La missione Mars Phoenix ha risvegliato le speranze di

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La missione Mars Phoenix ha risvegliato le speranze di
planetologia
Scavando
su Marte
La missione Mars Phoenix ha risvegliato le speranze
di abitabilità del pianeta, aprendo la strada alle nuove
osservazioni del rover Curiosity, lanciato a novembre
di Peter H. Smith
In questa immagine panoramica
del sito di atterraggio di Mars Phoenix si
vede una delle due schiere di pannelli solari
e, dietro di essa, le forme poligonali del
suolo che, su Marte come sulla Terra, sono
indicative della presenza di permafrost.
32 Le Scienze
Scrutando sotto
di sé una settimana
dopo l’atterraggio,
Mars Phoenix ha
individuato levigate
chiazze bianche,
presumibilmente
costituite da ghiaccio
d’acqua esposto dagli
scarichi dei motori che
hanno allontanato la
polvere. (Il primo piano
è distorto. La superficie
su cui poggia Phoenix
è quasi piana.)
Peter H. Smith è professore di scienze planetarie all’Università dell’Arizona. Ha partecipato ad alcune
delle più celebri missioni di esplorazione planetaria, dalla missione Pioneer 11 ai rover Sojourner, Spirit e
Opportunity. Nel 2010 la NASA gli ha conferito la Exceptional Scientific Achievement Medal.
niche, e a maggior ragione di microrganismi quiescenti. La super­
ficie era resa sterile da forti ossidanti come il perossido di idroge­
no e l’intensa radiazione ultravioletta. Per la maggior parte degli
scienziati, la ricerca della vita su Marte cominciò e finì con le mis­
sioni Viking.
Come riconciliare questa sconfortante valutazione con le in­
dubbie meraviglie del pianeta? La risposta potrebbe venire da
Phoe­nix. I suoi esperimenti chimici sul suolo marziano, i primi do­
po quelli dei Viking, suggeriscono un’interpretazione alternativa
di quei risultati nulli: forse i Viking non hanno rilevato molecole
organiche perché le tecniche di analisi impiegate le avevano inav­
vertitamente distrutte. Phoenix ha scoperto inoltre ghiaccio d’ac­
qua prossimo alla superficie, la cui esistenza era stata ipotizzata
dai planetologi ma mai dimostrata. Il nostro vicino planetario po­
trebbe non essere arido e desolato, ma forse tuttora abitabile.
Il momento attuale, in cui si cominciano a valutare pienamen­
te le implicazioni di queste scoperte e un’altra sonda è in viaggio
verso Marte, sembra il migliore per ripercorrere l’alterno cammi­
no, tecnico ed emotivo, dell’organizzazione di una missione inter­
planetaria, e per raccontare come Phoenix abbia rischiato di non
prendere mai il volo.
Non accade tutti i giorni di sentirsi offrire per telefono una son­
da gratis; ma all’inizio del 2002 alcuni scienziati dell’Ames Re­
search Center della NASA mi fecero esattamente questa proposta.
Mi ricordarono che un contenitore di 3 metri di lato depositato in
una camera pulita negli stabilimenti della Lockheed Martin a Den­
ver racchiudeva una sonda Surveyor mai utilizzata. Avrebbe do­
vuto essere lanciata nel 2001, ma la NASA annullò il volo dopo
che il veicolo gemello, il Mars Polar Lander, era andato distrutto
durante l’atterraggio, nel dicembre 1999. L’incidente fu un colpo
durissimo per l’agenzia, poiché si verificò appena poche settima­
ne dopo che un’altra navicella della NASA, il Mars Climate Orbiter
era scomparsa – presumibilmente anch’essa distrutta – durante la
manovra di inserimento in orbita. Anche per me fu una grave de­
lusione, dato che ero a capo del gruppo che aveva progettato e co­
struito la fotocamera del lander.
Gli scienziati dell’Ames volevano rispolverare la sonda, inclu­
dendola nel nuovo programma Scout della NASA e mi chiesero di
assumere il ruolo di responsabile scientifico. Stupefatto, esitai. Da
oltre dieci anni mi occupavo di esplorazione planetaria, e la neces­
sità di continui viaggi, riunioni senza fine e telefonate incessan­
ti aveva perso la propria attrattiva e mi impediva di dedicarmi alle
ricerche scientifiche che rappresentano la mia vocazione.
In breve
Il Mars Science Laboratory – che
raggiungerà Marte ad agosto – è
dotato degli strumenti di analisi della
superficie più perfezionati mai inviati
su Marte.
34 Le Scienze
Gli obiettivi della sua ricerca sono
stati in parte determinati dalla
missione Mars Phoenix del 2008,
che ha rivelato che il suolo marziano
potrebbe non essere ostile alla vita,
al contrario di quanto indicato nel
1976 dalle sonde Viking.
Oltre ad aver individuato composti
che gli studiosi avevano ipotizzato,
ma mai osservato direttamente –
come ghiaccio d’acqua sotto la
superficie e carbonato di calcio –
Phoenix ha compiuto alcune
scoperte inattese, tra cui perclorati e
fiocchi di neve.
522 febbraio 2012
Cortesia Kenneth Kremer e Marco Di Lorenzo NASA/JPL/UA/Max-Planck-Institut
Dalle ceneri
NASA/JPL-Caltech, Università dell’Arizona e Texas A&M University (pagine precedenti)
I
l 26 novembre 2011 la NASA ha lanciato la più am­
biziosa tra le missioni finora dirette al Pianeta Ros­
so: il Mars Science Laboratory. Dopo uno spettacola­
re atterraggio nel cratere Gale, che utilizzerà una «gru
spaziale» nel tratto finale della discesa, il rover, ali­
mentato da un piccolo reattore nucleare, esplorerà
uno dei più ricchi depositi di argille e solfati presenti
sulla superficie del pianeta, testimonianza di un’epoca in cui l’ac­
qua era abbondante e i fiumi incidevano sistemi di valli.
Battezzato Curiosity, il rover, delle dimensioni di un’utilitaria,
dedicherà un anno marziano all’esplorazione della base del pic­
co centrale del cratere, che si ritiene sia la zona più antica. Poi, se
la NASA approverà il proseguimento della missione, Curiosity co­
mincerà ad arrampicarsi sul rilievo alto cinque chilometri che oc­
cupa il centro del cratere, risalendo la scala dei tempi geologici
verso i depositi di epoca moderna ed esaminando strato per stra­
to i minerali associati alla presenza d’acqua. Grazie al suo braccio
robotico potrà prelevare campioni e trasferirli, attraverso il portel­
lo superiore, nel laboratorio chimico che ha a bordo, dove verrà
analizzata la struttura dei minerali e saranno determinati gli ele­
menti che li compongono. Gli strumenti del laboratorio sono in
grado di rivelare anche la presenza di composti organici e cerche­
ranno di stabilire se Marte sia mai stato abitabile.
Il Mars Science Laboratory è il successivo passo logico nella se­
rie di missioni verso il Pianeta Rosso realizzate negli ultimi 15 an­
ni e prende le mosse dai risultati dei rover Sojourner, Spirit e Op­
portunity e del più recente Phoenix. Insieme a una serie di moduli
orbitanti, queste missioni hanno rivelato un pianeta dalla notevo­
le complessità e dalla storia intricata, che include un periodo ca­
ratterizzato da piogge e dalla presenza di laghi (si veda l’articolo I
fiumi di Marte, di Jim Bell, in «Le Scienze» n. 462, febbraio 2007).
Anche nella sua attuale condizione di aridità e gelo, il pianeta
mostra segni di attività. Tra le scoperte più entusiasmanti ed enig­
matiche vi è la possibile presenza di tracce di metano gassoso al di
sopra della regione Nili Fossae. I planetologi discutono se il gas –
qualora la sua esistenza venga confermata – abbia un’origine geo­
logica o biologica (si veda l’articolo Il mistero del metano su Marte
e Titano, di Sushil K. Atreya, in «le Scienze» n. 468, agosto 2007).
La spiegazione più immediata delle striature superficiali osservate
nel 2011 dal Mars Reconaissance Orbiter è la fuoriuscita stagionale
di acqua salmastra.
A controbilanciare tutte queste straordinarie scoperte vi sono
le scoraggianti conclusioni dei due lander Viking, che nel 1976 ci
hanno mostrato un pianeta eccezionalmente ostile per qualsiasi
organismo vivente. Il suolo era privo di acqua e di molecole orga­
Inoltre, in quella fase il progetto non aveva finanziamenti, nes­
suno che si occupasse delle procedure di approvazione, nessun so­
stegno da grandi istituzioni e mancavano solo pochi mesi alla da­
ta limite per sottoporre la proposta di missione. Tuttavia sentivo
dentro di me il desiderio di guidare un gruppo che scoprisse i ma­
gici indizi e sciogliesse i lacci aggrovigliati che imprigionavano la
scienza marziana. In cuor mio, non avevo mai creduto ai risultati
dei lander Viking. Come era possibile che non avessero individua­
to alcuna molecola organica? Forse una nuova missione adegua­
tamente progettata avrebbe svelato dove si nascondessero quel­
le molecole?
Per due settimane dibattei con me stesso. Dovevo trovare obiet­
tivi scientifici significativi. La sonda Surveyor era stata progettata
per atterrare presso l’equatore, raccogliere campioni di suolo con
un braccio robotico e far scendere sulla superficie un piccolo ro­
ver che analizzasse le rocce nei dintorni. La sonda trasportava an­
che strumenti scientifici in preparazione di una successiva mis­
sione umana. Con il budget del programma Scout non potevamo
permetterci di trasportare il rover e non dovevamo preparare alcu­
na missione umana. Perciò potevamo inserire nuovi strumenti al
posto dei vecchi, ma la loro scelta dipendeva dagli obiettivi scien­
tifici fondamentali, che al momento restavano indefiniti.
A questo punto, con un tempismo stupefacente, un mio col­
lega dell’Università dell’Arizona, William Boynton, annunciò la
scoperta di ghiaccio d’acqua prossimo alla superficie intorno al­
la calotta polare meridionale di Marte. Boynton dirigeva il grup­
po che aveva costruito e gestiva lo spettrometro gamma a bor­
do dell’orbiter Mars Odyssey; lo strumento rileva non solo raggi
gamma, ma anche neutroni, permettendo di determinare la con­
centrazione di idrogeno nei primi metri di profondità del suolo. Lo
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spettrometro aveva individuato anche indizi della presenza d’ac­
qua nelle pianure settentrionali, tra cui una piccola zona di suolo
ricco di ghiaccio d’acqua situata in corrispondenza della massima
estensione invernale della calotta di ghiaccio di anidride carboni­
ca. (Questa calotta si espande e si ritira con il cambiare delle sta­
gioni.) Tracciai una X su quel punto nella mia mappa di Marte e
immediatamente cominciai a scegliere strumenti che permettesse­
ro di approfondire le indagini.
Anche sulla Terra esiste una zona simile di permafrost che cir­
conda la regione artica. È il «congelatore» del nostro pianeta e pre­
serva testimonianze di tutti gli organismi che vissero in quella zo­
na. Il ghiaccio può avere un’età di centinaia di migliaia di anni.
Nel corso di una conferenza sulle regioni polari di Marte avevo
appreso che Eske Willerslev dell’Università di Copenhagen aveva
eseguito analisi del DNA contenuto in campioni di ghiaccio del­
la Groenlandia e di permafrost siberiano e aveva individuato una
grande diversità di piante, animali e microrganismi. Poteva acca­
dere la stessa cosa per Marte, dove il ghiaccio potrebbe essere anti­
co di molti milioni di anni?
Organizzai una collaborazione tra l’Università dell’Arizona, il
Jet Propulsion Laboratory della NASA e la Lockheed Martin. Bat­
tezzammo la missione Phoenix perché stavamo riportando in vi­
ta, come il mitico uccello, la defunta missione Surveyor. Iniziò co­
sì un estenuante periodo di un anno e mezzo trascorso stendendo
proposte di missione in concorrenza con altri 20 progetti, che cul­
minò in una visita di otto ore da parte del comitato di valutazio­
ne della NASA.
Nell’agosto 2003 la NASA decise che la nostra sarebbe stata la
prima missione Scout su Marte. La data di lancio, prevista nell’a­
gosto 2007, ci concedeva quattro anni di preparativi.
Le Scienze 35
Estraemmo la sonda dal suo involucro. Assomigliava a una gi­
gantesca farfalla, con il corpo irto di strumenti scientifici e i due
grandi pannelli solari che sembravano ali distese. Poggiava su tre
sostegni e l’unica appendice – il braccio robotico – spuntava da
un lato.
I quattro anni successivi furono dedicati a esaminare, riproget­
tare, riesaminare e verificare, in cerca dei difetti progettuali che
avevano causato la distruzione del veicolo gemello. In totale, i
tecnici della Lockheed Martin e del JPL trovarono circa 25 difet­
ti gravi. Per quanto potesse essere arduo rintracciare tutti questi
«bachi», era comunque più semplice e meno costoso che costruire
da zero una nuova sonda, operazione peraltro non priva di rischi.
La maggior parte degli inconvenienti fu risolta abbastanza facil­
mente aggiungendo riscaldatori, riducendo la grandezza del para­
cadute, irrobustendo la struttura. Alcuni richiesero modifiche del
software. Ma uno dei difetti fu tutt’altro che semplice da indivi­
duare e correggere.
Il radar di atterraggio era un’unità proveniente da un caccia mi­
litare F-16 della fine degli anni novanta. Quando effettuammo
prove di discesa nel deserto del Mojave, il sistema commise errori
critici nel calcolo della quota e perse dati in momenti inopportuni.
Consultammo Honeywell, che aveva realizzato il radar, per cercare
di capire come funzionasse esattamente.
Nonostante la buona volontà dei costruttori, però, il model­
lo era obsoleto e nessuno se ne occupava più, i progettisti ave­
vano lasciato l’azienda e la documentazione era frammentaria.
Formammo allora un gruppo dedicato di tecnici provenienti da
Lockheed Martin, JPL, Honeywell e NASA Langley Space Center.
Combinando simulazioni al computer e ulteriori test, il gruppo si
fece lentamente strada in un labirinto di anomalie per correggere
i difetti. Nell’ottobre 2006 un test diede risultati positivi. Sembra­
va tutto a posto.
Poi le nostre speranze furono nuovamente frustrate. Scoprim­
mo che i riflessi dello scudo termico al momento del distacco po­
tevano confondere il radar e provocare un grave errore di calcolo
della quota. Anche le antenne e i commutatori si rivelarono faci­
li ai guasti. Sembrava che i guai non avessero mai fine. Nel mese
di febbraio 2007, soltanto cinque mesi prima del momento previ­
sto per montare la sonda sul veicolo di lancio, avevamo 65 ano­
malie sotto indagine.
Senza un radar affidabile, il lancio era in dubbio. I comitati di
valutazione della NASA seguivano da vicino la situazione, piutto­
sto preoccupati del fatto che continuassimo a scoprire nuove pos­
sibilità di guasti. D’altra parte la gravità delle anomalie si andava
riducendo. In giugno riuscimmo a convincere i comitati di valuta­
zione e i dirigenti della NASA addetti alla missione che i rischi ri­
manenti erano accettabili. Era comunque un azzardo. Se continua­
vamo a trovare punti deboli alla vigilia del lancio, era possibile che
altri rimanessero nascosti nel sistema.
Nell’agosto 2007 terminammo gli ultimi test presso il Kennedy
Space Center e ci preparammo a installare la sonda sul lanciatore
Delta-2. A questo punto vi fu un momento che vorrei poter dimen­
ticare. Mentre la gru sollevava il veicolo verso la sommità del raz­
zo, alto circa 40 metri, scoppiò un furioso temporale con continui
fulmini e le norme di sicurezza costrinsero i tecnici a evacuare la
torretta. La sonda, i cui delicati componenti elettronici erano scar­
samente protetti, rimase a penzolare a 20 metri dal suolo nel bel
mezzo di una terribile tempesta.
Dopo il temporale riportammo la sonda nell’edificio di assem­
blaggio e disperatamente cominciammo a verificare i danni. E per
miracolo non ne trovammo.
Phoenix prende il volo
Steve Lee, Università del Colorado, Jim Bell, Cornell University,
Mike Wolff, Space Science Institute e Nasa (mappa di Marte)
Ansie da radar
Il conto alla rovescia cominciò nelle prime ore del 4 agosto.
Uscii dall’asettico riparo della sala di controllo per vedere il lancio
con i miei occhi. Erano le 5:15 e le stelle si scorgevano con chia­
rezza. Marte splendeva invitante in direzione est. All’improvviso
gli edifici si illuminarono come se stesse sorgendo il Sole. e il lan­
ciatore si alzò silenziosamente nel cielo; per alcuni secondi la luce
fu così intensa da permettere di leggere e percepire i colori. Trenta
secondi dopo, il rombo del lancio mi raggiunse e le onde di pres­
sione generate al momento del decollo mi compressero il torace.
I sei razzi a combustibile solido furono sganciati e precipitarono
nell’Atlantico in una pioggia di scintille, dopodiché gli ultimi tre
razzi si accesero. Phoenix era partito. Solo allora mi accorsi che
per tutto quel tempo avevo trattenuto il respiro.
Il lancio durò due minuti, dopo i quali nel cielo di nuovo buio
restò solo la scia di vapore. Tornammo nella sala di controllo per
uno spuntino e una tazza di caffè. Tenendo in mano un tortino,
uscii di nuovo per vedere il sorgere del Sole. Nel cielo stava acca­
dendo qualcosa di strano. Impiegai alcuni istanti per accorgerme­
ne. La scia di vapore lasciata dai razzi si muoveva per effetto dei
venti stratosferici, illuminata dal Sole nascente. E in quel momen­
to ebbi un sussulto: aveva esattamente la forma della mitica Feni­
ce. Distinguevo il becco e le ali, con la lunga coda che si estendeva
all’indietro e poi si ripiegava in avanti sopra la testa dell’uccello,
proprio come nelle rappresentazioni dei dipinti cinesi. Mai nella
mia vita ero stato tanto sorpreso dalla forma di una nube. Poteva
essere un buon auspicio, che faceva presagire la felice conclusione
del nostro volo verso Marte? Dimenticato il tortino, rimasi a guar­
dare commosso, con la gola stretta dall’emozione.
Un arrivo pieno di insidie
Dieci mesi più tardi i gruppi di tecnici del JPL e della Lockheed
Martin iniziarono i preparativi per le complesse manovre di atter­
raggio. La sonda Phoenix aveva percorso 600 milioni di chilome­
tri e cominciava ad avvertire l’attrazione gravitazionale di Mar­
te. La successione degli eventi era calcolata al secondo. Odyssey
e Mars Reconnaissance Orbiter avevano già modificato la propria
orbita in modo da potersi trovare al di sopra della zona di atterrag­
gio durante la discesa, per ritrasmettere in tempo reale i segnali di
Phoe­nix (che giungevano a Terra con un ritardo di circa 15 minuti
L’at t e r r a g g i o s u M a r t e
Pericolo Rosso
AIRBAG
Sono solo sette le sonde riuscite finora a compiere con successo un atterraggio su Marte, per lo più nella regione tropicale del pianeta. Mars Phoenix è scesa appena all’interno del circolo polare artico. Raggiungere la superficie marziana senza incidenti, infatti,
è tutt’altro che semplice. L’atmosfera è sufficientemente densa da richiedere uno scudo
termico, ma non abbastanza da rallentare un paracadute fino alla velocità di atterraggio. Phoenix, le due Viking e l’effimera sonda sovietica Mars 3 azionarono razzi di frenamento nel tratto finale della discesa; Sojourner, Spirit e Opportunity hanno rimbalzato su
speciali airbag, mentre Curiosity verrà calato dalla «gru spaziale» SkyCrane.
Phoenix
RAZZI
Lo scudo termico
si stacca e gli
airbag si gonfiano
Sojourner
Opportunity
Lo scudo termico si
stacca e la calotta
posteriore si separa
I razzi si
accendono
e viene
tagliato il cavo
Viking 2
Viking 1
Lo scudo termico si stacca
e le zampe di sostegno
si estendono
Curiosity
(in programma)
Gli airbag toccano il suolo,
rotolano oppure rimbalzano, poi si
sgonfiano e si ritraggono; il lander si apre
Lancio
Ultima trasmissione dati
Atterraggio
PHOENIX
SOJOURNER
VIKING 1
1970
36 Le Scienze
MARS 3
1975
CURIOSITY
OPPORTUNITY
VIKING 2
MARS 3
VIKING 2
La gru spaziale cala
il rover, appeso ai cavi
di collegamento, fino
alla superficie, poi si
allontana e precipita
PHOENIX
SPIRIT
SOJOURNER
VIKING 1
I razzi frenanti
controllano la discesa
del veicolo
Si accendono i razzi
frenanti, permettendo un
atterraggio controllato
Spirit
Mars 3
GRU SPAZIALE
1985
1990
522 febbraio 2012
1995
www.lescienze.it
CURIOSITY
SPIRIT
2000
OPPORTUNITY
2015
Le Scienze 37
Il nostro gruppo di 35 scienziati, 50 tecnici e 20 studenti iniziò
a lavorare giorno e notte. Per ottimizzare l’efficienza, stabilimmo
due turni di lavoro sincronizzati sulla durata del giorno marziano,
chiamato sol, pari a 24 ore e 40 minuti. Questo divenne il nostro
giorno, e cominciammo a scostarci lentamente dal normale tempo
terrestre. Entrammo in una fase di perpetuo jet lag.
La prima piacevole sorpresa giunse quando ancora il braccio
robotico non aveva iniziato a scavare una trincea. Per controllare
la posizione del sostegno posteriore, angolammo il braccio in mo­
38 Le Scienze
Il breve viaggio
di LIFE
E se la vita sulla Terra fosse arrivata da Marte a
bordo di un meteorite? L’ipotesi, nota come transpermia, è affascinante, ma tra i molti problemi
che presenta c’è quello della sopravvivenza dei
microrganismi al viaggio interplanetario. Per risolvere la questione, la Planetary Society aveva
messo a punto l’esperimento Living Interplanetary Flight Experiment (LIFE), una capsula contenente microrganismi rappresentativi dei tre
domini della biologia terrestre: batteri, archaea
ed eucarioti. Purtroppo la sonda russa PhobosGrunt, che avrebbe dovuto portare su Marte e
poi riportare sulla Terra i microscopici viaggiatori, non è riuscita a lasciare l’orbita terrestre. E il
viaggio di LIFE si è concluso prima di iniziare.
L’aeroshell del Mars Science Laboratory, lanciato dalla
NASA lo scorso novembre, include uno scudo termico per l’ingresso
in atmosfera più grande di quello adottato nelle capsule Apollo.
do che puntasse sotto il veicolo e la videocamera rivelò che i razzi
di frenamento avevano spazzato via circa 5 centimetri di suolo in­
coerente, mettendo allo scoperto alcune chiazze luminose che po­
tevano essere costituite da ghiaccio (si veda l’illustrazione a p. 35).
Il braccio non era in grado di allungarsi al di sotto del lander per
indagare più da vicino, ma la scoperta ci rese impazienti di vedere
che cosa avrebbe rivelato la prima trincea.
Non appena il braccio cominciò ad asportare polvere, mi­
se allo scoperto uno strato brillante. Osservammo che spariva
parzialmente nell’arco di tre o quattro sol: sembrava proprio che si
trattasse di ghiaccio d’acqua che sublimava, ma avremmo dovuto
attendere i risultati del Thermal and Evolved-Gas Analyzer (TEGA)
per averne la certezza. L’altra possibilità, ossia che lo strato brillan­
te fosse ghiaccio di anidride carbonica, era meno probabile, per­
ché alla temperatura ambiente di –30 gradi Celsius avrebbe dovuto
scomparire più velocemente. E in effetti TEGA confermò che si trat­
tava proprio di ghiaccio d’acqua. Era la prima volta che veniva di­
mostrata la presenza di ghiaccio d’acqua immediatamente sotto la
superficie marziana, validando così le misurazioni di Odyssey.
Ora che la falda di ghiaccio era allo scoperto mi resi conto che
l’intera zona circostante il lander (e probabilmente entrambe le re­
gioni polari) non era la pianura arida e desertica che era appar­
sa al primo sguardo, ma una distesa di ghiaccio di profondità
522 febbraio 2012
Photo Researchers, Inc.
Il problema delle zolle
a s t r o b i o l o g i a s p e r im e n ta l e
NASA/JPL-Caltech
a causa del tempo impiegato dalla luce per coprire il tragitto). Tut­
to era pronto, e i piani stavano svolgendosi in maniera perfetta. E
allora perché ero tormentato dalle preoccupazioni?
Scendere su Marte è molto più complesso rispetto alla Luna o
alla Terra. La sonda deve attraversare cinque metamorfosi. All’i­
nizio è un veicolo interplanetario. Dopo il distacco dello stadio di
crociera affila le proprie linee per essere in grado di sopportare il
calore dovuto all’attrito dell’ingresso nell’atmosfera, alla velocità
di quasi 20.000 chilometri all’ora. Dopo aver rallentato fino a 1500
chilometri all’ora dispiega il paracadute dalla calotta posteriore.
Nella rarefatta atmosfera marziana, il paracadute può rallentare la
discesa solo fino a 150 chilometri all’ora, una velocità di gran lun­
ga eccessiva per un atterraggio sicuro. A un chilometro di quo­
ta il lander si stacca dal paracadute e dalla calotta protettiva po­
steriore e inizia la caduta libera. Dodici piccoli razzi di frenamento
portano la sonda a una velocità finale equivalente a quella di una
camminata a passo svelto e il veicolo tocca la superficie, mentre il
contraccolpo dell’atterraggio viene assorbito da sostegni apposita­
mente progettati. Infine la sonda deve aprire correttamente i pan­
nelli solari e gli strumenti e prepararsi per la missione in superficie.
Tutto ciò avviene in sette minuti.
Osservando dalla sala di controllo nell’edificio 230 del JPL, trat­
tenni il respiro quando il lander giunse a un chilometro di quota.
La tensione nella stanza crebbe, perché tutti ricordavamo i proble­
mi con il radar e l’incidente di Mars Polar Lander. I razzi di frena­
mento dovevano rallentare la velocità di discesa fino a circa 10
chilometri all’ora, ridurre le componenti laterali della velocità a
meno di un metro al secondo e mantenere il lander parallelo al­
la superficie. Durante gli incontri di preparazione, il nostro diretto­
re di missione, Joe Guinn, aveva detto scherzando che, se uno dei
razzi non avesse funzionato, gli altri 11 ci avrebbero portato sen­
za problemi sulla scena del disastro. Ora però la battuta non faceva
più ridere; era arrivato il momento della verità.
Uno dei tecnici leggeva la telemetria del radar, scandendo la di­
stanza dalla superficie in un conto alla rovescia: 1000 metri, 800
metri, 600 metri. È troppo veloce, pensai; non possiamo atterrare
in sicurezza a una velocità simile. Quando Phoenix superò la so­
glia dei 100 metri di quota, tutto cambiò. Ora il conto alla rovescia
diventava 90 metri, 80 metri, 75 metri. Avevamo raggiunto la ve­
locità di atterraggio! Poi giunse un segnale dalla superficie, e la
stanza si riempì di applausi.
Le due ore successive, durante le quali Odyssey orbitò intorno a
Marte fino a tornare sulla verticale del nostro lander, parvero in­
terminabili. Ma alla fine ottenemmo la conferma che Phoenix ave­
va aperto correttamente i pannelli solari e realizzato le prime im­
magini. Il nostro primo sguardo sulla regione artica marziana fu
magico. Suoli poligonali e piccole rocce si estendevano fino all’o­
rizzonte. Dopo sei anni di preparativi, potevamo finalmente inizia­
re la missione scientifica.
Il tardigrado,
con i suoi 1,5
millimetri di
lunghezza, è uno degli
organismi più grandi
presenti nella capsula
dell’esperimento LIFE
(ingrandimento, 500X).
sconosciuta. Per determinare se questo ghiaccio si fosse mai fuso,
il lander poteva usare tre strumenti destinati all’analisi dei suoli:
TEGA, costituito da otto piccoli forni collegati a uno spettrometro
di massa che misurava la composizione dei gas emessi da un cam­
pione riscaldato; il Wet Chemistry Lab (WCL), che aggiungeva ac­
qua (portata dalla Terra) a un campione di suolo e analizzava gli
ioni che passavano in soluzione; e un microscopio. Ci attendeva­
mo una sinergia tra le misurazioni di TEGA e quelle di WCL, dato
che i due strumenti indagavano con metodi indipendenti la mine­
ralogia e la chimica del suolo.
L’obiettivo prioritario era lo studio della chimica del suolo in
cerca di segni di acqua liquida, nonché di sostanze nutritive e di
fonti di energia per eventuali microrganismi. Tentammo anche di
identificare la struttura verticale del suolo, dagli strati più esterni
all’interfaccia con il ghiaccio. Il braccio robotico doveva preleva­
re i campioni e introdurli nei portelli analitici della sonda. In linea
di principio l’operazione non era più difficile che riempire un sec­
chiello di sabbia su una spiaggia; tuttavia eseguirla da 300 milio­
ni di chilometri di distanza si rivelò decisamente impegnativo. Il
nostro centro operativo a Tucson era dotato di un laboratorio che
conteneva copie identiche del braccio robotico, delle videocamere
e dei portelli per l’introduzione dei campioni, allo scopo di permet­
terci di fare allenamento. Avevamo verificato tutti i comandi pri­
ma del volo verso Marte, ma non potevamo duplicare due aspetti
dell’ambiente marziano: i venti e le proprietà del suolo.
Il suolo di Marte appariva simile a una crosta, al contrario
dei suoli poco coerenti dell’Arizona sui quali avevamo effettua­
to le prove. Di conseguenza il «cucchiaio» al termine del braccio
robotico si riempiva di aggregati appiccicosi. I filtri di cui erano
muniti i portelli, destinati a trattenere i ciottoli, si dimostrarono
molto efficaci anche nell’impedire il passaggio delle zolle di terre­
no. Quando il braccio riuscì a impilare il primo campione sul filtro
d’ingresso di TEGA non un solo granello scese nel forno per esse­
re analizzato. Lo strumento era dotato di un dispositivo che faceva
vibrare il filtro, ma occorsero quattro sol per introdurre abbastan­
za materiale nel forno. Nel frattempo l’eventuale acqua debolmen­
te legata era ormai sublimata.
www.lescienze.it
Con il tempo scoprimmo il modo migliore per far fronte agli in­
convenienti del vento e delle zolle di terreno. Riuscimmo ad ana­
lizzare campioni a diverse profondità e in diversi punti dell’area di
scavo. Tuttavia parecchi campioni andarono perduti a causa dei
forti venti che soffiavano via il suolo lateralmente, anziché farlo
cadere dai portelli nello strumento.
Mentre imparavamo laboriosamente come effettuare scavi su
Marte, i sensori atmosferici accumulavano dati meteorologici. Il
lidar (da light detection and ranging) fornito dalla Canadian Space
Agency ci permise di misurare la polvere nell’atmosfera, nonché
lo spessore della foschia al suolo e la quota delle nubi di ghiac­
cio d’acqua. Lo strumento registrava anche temperatura e pres­
sione alla superficie. Nel complesso potevamo studiare l’ambiente
marziano dalla sommità dello strato di ghiaccio alla tropopausa,
mentre gli orbiter osservavano la regione dall’alto per contestua­
lizzare i dati.
Perfetto per coltivare asparagi
Fra le maggiori sorprese vi fu la scoperta di due componenti del
suolo che non ci attendevamo: carbonato di calcio (in concentra­
zione pari al 5 per cento) e perclorato (0,5 per cento). Questi com­
posti sono di grande importanza nella ricerca di possibili organi­
smi viventi.
Il carbonato di calcio ha origine quando l’anidride carboni­
ca dell’atmosfera passa in soluzione nell’acqua liquida, forman­
do acido carbonico. Quest’ultimo dissolve il calcio contenuto nel
suolo e dà origine a carbonato di calcio, che sulla Terra è un mi­
nerale molto comune. È contenuto nelle rocce denominate calci­
te e dolomite, e si usa anche come rimedio per l’acidità gastrica. Il
WCL ha misurato un pH di 7,7, leggermente alcalino e quasi iden­
tico a quello dell’acqua degli oceani terrestri, determinato dall’ef­
fetto tampone dovuto al carbonato di calcio.
Da decenni i planetologi cercavano carbonati su Marte. La mol­
titudine di canyon e di strutture simili a letti fluviali e ad antichi
laghi lascia ben pochi dubbi sul fatto che un tempo Marte fosse
un pianeta ricco d’acqua, e questo fa pensare che l’atmosfera fos­
se molto più densa dell’attuale. L’anidride carbonica non può esse­
Le Scienze 39
m a r s s c i e n c e l a b o r at o r y
Cercando le prove dell’abitabilità
L’ultimo arrivato della serie di rover sviluppati dalla NASA per l’esplorazione
robotica di Marte si distingue dai precedenti sotto numerosi aspetti, a cominciare dalle dimensioni, più o meno quelle di un’automobile, e dalla mobilità: su un terreno pianeggiante, Curiosity può raggiungere una velocità di
140 metri all’ora, e le sue ruote, dotate ognuna di un motore individuale,
sono state progettate per superare ostacoli fino a 75 centimetri di altezza.
Inoltre, grazie al suo software di navigazione, può dirigersi autonomamente,
senza alcun intervento umano, verso una posizione indicata.
Il principale obiettivo scientifico di Curiosity è valutare se le condizioni ambientali del pianeta possono essere – o essere state – adatte a ospitare forme di vita. Rispetto alle precedenti missioni non si concentrerà quindi sulla
ricerca di indizi della presenza di acqua, ma grazie agli innovativi strumenti
da laboratorio di cui è dotato, i più sofisticati mai inviati finora su Marte, sarà in grado di identificare anche tracce di composti organici.
Il rover raccoglierà campioni servendosi di un braccio robotico progettato in
modo da eseguire lo stesso tipo di azioni di un geologo, asportando strati
dalle rocce e scattando immagini microscopiche.
Innovativo, e molto spettacolare, anche il metodo scelto per farlo scendere senza danni sulla superficie del Pianeta Rosso. Al posto degli airbag delle
precedenti missioni, impossibili da usare a causa della sua massa, il rover
sarà «depositato» dolcemente dalla SkyCrane, un meccanismo simile a una
gru a cui è collegato da una serie di cavi che salteranno via grazie ad alcune
microcariche esplosive una volta toccato il terreno.
40 Le Scienze
no in questo ambiente trovano sostentamento sfruttando perclo­
rati e nitrati come fonti di energia. Potrebbe accadere la stessa co­
sa anche su Marte?
I più recenti modelli climatici globali tengono conto della dina­
mica orbitale di Marte, comprese le ampie oscillazioni dell’obliqui­
tà (l’angolo tra l’asse dell’orbita e l’asse di rotazione del pianeta,
attualmente di 25 gradi), per stimare in che modo il clima sia va­
riato negli ultimi 10 milioni di anni. L’intensità del riscaldamento
solare ai poli è soggetta a cambiamenti radicali, dall’attuale perio­
do freddo a ondate di calore di lunga durata, nelle quali le tempe­
rature estive raggiungono valori superiori al punto di sublimazio­
ne della calotta glaciale. Il ghiaccio scompare dai poli e si riforma
sugli altissimi vulcani presso l’equatore, dando origine ad ampi
ghiacciai. Nello stesso momento, i poli godono di un clima tem­
perato. Forse il carbonato di calcio si formò durante questi perio­
di più caldi e umidi.
Una delle nostre osservazioni indica come poteva funzionare un
ecosistema di microrganismi. Il lidar ha individuato una nevicata
di primo mattino nella zona della sonda, quando l’estate marziana
stava giungendo al termine e i raggi solari erano sempre più incli­
nati. I vapori generati dall’evaporazione della neve potrebbero ri­
vestire i grani di polvere in un processo di adsorbimento (distinto
dall’assorbimento). L’acqua adsorbita si comporta come uno strato
di liquido estremamente sottile. Durante un periodo caldo, questo
strato potrebbe ispessirsi al punto da connettere tra loro i grani di
polvere: un mare microscopico nel quale i microrganismi sarebbe­
ro totalmente immersi. Le sostanze nutritive e ossidanti individua­
te da Phoenix sarebbero disponibili per fornire energia agli orga­
nismi che dipendono dai perclorati. Detto questo, i microrganismi
dovrebbero anche avere la capacità di entrare in ibernazione per
milioni di anni allo scopo di sopravvivere ai periodi freddi e secchi.
522 febbraio 2012
Il perclorato ha anche un’altra proprietà importante: se con­
centrato, può abbassare il punto di congelamento dell’acqua fi­
no a –70 gradi Celsius. Ciò significa che eventuali microrganismi
potrebbero trovare un rifugio su Marte anche nelle fasi climati­
che fredde. Nel complesso, la scoperta del perclorato ha suscita­
to un’ondata di entusiasmo nella comunità degli studiosi di Marte.
Il polo è abitabile?
NASA/JPL/Caltech (3)
re svanita e le rocce carbonatiche sono il luogo più verosimile do­
ve può essersi depositata. Phoenix ha fornito la prima prova del
fatto che queste rocce sono realmente un componente del suolo.
In seguito gli orbiter hanno individuato affioramenti isolati di roc­
ce costituite da carbonato di calcio, sebbene altri carbonati appa­
iano più comuni.
Oltre a essere interessante in sé, il carbonato di calcio forni­
sce ulteriori prove del fatto che nel sito di atterraggio di Phoenix
era presente umidità nel recente passato. Dato che il minerale può
comportarsi come una sorta di colla, la sua presenza potrebbe an­
che spiegare perché il suolo sia così appiccicoso e simile a una cro­
sta. Il suolo alcalino nel sito di atterraggio di Phoenix differisce
significativamente da quello incontrato dagli altri lander. Se si ag­
giungesse un po’ d’acqua e si aumentasse la pressione atmosferica,
sarebbe adatto a coltivarvi asparagi. Viceversa, il rover Opportuni­
ty ha percorso antichi suoli acidi ricchi di composti dello zolfo, che
testimoniano l’esistenza, in tempi più remoti, di un regime chimico
differente e ostile alla vita.
Per quanto riguarda il perclorato, sulla Terra questo composto,
sotto forma di sale di ammonio, viene impiegato come ossidan­
te nel combustibile solido dei razzi, compresi i nove booster del
Delta-2 che lanciò Phoenix nello spazio. L’acqua non è considera­
ta potabile in presenza di concentrazioni di perclorato superiori a
25 parti per miliardo. I futuri astronauti prendano nota: il suolo di
Marte è pericoloso da bere.
Ciò che è veleno per noi, tuttavia, è una manna per i micror­
ganismi. Sulla Terra diversi processi naturali producono picco­
le quantità di perclorato, che può accumularsi nei deserti iperari­
di, privi dell’umidità che altrove disperde facilmente il composto.
Nel deserto di Atacama, in Cile, la pioggia cade circa una volta
per decennio e il perclorato può accumularsi. I batteri che vivo­
Lungo tre metri, e pesante
circa 900 chilogrammi, Curiosity
è una sorta di gigante rispetto
ai rover che l’hanno preceduto
sul Pianeta Rosso, come mostra
chiaramente il confronto tra una
delle sue sei ruote (a destra) e
quelle del Sojourner (1997) e dei
rover Spirit e Opportunity (2003).
A fianco, interpretazione artistica
della discesa su Marte guidata
dalla «gru spaziale» SkyCrane.
La presenza di perclorato potrebbe anche risolvere un miste­
ro che risale a 35 anni fa. Negli esperimenti di analisi del suolo
condotti dai Viking, nei quali i campioni venivano riscaldati in
un minuscolo forno, fu individuata l’emissione di clorometani. Gli
scienziati della missione, incapaci di capire come simili compo­
sti potessero avere origine su Marte, li attribuirono alla contami­
nazione da parte di una sostanza detergente utilizzata prima del
lancio. Lo stesso esperimento non rivelò alcun composto organi­
co marziano.
L’esistenza del perclorato suggerisce una diversa interpretazio­
ne. Ricercatori della Universidad Nacional Autónoma de México e
colleghi hanno ripetuto l’esperimento usando suoli di tipo marzia­
no del deserto di Atacama, con e senza l’aggiunta di piccole quan­
tità di perclorato. Hanno così riprodotto le emissioni gassose osser­
vate dai Viking: l’ossigeno liberato dal perclorato ha prodotto la
combustione dei composti organici, con emissione di clorometa­
no. Perciò una quantità significativa di composti organici, superio­
re a una parte per milione, poteva essere presente in un suolo con­
tenente perclorato senza venire individuata dai Viking. A sostegno
di questa interpretazione, TEGA ha scoperto che il suolo comincia­
va a emettere anidride carbonica a temperature del forno superiori
a 300 gradi Celsius: esattamente ciò che ci si attenderebbe se i com­
posti organici nel suolo venissero ossidati dal perclorato.
www.lescienze.it
Tutto sommato, oggi le probabilità di trovare vita su Marte
sembrano più elevate che mai. Ma con i dati di Phoenix non pos­
siamo spingerci oltre; tocca ora al Mars Science Laboratory cer­
care ulteriori indizi di abitabilità. I risultati di Phoenix forniscono
solo prove circostanziali, mentre lo strumento di analisi di Mars
Science Laboratory ha la capacità di identificare la presenza di
composti organici nel suolo senza riscaldarlo. Funziona tramite
un processo chiamato derivatizzazione, nel quale il suolo mar­
ziano viene aggiunto a una speciale miscela chimica, le moleco­
le organiche vengono vaporizzate e rivelate da uno spettrometro
di massa.
Phoenix proseguì la sua spettacolare missione per cinque mesi,
prima che il buio e le gelide temperature dell’inverno polare mar­
ziano lo avvolgessero. Perdemmo il segnale nel novembre 2008.
Dato che l’ottimismo è una malattia professionale nella ricerca
scientifica, quando tornò la primavera al polo nord di Marte, l’an­
no successivo, i miei colleghi e io sperammo che il lander ripren­
desse vita. Purtroppo non fu così. L’ultima immagine dell’orbiter
mostrò Phoenix che giaceva sul fianco di una lunga frattura si­
mile a un fiume, con i pannelli solari rotti, sepolto dal ghiaccio
di anidride carbonica che formava merletti sul terreno irregolare.
Non era più un avamposto scientifico, ormai era diventato parte
del paesaggio.
n
per approfondire
H2O at the Phoenix Landing Site. Smith P. H. e altri, in «Science», 325, pp. 58-61, 3
luglio 2009.
Habitability of the Phoenix Landing Site. Stoker C.R. e altri, in «Journal of
Geophysical Research», 115, articolo n. E00E20, 16 giugno 2010.
Martian Summer: Robot Arms, Cowboy Spacemen, and My 90 Days with the
Phoenix Mars Mission. Kessler A., Pegasus, 2011.
Le Scienze 41