agli aiuti di alcuni parenti,
mi sono trasferita a Milano. Be’.....non riesco ancora a crederci...” - il suo sguardo diventa
di colpo radioso - “....ma qui sono riuscita a realizzare i miei sogni, o almeno gran parte di
essi. Ho avuto la fortuna di conoscere un gruppo di giovani laureati forniti di potenti
aspirazioni, in perfetta sintonia con le mie. In poche parole, abbiamo creato dal nulla un
centro di ricerca interdisciplinare, di sociologi, antropologi, statistici, psicologi, e ci siamo
offerti sul mercato. Dopo un avvio, ovviamente, stentato, abbiamo incominciato a ricevere
le prime commissioni. Da enti pubblici, proprio come il tuo. Da quel momento non si è più
cessato di intraprendere di continuo nuove ricerche sociali, anche per conto di associazioni
private. Alcune di notevole interesse scientifico....siamo riusciti persino a pubblicare quelle
che ritenevamo più significative. Ora il nostro è un centro di ricerca abbastanza quotato.
Sono in molti a richiedere le nostre prestazioni....davvero.... Non immagini quanto sono
felice. Mi sento realizzata e credo di poter ricevere ancora molte soddisfazioni....anche se il
lavoro, forse è superfluo sottolinearlo, è enorme e spesso stressante. Oh....ma scusa, mi
sono lasciata prendere la mano...”
“Di cosa ti scusi ? Il tuo entusiasmo è folgorante e contagioso. Non posso che
ammirarti, per quello che dici e per come lo dici. Sono contento per te, credimi. Piuttosto,
104
dimmi i titoli delle vostre pubblicazioni, le cercherò in libreria. Ti assicuro che avrai in me
un degno e attento lettore....”
“Di questo non ti devi preoccupare. Avevo già deciso molto tempo fa di inviarti le
nostre opere. Ma ti confesso che non ne ho avuto il coraggio.....non sapevo come l’avresti
presa, se ti avrebbe fatto piacere.....”
“Scherzi ? Come hai potuto avere di questi dubbi ? Pretendo che quanto prima tu
mi spedisca quei lavori. Pagandoti il dovuto, se necessario. Ci conto !”
Sono restato per lunghi attimi in silenzio a fissarla negli occhi, quasi per carpirle il
segreto di quella gioia che non riusciva a contenere. Poi ho avuto il dubbio che potesse
esserle sorto il rimorso per aver, in buona fede ma senza alcun ritegno, sbattuto in faccia ad
un fallito dichiarato il suo entusiasmo di persona realizzata. Stavo per interrompere il
silenzio, ma lei mi ha preceduto.
“Enrico....ascolta. Mi è balenata all’improvviso un’idea. Vorrei chiederti un favore.
Sai....sono tornata da alcuni giorni per far visita a mia madre, era da tanto che non la
vedevo, ma credo anche per tirarmi fuori da una situazione di stressante tensione.
Ultimamente sto sviluppando una ricerca molto importante, sulla quale ho riversato molte
delle mie energie, ma ho raggiunto un tale livello di compressione psicologica per cui sono
stata costretta a concedermi un periodo di riposo, onde evitare spiacevoli conseguenze da
overdose di lavoro. Ed eccomi qua. Il favore che vorrei chiederti......mi vergogno un
po’.....”, ha abbassato gli occhi a terra mostrando un lieve imbarazzo.
“Ti vergogni ? Questo mi meraviglia molto. Se la memoria non mi inganna, ricordo
solo rarissime occasioni nelle quali ti sei lasciata prendere dalla vergogna. Hai sempre
dimostrato una gran padronanza di te !”
“Be’, sono cambiati i tempi e forse anch’io con essi. E’ difficile conservarsi in tutto
sempre uguali a se stessi, non credi ? Nell’ambiente in cui vivo oggi non mi capita mai di
chiedere favori. Forse sì, qualcuno tra amici, ma di poco conto. Ora, con te, dopo tutti
questi anni.....a proposito, quanti anni sono che non ci vediamo......15 ?
“Più o meno.”
“Comprendi che in tutti questi anni possono essere successe tante cose ! Anche da
questa considerazione deriva un po’ la mia vergogna. Comunque eccomi al dunque : hai
moglie, o una partner, o marmocchi, o ....che ne so, qualcuno del genere, cui dover rendere
conto di ciò che fai o di dove vai ? E perdonami la necessaria indiscrezione”
105
“Assolutamente no. Non ho alcun legame affettivo, stabile o transitorio che sia, con
alcuno, né tanto meno, eredi frutto del mio seme. Come li chiamano oggi quelli come
me..... ‘single’. Proprio così. Non so se ti farà piacere saperlo. Tu hai rappresentato l’ultimo
legame duraturo che mi sono concesso, o che la sorte mi ha concesso di intrattenere.”
“Bene......cioè, non so se per te sia un bene o un male......per me lo è senz’altro un
bene, per due motivi. Primo perché, dopo il nostro rapporto, anch’io ho deciso
irrevocabilmente di non concedermene altri di simile intensità e durata. Ho capito di non
essere proprio il tipo che si può adattare ad essi. Sono molto egoista. Mi va di prendere o di
conquistare sempre ciò che voglio, senza creare problemi o attese ad alcuno. Nutro pochi
altri bisogni oltre quelli carnali. E per questi mi riservo, di tanto in tanto, solo.....qualche
‘sveltina’. Tutt’al più brevi relazioni di alcuni giorni.....e morta lì.....” - (Grande !
Coraggiosa, grande Stella....sei sempre la stessa !) - “....Secondo, perché devo chiederti
questo favore.”
“Allora ! Quale favore ? Sputa l’osso, non mi far stare sulle spine !”
“Non mi fraintendere, Enrico. Non ho bisogno di alcuna.... ‘sveltina’ in questo
momento. O.K. ? Ma di ben altro. Sento l’esigenza, coltivata da lungo tempo, di
ritrovare....come dire....la mia natura selvaggia.....sai, quella genuinità e semplicità delle
quali parlavi poc’anzi, tanto dentro di me quanto nelle cose che mi stanno intorno. Sento
una gran nostalgia di quei luoghi incantevoli, dove ci perdevamo insieme, io, te e Cucciolo,
dimenticandoci della civiltà. Quelle passeggiate tra gli elementi ancora autentici
dell’esistenza, che si conservano uguali a se stessi da millenni, che è sempre più raro
trovare negli ambienti umani, soggetti ai ritmi frenetici del cambiamento. Forse ti sembrerò
retorica, o romantica, ma....mi capisci, Enrico, vero ? Ti andrebbe di passare una giornata
con me in uno di quei luoghi ? Domani.....è l’unico giorno che mi è rimasto, poi dovrò
ripartire, che ne dici ?”
Cosa credete potessi risponderle ? Ero così felice di quella proposta. Non che
nutrissi chissà quali aspettative per l’occasione che mi si offriva di trascorrere insieme
ancora un giorno. Ero elettrizzato dalla semplice idea di poter condividere di nuovo con
Stella antiche emozioni, che ritenevo definitivamente seppellite nel mio passato. Ed eccoci
qua. La scelta del luogo è risultata ovvia per entrambi. Dove, se non nel posto in cui
lasciammo il nostro più bel ricordo in comune, cioè Cucciolo ?
Sulla sua tomba i nostri sguardi si trattengono a lungo. Sto rincorrendo, come penso
stia capitando anche a lei, le immagini di intensa vitalità che legano indissolubilmente il
106
nostro passato a Cucciolo. Quella fossa ricoperta di pietre calcaree, ordinate a comporre un
disegno di forma ellittica e sormontate da una tavola incisa a mo’ di lapide, è collocata
sotto un esemplare molto vetusto di pero selvatico, dalla chioma estiva rada di misere
piccole foglioline, ed ora spoglio, con i rami tozzi e contorti e qualcuno rinsecchito. Un
esemplare non certo capace di evocare in sé vigore e generosa prosperità della natura. Ma
nel contesto del pianoro assolato ed aspro, battuto perennemente dai venti, in cui si situa,
solitario, in mezzo alla scarna compagnia di cardi e cespugli spinosi, riesce ad infondere
una pervicace forza di resistenza alle avversità. In effetti, decidemmo di fissare lì l’ultima
dimora di Cucciolo, non soltanto perché il luogo è uno dei più selvaggi angoli conservatosi
nel nostro territorio all’impetuoso incedere della civiltà - congruo alla sua stessa natura
altrettanto selvaggia e niente affatto plasmata dalla compagnia dell’uomo - ma anche
perché, forse inconsciamente, intendemmo lanciare un messaggio al mondo intero, la
nostra bottiglia di speranze in mezzo all’oceano. La voglia di resistere alla follia distruttiva
che il genere umano ci era sempre sembrato portasse iscritto nel proprio codice genetico
dai tempi dei tempi. Un piccolo, ultimo omaggio, al nostro compagno di giochi, ma anche
alla natura riscoperta, proprio grazie a Cucciolo, dentro come fuori di noi ; alla natura
divenuta così aliena all’uomo, così radicalmente “altro”, da poter essere recuperata in una
dimensione familiare soltanto mediante un incidente, un incontro fortuito, un’improbabile
quanto imprevisto sodalizio con altra specie vivente, come per noi fu quello con Cucciolo.
“Forse la morte altrui è uno dei rari eventi della vita che incute rispetto all’uomo.
Anche se è la morte di un cane. Non riesco a spiegare altrimenti come abbia fatto a
resistere intatta questa tomba. Per quanto solitario, questo posto, sarà comunque
frequentato, suppongo. In quindici anni poi.....”
“Forse è come tu dici. Mi piacerebbe pensare che così fosse. Ma ho una
disposizione pessimistica verso la realtà delle cose, ormai radicata, che mi suggerisce una
spiegazione più semplice, meno lusinghiera. Credo sia sufficiente la paura, una
superstiziosa paura verso gli oggetti che fanno da tramite con un presunto al di là, a
spiegare questo atteggiamento ‘rispettoso’ per una tomba.”
“Spero ti sbagli, Enrico. Anche se francamente non ne sono convinta. Ho bisogno
di credere in qualcosa di buono. Non posso pensare che ogni cosa, ogni emozione, ogni
passione sia contaminata da una qualche forma di interesse inconfessato, nascosto.”
“Anch’io spero di sbagliarmi. La speranza è sempre l’ultima a morire. Però....”
107
D’un tratto il suo volto si ravviva, sembra voler scacciare via di prepotenza i segni
evidenti della malinconia. Un lieve sorriso si affaccia tra i lineamenti marmorei, fascinosi
ma freddi, che un po’ la maturità, un po’ la situazione del momento, le modellano il viso.
Solleva lo sguardo verso l’orizzonte, a perdersi in qualcosa di indefinito nella realtà
esterna, ma probabilmente di preciso nella sua realtà mentale.
“Ti ricordi quante volte siamo giunti su questo pianoro col cuore in gola ? E non
facevamo in tempo a riprendere fiato che ogni volta Cucciolo si dileguava lontano, in una
corsa pazza a testa bassa, col muso a sfiorare i sassi e l’erba. Soprattutto nelle giornate
umide e ventose....” - le abbozzo un altrettanto tenue sorriso di risposta, confermandole con
un cenno della testa di aver captato l’immagine suggeritami ; ma non si cura di
accertarsene, tanto sembra convinta che io non possa non essere capace di riviverla, e
continua a fissare il vuoto - “....il vento, questo vento che quassù non dà mai tregua,
trasportava alle sue narici chissà quanti stimoli alla sua innata propensione predatrice.
Già.... la predazione. In quella brama di sopraffazione violenta, in quella carica aggressiva,
metteva in gioco tutto se stesso, si concedeva alla vita e alla morte senza alcuna riserva. Il
connubio col mondo, l’integrazione con la natura, quando sono vissuti senza
nascondimenti, nella purezza della spontaneità, coinvolgono tutto l’essere, non consentono
risparmi. Questo significa essere selvaggi ! Cucciolo mi insegnò quanto poco riusciamo ad
esserlo noi, mi insegnò a desiderare la sincerità e quanto sia stupido aver timore della
propria natura animale. E ti ricordi quando uccise quel piccolo cinghiale, sotto gli occhi
atterriti della madre ? Che pure non poté fare niente per impedirlo, si dovette preoccupare
di portare in salvo il resto della cucciolata. Be’.....forse non ci crederai. Quell’immagine
atroce di morte mi continua a perseguitare, mi sbatte sempre in faccia la realtà delle cose
nuda e cruda, senza fraintendimenti, senza coperture di comodo. Da allora credo di aver
capito quanto la vita sia legata alla morte. L’esistenza, l’esistenza di tutti, la natura di tutti è
questa.....prendere o lasciare. E se si decidesse di lasciare, di mollare tutto, in un estremo
atto di rinuncia, non faremmo che confermare all’istante proprio quel legame. Siamo
costretti in un circolo vizioso dal quale non si può scappare. Oh Cucciolo....che verità
incredibile mi hai insegnato !”
Mi sento commosso. Soprattutto quando, dal luccichio sui suoi bulbi oculari,
percepisco la medesima commozione. Non conosco parole per rincuorarla. Io condivido lei lo sa - questa filosofia della vita. Un materialismo cosmico che avevamo maturato
insieme, in anni di esperienza in comune, che una volta abbracciato non può più essere
108
scaricato, se non si è disposti a correre il rischio di ritrovarsi a bivaccare tra i prati
dell’illusione e dell’autoinganno. Il tempo, fortunatamente, sembra aver conservato, di
entrambi, la volontà di non cedere alle sirene pacificatrici della rinuncia ad essere. Me ne
rimango in rispettoso silenzio per alcuni secondi di quell’intima lacerazione che conosco
molto bene. Poi decido di farle una proposta : “Il laghetto......al laghetto, poco più avanti,
lungo il fiume.....perché non scendiamo giù al fiume e lo raggiungiamo ? Non ti sarai
dimenticata del laghetto ! Quante volte ci abbiamo fatto il bagno !”
Si volta verso di me abbozzando un mezzo sorriso. Senza vergogna si asciuga una
lacrima che le sta per scendere dall’occhio destro.
“Ma sì, certo, perché no ! Dai.....che stiamo aspettando ? Ci potremo fermare a
mangiare proprio al laghetto....incomincio a sentire un languorino allo stomaco.”
“Ottima idea. Carichiamo gli zainetti, in una mezz’ora saremo giù.”
L’autunno si mostra nella sua più consueta scenografia. Giornata grigia e ventosa,
come lo è stata la precedente. Mentre discendiamo il pendio boscoso, l’aria calda di
scirocco ci getta addosso le foglie brunastre dei cerri. Ma il querceto che attraversiamo non
è ancora spoglio di tutte le sue fronde ; esse persistono ancora cariche di foglie gialle e
verdi, soprattutto nelle stazioni più assolate, ove padroneggia la roverella. Qua e là
spiccano macchie di un intenso colore giallo violaceo, che identificano esemplari di acero
campestre. Più nudi e tristi appaiono gli alberi che orlano le sponde del fiume, gli ontani, i
pioppi, i salici e i tamerici. Stella mi segue a pochi passi di distanza, non ci rivolgiamo
parole. E sì che magari ne avremmo di cose da raccontarci, considerato il tempo trascorso
da quando cessammo di frequentarci. Ma evidentemente non nutriamo interesse a
conoscere gli avvenimenti delle nostre esperienze di vita separate. Quasi non ci fosse mai
stata interruzione dall’ultima nostra passeggiata insieme ad oggi. In effetti, durante le
escursioni del passato, mentre camminavamo, non avevamo l’abitudine di parlare molto. Il
nostro interesse era rivolto quasi esclusivamente agli elementi dell’ambiente, dei quali
godevamo in assoluto silenzio. Solo le stravaganze giocose o le corse sfrenate a testa bassa
sulla pista di una preda da parte di Cucciolo, ci facevano sorridere e scambiare impressioni
divertite. E, naturalmente, quando ci imbattevamo in qualcosa di imprevisto, come la
comparsa di un animale non domestico, un serpente, un daino, un gruppo di cinghiali, una
volpe, un uccello poco comune, o di fronte ad una fioritura eccezionale, ad una pianta rara,
ci prodigavamo concitati nel descrivere le sensazioni provate, i dettagli e le circostanze del
caso. Anche ora l’interesse per gli elementi che ci stanno intorno assorbe tutta la nostra
109
attenzione. O quasi tutta. Inutile nascondere a me stesso che lo stare insieme, dopo 15 anni,
con Stella, non mi lascia certo indifferente. Sono eccitato, ma non lo lascio ad intendere, di
sicuro non mi impegno a palesarle il mio stato d’animo. Vorrei parlarle, ma non so da dove
iniziare. E forse è così anche per lei.
Cataste di residui legnosi sono ammassate alla base di molti alberi, anche a distanza
considerevole dal margine del fiume. Segni evidenti delle sue travolgenti piene nei periodi
invernali e primaverili, quando le piogge copiose fanno ingrossare le acque.
“Guarda com’è calmo il fiume !”
“Sì, è molto calmo. Le piogge sono state scarse nei giorni precedenti. Non è
nemmeno molto torbido. Vedi... - le indico con un dito -...dove è poco profonda l’acqua è
ancora assai trasparente. Nelle parti più profonde è invece di un verde cupo, più simile ad
un aspetto di tipo estivo, direi.”
“Peccato solo che non sia caldo come d’estate, altrimenti....”
“Ci saremmo già fatti un bel bagno, non credi ?”, concludo la sua frase, riuscendo a
carpirle dal volto tenui accenni di spensieratezza.
“Ma...Enrico, non è quello laggiù il laghetto.... ?”
“Mi fa piacere che ti ricordi ancora del luogo. Sai....io ho continuato a venirci
spesso quaggiù. Tu invece...... Un posto così non si può dimenticare, Vero ?” Provo un
senso di soddisfazione.
“E come potrei dimenticarmene !”
Giunti allo slargo del fiume, lei si sofferma alcuni secondi a guardarsi intorno.
“E’ cambiato però......qualcosa è cambiato dall’ultima volta che venni qui.”
“Sì, è ovvio. Le piene del fiume. Di anno in anno modificano incessantemente i
margini. Cancellano un tratto di sponda e ne creano un altro da un’altra parte. Portano via
pietrisco, sabbia, arbusti e alberi da una parte e li trascinano in un’altra. I detriti si
cumulano e si disfano.”
“Già ! Però è sempre una gran bella pozza ! Ci sediamo ? Anzi.....cerchiamo un po’
di legna secca e accendiamo un fuoco. Ho portato un paio di bistecche da cuocere sulla
brace. Crude non credo proprio risultino appetitose. Che ne dici ?”
“D’accordissimo, diamoci da fare. Io ti farò assaggiare la mia modesta frittata di
cipolle.”
“Non mi dire che hai imparato a cucinare !”
110
“Solo due o tre tipi di pietanze....lo stretto necessario per sopravvivere da
scapolone.”
Finalmente sembra che abbiamo ritrovato una certa disinvoltura nel dialogo. Ci
stiamo scrollando di dosso le ultime scorze di quell’imbarazzo che è plausibile si manifesti
tra due amici, un tempo molto intimi, che si rincontrano dopo molti anni. Chiacchieriamo
con brio del più e del meno, tra una battuta scherzosa e l’altra, per circa due ore, intorno ad
un crepitante falò, io e lei insieme, lontani dal mondo, lontani dalla civiltà. Quando si dice
un posto dimenticato da Dio e dagli uomini. Questo è il posto ! Che fortuna che ce ne sia
rimasto qualcuno ! Non una sola traccia, un solo indizio di presenza umana. Il
lontanissimo, quasi impercettibile, rombo di un aereo di linea, esalta ancor più il distacco
dal mondo civile. Mi sento vuoto, leggero, purificato, allo stesso tempo saturo di
irremovibile serenità.
“Ricordi quando buttammo in acqua per la prima volta Cucciolo, per fargli prendere
confidenza col mezzo liquido ?”
“E come se lo ricordo ! Fu una cosa spassosissima. Poveretto ! Aveva una gran
paura. Forse commettemmo una barbarie. Indubbiamente però servì a fargli superare
l’impulsiva ritrosia. Pian piano ha finito per amarla l’acqua, per apprezzarne tutte le sue
qualità. Se adesso fosse qui, sarebbe difficile trattenerlo dal tuffarsi nel fiume, nonostante
l’assenza di una calda temperatura estiva.”
“Era un nuotatore eccezionale. Coordinava in modo perfetto il movimento delle
quattro zampe. E si serviva persino della coda, non riesco ancora a capire come. Si
dimostrò capacissimo fin da quella prima volta. Chissà poi perché tante specie animali
sono dotate di una tale istintiva attitudine natatoria.”
Accendo la pipa, come è mia consuetudine da più di due decenni. Il vento le getta
in faccia una nuvola di fumo, che ha l’odore dolciastro di un tabacco di marca Dunhill, uno
di quelli che preferisco.
“Scusa.....”
“Oh no, non ti scusare, anzi....ti ringrazio per la zaffata aromatica che mi lasci
respirare. E’ gradevole questo profumo......è sempre lo stesso tabacco che fumavi una
volta ?”
“No, è da pochi anni che fumo questo. Ma tu.....non fumi più ? Non ti ho visto
sigarette in bocca fino ad ora....”
111
“Infatti non fumo più, ho smesso a Milano di fumare. Sai.....lì di fumo ne respiro
quanto ne voglio nell’aria, ogni giorno, perciò ho deciso di non peggiorare la situazione dei
miei polmoni col fumo delle sigarette. Anche se a volte sento ancora un gran desiderio di
farmene una. Ma ho dato un taglio netto al vizio e non ho intenzione di ricascarci. Se cedo
una sola volta, so che ricomincerei come una forsennata.”
“Hai perfettamente ragione. Io, purtroppo, non sono mai stato un igienista, salvo
poi a farmela addosso di paura e a farmi sopraffare dall’ipocondria, quando accuso qualche
malessere. Tant’è che non riesco a rinunciare al sollievo psicologico che mi procura il
fumo.....il senso di rilassatezza, la capacità di concentrazione nel lavoro....”
“Ti capisco.”
Passiamo altro tempo a bivaccare intorno al fuoco, che di tanto in tanto rinforziamo
con l’abbondante legna trovata nei paraggi. Continuiamo a discorrere con pacatezza, che si
trasforma in malinconico abbandono quando, inevitabilmente, riaffiorano i ricordi di
Cucciolo. Non abbiamo alcuna voglia di scappare dalla persecuzione di quello spettro del
passato che è ricomparso dal momento del nostro incontro. Anzi, è più forte della nostra
volontà il desiderio di tirarlo dentro nelle discussioni ad ogni occasione. Siamo coscienti
dell’enorme significato che quel dolce essere ha avuto da vivo, e continua ad avere da
morto, nella nostra esistenza. Della svolta radicale che ha impresso al nostro modo di
concepire il mondo e di affrontarlo. Siamo talmente soggiogati da questa presenza
fantasma, che il parlarne è per noi un atto liberatorio di riconoscimento postumo alla sua
memoria, che però non riesce a compiersi fino in fondo, non trova sazietà. E così andiamo
avanti quasi per l’intero pomeriggio, sdraiati sui ciottoli della sponda del fiume, senza
alcuna voglia di interromperci e di alzarci per riprendere l’esplorazione del luogo. E’ per
noi troppo importante soffermarci ancora sulle immagini, sui particolari di quel passato che
fugge via sempre più sbiadito....ancora un poco, ancora un poco......
Poi la percezione vaga, ma tagliente come la lama di un rasoio, di un pomeriggio
che sta morendo nell'incedere spietato del tempo, la malinconia che, cumulandosi di
ricordo in ricordo, diviene via via sempre più intollerabile, conducono a inevitabile
esaurimento la nostra voglia di parlare, il nostro gioco sado-masochistico di proseguire ad
affondare la lama nella piaga ormai lacera e straziante. D’un tratto ci troviamo privi di
argomenti. Ammutoliamo. Ci spegniamo insieme con il fuoco che è accanto a noi. Nessuno
dei due vi getta più legna, nessuno dei due ne getta entro di noi. E, maledizione ! Anche la
pipa ha finito per spegnersi. E gli occhi. Persino gli occhi sento spenti a fissare il lento
112
flusso dell’acqua del fiume, in un punto qualsiasi. Non hanno più voglia di scrutare altrove,
di guardare qualcos’altro. Solo non hanno più desiderio di guardare.
“Enrico..... - la sua voce è sommessa, una vibrazione leggera, un battito di ali di
farfalla - ....consentimi di farmi perdonare una grave colpa commessa nei tuoi
confronti....ho un rimorso insopportabile.”
Come ridestato da un triste sogno mi volto verso di lei. Non ho ben compreso ciò
che mi ha detto, il suo significato. Credo di avere uno sguardo interrogativo.
“Consentimi di essere cattiva verso di te, come forse non lo sono mai stata. Me lo
consenti ?”
Insisto a non capire. Non so nemmeno quale chiarimento chiederle per farsi capire.
Taccio e credo di avere in faccia l’espressione ebete come quella di chi ha appena visto un
alieno.
“Ti prego....rispondi solo si o no. Non è uno scherzo. Ahimè, non è uno scherzo, ma
una cosa maledettamente seria !”
Un crampo allo stomaco. Un’angoscia improvvisa si insinua nella mia anima, come
se il mondo mi stesse cascando addosso. Ho il sentore di una rivelazione terribile, di quelle
che non lasciano scampo. E non rispondo, non riesco a biascicare uno straccio di parola.
“Bene, Enrico..... - diventa serissima -.....me la prendo tutta io questa responsabilità,
è giusto così. Ho deciso, sarò cattiva. Ho troppo bisogno di scrollarmi questo peso di
dosso.” - Seguono interminabili attimi di silenzio - “La Grecia.....ti ricordi la Grecia ? La
prima mattina della nostra ultima sosta in quell’eden meraviglioso.....quando non venisti in
spiaggia ?....Non so se tu intuisti qualcosa. Sicuramente capisti che non ti avevo detto
qualcosa, che ti avevo nascosto qualcosa. Di questo ne sono certa.” - (Non me lo dire, ti
prego, non lo voglio più sapere !) - “Enrico.....ho scopato con un giovane greco quella
mattina. Lo conobbi per caso quella mattina stessa. Mi apparve di fronte mentre mi
crogiolavo sdraiata nuda al sole. Con l’aiuto della lingua inglese, in versione molto
scolastica ma sufficiente allo scopo, ci presentammo, chiacchierammo per un po’, intanto
che aspettavo che tu mi raggiungessi in spiaggia. E sì che, sulle prime, rimasi spaventata e
sperai davvero che tu scendessi al più presto. Poi, col trascorrere dei minuti, mi
tranquillizzai, compresi che era un giovane non dai propositi pericolosi. Semplicemente,
attratto con molta probabilità dalla mia solitaria nudità, volle tentare un approccio,
un’avventura erotica. Un proposito, direi, normale nella particolare situazione. Man mano
che approfondimmo la conoscenza, quell’inaspettato incontro divenne stimolante. Quando
113
mi propose di passeggiare con lui lungo il bagnasciuga, non seppi rifiutare. Capii di essere
molto attratta e non volli far nulla per contrastare la tentazione dalla quale ormai ero
posseduta. Dopo aver percorso circa un chilometro, fui io stessa a proporgli di addentrarci
nella macchia. Il resto lo puoi immaginare, non chiedermi di raccontarti i particolari.
Consumammo in un’ora tutta la carica sessuale che avevamo dentro, avvinghiandoci l’un
l’altra sulla sabbia, tra i cespugli di ginepro e di lentisco, come due bestie qualsiasi nel
periodo di frega. Non sono mai stata capace di controllare le mie pulsioni istintive , in
simili frangenti di così intenso rapimento. Non ho mai nemmeno ritenuto giusto farlo. Tu
lo sai, lo sapevi, conoscevi bene questo mio modo di essere e di voler essere. In
quell’occasione, poi, il giovane mi sembrò davvero molto attraente, era....”
“Prestante, dal fisico atletico, capelli neri corti, carnagione scura.....tipica
mascolinità mediterranea.” Completo così il suo racconto, scandendo le parole ad una ad
una, raccogliendo non so dove brandelli di coraggio. Lei mi guarda perplessa, sorpresa.
“Come lo sai ? !”
“Lo vidi coi miei stessi occhi.”
“Ci hai visto.....scopare ?”, gli occhi sembrano volerle uscire dalle orbite.
“Non ebbi l’ardire di verificare se il vostro incontro sarebbe potuto giungere a un
tale esito. Quel giorno scesi in spiaggia e vi scorsi di lontano, ero fuori portata dei vostri
sguardi. Cercai di rendermi conto della situazione.....vi spiai, se vogliamo dare la giusta
definizione al mio comportamento. Proprio così, vi osservai, nascosto da una duna
sabbiosa e da alcuni cespugli. Rimasi per alcuni minuti a scrutarvi, poi decisi di tornare in
tenda ad attendere il tuo ritorno, sperando che fossi tu a raccontarmi l’accaduto”.
“Oh Enrico, Enrico.... ! Perché non sei uscito fuori, non rivelasti la tua presenza ?”
“Se l’avessi fatto cosa sarebbe cambiato ? Forse staremmo ancora insieme ? Forse
tu non saresti diventata una ricercatrice ? Forse io non avrei mai scoperto di essere un
guardone rincoglionito ?” - Con amaro sarcasmo le rivelo tutta la mia sconsolata
rassegnazione. Lei aggrotta le sopracciglia, non per indignazione, ma, ovviamente, per
chiedere spiegazione del senso delle mie ultime parole. Ho comunque deciso di andare fino
in fondo - “Proprio così, Stella. Un guardone. Non ho ancora finito di raccontarti tutta la
mia verità di quel giorno. Vi spiai non soltanto perché fui colto da un naturale senso di
gelosia, ma anche perché, per la prima volta in vita mia, provai eccitazione a guardare un
atto sessuale. O meglio, in quel caso, desiderai soltanto di vederlo, non ebbi il coraggio,
come ho già detto, di arrivare fino in fondo. Ciò fu però sufficiente a farmi acquisire la
114
consapevolezza dei nuovi, ‘strani’ desideri, che da allora in poi non mi hanno più
abbandonato. Prevalse sul momento la gelosia e la paura di essere scoperto in una
situazione imbarazzante. Fuggii in tenda in preda ad un tumulto di forti e contrastanti
emozioni. Fantasticai su un tuo possibile amplesso con quel giovane, mi masturbai e provai
un piacere.....come dire, ‘sui generis’, senza precedenti, fino ad allora sconosciuto. Si
schiuse la porta del mio mondo di perversione, o di ciò che in tal modo si usa definire. In
tutte le occasioni successive, e sono state tante, innumerevoli, ha prevalso, tra mille
emozioni, il piacere di guardare fino al momento dell’appagamento. E credo che.....”
“Quali occasioni ? ?” Il suo sguardo ora rivela sconcerto e stupore.
“Quelle che mi sono creato da solo. Quelle che un guardone si cerca per sfogare le
sue particolari inclinazioni. Ovviamente l’oggetto di osservazione, il luogo, le condizioni,
sono stati, di volta in volta, sempre diversi e sempre intensamente eccitanti.”
Mi fermo a riprendere fiato. Ho coscienza di quali e quanti interrogativi
imbarazzanti stiano affollando la sua mente, in conseguenza di queste rivelazioni. Strano è
che non provo alcun imbarazzo in me stesso. Come se stessi parlando di qualcun altro. La
spietata sincerità che ho ritrovato in Stella probabilmente ha scatenato l’esigenza rimossa
di confessarmi, superando la barriera del pudore e della vergogna. D’altronde cosa ho da
perdere ? Caso mai, ho da guadagnare qualcosa, qualcosa che credevo di aver perso per
sempre. Già sto meglio, sto molto meglio.
Seguono alcuni minuti di silenzio. Lo stato confusionale delle nostre menti ha
bisogno di una pausa riflessiva per rimettere un po’ d’ordine alle idee. Cerco i suoi occhi.
Li trovo fissi nel vuoto. Non mostrano più sbalordimento o smarrimento. Hanno assunto un
contegno. Denunciano solo amarezza e tristezza.
“Sai Enrico......non ho mai dato peso a quell’ora d’amore col giovane greco.
Rappresentò un semplice diversivo sessuale consumato interamente in quell’ora, senza
strascichi psicologici di alcun tipo, almeno per quanto mi riguarda. Nulla più di una mera
gratificazione di una pulsione improvvisa e momentanea, conclusasi al compiersi stesso
dell’orgasmo. Ma non credere che stia dicendo questo per giustificarmi o attenuare le mie
responsabilità. Ciò che da anni mi divora dentro con i morsi del senso di colpa non può
trovare giustificazioni di sorta. Non è il tormento per averti tradito come partner sessuale,
aspetto, questo, tutto sommato irrilevante per la mia morale. Ma quello per aver tradito il
nostro reciproco impegno alla sincerità. Questo impegno rappresentava un valore - se lo
rappresenti ancora non lo so più con certezza - al quale attribuivo la massima importanza.
115
In questo devi credermi.....ho bisogno che tu mi creda. Era un ideale al quale mi sentivo
tenacemente aggrappata, come si può esserlo con tutto l’entusiasmo giovanile, al pari di
quanto penso lo fossi anche tu.” - (Ti credo Stella, ti credo !) - “Forse è proprio per questo ci ho pensato sopra molto, sai - che l’ho tradito. Ti sembrerà paradossale, ma è proprio per
lasciar sopravvivere quell’ideale che l’ho tradito. Ho stupidamente creduto, quel giorno,
che rivelandoti l’accaduto avrei compromesso il nostro rapporto, e che quindi non avrei più
avuto modo di conservare quel delicato ma affascinante equilibrio che si sosteneva sul
presupposto di un’incondizionata sincerità. Col passare dei giorni capii di aver sbagliato,
capii che a compromettere tutto era stata proprio l’elusione dell’impegno preso. Non ebbi
però più il coraggio di tornare indietro. Ritenni di aver ormai deteriorato irreparabilmente il
nostro rapporto e, di conseguenza, sentii venir meno la fiducia negli ideali perseguiti fino
allora con entusiasmo e convinzione. Niente poteva riscattarmi. Solo l’espiazione della
colpa, in qualche modo, poteva restituire la fiducia in me stessa. Solo la solitudine,
solo.....”
“Non credere di essere l’unica ad avere colpe. Anch’io ho commesso il tuo stesso
identico errore. Non ti parlai, non ti rivelai ciò che avevo visto. Non cercai in alcun modo
di aiutarti a mantenere l’impegno. Impossessato da un ridicolo orgoglio non ti costrinsi con
la sincerità alla sincerità, perché ritenni mi fosse assolutamente dovuta prima di restituirla,
invece che il contrario. Avrei dovuto rivelarti quanto avevo visto, per invogliarti a rivelare
quanto nascondevi. La sincerità
tra persone si costruisce non ritardandone mai
l’applicazione, in una rincorsa continua, di chi vi partecipa a costruirla, per farsene
promotore. Questa, credo, sia la lezione che ho appreso dal fallimento del nostro
esperimento. E anch’io ho voluto espiare con la solitudine la mia colpa. Non potevamo
continuare a stare insieme. Continuare a vederci significava continuare a sputarci in faccia
il nostro fallimento.”
“Enrico.....perdonami !”, si accascia con il corpo sulle mie gambe, singhiozza,
bagna di lacrime i miei pantaloni, trema come una bambina tra le braccia della mamma. Le
accarezzo la nuca.
“Non piangere !”, le dico con voce rotta dal pianto. E le mie lacrime si posano sulle
sue spalle. “Credo di averti già perdonato prima ancora di riuscire a perdonare me stesso.
Per quanto poi ci possa servire il perdono !” Sono affranto, distrutto, commosso, ma non
riesco a trattenere la lucida logorrea che mi ha preso, la voglia di esternare tutto ciò che ho
dentro.
116
“Anzi....ti devo ringraziare. Devo a te, alla tua sincera voglia di sincerità, se torno
ad essere sincero fino in fondo con qualcuno. Davvero Stella ! Guardami.....”, tento di
sollevarle la testa per costringere il suo sguardo ad incrociare il mio. Obbligo le mie labbra
ad un improbabile sorriso tra la pioggia di lacrime, ma ella non ne vuol sapere niente, non
vuol ascoltare niente, nasconde il suo viso tra le mie cosce. “....Guardami Stella.....in fin
dei conti abbiamo vinto la nostra battaglia, con molta sofferenza, mutilando la speranza, la
fiducia, la vita stessa, ma alla fine abbiamo ricongiunto una catena spezzata....”
“E’ la vittoria di Pirro ! Enrico....quanti anni della nostra vita gettati alle ortiche.....”
“E’ vero, troppi morti sul campo di battaglia, ma la posta in gioco era grande.....è
grande ! Forse è necessario conoscere la vertigine del non essere, dell’annientamento, per
tornare ad essere, ad avere fiducia, ad avere speranze. Ora, grazie a te, torno ad avere
fiducia che qualcosa nella vita valga la pena di essere vissuta. Tra le bufere che il tempo ci
tira addosso, qualcosa persiste, riesce a sopravvivere, e finalmente non più solo nel ricordo,
ma nella realtà vera di tutti i giorni. Pensaci, Stella.....abbiamo chiuso un ciclo che ci
sembrava essere stato eternamente interrotto. Abbiamo colmato un vuoto insopportabile.
Ora forse abbiamo espiato le nostre colpe, ora si apre un nuovo ciclo della nostra vita.....”
“Già, abbiamo chiuso un ciclo.....”
Mentre le accarezzo i capelli, i suoi singhiozzi si attenuano e poi cessano del tutto.
Cessa d’incanto anche la mia voglia di coprirla di parole, di verità. Credo di averla detta
tutta la verità, sono esausto e, per la prima volta dopo tanto tempo, appagato. Anche lei
sembra esausta, forse appagata. Si lascia trastullare a lungo dal tocco leggero delle mie
dita. Il vento caldo che ancora soffia, cancella le ultime tracce di bagnato sui nostri volti. E
ci porta piccoli granelli di sabbia, foglie secche di cerro, l’odore selvaggio del limo del
fiume. La densa nuvolosità del cielo rende precoce il calare delle ombre serali. I particolari
in lontananza già non si distinguono più. Il piumaggio pettorale bianco di un uccello, che
vola alto e tranquillo sopra le nostre teste, sfruttando la spinta delle correnti aeree, ridesta la
mia attenzione, risveglia i miei impulsi vitali.
“Guarda là, Stella !”, le indico quella sagoma in cielo. Si solleva di scatto. Sorride.
Finalmente torna a sorridere, di un sorriso ingenuo e fanciullesco.
“Che bello !....Cos’è Enrico ?”
“Un barbagianni.....questo è il loro momento di darsi alla vita, come lo è per tante
altre specie animali.”
117
E’ bello davvero il volo di quell’uccello. E’ bello lo scorrere leggero delle acque,
questo paesaggio di rilievi collinari, il fruscio delle fronde degli alberi smosse dal vento, il
pietrisco calcareo che ancora spicca ovunque nella scarsità di luce serale, questo momento
di abbandono alla deriva della civiltà. Qui insieme a Stella. Alla mia Stella di un tempo che
credevo di aver perso e che ho invece felicemente ritrovato. Cosa potrei mai chiedere di più
bello alla vita ? Ma è tardi, è ormai troppo tardi. Il buio sta sopraggiungendo, è ora di
tornare, è ora di tornare.....
“Stella.......si è fatto tardi. Se non ci muoviamo subito rischiamo di non trovare più
il sentiero di ritorno, al buio. Non possiamo contare sull’aiuto della luce lunare.....”
Lungo il cammino di ritorno non ci scambiamo nemmeno una parola. Una breve
sosta sulla tomba di Cucciolo. Ancora si riesce a leggere l’epigrafe. Fissiamo lo sguardo
sulla tavola incisa. Percepisco la sua voglia di piangere di nuovo, sicuramente pari alla mia.
Ma si trattiene, ed io faccio altrettanto. Non c’è più nemmeno il tempo di piangere.
“Ciao Cucciolo......”, un sussurro portato via dal vento. Solo l’avvistamento di una
volpe, che fugge a piè sospinto verso un qualche rifugio con una preda ben stretta tra i
denti, riesce a strapparci ancora poche parole di commento, ma senza più neanche
l’entusiasmo che in altra occasione ci avremmo di certo speso. Poi più nulla, niente più
parole, non comunichiamo nemmeno con gli sguardi. L’unico messaggio che congiunge le
nostre lunghezze d’onda percettive è, forse, il desiderio reciproco di evitare un sovraccarico
emotivo a quel senso di sfinimento psicofisico, dal quale, alla fine di una giornata così
carica di stimoli e passioni, credo sia inevitabile per entrambi lasciarsi sopraffare. Più
niente durante il percorso in macchina fino in città, fino a sotto casa della madre di Stella.
Arresto la corsa, lei apre lo sportello in una sorta di trance abulico, con gesti di
estrema lentezza. Scende, apre il portellone del portabagagli, ne estrae il suo zainetto, torna
allo sportello anteriore lasciato aperto, si china protendendo il capo verso l’interno
dell’abitacolo. I suoi occhi brillano per un riflesso della luce di un lampione.
“Ciao Enrico.....spero di rivederti in futuro. Con molta probabilità, durante le
festività natalizie o, tutt’al più, durante quelle pasquali, farò ritorno in visita a mia madre, e
per concedermi un periodo di riposo, magari più lungo.....ti troverò ? Ti potrò cercare
ancora ?”
“Mi dovrai assolutamente cercare, se non vuoi che mi offenda...” - riesco a forza a
sorriderle - “...sai dove abito, sai dove lavoro, conosci i miei numeri di telefono di casa e di
ufficio, sempre gli stessi, e dunque.....non avrai scuse per evitarmi.”
118
“Puoi stare tranquillo. Lungi da me l’intenzione di evitarti, dopo la splendida
giornata che abbiamo passato insieme oggi ! Ci sono ancora tante cose che dobbiamo
dirci....non credi ? Inoltre, nei prossimi giorni, riceverai le pubblicazioni del mio gruppo di
lavoro. Pretenderò le tue impressioni dettagliate, quando ci rivedremo. Ci tengo molto.”
“Le avrai senz’altro......a proposito....ti auguro un gran successo professionale, te lo
meriti, ne hai le doti....”
“Oh....grazie, grazie. Esageri sempre coi complimenti....e comunque sono già felice
dei risultati che ho ottenuto, non pretendo di raggiungere chissà quali vette. Tu, piuttosto,
promettimi una cosa : promettimi che farai del tutto per....non morire da impiegato. Tu
meriti davvero molto di più dalla vita. Se insisti sono sicura che riuscirai ad ottenerlo. Non
ti arrendere......me lo prometti ?”
“Sai bene che sono pessimista. Non mi faccio illusioni, la realtà nella quale sono
rimasto intrappolato è assai difficile da scardinare. Ma puoi star certa che la mia volontà di
non piegarmi ad essa, non verrà mai meno. Poi, l’incontro che ho avuto con te, di certo
ricaricherà il mio entusiasmo, che ultimamente, lo confesso, si era un po’ affievolito. Sento
già di aver ripreso fiducia nella vita. Qualcosa di buono, magari alla lunga e dopo molte
sofferenze, riescono a produrlo i nostri sforzi. Oggi ne abbiamo avuto una prova. Puoi star
certa......non mollerò.”
Alcuni attimi di silenzio, di panico. I nostri sguardi rimangono incollati l’uno
all’altro. Non vorrebbero più staccarsi. Lei sorride per non piangere, io faccio altrettanto.
Poi.....
“Allora.....ciao, Stella.”
“Ciao.....Enrico.”
“Ciao.”
Sbatte lo sportello e rimane fuori in piedi immobile. Rilascio la frizione e parto.
Punto in avanti, sempre in avanti......
Addio Stella ! Ora so che non ti vedrò più. Mi hai ridato coraggio, un grande
coraggio. Ora, tutto sommato, mi fa un po’ meno paura persino morire da impiegato.
119
CAPITOLO VIII
“BLOWING IN THE WIND”
Questa mattina ho preso coraggio e glielo detto. Era ormai divenuto da tempo un
chiodo fisso. Me ne volevo assolutamente liberare. Non che Francesca costituisca per me
un oggetto del desiderio di particolare significato. Tanto meno perseguo finalità, come si
suole dire, “serie” e di lungo periodo che in qualche modo possano coinvolgere la sua
persona. E’ un oggetto del desiderio nudo e crudo, nel senso letterale del termine, senza
altre prerogative, della medesima rilevanza con la quale l’oggetto donna infinite altre volte
ha stuzzicato la mia libido. Col passare degli anni si è verificato un progressivo
inaridimento dell’aspettativa sentimentale, e soprattutto spirituale, nei confronti dell’altro
sesso, che pure avevo intensamente cullato in età adolescenziale e oltre, come credo sia
normale per tutti gli esseri mortali in questo periodo della vita. E’ vero, ogni tanto torna a
farmi visita quell’angelo del passato, la dolce Mary delle mie passioni giovanili. Ma sono
cosciente - come potrei non esserlo - che rappresenta in gran parte solo un residuo
immaturo e fantastico della mia storia, un modello immaginario di amore, un idealtipo
senza alcuna rispondenza alla realtà che ho di fronte tutti i giorni. E’ fuor di dubbio che la
svolta decisiva in questo senso - ovvero nel senso di un progressivo disincantamento delle
mie aspirazioni amorose - si è prodotta nella dolorosa risoluzione del rapporto con Stella.
Ma a farmi via via arenare nelle sabbie di questo deserto privo di sentimenti, ha contribuito
anche l’esperienza della “pochezza”, dell’inconsistenza, della superficialità delle relazioni
che ho intrattenuto con tutte le altre donne conosciute. Una dopo l’altra, queste relazioni,
hanno sfiancato la fragile disposizione idealistica di gioventù, hanno bruciato anche la più
tenue speranza di poter coltivare altri interessi per le donne, oltre quello per la mera
gratificazione sessuale. Un pessimismo senza rimedio si è così impadronito della mia
anima, se ancora anima c’è. Alla faccia del femminismo, molti potrebbero pensare, il quale
sembrerebbe aver restituito alla donna la dignità di “soggetto” al pari dell’uomo,
consentendole di svincolarsi dal ruolo di semplice oggetto del desiderio sessuale, nel quale
erano state da sempre relegate.
Nella realtà dei fatti, nel piccolo della mia esperienza di vita, ho conosciuto
pochissime donne che si sono lasciate desiderare per scopi diversi da quelli sessuali. Non
penso di essere stato sfortunato. Al contrario, ho l’impressione, direi quasi la convinzione,
120
di potermi ritenere veramente fortunato se solo riuscissi a provare, almeno una volta
ancora, avvincenti emozioni sentimentali per l’altro sesso. Mi sono fatto una precisa idea in
proposito. Molto spesso le donne, per farsi spazio nella società, o semplicemente per
assicurarsi condizioni di vita di agiatezza, sfruttano la propria capacità di attrazione
sessuale nei confronti del maschio come arma principale, sicuramente come l’arma più
efficace della quale dispongono. D’altronde è scarso l’impegno, in termini psico-fisici, che
essa richiede per essere utilizzata. Occorre solo superare certi scrupoli morali, impiegare un
po’ d’astuzia per aggirare le trappole maschiliste che potrebbero condannare al pubblico
ostracismo (venire additate come puttane), e mettere in campo una discreta dose di
ambizione. Questo armamentario comportamentale è adottabile da qualunque donna con
minimo dispendio di energie, almeno in confronto a quello richiesto per costruire, affinare
e riuscire ad affermare le proprie capacità umane, artistiche, professionali in una società
cruentamente competitiva, ancora dominata e controllata dal maschio. Volerlo e saperlo
adottare, potrebbe consentire un rapido accesso alle “porte del paradiso”, alla sicurezza e
alla protezione, al privilegio e al successo. A me pare che tantissime donne prediligano
tuttora, nonostante il femminismo, questa scelta, vuoi per comodità, vuoi per supino
adattamento, irrazionale e acritico adeguamento alla norma non detta e non scritta, vuoi
spesso anche per cinico, freddo e arrivistico calcolo razionale. Fatto sta che è ormai da un
bel pezzo che ho smesso di sognare l’incontro con la compagna della mia vita, che prima di
addormentarmi sotto le coperte non riesco ad inventare favolose visioni di amori
travolgenti. La disillusione ha lentamente preso il sopravvento, mi ha tarpato le ali del
sogno. Ma forse questo è anche il sintomo non rimandabile di una vecchiaia incipiente.
Francesca non fa certo eccezione a questa casistica. Ella rappresenta dunque il mio
oggetto sessuale del momento. E’ un’attraente donna di 38 anni che, nella sua condizione
di divorziata senza prole, incentiva in me lussuriosi, quanto ovvi, desideri e propositi
erotici di conquista. Tanto più che penso, o meglio, l’ho pensato fino a stamattina, di non
risultarle affatto indifferente. Da quando, su sua richiesta, è stata trasferita nel settore in cui
opero, e cioè da circa un anno, occupando il vano contiguo al mio rimasto sgombro, sono
capitate tantissime occasioni nelle quali ho captato distintamente segnali, come dire, di
“disponibilità”. Quaranta anni di vita mi hanno ben insegnato a comprendere come certi
sguardi, certi atteggiamenti, certe prese di contatto malamente mascherate, significhino
assai più di quel che vorrebbero apparire ; anche se si è trattato di disponibilità a lasciarsi
corteggiare, giammai trasformatasi in esplicita rivelazione del desiderio. E’ quella forma di
121
comunicazione implicita, non verbale, prigioniera di se stessa, ipocrita, con la quale molte
persone, soprattutto donne, “manifestano” voglie inconfessabili, richiamando l’altrui
attenzione, ma sottraendosi nel medesimo istante alle responsabilità verso le eventuali
conseguenze che ne potrebbero scaturire.
Proprio l’esatto opposto del modo in cui comunicava con me la piccola Mary, o
meglio, di quel modello di comportamento che ho idealizzato. Infatti, non potrei mai dire,
in tutta onestà, che quel suo adorabile carattere non fosse anche, o soltanto, il frutto
immaginario di una mia sublimazione inconscia. Mi sembra di ricordare, così desidero
ricordarlo, il suo sguardo imbarazzato, la sua timidezza, il suo autentico nascondimento di
sé, che, invariabilmente, tramutavano subito dopo in completo e incondizionato abbandono
ad una libera espressione del desiderio (oh ....mia cara, libera Mary !). Comunque sia, rare
volte ho potuto apprezzare in una donna un comportamento del genere o, quanto meno, una
qualche forma di rispondenza e consequenzialità dell’agire, dell’essere, al volere e al
desiderare intimamente custoditi e, spesso, comunicati solo mediante insopprimibili
meccanismi primitivi di segnalazione. Mi viene in mente sempre e soltanto Stella.
Certo anche quella “disponibilità” limitata, comunicata ma non espressa in forma
esplicita, produce l’effetto di accendere il desiderio del soggetto cui è rivolta. Ma in me ha
sempre anche prodotto incertezza, incapacità di decisione, tanto che, nella maggior parte
dei casi sperimentati, ho finito per abbandonare ogni proposito. Talvolta, dopo molta
ritrosia, ho tentato l’approccio, ottenendo per lo più effetti fallimentari, forse perché tardivo
e poco convincente, o anche goffo e di una ridicolezza scoraggiante. D’altronde so
abbastanza bene di non possedere le qualità estetiche e comportamentali del “play boy”.
Poco male, considerato che non ha mai fatto parte delle mie aspirazioni quella di poterlo
diventare, anche se ho sempre apprezzato la più libera e disinibita giocosità nei rapporti tra
i sessi.
Ormai l’indecisione a farmi avanti, a tentare un’avventura sessuale con Francesca,
perdura da mesi e, tenuto conto del fatto che il passare del tempo ha sempre giocato a mio
sfavore, mi sono riproposto di darci un taglio. Questa mattina, nonostante un certo
malessere generale avvertito appena destato, un senso di spossatezza e debolezza in tutto il
corpo - una probabile influenza in arrivo o forse l’accumulo di stanchezza dovuta ad una
perdurante insonnia - ho rotto l’indecisione. Vada come vada, mi sono detto, la inviterò ad
uscire nel pomeriggio con me, magari per un’escursione all’aperto.....alla faggeta.....perché
no ? E’ davvero incantevole il suo austero silenzio invernale e persino idoneo per attuare
122
con discrezione e indisturbatamente i miei scopi. Chissà cosa ne penserà delle passeggiate
nei boschi, mi sono chiesto ! Tant’è che non sapevo proprio quale altro intrattenimento
offrirle, dato che è da moltissimi anni che ho smesso di frequentare qualsivoglia locale
pubblico e, pertanto, ho pensato che, accompagnandola in uno dei tanti ritrovi della città,
mi sarei sentito sicuramente a disagio, come un pesce fuor d’acqua, con il rischio di
risultare noioso e inconcludente. No, meglio la faggeta, ho optato per questa soluzione,
confidando così di poter anche appurare il suo livello di sensibilità per la natura (per la
verità non ha mai manifestato peculiari inclinazioni in tal senso).
Approfittando di una interferenza tra le rispettive competenze di lavoro, in
relazione ad una pratica che sto svolgendo da alcuni giorni, e dell’assiduità con la quale ci
incontriamo per discuterne, le ho proposto una pausa per prendere un caffè nello spaccio
interno della sede amministrativa.
“Sì, ne ho proprio bisogno Enrico, oggi mi sento poco lucida.”
A chi lo dici ! Ho pensato dentro di me, riflettendo sullo stato di spossatezza
crescente che mi trascinavo addosso dal primo mattino.
Era appetitosamente sinuosa in quel tailleur colore arancio spento. I suoi affluenti
glutei debordavano provocatoriamente dal piccolo sedile girevole posto davanti al bancone
del bar. La gonna strettissima e le gambe accavallate, scoperte e avvolte da eccitanti calze
nere trasparenti. Teneva il busto eretto ad evidenziare il suo seno ben modellato, sotto una
camicetta bianca col colletto merlettato. Con i gomiti era appoggiata al bancone e mi
fissava tranquilla, mentre esponeva i problemi incontrati nella pratica di lavoro che ci
riguardava. Si è interrotta per alcuni secondi volgendo lo sguardo sulla tazzina,
sorseggiando il caffè. Appena deposta la tazzina, si è di nuovo rivolta verso di me per
continuare il discorso. Il suo gesto repentino mi ha colto impreparato......nel senso che non
avevo fatto in tempo a sollevare lo sguardo puntato sulle sue gambe, prima che lei volgesse
il suo verso di me. Accortasi del fugace abbandono alla sensualità che mi ero concesso ha
abbassato le palpebre, fingendo di guardare a terra e di conservare disinvoltura
nell’esposizione degli argomenti. Si è dimostrata abile nel non lasciarsi disorientare più di
tanto, ha alzato di nuovo gli occhi, ha proseguito imperterrita a parlare, ostentando
sicurezza, soprattutto quando si è resa conto dell’imbarazzo che di certo imperversava sul
mio volto. Mi sentivo un idiota. Perché avevo lasciato trapelare il mio desiderio, ma
soprattutto perché avevo manifestato di vergognarmi del desiderio, e poi di vergognarmi
della vergogna stessa. Ma perché poi vergognarsi di palesare i propri desideri ? Perché è
123
così difficile trovarsi, nell’agire, in sintonia con il sentire, con il provare emozioni, con il
desiderare ? Ho sempre odiato questa incapacità, comune un po’ a tutti gli uomini, di
essere coerenti con noi stessi, di essere conseguenti, nei fatti, ai pensieri e ai desideri. Ho
interrotto bruscamente il suo discorso, in un gesto impulsivo di ribellione contro il potere
della timidezza e della soggezione, per dimostrare, tanto a me stesso quanto a Francesca, di
non aver nulla da nascondere, niente di cui vergognarmi. Non ho nemmeno esitato a
soppesare preventivamente le possibili conseguenze di quello che avrei detto.
“Suppongo tu sappia di avere delle bellissime gambe, Francesca, ma non posso fare
a meno di confermartelo. Sei davvero molto sensuale.....eccitante....” Lei ha mostrato un
sorriso di compiacimento, restando però tranquilla, distesa, quasi si aspettasse questa mia
sortita. Comunque è risultato subito chiaro quanto fosse abituata a simili edulcorazioni da
parte degli uomini. Non mi è parso un motivo sufficiente per demordere dall’intento, anzi.
“...E’ difficile, sedendoti accanto, conservare un’assoluta indifferenza....non si può.....non
riesco a far finta di niente !”
“Ti ringrazio per la gentilezza....solo....mi fai sentire un po’ in imbarazzo...” - In
realtà non sembrava affatto imbarazzata, al contrario, ho avuto l’impressione di trovarmi di
fronte ad una commediante che finge imbarazzo e incassa, senza neanche mostrarsene
eccessivamente lusingata, l’ennesimo complimento - “....ti stavo parlando di quella
pratica....ho perso il filo.....dove ero arrivata ?”
Non mi sono soffermato a riflettere - e forse qui ho sbagliato - su questo
atteggiamento sgusciante, mirato probabilmente a scoraggiare un possibile quanto
indesiderato approccio di corteggiamento più spinto. Coltivavo un fermo proposito di
andare avanti fino in fondo, una volta per tutte, e l’opera era ormai quasi compiuta. Così,
sempre d’impulso - certamente alla solita goffa maniera - le ho rivolto l’invito,
impedendole di riprendere il discorso di lavoro.
“Francesca....desidero da molto tempo trascorrere un pomeriggio con te.....che ne
diresti di accompagnarmi oggi in una passeggiata.....non so.....ad esempio potremmo
andare....”
Non mi ha lasciato finire. Dal tono della voce ho finalmente compreso che questo
era il punto al quale ella non avrebbe voluto arrivare, per risparmiarsi un complicato e
gentile diniego. Complicato perché non è facile inventarsi una scusa credibile, così su due
piedi, quando si è impreparati ; gentile perché, evidentemente, non intendeva frapporre
disturbi emotivi di alcun genere nel rapporto di lavoro.
124
“Oh, Enrico......Ti ringrazio anche per l’invito, ma oggi ....e forse per altri
pomeriggi ancora, ho degli impegni con mia sorella.....sai devo recarmi da lei per risolvere
delicati problemi di famiglia. Ti assicuro che sarebbe sconveniente se non andassi....” - Ho
capito che non era assolutamente il caso di insistere - “ ....Forse potrei convincerla a
rinviare l’incontro, ma ti confesso che non nutro molte speranze di riuscirci. E’ così
ostinata e rigida mia sorella ! Ascolta.....facciamo in questo modo : mi metterò in contatto
con lei ed eventualmente riuscissi a convincerla....be’....ti telefonerò subito dopo pranzo. Ti
troverò a casa, no ?”
“Certo....d’accordo.” Mi sono sentito amareggiato e ridicolo. Era difficile
continuare a guardarla negli occhi.
“Bene, allora magari ci sentiamo nel primo pomeriggio.....tornando al discorso di
prima, stavo dicendo che.....”
L’ho lasciata proseguire a parlare senza più interromperla, annuendo di tanto in
tanto, non curandomi nemmeno, tanta poca era la voglia, di capire cosa stava dicendo.
Ora mi sto facendo trasportare, solo ancora una volta, dalla mia station wagon. Non
provo le solite tentazioni diaboliche di spingere il piede sull’acceleratore. E’ ovvio che non
ho certo atteso l’improbabile squillo di telefono a casa. Anche avesse squillato, dopo che
sono uscito, non posso e non mi interessa di saperlo. Francesca è già una storia chiusa,
prima ancora di essere mai stata aperta. Sono depresso, come raramente mi capita quando
sfreccio, frustato dalle note di rock, verso il mio mondo selvaggio. Forse perché - a parte il
“bidone” rifilatomi da Francesca - accuso dalla mattina una debolezza fisica che si sta
accentuando col passare delle ore e che mi procura ora addirittura un certo affanno. Forse
anche perché sto ascoltando con lo stereo, per una precisa, emotiva scelta, non le note
furibonde di un rock duro e graffiante - come faccio di solito all’andata delle mie
escursioni - ma le melodie struggenti e malinconiche che di solito ascolto al ritorno. In
questo momento, ormai giunto nei pressi della vetta del monte Orsola, ammantata dalla sua
stupenda faggeta centenaria, le note di “Blowing in the wind” stanno sbriciolando ogni
mia resistenza inconscia al dolore. Quanti ricordi sono legati a quelle note ! In un
susseguirsi frenetico di immagini e sensazioni mi tornano alla mente alcuni frangenti
inebrianti della mia adolescenza : facce mai più riviste, capelli lunghi, camicie a fiori,
ideali urlati nelle piazze, chitarre strimpellate tra compagni di fede nelle calde notti
d’estate, il fascino della ribellione contro la realtà costituita, le prime minigonne e gli abiti
laceri, i viaggi in “autostop”, lo spinello che, di tiro in tiro, passava sulle labbra fameliche
125
di tutto il gruppo, il mito dell’amore libero, le canzoni di protesta e le prime esperienze
amorose, l’impegno politico e i volantinaggi davanti ai portoni delle scuole, le riunioni e le
assemblee di movimento, le bandiere al vento e i lacrimogeni della polizia e ......via di
seguito in un turbinio inarrestabile. (Ma perché vado a rimestare con insistenza nel
passato ? Perché ho così voglia di riascoltare Bob Dylan ? Perché....).
Per fortuna sono arrivato ! Arresto la macchina, spengo il motore, interrompo gli
strazianti richiami di un’epoca sepolta. Quando apro lo sportello e metto i piedi a terra un
vento freddo e ululante mi investe e mi fa rabbrividire. Abbottono il pesante giaccone
trapuntato e imbottito, sollevo il bavero. Non posso fare a meno di sorridere : nel mio
cervello si è formata l’immagine ridicola di Francesca, inserita in questo contesto, col suo
tailleur colore arancio e gli altissimi tacchi a spillo. (Riesco a vederla solo così aliena dal
mio mondo selvaggio ? Meglio che non sia venuta, avremmo fatto entrambi una figura da
stronzi !) Lascio la macchina solitaria nel parcheggio d’accesso, che solitamente d’estate è
colmo all’inverosimile. Non a caso non scelgo mai questa meta nel periodo caldo e nei
giorni festivi. La confusione prodotta dalle masse di turisti, amanti del picnic all’aria
aperta, distrugge l’incantesimo di questo meraviglioso bosco. D’altronde assai raramente
cerco compagnia per le mie escursioni. E’ da solo che in simili ambienti riesco a godere
degli elementi che ne compongono lo scenario, quando non sono distratto e disturbato da
condizionamenti del mondo civile. E di buoni compagni che sappiano non provocare
disturbo ne ho conosciuti pochi.
Mi incammino lungo il sentiero che si arrampica fino alla sommità. Se non fossi
così a terra fisicamente, sarebbe una giornata ideale per godere del fascino del luogo. Il
cielo è di una nuvolosità compatta e plumbea. Un forte vento di ponente impedisce la
caduta della pioggia. Le improvvise folate di vento, con la loro violenza, piegano le cime
alte dei grandiosi faggi ormai completamente spogli, e le foglie secche si sollevano da
terra, formando qua e là dei mulinelli. Queste folate emettono un urlo terribile, che non
spezza però l’atmosfera silenziosa del luogo, al contrario, la rinforza per contrasto,
conferisce ad essa un’austerità misteriosa, a tratti spaventosa. Rimane da sfruttare appena
un’ora e mezza di scarsa luce, mentre arranco per il sentiero. I miei passi, incredibilmente
stanchi, affondano nel tappeto di foglie che si è formato ovunque. Non un uccello si sente
cantare o si scorge in volo. Nessun insetto si vede a terra o sulla corteccia argentea dei
grandiosi fusti di faggio. Non avverto la presenza di alcun animale. Uno scenario, questo,
del tutto scontato, considerato il luogo e il periodo, sempre tristemente lugubre. Spesse
126
volte, quando mi ritrovo qui, al primo impatto mi sento stringere in una morsa oppressiva,
quasi asfissiante, a tal punto che ho l’impulso di scappare. Poi, al posto dell’angustia,
subentra invariabilmente un’attrazione fatalistica. Ho come la percezione di dover subire
una condanna, dalla quale non posso né voglio sfuggire, sento il bisogno di espiare una
sorta di punizione, piovuta addosso per un’inspiegabile ragione, di concedermi ad essa
senza tentennamenti. E’ un desiderio perverso di consegnare l’anima al dolore, invece che
di proiettarla alla ricerca della gioia e della felicità, come normalmente accade. Ma cosa è
normale, cosa è perverso ? Ogni volta mi domando. Quella dimensione terrificante è mia,
alberga da sempre dentro di me, inutile nasconderla. E’ normale eludere e perverso
appropriarsi di ciò che esiste in noi ? In ogni caso, non voglio sfuggire a quel contatto
malefico, ora più che mai sto scivolando inarrestabilmente verso di esso, fino in fondo.
Continuo a salire, i passi sempre più lenti, la gambe sempre più pesanti. Il forte
vento aiuta a spingere aria nei miei polmoni. Immensi ammassi di roccia lavica costeggiano
il sentiero e compongono un aspro, duro paesaggio, su fino alla vetta estrema. Il colore
grigio scuro della roccia, interrotto a tratti dal verde del muschio e del lichene, gli anfratti,
le asperità, le cavità più o meno profonde, le erosioni prodotte dagli agenti atmosferici sulla
pietra in infinite e spettacolari forme, si apparentano, senza soluzione di continuità, con la
cupa atmosfera del bosco. Quante volte mi sono arrampicato su quelle rocce, scrutandone i
più reconditi nascondigli alla ricerca di tracce animali ! La tentazione di ripetermi è forte,
ma è altrettanto forte la debolezza che provo, da scoraggiarmi e costringermi alla rinuncia.
Ora avverto anche un dolore al petto. Mi fermo a riprendere fiato - sarà l’aria che
inspiro a grosse boccate.....un’aria così fredda....in città era tutt’altra cosa. Pochi secondi,
solo pochi secondi, che attenuano ma non fanno cessare completamente l’affanno e il
dolore al petto, e riprendo a camminare. (Voglio arrivare....devo arrivare alla vetta !) La
pesantezza nelle gambe sta diventando insostenibile, le trascino per la volontà quasi
disperata di arrivare, è come se trascinassi dei pesanti macigni attaccati alle caviglie. I rami
alti degli alberi sbattono l’uno contro l’altro, crepitano, i più secchi si spezzano, cadono sul
manto fogliare producendo tonfi ovattati. Il cielo è sempre più scuro, la visibilità si è
ridotta sensibilmente. Gli enormi spazi aperti, vuoti, privi di arbusti e di sottobosco,
formano declivi, ondulazioni e avvallamenti del terreno a perdita d’occhio, dove solo i
maestosi tronchi di faggio si ergono, con le loro sagome spettrali. Pochi ma ben visibili
giganteschi fusti sono distesi a terra, con le radici divelte, rivolte al cielo, che hanno
lasciato grosse buche nel terreno, là dove prima, per centinaia d’anni, alloggiavano
127
saldamente. Poi anche qualche fusto funereamente troncato a metà, con la parte ancora
eretta tempestata di mensole fungine lignee. Sembra incredibile, ma anche su questi vetusti
giganti si abbatte impietosa, prima o poi, la fine. Forse un timore reverenziale ha, per il
momento, frenato la brama umana di impossessarsene per scopi speculativi. La
pregevolezza del legno di faggio è notoria. Eppure, non so per quanto ancora, ma questi
colossi inerti sono qui a lasciarsi consumare lentamente dalla pioggia, dal vento, dai morsi
dei parassiti. Non ho la forza nemmeno di abbandonarmi alla commozione che, di solito,
mi prende dinanzi ad una così vistosa dimostrazione di caducità.
Una terribile folata di vento mi getta addosso foglie, polvere e altre particelle di
humus. Chiudo gli occhi per proteggerli ed espongo la nuca al potente flusso d’aria. Il
dolore al petto è persistente, adesso è divenuto acuto. Vi appoggio il palmo della mano
destra, mentre con le labbra spalancate tento di catturare quell’ossigeno di cui ormai
percepisco un’eclatante insufficienza. Sento delle vampe di calore al volto e cado in balia
del panico (non ce la faccio....debbo fermarmi ! Cos’è questo dolore ?). Mi accascio a terra
sedendo accanto ad un fusto di faggio, sul quale appoggio a peso morto prima la schiena,
poi la testa. Il dolore al torace è potente, quasi irresistibile, aggrotto le sopracciglia, la
bocca sempre aperta per pompare, ma invano, ossigeno, in una smorfia di spavento. Il
vento continua a fischiarmi nelle orecchie, ma il sibilo mi giunge attenuato, quasi fosse
lontano, quasi fosse quello di un leggero alito. Dei flash, delle immagini......delle voci.......
“Enrico.....passami la palla !”. Il sole è accecante, cocente, in una giornata d’estate che non
vuol finire mai... “...giochiamo con le cerbottane...dai, facciamo la guerra....noi tre
contro.....” Che bello ! Che magnifica, travolgente sensazione di deja vu ! Corro con i
compagni nei vicoli del quartiere e sento di essere invincibile. “Ascolta che tuoni !” Una
pioggia impetuosa si abbatte sul mio piccolo mondo, i lampi squarciano il cielo, i vetri
della finestra vibrano al seguito delle scariche assordanti, e io rido, rido tranquillo insieme
a mia sorella al di qua di quei vetri, dietro un riparo indistruttibile. “Guarda quante
lucciole....inseguiamole !”, mille lumicini intermittenti ondeggiano frenetici tra le siepi del
giardino, in quella tiepida, incantevole notte delle notti. E anche la paura....che bello
lasciarsi afferrare da quella paura, e piangere, perché so già chi senza ombra di dubbio
saprà scacciarla via... “..mamma....guarda come sanguino dal ginocchio...”, “...non ti
preoccupare caro, non è niente, ora ti medico la ferita e passa tutto...” “Mamma.....dove
sei ?”
128
Ora non odo più rumori, non odo più voci, non avverto più alcun dolore, né fisico,
né mentale. Sono in un’estasi senza fine e senza tempo. E non ho più paura, non ho più
alcun motivo di aver paura (ora so che cosa voglio....so che cosa ho rincorso per tanto
tempo....so cosa sto cercando !). Davanti a me ci sono prati coperti di fiori, quanti fiori !
Uccelli che volano, animali che saltano, serpenti che strisciano, alberi enormi, foglie che
vibrano, fiumi che scorrono....i monti....il cielo..... “...mi...vorrete...con voi.... ?...mi
sentite.....come uno di voi .... ?”
Nessuno risponde. Tutto è silenzio. Ma io sorrido, ho voglia di sorridere.
“Mamma.....dove sei ?....Stammi vicina....”
Solo il vento riesco a percepire, una carezza interminabile tra i capelli, le sue note
melodiose che sussurrano : “Abbi coraggio, la verità soffia con me....abbracciala !”
Ancora uno sforzo, tendo le braccia, e il vento mi porta via con sé.
129