Superstizioni

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Superstizioni
Superstizioni
di Franco Maria Puddu
Convinzioni, credenze
e assurdità che hanno
accompagnato
nei secoli
la vita dei marinai
”Superstizione s. f.
Insieme di credenze o pratiche rituali proprie di società o ambienti culturalmente arretrati fondate su
presupposti magici ed
emotivi non razionali.”
Con queste parole il
Vocabolario Illustrato
della Lingua Italiana di
G. Devoto e G. C. Oli
indica i modi di fare, le convinzioni a volte portate all’eccesso, le eredità ancestrali e gli atteggiamenti che, nel corso dei secoli, hanno fiancheggiato, guidato e alle volte condizionato l’esistenza
di buona parte dell’umanità, spesso seguendo percorsi alquanto illogici: per un europeo, ad esempio, il colore del lutto è il nero, mentre per un
giapponese è il bianco; per evitare di presentarsi
ad una festa in famiglia paludati del colore che richiama la Morte tutti e due sceglieranno abiti di
altre tinte, anche se, a meno di non dover partecipare a un funerale, non esiste alcun motivo per rifuggire dal nero o dal bianco.
Tutto nacque da due semplici, antichi quesiti:
quando, nella notte dei tempi, l’uomo riuscì a intuire il concetto di universo, la prima domanda
che si pose fu: “Cosa è la vita?” e, subito dopo:
“Cosa è la morte?”. Nei secoli, abbiamo cercato di
trovare una risposta alla prima domanda, ma non
siamo riusciti a darne alla seconda. Quel nostro
lontano antenato iniziò così a crearsi un mondo
di regole che, secondo lui, lo avrebbero salvato
dall’unica cosa che lo terrorizzava: l’ignoto.
Con il tempo aveva imparato a sconfiggere la
paura delle belve, degli altri uomini, degli elementi atmosferici e della fame, ma la morte costituiva un mondo sconosciuto sul quale non aveva
alcuna certezza. Non sapendo come affrontarlo,
dovette improvvisare.
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Così, il giorno che si
salvò miracolosamente
dalla micidiale zampata
di un orso, dopo aver
ucciso l’animale, inorgoglito dalla sua bravura o rispettoso della
forza della belva, questo non lo sappiamo,
prese le unghie della
zampa e se ne fece una
collana dalla quale si sentiva in un certo modo
protetto, e da quel momento non andò più a caccia senza indossarla. Erano nati il primo talismano e la prima superstizione.
A questa, nei secoli, se ne sarebbe aggiunta una
pletora indescrivibile che andava dai gatti neri alle trecce d’aglio, dai venerdì 17 ai giorni dai quali
bisogna bandire nozze, viaggi e nuovi lavori, dall’
infausto canto delle civette agli iettatori. Le grandi religioni cercheranno di fare giustizia di questa
messe di assurdità, ma avrebbero avuto migliore
fortuna se avessero tentato di svuotare il mare
con un cucchiaino.
“Non è vero ma ci credo”
Anche il più scettico dei credenti, infatti, è disposto a concordare pienamente sull’assurdità della
superstizione, rigettandola come frutto dell’ignoranza, ma poi, sulla base di un prudente “non è vero ma ci credo”, se uscendo di casa incontrerà un
gatto nero, non tornerà per questo indietro ma
siamo certi che rallenterà guardandosi attorno per
vedere se sopraggiunge qualcuno che tagli la scia
del felino prima di lui. Se non c’è, proseguirà senza dubbio il tragitto, ma con l’animo inconsciamente colmo di spiacevoli sensazioni.
Con il trascorrere dei secoli, queste strane abitudini, ossia le superstizioni, create inconsapevolmente dalla mente umana che mano a mano le perfe-
zionava adattandole a Paesi, necessità e mentalità,
palesandole a volte in maniera evidente, a volte
in sordina, sotto forma di precetti benefici oppure
come regole da seguire imperativamente, continuarono a dilagare sotto più forme.
Potevano essere salvifiche, a sfondo mistico, scaramantiche, a fini salutistici e altro ancora, quando non si fondevano in un variopinto bailamme
dalle mille sfaccettature. Peggio era quando restavano monotematiche, sconfinando nella mania
sino all’ossessione.
Tramandate di generazione in generazione divennero vere credenze popolari alle quali nessuno
sfuggì: lo schiavo nel circo e il nobile condottiero,
la bella castellana e lo svagato poeta, il razionale
capomastro e il patriota idealista, il cow boy e il
pilota spaziale. A questa regola non poteva fare
eccezione la gente di mare, senza distinzione tra
mercanti, guerrieri, vogatori, cerusici, preti, motoristi e cuochi.
Da quando il marinaio iniziò a credere che questo
o quell’evento avrebbe potuto essere per lui vantaggioso o nefasto? Difficile a dirsi, ma sappiamo
per certo dai ritrovamenti archeologici che gli
amuleti apotropaici (dal greco apotrópaios, che allontana), destinati ad allontanare gli influssi negativi, datano sin dal neolitico.
Nelle successive grandi civiltà, che istituzionalizzando le religioni le elevarono spesso a riti di
Stato, le navi, onerarie e da guerra, erano, quando necessario, oggetto di manifestazioni propiziatorie volte a proteggerle dagli elementi e dal
nemico.
Ciascuna aveva a bordo un minuscolo altare su
cui celebrarle, mentre i comandanti si facevano
proteggere dalle statuette delle divinità familiari,
ma il marinaio fidava nel suo amuleto e nell’oculus, l’occhio dipinto sulla prora della nave (usanza
comune a egizi, fenici, greci, cartaginesi e romani)
che doveva indicare la rotta e allontanare gli influssi maligni, più che nelle formule pronunciate
dai sacerdoti, spesso con un linguaggio tanto aulico da risultare incomprensibile.
Protetti dall’oculus
È da notare che l’occhio apotropaico, divenuto
elemento ornamentale, lo ritroviamo ancora oggi
sulla prora di molte imbarcazioni mediterranee,
come i bragozzi, i trabaccoli e le tartane dell’Adriatico e i luzzu maltesi, ma anche su quella di
altre barche da pesca di mezzo mondo.
Questo ci porta a notare che le superstizioni del
Alcuni amuleti neolitici, ricavati da ossa o denti di animali, ritrovati in scavi archeologici (la correggia di pelle è stata aggiunta); notare nei primi due la forma acuminata, tipicamente apotropaica, in quanto agli oggetti a punta, come il “corno” o un
chiodo, si attribuisce il potere di allontanare le entità malevole
marinaio sono, ci si passi il gioco di parole, molto
più con “i piedi per terra” di quelle di chi non si
allontana dalla costa.
Fermo restando il fatto che stiamo parlando di altre generazioni che per mare andavano seriamente, in pace o in guerra, e non erano certo naviganti della domenica, il marinaio non ha mai badato
molto a quelle superstizioni che sconfinano in un
immaginario fine a se stesso come quelle su vampiri, morti viventi, persone da cui diffidare o sistemi per attrarre i favori di belle fanciulle. Le sue
superstizioni sono molto “professionali” perché
in genere sono legate a tre cose: il suo lavoro, la
sua nave e il mare.
Alcune, ne faremo cenno, sono certamente strane, altre poco comprensibili, altre ancora scarsamente caritatevoli, ma, a ben guardare, hanno
tutte un motivo d’essere che poggia su basi realistiche.
Si dice, ad esempio, che sulle barche non si devono portare scarpe con la suola in cuoio o i tacchi
a spillo per le donne; questo, non è esatto. Oggi si
costruiscono ponti in materiali robusti ma più delicati di quelli di una volta, di ruvida quercia o
durissimo tek, quindi le scarpe “da città” che potrebbero lasciare qualche graffio non si devono
portare, ma più che altro per “bon ton”.
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L’occhio apotropaico che campeggia sulla prora dell’Olympias, la trireme fatta ricostruire dalla Marina greca, lo ritroviamo (da sinistra
in alto, in senso orario) nel luzzu maltese, nel trabaccolo di Cesenatico e anche in questo peschereccio armato impiegato dalle forze
speciali USA durante il conflitto vietnamita
L’antico divieto, che risale alla marineria velica,
faceva riferimento alle scarpe nuove (come pure
agli abiti nuovi) per un altro motivo: allora a bordo si indossava solo vestiario da lavoro. Quello
nuovo lo indossava il re vichingo steso sul suo
drakkar, pronto per il viaggio funebre; oppure il
marinaio che, nella sua casa a terra, stava per iniziare l’imbarco dal quale non si torna: quello sulla
navicella di Caronte. In altre parole chi era morto
ed era stato abbigliato per l’occasione. Quindi, a
scanso di equivoci, a bordo solo abiti e scarpe da
lavoro, di stoffa o di gomma.
Inoltre, a quei tempi, quando un marinaio si perdeva in mare, i suoi beni venivano subito divisi
fra gli amici (nella marineria inglese venivano
messi all’asta e il ricavato inviato alla vedova) e la
sua branda veniva fatta scomparire: non per avidità, ma per cancellare i segni della sua presenza,
e far sentire meno la sua mancanza ai sopravvissuti che, dimenticandolo, non avrebbero avuto da
pensare che un giorno o l’altro potevano fare anche loro quella fine. Il marinaio rischiava la vita
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ogni giorno e lo sapeva benissimo, ma non voleva
macerarsi in questa consapevolezza.
Anche per questo, i sacerdoti erano malvisti a bordo: prima di tutto perché, essendo preposti a somministrare l’Estrema Unzione, erano troppo a
stretto contatto con la Morte, e questo non rientrava nella simpatia dei marinai; ma soprattutto
perché Satana, sapendo che un servo di Dio si trovava sulla nave, avrebbe fatto di tutto per affondarla, quindi era meglio non correre rischi imbarcandoli. In tutti i casi, non bisogna accusare i naviganti occidentali di essere dei “mangiapreti”,
perché anche i giapponesi non tolleravano bonzi
a bordo delle loro navi, mercantili o da guerra.
Ma non erano solo i preti a non essere bene accetti: la stessa sorte toccava alle donne, cosa incredibile per un marinaio, ma motivatissima: in mezzo
a decine di uomini condannati al celibato forzato
da navigazioni lunghe mesi se non anni (qualcuno ogni tanto prendeva una...scorciatoia, tollerata
purché non evidente; Horatio Nelson diceva “facciano quello che vogliono, purché stiano calmi”), la
presenza di una donna, prima o
poi suscitava gelosie, invidie, risse
e coltellate, con il logico corollario di funerali e impiccagioni. Raramente le mogli di ufficiali o
sottufficiali ebbero il permesso di
seguire i mariti a bordo, e non si
trattò mai di decisioni felici; in
tre o quattro casi, nel mondo delAnne Bonny, una
la pirateria, delle donne vennero
delle due donne,
accettate a bordo ma, è intuibile,
l’altra fu Mary
si trattò di estreme eccezioni.
(Mark) Read, che
Un’altra superstizione, molto più
fu poi la sua compagna, che riuscimoderna e inspiegabile se non verono a farsi accetdendola come una versione intare a bordo dalla
conscia di quella appena citata,
comunità pirata,
ed ebbero anche
vuole che le donne non salgano a
una “carriera” ribordo perché i capelli lunghi si
spettabile, concluinfilano nelle filettature di viti e
sasi con il capestro
bulloni, creando vie d’acqua e facendo affondare la nave. Così dicevano, in particolare, i primi sommergibilisti.
Alla larga dagli avvocati
Esiste ancora un’altra categoria, gli avvocati, che
non deve salire la passerella per due motivi. Prima
di tutto perché lavorano con le parole, cosa poco
comprensibile e ancor meno gradita ai marinai;
poi perché spesso questi ultimi, con la loro vita raminga, erano costretti a tornare a bordo per poter
pagare i debiti contratti scialacquando in pochi
giorni l’ultimo premio d’imbarco, facili vittime degli avvocati, che, in Gran Bretagna, i naviganti
chiamavano landsharks, ossia “squali di terra”.
Altri fenomeni invece, anche se un tempo erano
considerati soprannaturali come i fuochi di Sant’Elmo, erano bene accetti a bordo. Sopra il rogo
sul quale il Santo (che in realtà si chiamava Erasmo, era vescovo di Formia ed in seguito divenne
protettore dei marinai) subì il martirio nel 303,
sotto l’imperatore Diocleziano, comparve una
fiamma blu che venne interpretata come l’Ascensione della sua anima.
Quindi le luminescenze blu vivo a forma di fiamma a una o più lingue che comparivano a bordo
delle navi alle estremità di oggetti appuntiti, come
alberi, antenne o pennoni, nell’aria ionizzata dei
temporali, venivano chiamate Fuochi di Sant’Elmo e si riteneva fossero un segno benevolo della
presenza del Santo, tanto che, alle volte, sui vascelli da guerra venivano tributati loro gli onori.
Si ha testimonianza della loro esistenza sin dal-
Una rappresentazione dei fuochi di Sant’Elmo in una stampa
pubblicata dalla rivista The Aerial World, di G. Hartwig, a Londra nel 1886
l’antichità (ne parla Giulio Cesare), segno che il
fenomeno era noto già prima della fine del povero Erasmo. Chi scrive questo articolo, imbarcato
alla fine degli Anni 60 sull’incrociatore Andrea Doria, in una occasione ebbe modo di vederli.
E quale rapporti intercorrevano tra i marinai e il
vento, elemento importantissimo e per secoli
principale energia motrice delle navi? Buoni, ma
da prendere con le molle.
Prima di tutto, secondo gli inglesi non si doveva
fischiare a bordo (come del resto non si doveva né
starnutire né accennare un passo di danza imbarcando) perché fischiare portava vento nelle vele,
ma bisognava farlo con cautela, e soprattutto non
si doveva assolutamente fischiare a sud del Canale
(la Manica), perché avrebbe portato sventura.
Anche una ballata francese confermava: “siffle gabier, siffle pour appeler le vent, mais sitôt la brise venu, gabier ne siffle plus!” (fischia, gabbiere, fischia
per chiamare il vento, ma appena il vento è arrivato, non fischiare più).
Per evitare il vento di prora, una iattura per le navi a vela, si doveva anche stare attenti... alle spese.
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Gusci d’uovo, il non plus ultra per la navigazione, i preferiti
da streghe e demoni; si prega di frantumare dopo aver consumato il loro contenuto onde evitare che il mare venga percorso da questi sgradevoli ospiti
di queste signore scagliando nella tempesta delle
frecce, una evidente allusione sessuale di quegli assatanati cacciatori di gonnelle.
Se però si scatenava una tromba d’aria, allora erano guai grossi, ma a tutto c’è un rimedio. In Italia, anzi, ne avevamo una serie: in Sicilia, quando
si riteneva che la tromba nascesse ad opera di un
demonio, lo si lusingava con una serie di bestemmie particolarmente oscene e atroci. Quando il
demone si avvicinava allo scafo ritenendo che i
marinai fossero anime perse, veniva colpito dalla
recita improvvisa del “Padrenostro Verde”; il perché del colore è ignoto, forse si trattava di una
preghiera infarcita di termini magici il cui contenuto non è giunto ai giorni nostri.
A questo proposito, ricordiamo che i marinai
non si sono mai vestiti di verde, perché tutti sanno che è un colore che porta sfortuna. In realtà
esiste un motivo che convalida questa scelta: il
verde è un colore che in mare è quasi impossibile
scorgere, e se un uomo vestito di verde cade fuori
bordo....
Invece, a chi veniva sepolto in mare, prima di essere messo nel sacco zavorrato con due palle di
cannone, venivano cucite simbolicamente le narici con un punto di refe, per essere certi che quel
povero corpo, già macerato dallo scorbuto oppure
squarciato dalla mitraglia, non respirasse più.
Un detto bretone ammoniva infatti “Vent debout,
vent debout sans fin: qui n’a pas payé sa catin?” ossia “vento di prua, vento di prua senza fine: chi è
che non ha pagato la sua puttana?” segno che i
debiti fatti nei porti con le signore di facili costumi dovevano essere onorati, altrimenti...
Ma spesso il vento nasceva da forme più ostili, e
per questo in Scozia e nel Regno Unito gli abitanti
dei paesi costieri recitavano novene a catena per
placare i diavoli del mare che li scatenavano; per i
tedeschi, il fenomeno atmosferico era causato da un
diavolo che passava portando con se l’anima di un impiccato, e si sarebbe placato
solo a sepoltura avvenuta.
In Bretagna, la colpa era dei
dispetti dei Tud Vor, i demoni neri che corrono sulle
onde, o dai Cornandoned,
gli gnomi marini.
Per quanto riguarda le
tempeste, però, tutti erano
concordi, la colpa era delle
streghe.
Tuttavia, le loro malefatte
potevano essere contrastate
agitando fazzoletti benedetti e gettando nelle acque ribollenti olio, gioielli,
oggetti preziosi; in Bretagna il marinaio più giovane
Quale pericolo può essere maggiore di una tromba d’aria? Due trombe d’aria, ma niente paue bello di bordo doveva
ra: con un coltello con il manico rosso o che non abbia mai tagliato cipolle, un buon esorcista vi può rapidamente cavare d’impaccio
placare l’eterno femminino
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La temibile Draunara
Nel meridione, contro le trombe d’aria si invocavano le grazie della Draunara (o Dragonara), per
alcuni una bellissima donna nuda che, agitando i
lunghi capelli sciolti, provocava i venti, mentre
per altri, il fenomeno era causato da un dragone
(drauni) che scuoteva la coda, mentre nel Veneto
la colpa era del “foleto marin”, che si poteva placare invocando Santa Barbara.
Per gli istriani, la generava “el Sion”, un potente
stregone, neutralizzabile tracciando sul ponte di
prora una stella a cinque punte, o pentacolo, mentre nelle Marche era composta da migliaia di anime
in pena che avevano subito torti da parte di qualche marinaio, e adesso tornavano per vendicarsi.
Per eliminarla si doveva prendere un coltello con
il manico rosso con il quale tracciare sul ponte
una croce inscritta in un cerchio; quindi si recitava una formula magica e si vibrava una violenta
coltellata alla croce; la tromba d’aria sarebbe
scomparsa. Un altro sistema prevedeva l’impiego
di un bastone e di un coltello che, per carità, non
avesse mai tagliato cipolle. Dopo aver recitato la
formula magica di turno, con una coltellata si tagliava in due il bastone, smezzando la tromba.
Ancora agli inizi dello scorso secolo, era facile riconoscere i vecchi lupi di mare osservandone il
comportamento a tavola, specialmente, sembra,
in Liguria. Infatti, se erano servite delle uova con
il guscio e un commensale lasciava nel piatto le
due fragili scodelline o, peggio, se qualcuno beveva un uovo senza frantumarlo, il nostro si sarebbe
senza dubbio peritato di polverizzare gli avanzi
perché, come tutti ben sappiamo, le streghe utilizzano i mezzi gusci come barche, mentre il Demonio trasforma quelli interi in galleggianti.
Per concludere, quale era
l’atteggiamento dei marinai nei confronti degli
altri esseri viventi che
condividevano con lui il
mare? Curiosamente la
loro attenzione fra le varie specie marine era polarizzata dai soli delfini,
evidentemente tutto il
resto era appetibile per la
padella, mentre in cielo
erano attratti da quasi
tutte le specie avicole di
mare anche se, a ben ve-
dere, il loro apparente rispetto era figlio del timore di ritorsioni ad una inutile crudeltà nei confronti dell’avifauna.
I delfini, fedeli compagni dei naviganti da sempre, come dimostrano antichi affreschi, saltando
davanti alla prora proteggono la nave, a meno
che il branco non la abbandoni al suo destino
cambiando improvvisamente rotta; anche i gabbiani sono dei protettori, mentre gli albatri, i
grandi uccelli marini del nord, attirano invece la
tempesta.
Nessun uomo di mare si sognerebbe mai di far del
male ad un delfino, un albatro o un gabbiano,
specie a questi ultimi che, secondo una leggenda,
incarnano le anime dei marinai morti in mare; i
loro stridii ricordano delle grida di qualcuno che
da lontano cerchi di richiamare l’attenzione di un
amico dal quale non riesce a farsi capire.
Ma, a ben vedere, anche questa, come tutte quelle
che abbiamo citato in precedenza e tante altre per
narrare le quali non abbiamo avuto spazio, è una
leggenda, e come tutte le leggende contiene appena quel pizzico di realtà che le rende verosimili, il
resto è fantasia. Abbiamo parlato solo di quelle favole, belle o brutte, che da secoli attirano l’attenzione dell’uomo, in particolare dell’uomo di mare
che, in fondo alla sua anima, per quanto possa
apparire a volte duro, insensibile e anche crudele,
rimane sempre un poco bambino.
Non abbiamo parlato che di storie, di mare ma solo storie. Però, per chi li ha avuti come compagni
di navigazione nelle fredde giornate invernali,
quando il grigio del mare non si distingue dal grigio del cielo e il vento gelido si intrufola sotto il
giaccone pesante, effettivamente i gabbiani, con
■
quelle loro grida solitarie e tristi....
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