La missione Mars Phoenix ha risvegliato le speranze di
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La missione Mars Phoenix ha risvegliato le speranze di
planetologia Scavando su Marte La missione Mars Phoenix ha risvegliato le speranze di abitabilità del pianeta, aprendo la strada alle nuove osservazioni del rover Curiosity, lanciato a novembre di Peter H. Smith In questa immagine panoramica del sito di atterraggio di Mars Phoenix si vede una delle due schiere di pannelli solari e, dietro di essa, le forme poligonali del suolo che, su Marte come sulla Terra, sono indicative della presenza di permafrost. 32 Le Scienze Scrutando sotto di sé una settimana dopo l’atterraggio, Mars Phoenix ha individuato levigate chiazze bianche, presumibilmente costituite da ghiaccio d’acqua esposto dagli scarichi dei motori che hanno allontanato la polvere. (Il primo piano è distorto. La superficie su cui poggia Phoenix è quasi piana.) Peter H. Smith è professore di scienze planetarie all’Università dell’Arizona. Ha partecipato ad alcune delle più celebri missioni di esplorazione planetaria, dalla missione Pioneer 11 ai rover Sojourner, Spirit e Opportunity. Nel 2010 la NASA gli ha conferito la Exceptional Scientific Achievement Medal. niche, e a maggior ragione di microrganismi quiescenti. La super ficie era resa sterile da forti ossidanti come il perossido di idroge no e l’intensa radiazione ultravioletta. Per la maggior parte degli scienziati, la ricerca della vita su Marte cominciò e finì con le mis sioni Viking. Come riconciliare questa sconfortante valutazione con le in dubbie meraviglie del pianeta? La risposta potrebbe venire da Phoenix. I suoi esperimenti chimici sul suolo marziano, i primi do po quelli dei Viking, suggeriscono un’interpretazione alternativa di quei risultati nulli: forse i Viking non hanno rilevato molecole organiche perché le tecniche di analisi impiegate le avevano inav vertitamente distrutte. Phoenix ha scoperto inoltre ghiaccio d’ac qua prossimo alla superficie, la cui esistenza era stata ipotizzata dai planetologi ma mai dimostrata. Il nostro vicino planetario po trebbe non essere arido e desolato, ma forse tuttora abitabile. Il momento attuale, in cui si cominciano a valutare pienamen te le implicazioni di queste scoperte e un’altra sonda è in viaggio verso Marte, sembra il migliore per ripercorrere l’alterno cammi no, tecnico ed emotivo, dell’organizzazione di una missione inter planetaria, e per raccontare come Phoenix abbia rischiato di non prendere mai il volo. Non accade tutti i giorni di sentirsi offrire per telefono una son da gratis; ma all’inizio del 2002 alcuni scienziati dell’Ames Re search Center della NASA mi fecero esattamente questa proposta. Mi ricordarono che un contenitore di 3 metri di lato depositato in una camera pulita negli stabilimenti della Lockheed Martin a Den ver racchiudeva una sonda Surveyor mai utilizzata. Avrebbe do vuto essere lanciata nel 2001, ma la NASA annullò il volo dopo che il veicolo gemello, il Mars Polar Lander, era andato distrutto durante l’atterraggio, nel dicembre 1999. L’incidente fu un colpo durissimo per l’agenzia, poiché si verificò appena poche settima ne dopo che un’altra navicella della NASA, il Mars Climate Orbiter era scomparsa – presumibilmente anch’essa distrutta – durante la manovra di inserimento in orbita. Anche per me fu una grave de lusione, dato che ero a capo del gruppo che aveva progettato e co struito la fotocamera del lander. Gli scienziati dell’Ames volevano rispolverare la sonda, inclu dendola nel nuovo programma Scout della NASA e mi chiesero di assumere il ruolo di responsabile scientifico. Stupefatto, esitai. Da oltre dieci anni mi occupavo di esplorazione planetaria, e la neces sità di continui viaggi, riunioni senza fine e telefonate incessan ti aveva perso la propria attrattiva e mi impediva di dedicarmi alle ricerche scientifiche che rappresentano la mia vocazione. In breve Il Mars Science Laboratory – che raggiungerà Marte ad agosto – è dotato degli strumenti di analisi della superficie più perfezionati mai inviati su Marte. 34 Le Scienze Gli obiettivi della sua ricerca sono stati in parte determinati dalla missione Mars Phoenix del 2008, che ha rivelato che il suolo marziano potrebbe non essere ostile alla vita, al contrario di quanto indicato nel 1976 dalle sonde Viking. Oltre ad aver individuato composti che gli studiosi avevano ipotizzato, ma mai osservato direttamente – come ghiaccio d’acqua sotto la superficie e carbonato di calcio – Phoenix ha compiuto alcune scoperte inattese, tra cui perclorati e fiocchi di neve. 522 febbraio 2012 Cortesia Kenneth Kremer e Marco Di Lorenzo NASA/JPL/UA/Max-Planck-Institut Dalle ceneri NASA/JPL-Caltech, Università dell’Arizona e Texas A&M University (pagine precedenti) I l 26 novembre 2011 la NASA ha lanciato la più am biziosa tra le missioni finora dirette al Pianeta Ros so: il Mars Science Laboratory. Dopo uno spettacola re atterraggio nel cratere Gale, che utilizzerà una «gru spaziale» nel tratto finale della discesa, il rover, ali mentato da un piccolo reattore nucleare, esplorerà uno dei più ricchi depositi di argille e solfati presenti sulla superficie del pianeta, testimonianza di un’epoca in cui l’ac qua era abbondante e i fiumi incidevano sistemi di valli. Battezzato Curiosity, il rover, delle dimensioni di un’utilitaria, dedicherà un anno marziano all’esplorazione della base del pic co centrale del cratere, che si ritiene sia la zona più antica. Poi, se la NASA approverà il proseguimento della missione, Curiosity co mincerà ad arrampicarsi sul rilievo alto cinque chilometri che oc cupa il centro del cratere, risalendo la scala dei tempi geologici verso i depositi di epoca moderna ed esaminando strato per stra to i minerali associati alla presenza d’acqua. Grazie al suo braccio robotico potrà prelevare campioni e trasferirli, attraverso il portel lo superiore, nel laboratorio chimico che ha a bordo, dove verrà analizzata la struttura dei minerali e saranno determinati gli ele menti che li compongono. Gli strumenti del laboratorio sono in grado di rivelare anche la presenza di composti organici e cerche ranno di stabilire se Marte sia mai stato abitabile. Il Mars Science Laboratory è il successivo passo logico nella se rie di missioni verso il Pianeta Rosso realizzate negli ultimi 15 an ni e prende le mosse dai risultati dei rover Sojourner, Spirit e Op portunity e del più recente Phoenix. Insieme a una serie di moduli orbitanti, queste missioni hanno rivelato un pianeta dalla notevo le complessità e dalla storia intricata, che include un periodo ca ratterizzato da piogge e dalla presenza di laghi (si veda l’articolo I fiumi di Marte, di Jim Bell, in «Le Scienze» n. 462, febbraio 2007). Anche nella sua attuale condizione di aridità e gelo, il pianeta mostra segni di attività. Tra le scoperte più entusiasmanti ed enig matiche vi è la possibile presenza di tracce di metano gassoso al di sopra della regione Nili Fossae. I planetologi discutono se il gas – qualora la sua esistenza venga confermata – abbia un’origine geo logica o biologica (si veda l’articolo Il mistero del metano su Marte e Titano, di Sushil K. Atreya, in «le Scienze» n. 468, agosto 2007). La spiegazione più immediata delle striature superficiali osservate nel 2011 dal Mars Reconaissance Orbiter è la fuoriuscita stagionale di acqua salmastra. A controbilanciare tutte queste straordinarie scoperte vi sono le scoraggianti conclusioni dei due lander Viking, che nel 1976 ci hanno mostrato un pianeta eccezionalmente ostile per qualsiasi organismo vivente. Il suolo era privo di acqua e di molecole orga Inoltre, in quella fase il progetto non aveva finanziamenti, nes suno che si occupasse delle procedure di approvazione, nessun so stegno da grandi istituzioni e mancavano solo pochi mesi alla da ta limite per sottoporre la proposta di missione. Tuttavia sentivo dentro di me il desiderio di guidare un gruppo che scoprisse i ma gici indizi e sciogliesse i lacci aggrovigliati che imprigionavano la scienza marziana. In cuor mio, non avevo mai creduto ai risultati dei lander Viking. Come era possibile che non avessero individua to alcuna molecola organica? Forse una nuova missione adegua tamente progettata avrebbe svelato dove si nascondessero quel le molecole? Per due settimane dibattei con me stesso. Dovevo trovare obiet tivi scientifici significativi. La sonda Surveyor era stata progettata per atterrare presso l’equatore, raccogliere campioni di suolo con un braccio robotico e far scendere sulla superficie un piccolo ro ver che analizzasse le rocce nei dintorni. La sonda trasportava an che strumenti scientifici in preparazione di una successiva mis sione umana. Con il budget del programma Scout non potevamo permetterci di trasportare il rover e non dovevamo preparare alcu na missione umana. Perciò potevamo inserire nuovi strumenti al posto dei vecchi, ma la loro scelta dipendeva dagli obiettivi scien tifici fondamentali, che al momento restavano indefiniti. A questo punto, con un tempismo stupefacente, un mio col lega dell’Università dell’Arizona, William Boynton, annunciò la scoperta di ghiaccio d’acqua prossimo alla superficie intorno al la calotta polare meridionale di Marte. Boynton dirigeva il grup po che aveva costruito e gestiva lo spettrometro gamma a bor do dell’orbiter Mars Odyssey; lo strumento rileva non solo raggi gamma, ma anche neutroni, permettendo di determinare la con centrazione di idrogeno nei primi metri di profondità del suolo. Lo www.lescienze.it spettrometro aveva individuato anche indizi della presenza d’ac qua nelle pianure settentrionali, tra cui una piccola zona di suolo ricco di ghiaccio d’acqua situata in corrispondenza della massima estensione invernale della calotta di ghiaccio di anidride carboni ca. (Questa calotta si espande e si ritira con il cambiare delle sta gioni.) Tracciai una X su quel punto nella mia mappa di Marte e immediatamente cominciai a scegliere strumenti che permettesse ro di approfondire le indagini. Anche sulla Terra esiste una zona simile di permafrost che cir conda la regione artica. È il «congelatore» del nostro pianeta e pre serva testimonianze di tutti gli organismi che vissero in quella zo na. Il ghiaccio può avere un’età di centinaia di migliaia di anni. Nel corso di una conferenza sulle regioni polari di Marte avevo appreso che Eske Willerslev dell’Università di Copenhagen aveva eseguito analisi del DNA contenuto in campioni di ghiaccio del la Groenlandia e di permafrost siberiano e aveva individuato una grande diversità di piante, animali e microrganismi. Poteva acca dere la stessa cosa per Marte, dove il ghiaccio potrebbe essere anti co di molti milioni di anni? Organizzai una collaborazione tra l’Università dell’Arizona, il Jet Propulsion Laboratory della NASA e la Lockheed Martin. Bat tezzammo la missione Phoenix perché stavamo riportando in vi ta, come il mitico uccello, la defunta missione Surveyor. Iniziò co sì un estenuante periodo di un anno e mezzo trascorso stendendo proposte di missione in concorrenza con altri 20 progetti, che cul minò in una visita di otto ore da parte del comitato di valutazio ne della NASA. Nell’agosto 2003 la NASA decise che la nostra sarebbe stata la prima missione Scout su Marte. La data di lancio, prevista nell’a gosto 2007, ci concedeva quattro anni di preparativi. Le Scienze 35 Estraemmo la sonda dal suo involucro. Assomigliava a una gi gantesca farfalla, con il corpo irto di strumenti scientifici e i due grandi pannelli solari che sembravano ali distese. Poggiava su tre sostegni e l’unica appendice – il braccio robotico – spuntava da un lato. I quattro anni successivi furono dedicati a esaminare, riproget tare, riesaminare e verificare, in cerca dei difetti progettuali che avevano causato la distruzione del veicolo gemello. In totale, i tecnici della Lockheed Martin e del JPL trovarono circa 25 difet ti gravi. Per quanto potesse essere arduo rintracciare tutti questi «bachi», era comunque più semplice e meno costoso che costruire da zero una nuova sonda, operazione peraltro non priva di rischi. La maggior parte degli inconvenienti fu risolta abbastanza facil mente aggiungendo riscaldatori, riducendo la grandezza del para cadute, irrobustendo la struttura. Alcuni richiesero modifiche del software. Ma uno dei difetti fu tutt’altro che semplice da indivi duare e correggere. Il radar di atterraggio era un’unità proveniente da un caccia mi litare F-16 della fine degli anni novanta. Quando effettuammo prove di discesa nel deserto del Mojave, il sistema commise errori critici nel calcolo della quota e perse dati in momenti inopportuni. Consultammo Honeywell, che aveva realizzato il radar, per cercare di capire come funzionasse esattamente. Nonostante la buona volontà dei costruttori, però, il model lo era obsoleto e nessuno se ne occupava più, i progettisti ave vano lasciato l’azienda e la documentazione era frammentaria. Formammo allora un gruppo dedicato di tecnici provenienti da Lockheed Martin, JPL, Honeywell e NASA Langley Space Center. Combinando simulazioni al computer e ulteriori test, il gruppo si fece lentamente strada in un labirinto di anomalie per correggere i difetti. Nell’ottobre 2006 un test diede risultati positivi. Sembra va tutto a posto. Poi le nostre speranze furono nuovamente frustrate. Scoprim mo che i riflessi dello scudo termico al momento del distacco po tevano confondere il radar e provocare un grave errore di calcolo della quota. Anche le antenne e i commutatori si rivelarono faci li ai guasti. Sembrava che i guai non avessero mai fine. Nel mese di febbraio 2007, soltanto cinque mesi prima del momento previ sto per montare la sonda sul veicolo di lancio, avevamo 65 ano malie sotto indagine. Senza un radar affidabile, il lancio era in dubbio. I comitati di valutazione della NASA seguivano da vicino la situazione, piutto sto preoccupati del fatto che continuassimo a scoprire nuove pos sibilità di guasti. D’altra parte la gravità delle anomalie si andava riducendo. In giugno riuscimmo a convincere i comitati di valuta zione e i dirigenti della NASA addetti alla missione che i rischi ri manenti erano accettabili. Era comunque un azzardo. Se continua vamo a trovare punti deboli alla vigilia del lancio, era possibile che altri rimanessero nascosti nel sistema. Nell’agosto 2007 terminammo gli ultimi test presso il Kennedy Space Center e ci preparammo a installare la sonda sul lanciatore Delta-2. A questo punto vi fu un momento che vorrei poter dimen ticare. Mentre la gru sollevava il veicolo verso la sommità del raz zo, alto circa 40 metri, scoppiò un furioso temporale con continui fulmini e le norme di sicurezza costrinsero i tecnici a evacuare la torretta. La sonda, i cui delicati componenti elettronici erano scar samente protetti, rimase a penzolare a 20 metri dal suolo nel bel mezzo di una terribile tempesta. Dopo il temporale riportammo la sonda nell’edificio di assem blaggio e disperatamente cominciammo a verificare i danni. E per miracolo non ne trovammo. Phoenix prende il volo Steve Lee, Università del Colorado, Jim Bell, Cornell University, Mike Wolff, Space Science Institute e Nasa (mappa di Marte) Ansie da radar Il conto alla rovescia cominciò nelle prime ore del 4 agosto. Uscii dall’asettico riparo della sala di controllo per vedere il lancio con i miei occhi. Erano le 5:15 e le stelle si scorgevano con chia rezza. Marte splendeva invitante in direzione est. All’improvviso gli edifici si illuminarono come se stesse sorgendo il Sole. e il lan ciatore si alzò silenziosamente nel cielo; per alcuni secondi la luce fu così intensa da permettere di leggere e percepire i colori. Trenta secondi dopo, il rombo del lancio mi raggiunse e le onde di pres sione generate al momento del decollo mi compressero il torace. I sei razzi a combustibile solido furono sganciati e precipitarono nell’Atlantico in una pioggia di scintille, dopodiché gli ultimi tre razzi si accesero. Phoenix era partito. Solo allora mi accorsi che per tutto quel tempo avevo trattenuto il respiro. Il lancio durò due minuti, dopo i quali nel cielo di nuovo buio restò solo la scia di vapore. Tornammo nella sala di controllo per uno spuntino e una tazza di caffè. Tenendo in mano un tortino, uscii di nuovo per vedere il sorgere del Sole. Nel cielo stava acca dendo qualcosa di strano. Impiegai alcuni istanti per accorgerme ne. La scia di vapore lasciata dai razzi si muoveva per effetto dei venti stratosferici, illuminata dal Sole nascente. E in quel momen to ebbi un sussulto: aveva esattamente la forma della mitica Feni ce. Distinguevo il becco e le ali, con la lunga coda che si estendeva all’indietro e poi si ripiegava in avanti sopra la testa dell’uccello, proprio come nelle rappresentazioni dei dipinti cinesi. Mai nella mia vita ero stato tanto sorpreso dalla forma di una nube. Poteva essere un buon auspicio, che faceva presagire la felice conclusione del nostro volo verso Marte? Dimenticato il tortino, rimasi a guar dare commosso, con la gola stretta dall’emozione. Un arrivo pieno di insidie Dieci mesi più tardi i gruppi di tecnici del JPL e della Lockheed Martin iniziarono i preparativi per le complesse manovre di atter raggio. La sonda Phoenix aveva percorso 600 milioni di chilome tri e cominciava ad avvertire l’attrazione gravitazionale di Mar te. La successione degli eventi era calcolata al secondo. Odyssey e Mars Reconnaissance Orbiter avevano già modificato la propria orbita in modo da potersi trovare al di sopra della zona di atterrag gio durante la discesa, per ritrasmettere in tempo reale i segnali di Phoenix (che giungevano a Terra con un ritardo di circa 15 minuti L’at t e r r a g g i o s u M a r t e Pericolo Rosso AIRBAG Sono solo sette le sonde riuscite finora a compiere con successo un atterraggio su Marte, per lo più nella regione tropicale del pianeta. Mars Phoenix è scesa appena all’interno del circolo polare artico. Raggiungere la superficie marziana senza incidenti, infatti, è tutt’altro che semplice. L’atmosfera è sufficientemente densa da richiedere uno scudo termico, ma non abbastanza da rallentare un paracadute fino alla velocità di atterraggio. Phoenix, le due Viking e l’effimera sonda sovietica Mars 3 azionarono razzi di frenamento nel tratto finale della discesa; Sojourner, Spirit e Opportunity hanno rimbalzato su speciali airbag, mentre Curiosity verrà calato dalla «gru spaziale» SkyCrane. Phoenix RAZZI Lo scudo termico si stacca e gli airbag si gonfiano Sojourner Opportunity Lo scudo termico si stacca e la calotta posteriore si separa I razzi si accendono e viene tagliato il cavo Viking 2 Viking 1 Lo scudo termico si stacca e le zampe di sostegno si estendono Curiosity (in programma) Gli airbag toccano il suolo, rotolano oppure rimbalzano, poi si sgonfiano e si ritraggono; il lander si apre Lancio Ultima trasmissione dati Atterraggio PHOENIX SOJOURNER VIKING 1 1970 36 Le Scienze MARS 3 1975 CURIOSITY OPPORTUNITY VIKING 2 MARS 3 VIKING 2 La gru spaziale cala il rover, appeso ai cavi di collegamento, fino alla superficie, poi si allontana e precipita PHOENIX SPIRIT SOJOURNER VIKING 1 I razzi frenanti controllano la discesa del veicolo Si accendono i razzi frenanti, permettendo un atterraggio controllato Spirit Mars 3 GRU SPAZIALE 1985 1990 522 febbraio 2012 1995 www.lescienze.it CURIOSITY SPIRIT 2000 OPPORTUNITY 2015 Le Scienze 37 Il nostro gruppo di 35 scienziati, 50 tecnici e 20 studenti iniziò a lavorare giorno e notte. Per ottimizzare l’efficienza, stabilimmo due turni di lavoro sincronizzati sulla durata del giorno marziano, chiamato sol, pari a 24 ore e 40 minuti. Questo divenne il nostro giorno, e cominciammo a scostarci lentamente dal normale tempo terrestre. Entrammo in una fase di perpetuo jet lag. La prima piacevole sorpresa giunse quando ancora il braccio robotico non aveva iniziato a scavare una trincea. Per controllare la posizione del sostegno posteriore, angolammo il braccio in mo 38 Le Scienze Il breve viaggio di LIFE E se la vita sulla Terra fosse arrivata da Marte a bordo di un meteorite? L’ipotesi, nota come transpermia, è affascinante, ma tra i molti problemi che presenta c’è quello della sopravvivenza dei microrganismi al viaggio interplanetario. Per risolvere la questione, la Planetary Society aveva messo a punto l’esperimento Living Interplanetary Flight Experiment (LIFE), una capsula contenente microrganismi rappresentativi dei tre domini della biologia terrestre: batteri, archaea ed eucarioti. Purtroppo la sonda russa PhobosGrunt, che avrebbe dovuto portare su Marte e poi riportare sulla Terra i microscopici viaggiatori, non è riuscita a lasciare l’orbita terrestre. E il viaggio di LIFE si è concluso prima di iniziare. L’aeroshell del Mars Science Laboratory, lanciato dalla NASA lo scorso novembre, include uno scudo termico per l’ingresso in atmosfera più grande di quello adottato nelle capsule Apollo. do che puntasse sotto il veicolo e la videocamera rivelò che i razzi di frenamento avevano spazzato via circa 5 centimetri di suolo in coerente, mettendo allo scoperto alcune chiazze luminose che po tevano essere costituite da ghiaccio (si veda l’illustrazione a p. 35). Il braccio non era in grado di allungarsi al di sotto del lander per indagare più da vicino, ma la scoperta ci rese impazienti di vedere che cosa avrebbe rivelato la prima trincea. Non appena il braccio cominciò ad asportare polvere, mi se allo scoperto uno strato brillante. Osservammo che spariva parzialmente nell’arco di tre o quattro sol: sembrava proprio che si trattasse di ghiaccio d’acqua che sublimava, ma avremmo dovuto attendere i risultati del Thermal and Evolved-Gas Analyzer (TEGA) per averne la certezza. L’altra possibilità, ossia che lo strato brillan te fosse ghiaccio di anidride carbonica, era meno probabile, per ché alla temperatura ambiente di –30 gradi Celsius avrebbe dovuto scomparire più velocemente. E in effetti TEGA confermò che si trat tava proprio di ghiaccio d’acqua. Era la prima volta che veniva di mostrata la presenza di ghiaccio d’acqua immediatamente sotto la superficie marziana, validando così le misurazioni di Odyssey. Ora che la falda di ghiaccio era allo scoperto mi resi conto che l’intera zona circostante il lander (e probabilmente entrambe le re gioni polari) non era la pianura arida e desertica che era appar sa al primo sguardo, ma una distesa di ghiaccio di profondità 522 febbraio 2012 Photo Researchers, Inc. Il problema delle zolle a s t r o b i o l o g i a s p e r im e n ta l e NASA/JPL-Caltech a causa del tempo impiegato dalla luce per coprire il tragitto). Tut to era pronto, e i piani stavano svolgendosi in maniera perfetta. E allora perché ero tormentato dalle preoccupazioni? Scendere su Marte è molto più complesso rispetto alla Luna o alla Terra. La sonda deve attraversare cinque metamorfosi. All’i nizio è un veicolo interplanetario. Dopo il distacco dello stadio di crociera affila le proprie linee per essere in grado di sopportare il calore dovuto all’attrito dell’ingresso nell’atmosfera, alla velocità di quasi 20.000 chilometri all’ora. Dopo aver rallentato fino a 1500 chilometri all’ora dispiega il paracadute dalla calotta posteriore. Nella rarefatta atmosfera marziana, il paracadute può rallentare la discesa solo fino a 150 chilometri all’ora, una velocità di gran lun ga eccessiva per un atterraggio sicuro. A un chilometro di quo ta il lander si stacca dal paracadute e dalla calotta protettiva po steriore e inizia la caduta libera. Dodici piccoli razzi di frenamento portano la sonda a una velocità finale equivalente a quella di una camminata a passo svelto e il veicolo tocca la superficie, mentre il contraccolpo dell’atterraggio viene assorbito da sostegni apposita mente progettati. Infine la sonda deve aprire correttamente i pan nelli solari e gli strumenti e prepararsi per la missione in superficie. Tutto ciò avviene in sette minuti. Osservando dalla sala di controllo nell’edificio 230 del JPL, trat tenni il respiro quando il lander giunse a un chilometro di quota. La tensione nella stanza crebbe, perché tutti ricordavamo i proble mi con il radar e l’incidente di Mars Polar Lander. I razzi di frena mento dovevano rallentare la velocità di discesa fino a circa 10 chilometri all’ora, ridurre le componenti laterali della velocità a meno di un metro al secondo e mantenere il lander parallelo al la superficie. Durante gli incontri di preparazione, il nostro diretto re di missione, Joe Guinn, aveva detto scherzando che, se uno dei razzi non avesse funzionato, gli altri 11 ci avrebbero portato sen za problemi sulla scena del disastro. Ora però la battuta non faceva più ridere; era arrivato il momento della verità. Uno dei tecnici leggeva la telemetria del radar, scandendo la di stanza dalla superficie in un conto alla rovescia: 1000 metri, 800 metri, 600 metri. È troppo veloce, pensai; non possiamo atterrare in sicurezza a una velocità simile. Quando Phoenix superò la so glia dei 100 metri di quota, tutto cambiò. Ora il conto alla rovescia diventava 90 metri, 80 metri, 75 metri. Avevamo raggiunto la ve locità di atterraggio! Poi giunse un segnale dalla superficie, e la stanza si riempì di applausi. Le due ore successive, durante le quali Odyssey orbitò intorno a Marte fino a tornare sulla verticale del nostro lander, parvero in terminabili. Ma alla fine ottenemmo la conferma che Phoenix ave va aperto correttamente i pannelli solari e realizzato le prime im magini. Il nostro primo sguardo sulla regione artica marziana fu magico. Suoli poligonali e piccole rocce si estendevano fino all’o rizzonte. Dopo sei anni di preparativi, potevamo finalmente inizia re la missione scientifica. Il tardigrado, con i suoi 1,5 millimetri di lunghezza, è uno degli organismi più grandi presenti nella capsula dell’esperimento LIFE (ingrandimento, 500X). sconosciuta. Per determinare se questo ghiaccio si fosse mai fuso, il lander poteva usare tre strumenti destinati all’analisi dei suoli: TEGA, costituito da otto piccoli forni collegati a uno spettrometro di massa che misurava la composizione dei gas emessi da un cam pione riscaldato; il Wet Chemistry Lab (WCL), che aggiungeva ac qua (portata dalla Terra) a un campione di suolo e analizzava gli ioni che passavano in soluzione; e un microscopio. Ci attendeva mo una sinergia tra le misurazioni di TEGA e quelle di WCL, dato che i due strumenti indagavano con metodi indipendenti la mine ralogia e la chimica del suolo. L’obiettivo prioritario era lo studio della chimica del suolo in cerca di segni di acqua liquida, nonché di sostanze nutritive e di fonti di energia per eventuali microrganismi. Tentammo anche di identificare la struttura verticale del suolo, dagli strati più esterni all’interfaccia con il ghiaccio. Il braccio robotico doveva preleva re i campioni e introdurli nei portelli analitici della sonda. In linea di principio l’operazione non era più difficile che riempire un sec chiello di sabbia su una spiaggia; tuttavia eseguirla da 300 milio ni di chilometri di distanza si rivelò decisamente impegnativo. Il nostro centro operativo a Tucson era dotato di un laboratorio che conteneva copie identiche del braccio robotico, delle videocamere e dei portelli per l’introduzione dei campioni, allo scopo di permet terci di fare allenamento. Avevamo verificato tutti i comandi pri ma del volo verso Marte, ma non potevamo duplicare due aspetti dell’ambiente marziano: i venti e le proprietà del suolo. Il suolo di Marte appariva simile a una crosta, al contrario dei suoli poco coerenti dell’Arizona sui quali avevamo effettua to le prove. Di conseguenza il «cucchiaio» al termine del braccio robotico si riempiva di aggregati appiccicosi. I filtri di cui erano muniti i portelli, destinati a trattenere i ciottoli, si dimostrarono molto efficaci anche nell’impedire il passaggio delle zolle di terre no. Quando il braccio riuscì a impilare il primo campione sul filtro d’ingresso di TEGA non un solo granello scese nel forno per esse re analizzato. Lo strumento era dotato di un dispositivo che faceva vibrare il filtro, ma occorsero quattro sol per introdurre abbastan za materiale nel forno. Nel frattempo l’eventuale acqua debolmen te legata era ormai sublimata. www.lescienze.it Con il tempo scoprimmo il modo migliore per far fronte agli in convenienti del vento e delle zolle di terreno. Riuscimmo ad ana lizzare campioni a diverse profondità e in diversi punti dell’area di scavo. Tuttavia parecchi campioni andarono perduti a causa dei forti venti che soffiavano via il suolo lateralmente, anziché farlo cadere dai portelli nello strumento. Mentre imparavamo laboriosamente come effettuare scavi su Marte, i sensori atmosferici accumulavano dati meteorologici. Il lidar (da light detection and ranging) fornito dalla Canadian Space Agency ci permise di misurare la polvere nell’atmosfera, nonché lo spessore della foschia al suolo e la quota delle nubi di ghiac cio d’acqua. Lo strumento registrava anche temperatura e pres sione alla superficie. Nel complesso potevamo studiare l’ambiente marziano dalla sommità dello strato di ghiaccio alla tropopausa, mentre gli orbiter osservavano la regione dall’alto per contestua lizzare i dati. Perfetto per coltivare asparagi Fra le maggiori sorprese vi fu la scoperta di due componenti del suolo che non ci attendevamo: carbonato di calcio (in concentra zione pari al 5 per cento) e perclorato (0,5 per cento). Questi com posti sono di grande importanza nella ricerca di possibili organi smi viventi. Il carbonato di calcio ha origine quando l’anidride carboni ca dell’atmosfera passa in soluzione nell’acqua liquida, forman do acido carbonico. Quest’ultimo dissolve il calcio contenuto nel suolo e dà origine a carbonato di calcio, che sulla Terra è un mi nerale molto comune. È contenuto nelle rocce denominate calci te e dolomite, e si usa anche come rimedio per l’acidità gastrica. Il WCL ha misurato un pH di 7,7, leggermente alcalino e quasi iden tico a quello dell’acqua degli oceani terrestri, determinato dall’ef fetto tampone dovuto al carbonato di calcio. Da decenni i planetologi cercavano carbonati su Marte. La mol titudine di canyon e di strutture simili a letti fluviali e ad antichi laghi lascia ben pochi dubbi sul fatto che un tempo Marte fosse un pianeta ricco d’acqua, e questo fa pensare che l’atmosfera fos se molto più densa dell’attuale. L’anidride carbonica non può esse Le Scienze 39 m a r s s c i e n c e l a b o r at o r y Cercando le prove dell’abitabilità L’ultimo arrivato della serie di rover sviluppati dalla NASA per l’esplorazione robotica di Marte si distingue dai precedenti sotto numerosi aspetti, a cominciare dalle dimensioni, più o meno quelle di un’automobile, e dalla mobilità: su un terreno pianeggiante, Curiosity può raggiungere una velocità di 140 metri all’ora, e le sue ruote, dotate ognuna di un motore individuale, sono state progettate per superare ostacoli fino a 75 centimetri di altezza. Inoltre, grazie al suo software di navigazione, può dirigersi autonomamente, senza alcun intervento umano, verso una posizione indicata. Il principale obiettivo scientifico di Curiosity è valutare se le condizioni ambientali del pianeta possono essere – o essere state – adatte a ospitare forme di vita. Rispetto alle precedenti missioni non si concentrerà quindi sulla ricerca di indizi della presenza di acqua, ma grazie agli innovativi strumenti da laboratorio di cui è dotato, i più sofisticati mai inviati finora su Marte, sarà in grado di identificare anche tracce di composti organici. Il rover raccoglierà campioni servendosi di un braccio robotico progettato in modo da eseguire lo stesso tipo di azioni di un geologo, asportando strati dalle rocce e scattando immagini microscopiche. Innovativo, e molto spettacolare, anche il metodo scelto per farlo scendere senza danni sulla superficie del Pianeta Rosso. Al posto degli airbag delle precedenti missioni, impossibili da usare a causa della sua massa, il rover sarà «depositato» dolcemente dalla SkyCrane, un meccanismo simile a una gru a cui è collegato da una serie di cavi che salteranno via grazie ad alcune microcariche esplosive una volta toccato il terreno. 40 Le Scienze no in questo ambiente trovano sostentamento sfruttando perclo rati e nitrati come fonti di energia. Potrebbe accadere la stessa co sa anche su Marte? I più recenti modelli climatici globali tengono conto della dina mica orbitale di Marte, comprese le ampie oscillazioni dell’obliqui tà (l’angolo tra l’asse dell’orbita e l’asse di rotazione del pianeta, attualmente di 25 gradi), per stimare in che modo il clima sia va riato negli ultimi 10 milioni di anni. L’intensità del riscaldamento solare ai poli è soggetta a cambiamenti radicali, dall’attuale perio do freddo a ondate di calore di lunga durata, nelle quali le tempe rature estive raggiungono valori superiori al punto di sublimazio ne della calotta glaciale. Il ghiaccio scompare dai poli e si riforma sugli altissimi vulcani presso l’equatore, dando origine ad ampi ghiacciai. Nello stesso momento, i poli godono di un clima tem perato. Forse il carbonato di calcio si formò durante questi perio di più caldi e umidi. Una delle nostre osservazioni indica come poteva funzionare un ecosistema di microrganismi. Il lidar ha individuato una nevicata di primo mattino nella zona della sonda, quando l’estate marziana stava giungendo al termine e i raggi solari erano sempre più incli nati. I vapori generati dall’evaporazione della neve potrebbero ri vestire i grani di polvere in un processo di adsorbimento (distinto dall’assorbimento). L’acqua adsorbita si comporta come uno strato di liquido estremamente sottile. Durante un periodo caldo, questo strato potrebbe ispessirsi al punto da connettere tra loro i grani di polvere: un mare microscopico nel quale i microrganismi sarebbe ro totalmente immersi. Le sostanze nutritive e ossidanti individua te da Phoenix sarebbero disponibili per fornire energia agli orga nismi che dipendono dai perclorati. Detto questo, i microrganismi dovrebbero anche avere la capacità di entrare in ibernazione per milioni di anni allo scopo di sopravvivere ai periodi freddi e secchi. 522 febbraio 2012 Il perclorato ha anche un’altra proprietà importante: se con centrato, può abbassare il punto di congelamento dell’acqua fi no a –70 gradi Celsius. Ciò significa che eventuali microrganismi potrebbero trovare un rifugio su Marte anche nelle fasi climati che fredde. Nel complesso, la scoperta del perclorato ha suscita to un’ondata di entusiasmo nella comunità degli studiosi di Marte. Il polo è abitabile? NASA/JPL/Caltech (3) re svanita e le rocce carbonatiche sono il luogo più verosimile do ve può essersi depositata. Phoenix ha fornito la prima prova del fatto che queste rocce sono realmente un componente del suolo. In seguito gli orbiter hanno individuato affioramenti isolati di roc ce costituite da carbonato di calcio, sebbene altri carbonati appa iano più comuni. Oltre a essere interessante in sé, il carbonato di calcio forni sce ulteriori prove del fatto che nel sito di atterraggio di Phoenix era presente umidità nel recente passato. Dato che il minerale può comportarsi come una sorta di colla, la sua presenza potrebbe an che spiegare perché il suolo sia così appiccicoso e simile a una cro sta. Il suolo alcalino nel sito di atterraggio di Phoenix differisce significativamente da quello incontrato dagli altri lander. Se si ag giungesse un po’ d’acqua e si aumentasse la pressione atmosferica, sarebbe adatto a coltivarvi asparagi. Viceversa, il rover Opportuni ty ha percorso antichi suoli acidi ricchi di composti dello zolfo, che testimoniano l’esistenza, in tempi più remoti, di un regime chimico differente e ostile alla vita. Per quanto riguarda il perclorato, sulla Terra questo composto, sotto forma di sale di ammonio, viene impiegato come ossidan te nel combustibile solido dei razzi, compresi i nove booster del Delta-2 che lanciò Phoenix nello spazio. L’acqua non è considera ta potabile in presenza di concentrazioni di perclorato superiori a 25 parti per miliardo. I futuri astronauti prendano nota: il suolo di Marte è pericoloso da bere. Ciò che è veleno per noi, tuttavia, è una manna per i micror ganismi. Sulla Terra diversi processi naturali producono picco le quantità di perclorato, che può accumularsi nei deserti iperari di, privi dell’umidità che altrove disperde facilmente il composto. Nel deserto di Atacama, in Cile, la pioggia cade circa una volta per decennio e il perclorato può accumularsi. I batteri che vivo Lungo tre metri, e pesante circa 900 chilogrammi, Curiosity è una sorta di gigante rispetto ai rover che l’hanno preceduto sul Pianeta Rosso, come mostra chiaramente il confronto tra una delle sue sei ruote (a destra) e quelle del Sojourner (1997) e dei rover Spirit e Opportunity (2003). A fianco, interpretazione artistica della discesa su Marte guidata dalla «gru spaziale» SkyCrane. La presenza di perclorato potrebbe anche risolvere un miste ro che risale a 35 anni fa. Negli esperimenti di analisi del suolo condotti dai Viking, nei quali i campioni venivano riscaldati in un minuscolo forno, fu individuata l’emissione di clorometani. Gli scienziati della missione, incapaci di capire come simili compo sti potessero avere origine su Marte, li attribuirono alla contami nazione da parte di una sostanza detergente utilizzata prima del lancio. Lo stesso esperimento non rivelò alcun composto organi co marziano. L’esistenza del perclorato suggerisce una diversa interpretazio ne. Ricercatori della Universidad Nacional Autónoma de México e colleghi hanno ripetuto l’esperimento usando suoli di tipo marzia no del deserto di Atacama, con e senza l’aggiunta di piccole quan tità di perclorato. Hanno così riprodotto le emissioni gassose osser vate dai Viking: l’ossigeno liberato dal perclorato ha prodotto la combustione dei composti organici, con emissione di clorometa no. Perciò una quantità significativa di composti organici, superio re a una parte per milione, poteva essere presente in un suolo con tenente perclorato senza venire individuata dai Viking. A sostegno di questa interpretazione, TEGA ha scoperto che il suolo comincia va a emettere anidride carbonica a temperature del forno superiori a 300 gradi Celsius: esattamente ciò che ci si attenderebbe se i com posti organici nel suolo venissero ossidati dal perclorato. www.lescienze.it Tutto sommato, oggi le probabilità di trovare vita su Marte sembrano più elevate che mai. Ma con i dati di Phoenix non pos siamo spingerci oltre; tocca ora al Mars Science Laboratory cer care ulteriori indizi di abitabilità. I risultati di Phoenix forniscono solo prove circostanziali, mentre lo strumento di analisi di Mars Science Laboratory ha la capacità di identificare la presenza di composti organici nel suolo senza riscaldarlo. Funziona tramite un processo chiamato derivatizzazione, nel quale il suolo mar ziano viene aggiunto a una speciale miscela chimica, le moleco le organiche vengono vaporizzate e rivelate da uno spettrometro di massa. Phoenix proseguì la sua spettacolare missione per cinque mesi, prima che il buio e le gelide temperature dell’inverno polare mar ziano lo avvolgessero. Perdemmo il segnale nel novembre 2008. Dato che l’ottimismo è una malattia professionale nella ricerca scientifica, quando tornò la primavera al polo nord di Marte, l’an no successivo, i miei colleghi e io sperammo che il lander ripren desse vita. Purtroppo non fu così. L’ultima immagine dell’orbiter mostrò Phoenix che giaceva sul fianco di una lunga frattura si mile a un fiume, con i pannelli solari rotti, sepolto dal ghiaccio di anidride carbonica che formava merletti sul terreno irregolare. Non era più un avamposto scientifico, ormai era diventato parte del paesaggio. n per approfondire H2O at the Phoenix Landing Site. Smith P. H. e altri, in «Science», 325, pp. 58-61, 3 luglio 2009. Habitability of the Phoenix Landing Site. Stoker C.R. e altri, in «Journal of Geophysical Research», 115, articolo n. E00E20, 16 giugno 2010. Martian Summer: Robot Arms, Cowboy Spacemen, and My 90 Days with the Phoenix Mars Mission. Kessler A., Pegasus, 2011. Le Scienze 41