La famiglia: i rapporti personali tra i coniugi

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La famiglia: i rapporti personali tra i coniugi
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Capitolo 1
La famiglia: i rapporti personali tra i coniugi
1.1 L’indirizzo familiare e l’accordo tra i coniugi
Come si è accennato nell’introduzione, dal momento in cui i rapporti tra i coniugi sono stati regolati dai principi costituzionali della eguaglianza e pari dignità
degli stessi, è evidente che il legislatore, sia pure con grande ritardo, abbia dovuto
adeguare il diritto di famiglia al rispetto dei principi costituzionali, e quindi abbia
dovuto riconoscere negli artt. 144 e 145 c.c. che l’indirizzo della vita familiare fosse deciso con il concorso delle volontà dei due coniugi. Ne è conseguito che la
struttura autoritaria che caratterizzava la famiglia fino al 1975 è stata sostituita da
una struttura caratterizzata dall’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, che decidono l’indirizzo della vita familiare in piena autonomia, che si manifesta nell’accordo e quindi nella stipulazione di veri e propri negozi giuridici familiari. Il che significa che la regola fondamentale che caratterizza i rapporti tra i coniugi è quella
dell’accordo e quindi nei sopraindicati articoli si specifica come quest’ultimo sia il
metodo che gli stessi dovranno seguire per regolare i rapporti tra di loro.
Peraltro, si deve sottolineare come tale metodo posto a base delle relazioni familiari abbia in realtà offerto molte buone prove di sé non solo nella vita, ma anche nella crisi del rapporto coniugale.
Va detto che parte della dottrina e per alcuni versi anche parte della giurisprudenza hanno negato all’atto della entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia, ed alcuni negano tutt’ora, che la natura delle intese tra i coniugi sia di carattere negoziale.
L’affanno con cui una serie di autori, critici rispetto alla autonomia negoziale
dei coniugi e al riconoscimento del negozio giuridico familiare, sostengono l’esistenza di limiti alla libertà dei coniugi, è davvero singolare perché nessuno ha mai
sostenuto che la stessa sia, diversamente dalle altre libertà, assoluta e che la stessa
non incontri limiti di sorta, non fosse altro che il limite della libertà dell’altro.
Questo tentativo di sostenere che, non essendo la libertà dei coniugi assoluta, la
conseguenza sia quella della impossibilità di riconoscere la autonomia negoziale
agli stessi, è una affermazione errata, in quanto persino nei contratti aventi ad oggetto un contenuto esclusivamente patrimoniale, le parti hanno limitazioni date da
norme di carattere generalissimo. Parimenti errato è sostenere che la nostra Carta
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costituzionale tutela la famiglia, perché al contrario in forza della nostra Costituzione sono tutelati i singoli componenti della stessa.
L’indirizzo della vita coniugale pertanto altro non è che il programma di vita
che liberamente i coniugi delineano per sé e per i propri figli, che non ha certo
solo un contenuto patrimoniale (ad es. quanta parte dei rispettivi guadagni si risparmia, come si investono gli stessi, quale deve essere il tenore di vita...), ma ha
contenuti di natura interpersonale: quali sono i principi in forza dei quali si operano le scelte dei coniugi tra loro e quali sono i principi in base ai quali i coniugi
educheranno i figli.
Una codificazione di tutti i diversi contenuti che possono comporre tale indirizzo, oltre a essere impossibile, contrasta con la libertà degli stessi.
La giurisprudenza costituzionale e anche di merito si è occupata del problema
dell’autonomia dei coniugi, sia con riferimento alla fissazione della residenza coniugale, sia sotto il profilo della possibilità per la moglie di interrompere la gravidanza senza sentire o contro il parere del marito. La Corte costituzionale ha affrontato il problema dell’interruzione volontaria della gravidanza con la sent.
31.3.1988 n. 389 in «Giust. Civ.», 1988, I, 1381 e segg., risolvendo il quesito con la
dichiarazione della manifesta inammissibilità costituzionale. La giurisprudenza di
merito, dinanzi alla richiesta di pronuncia di addebito della separazione nei confronti del coniuge che ha interrotto la gravidanza contro il parere dell’altro coniuge, ha dovuto disattendere la richiesta di pronuncia di addebito, in quanto l’esercizio di un diritto garantito dalla normativa vigente non poteva certamente tradursi
in una violazione degli obblighi nascenti dal rapporto di coniugio.
1.2 Indirizzo familiare e interesse dei figli
È necessario ricordare come oggi i genitori abbiano il compito di crescere,
istruire ed educare i figli tenendo conto di quelle che sono le capacità, l’inclinazione naturale e le aspirazioni dei figli stessi.
Il cambiamento di ottica rispetto al passato è evidente e nell’ambito di questi
obiettivi la libertà dei genitori è e deve essere totale. Dico questo perché in quelle
che sono le valutazioni effettuate nel corso delle Ctu, ma molto più spesso nelle relazioni di servizio sociale, il metro di valutazione delle capacità genitoriali delle
parti viene fatto non in relazione ai suddetti principi, ma sulla scorta di modelli familiari che sono o quelli degli operatori sociali o quelli generalmente riconosciuti,
magari dalla pubblicità, come modelli di riferimento delle famiglie. Tutto ciò è illegittimo e inammissibile, in quanto ai genitori deve essere lasciata la libertà di scegliere e costruire il proprio modello di famiglia, il tutto con l’unico limite del rispetto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli stessi.
Le scelte relative ai figli debbono quindi essere frutto di accordo tra i genitori,
accordo che dovrà tenere conto del limite posto dalla norma.
Questo principio contenuto nell’art. 147 c.c., assieme ai principi contenuti negli artt. 144 e 145 c.c., costituiscono i punti più qualificanti della riforma introdotta con la legge 19.5.1975, n. 151, quelli cioè caratterizzati dal principio della parità
dei coniugi in quanto tali e in quanto genitori e dal metodo dell’accordo quale sistema al quale gli stessi debbono fare riferimento nella gestione comune del gover-
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no della famiglia, con l’intervento del giudice laddove l’accordo non venga raggiunto.
Non vi è quindi dubbio che la posizione dei figli minori per effetto di tali modifiche legislative che hanno realizzato il contenuto dell’art. 30 della Carta costituzionale, diviene una posizione di rilevanza, diversamente che per il passato, all’interno della compagine familiare nella quale i genitori esplicheranno la propria
autonomia negoziale, tenendo conto dell’obbligo di crescere, istruire e mantenere
la prole.
Poco dopo l’entrata in vigore di tale norma, si è incominciato a utilizzare il termine «interesse del minore», con sempre maggiore frequenza fino a quando detto
termine ha, dapprima perso il significato atecnico con il quale era inizialmente utilizzato, e poi, in modo da dare al medesimo un significato assolutamente non condivisibile, in concomitanza con il tentativo di degiurisdizionalizzare questa materia. Infatti i minorenni sono cittadini che hanno pieni e pari diritti a quelli degli
adulti, con la differenza rispetto a questi ultimi che i primi non hanno, fino al compimento della maggiore età, l’esercizio di tali diritti. Da questo a dire che i minori
sono portatori di interessi, degradando così in un colpo solo i diritti dei minori a interessi, con l’inevitabile spostamento della soluzione dei problemi che li riguardano,
dalla giurisdizione all’amministrazione è un passo tanto grave quanto pericoloso.
1.3 Il rapporto tra i doveri esistenti tra i coniugi e le libertà personali
degli stessi
I doveri tra i coniugi sono indicati e dettagliati nell’art. 143 c.c. e, quel che colpisce immediatamente dopo aver letto detta norma, è come la stessa non faccia alcuna distinzione tra quelli che sono doveri che attengono ai rapporti personali e
quelli aventi a oggetto i rapporti patrimoniali tra i coniugi. Vale la pena di interrogarsi su quale sia la relazione tra i doveri indicati all’art. 143 c.c. e la libertà della
persona. La domanda è rilevante in quanto è proprio dal chiarimento dell’essenza
di questa relazione che potremo trarre gli elementi utili ai fini della verifica se vi
siano o meno le condizioni per la pronuncia in ordine all’addebito, poiché configurano addebito della responsabilità non solo le violazioni degli obblighi nascenti
dal matrimonio, ma anche tutti quei comportamenti che hanno violato il principio
dell’uguaglianza dei coniugi.
Si è detto che la regola dell’accordo è la caratteristica innovativa della riforma
del diritto di famiglia, sarà necessario rispondere se tale regola è valida anche in
ordine a quelli che sono i diritti personalissimi delle persone.
Ovviamente la risposta non può che essere negativa in considerazione del fatto
che detti diritti non possono incontrare limitazione alcuna, neppure per effetto di
un accordo tra le parti. Tale constatazione non inficia però, come sostengono alcuni autori, né il metodo dell’accordo né tantomeno la autonomia negoziale tra i coniugi.
È utile riflettere come neppure un contratto avente a oggetto prestazioni economiche da un lato, e la rinuncia a diritti personalissimi dall’altro, sia un accordo
valido ed efficace, proprio per il principio della indisponibilità di questi diritti.
Tra le libertà costituzionalmente garantite dall’art. 2 Cost. ricordiamo la liber-
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tà di manifestazione del pensiero, la libertà religiosa, la libertà di associazione. La
dottrina e soprattutto la giurisprudenza si sono dettagliatamente occupate della
questione. Una numerosa produzione giurisprudenziale ha chiarito come i coniugi
siano liberi di intrattenere relazioni con persone, sempre che ciò non integri la violazione del dovere di fedeltà, e come al coniuge, che limita o impedisce tale diritto,
dovrà essere addebitata la separazione perché tale comportamento integra la violazione della libertà di autodeterminazione dell’individuo.
Numerose sono state le pronunce rispetto alla libertà religiosa che hanno negato l’addebito in quelle situazioni in cui uno dei coniugi abbia nel corso del matrimonio mutato fede religiosa.
L’esame della giurisprudenza al riguardo è interessante per una constatazione:
al momento della crisi coniugale si è tentato di piegare il concetto di addebito a
ogni e qualsiasi comportamento tenuto dall’uno o dall’altro coniuge, svilendo in
tal modo questo istituto giuridico con la conseguenza che oramai l’addebito viene
riconosciuto dalla giurisprudenza assai raramente proprio perché se ne è abusato
in modo inutile e sterile, e per fini che erano ben diversi dal reale accertamento
dell’esistenza degli estremi dell’addebito.
1.4 L’individuazione dei doveri e diritti tra coniugi
È senza dubbio fondamentale, nell’affrontare il tema della separazione e del
divorzio, fare il punto di come attualmente la giurisprudenza abbia elaborato, e
per alcuni versi anche modificato, il contenuto dei doveri tra i coniugi individuati
dall’art. 143 c.c. Intendiamo riferirci ad esempio a tutta la produzione giurisprudenziale sul dovere di fedeltà con riferimento alla inseminazione eterologa, sul dovere di assistenza morale e materiale, sull’obbligo di collaborazione nell’interesse
della famiglia, sull’obbligo di coabitazione, sul dovere di contribuzione.
Il dovere di fedeltà è sempre stato considerato il più significativo degli obblighi coniugali, a tutela del valore dell’unità familiare, e in buona sostanza «nume
tutelare» di una idea monogamica della famiglia. Tale concezione negli anni si è
modificata, anche a seguito di importanti decisioni della Corte costituzionale intervenute, si badi, ben prima della legge 151/75, come la sentenza che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa penale in ordine all’adulterio, nonché le numerose sentenze che hanno limitato i comportamenti che violavano
l’obbligo della fedeltà ai soli comportamenti gravemente ingiuriosi per l’altro coniuge.
È necessario rilevare come, a seguito della riforma del 1975, il significato e la
portata dell’obbligo di fedeltà sia stato notevolmente modificato e interessante è la
definizione che ne dà la Corte di Cassazione1 che afferma:
«che il dovere di fedeltà, collocato dall’art. 143 c.c. tra gli obblighi nascenti dal matrimonio, consiste nell’impegno, ricadente su ciascun coniuge, di non tradire la fiducia reciproca ovvero di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi, che
dura quanto dura il matrimonio e non deve essere intesa solo come astensione da relazioni
1 Cfr.
Cassazione 19 settembre 1997 n. 9287, in «Giust. Civ.», 1997, I, 2385.
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sessuali extraconiugali. È a dir poco riduttivo concepire quel dovere come mera astensione
dall’adulterio. E in effetti la nozione di fedeltà coniugale va avvicinata a quella di lealtà, la
quale impone di sacrificare gli interessi e le scelte individuali di ciascun coniuge che si rivelino in conflitto con gli impegni e le prospettive della vita comune. In questo quadro la fedeltà affettiva diventa componente di una fedeltà più ampia che si traduce nella capacità di
saper sacrificare le proprie scelte personali a quelle imposte dal legame di coppia e dal sodalizio che su di esso si fonda».
Il problema posto dall’inseminazione eterologa ha portato a soluzioni giurisprudenziali davvero impossibili da condividere. Infatti la giurisprudenza, (V. al riguardo Trib. Cremona 17.2.1994, «Fam. e dir.», 1994, 180) è pervenuta alla affermazione che anche in presenza del consenso di entrambi i coniugi alla
inseminazione eterologa, ci si troverebbe di fronte alla violazione del dovere di fedeltà, che in quanto dovere indisponibile e inderogabile non può in alcun modo
essero oggetto di accordo dei coniugi.
Va detto come gli autori più avvertiti, come Massimo Dogliotti, correttamente
si siano interrogati sulla trasformazione dell’obbligo di fedeltà in un dovere morale. Partendo dalla considerazione che il dovere di fedeltà non è posto a tutela del
decoro dell’altro coniuge, bensì a tutela del consolidamento della comunione,
sono giunti ad affermare che, se questo è il bene che la fedeltà deve tutelare, allora
l’accordo dei coniugi in ordine alla inseminazione eterologa non può essere inteso
come accordo sulla violazione dell’obbligo di fedeltà, ma per paradossale che possa apparire, certa espressione proprio di quell’obbligo di fedeltà inteso come generale impegno di solidarietà tra i coniugi.
Il dovere di assistenza morale e materiale, ha come contenuto l’obbligo di solidarietà e protezione reciproca tra i coniugi. A tale riguardo la giurisprudenza si è
occupata dell’obbligo di assistenza morale e materiale proprio in relazione alla malattia di un coniuge, che rende «particolarmente attuale e imperioso il dovere di
assistenza da parte del coniuge sano a favore dell’altro»2. Conseguentemente l’obbligo di assistenza morale e materiale, lungi dall’essere motivo che giustifichi la separazione, e meno che mai l’annullamento del matrimonio, diviene elemento fondante della solidarietà coniugale. Si può quindi affermare che il dovere di
assistenza è l’obbligo che più di tutti gli altri caratterizza il complesso dei doveri
che discendono dal matrimonio in forza della riforma del 1975: è infatti il riconoscimento della supremazia degli affetti e della solidarietà rispetto agli obblighi caratterizzati dal potere e dalla forma gerarchica vigente nel passato.
Va detto altresì che la giurisprudenza più recente, in ordine alla malattia psichica, ove la stessa sia perdurante nel tempo e si manifesti in forme tali da alterare
la vita coniugale e rendere impossibile la prosecuzione della convivenza, ha riconosciuto proprio per tale impossibilità che la stessa sia motivo di separazione.
L’obbligo di collaborazione nell’interesse della famiglia si distingue dal dovere
di assistenza morale e materiale, in quanto quest’ultimo ha riguardo ai rapporti
specifici e reciproci tra i soli coniugi, mentre il primo opera con riferimento all’intera comunità familiare e quindi laddove vi siano dei figli, questo obbligo verrà poi
sostanziato nell’art. 147 c.c. È evidente come questo obbligo di collaborazione sia
2 Cfr.
Tribunale di Torino 29.6.1981, in «Giust. Civ.», I, 1982, 751 e segg.
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profondamente legato al metodo dell’accordo tra i coniugi, non essendo possibile
collaborare, cioè lavorare insieme, se non avendo un preventivo accordo comune
che individui verso che cosa debba tendere e in che modo si debba realizzare tale
lavoro comune, e conseguentemente iniziative personali non concordate potrebbero anche costituire una violazione dell’obbligo di collaborazione.
L’obbligo di coabitazione, ha creato al momento dell’entrata in vigore della riforma, notevoli problemi, e spesso ci si è sentiti chiedere, alla luce dell’abrogazione dell’istituto dell’abbandono del tetto coniugale, e oramai i coniugi non fossero
più tenuti a convivere. Mentre in passato era il marito a fissare la residenza coniugale con il relativo obbligo della moglie di seguirlo, dopo la riforma, i coniugi hanno ancora sicuramente l’obbligo di convivere, ma dovranno stabilire di comune
accordo la residenza familiare. Tale obbligo, per effetto di una serie di fatti tra i
quali ha certamente una notevole rilevanza la maggiore mobilità dei coniugi rispetto al passato, soprattutto per motivi di lavoro, può essere reso non quotidiano e
continuo per fatti e circostanze particolari. Questo obbligo sarebbe più propriamente definibile come dovere di convivenza, termine certamente di maggiore ampiezza che consentirebbe ai coniugi di meglio modellare le proprie scelte sulla
scorta delle particolari esigenze di ciascuno. Ciò non significa che i coniugi siano
legittimati ad allontanarsi da casa senza un preventivo accordo e senza una giustificata ragione.
Il dovere di contribuzione, in precedenza previsto solamente a carico del marito e a carico della moglie solo laddove il marito non avesse i mezzi sufficienti a
provvedere, realizza il principio della parità tra i coniugi che insieme decidono e
insieme contribuiscono ai bisogni della famiglia, secondo le potenzialità delle proprie sostanze e in base alla capacità di lavoro professionale o casalingo di ciascuno.
Il richiamo alla proprorzionalità come unità di misura dell’obbligo di contribuzione, non lo si trova all’art. 143 c.c., bensì all’art. 173 c.c.; esso non deve essere inteso nel senso letterale del termine, in quanto, nel corso della vita coniugale, i coniugi sono tenuti a dare secondo le proprie sostanze e secondo le proprie capacità di
lavoro, e la verifica vi sarà al momento della patologia del rapporto in sede di separazione o divorzio, o quando uno dei coniugi è inadempiente.
Il criterio della proporzionalità, come detto, si trova all’art. 173 c.c. in tema di
separazione giudiziale che può essere pronunciata anche quando uno dei coniugi
non contribuisca alle necessità della famiglia «in misura proporzionale alle proprie
sostanze e capacità di lavoro».
Infine è necessario chiarire come, di fatto, sia impossibile creare una sinallagmaticità tra gli obblighi che discendono dal matrimonio e i diritti ad essi correlati e
ciò perché un parallelo tra gli stessi sarebbe talmente vago e generico da non rivestire la ben che minima rilevanza pratica e, in quanto tale, questa operazione sarebbe in realtà un vuoto esercizio di algebra giuridica priva di ogni rilevanza sostanziale.
1.5 I doveri coniugali e gli accordi tra coniugi
Come conciliare, se possibile, il principio dell’accordo tra i coniugi e i doveri
che loro incombono è sicuramente un tema di particolare rilevanza.
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Una volta che si è passati dalla concezione istituzionale del diritto di famiglia a
una concezione costituzionale della stessa, nella quale al metodo dell’accordo viene dato natura fondante dei rapporti familiari, è lecito interrogarsi sul tema se siano derogabili per effetto dell’accordo tra i coniugi i doveri che discendono dal
rapporto di coniugio.
Tale tema, anche per la sua particolare natura, ha portato sia dottrina che giurisprudenza a schierarsi su due fronti contrapposti caratterizzati da un lato, da
quanti ritengono assolutamente applicabile a dette situazioni l’art. 160 c.c., convinti quindi che le norme relative ai doveri coniugali siano assolutamente inderogabili, dall’altro quanti ritengono inapplicabile l’art. 160 c.c. e, conseguentemente,
che il diritto di libertà e il diritto a realizzare in pieno la propria personalità siano
tali proprio perché liberamente disponibili.
Ormai si fa sempre più spazio la tesi della derogabilità degli obblighi nascenti
dal matrimonio in forza di uno specifico accordo tra i coniugi. Conseguentemente
il vero e unico limite alla derogabilità dei diritti disciplinati dall’art. 143 c.c. è quello del rispetto della reciprocità dell’accordo in ordine alla derogabilità di questo o
quell’obbligo e ciò, non solo per tutelare e garantire il principio della parità dei coniugi costituzionalmente garantito, ma, soprattutto, perché non si verifichino situazioni di supremazia e predominio che costituirebbero situazioni di grande squilibrio all’interno del rapporto coniugale. Inammissibile sarebbe quindi l’accordo
in ordine al non rispetto di un determinato obbligo in assenza dell’essenziale requisito della reciprocità e ciò al fine di garantire quel principio di parità che il legislatore costituzionale ha inteso introdurre, al quale il legislatore ha dato pratica
applicazione con la legge 151/75.
Vi potranno essere quindi accordi aventi a oggetto l’obbligo di coabitazione,
ma sarà più difficile ritenere ammissibile un accordo che ponga nel nulla l’obbligo
di contribuzione in quanto, a prescindere dalla difficoltà di ipotizzare una famiglia
priva di bisogni, è chiaro che, se bisogni vi sono, sarebbe inammissibile un accordo tra due coniugi volto a porre nel nulla un obbligo che gli stessi hanno nei confronti di terzi, in questo caso i figli. Gli stessi coniugi ben potranno concordare le
modalità e le misure del proprio personale contributo.
1.6 I doveri dei coniugi nei confronti dei figli
L’impegno dei genitori nei confronti dei figli, a fare sì che questi siano educati
e cresciuti in modo che le loro inclinazioni personali, le loro capacità e le loro aspirazioni trovino il massimo di accoglienza, è il ruolo che il legislatore del 1975 ha riservato loro. Impegno tanto entusiasmante quanto arduo, in quanto richiede che il
genitore riesca a imporsi di non tenere conto delle sue personali aspirazioni, ma
solamente di quelle del figlio.
La funzione educativa, collegata alla potestà del genitore e l’autonomia di valutazione e la volontà del minore richiedono, per essere coniugate, una notevolissima dose di attenzione e di «leggerezza» e una altrettanto notevole dose di «autorevolezza» e «fermezza». Rispetto al passato, il minore da oggetto di tutela e cura
diviene soggetto portatore di diritti, caratterizzato solo dal fatto di essere una persona che necessita di protezione; anche se a torto, quando si parla dei minori, è
malauguratamente invalso l’uso di utilizzare la parola «interessi».
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Va detto che nei rapporti con i genitori, al minore è lasciato un margine di autonomia che riconosce al medesimo la possibilità di partecipare a determinate
scelte che lo coinvolgono; ci si riferisce ad es. alla norma di cui all’art. 84, 2° comma, c.c. relativa al matrimonio, all’assenso del figlio di età superiore ai 16 anni per
quel che attiene il riconoscimento ex art. 250, 2° e 5° comma, c.c., al diritto di essere sentito in caso di conflitto tra i genitori, sia per quel che attiene all’esercizio
della potestà che per quel che riguarda l’indirizzo della vita familiare, rispettivamente artt. 316, 5° comma, c.c. e 145, 1° comma, c.c.
È a tal fine utile ricordare come, tanto per effetto delle normative internazionali, che per un diverso atteggiarsi di fronte al problema dell’audizione del minore
in alcuni giudizi che lo riguardano, sia indubitabile un ampliamento della autonomia del minore, problema che è intrinsecamente connesso alla potestà parentale; la
maggiore difficoltà in merito è rappresentata dal fatto che con la riforma si sono introdotti nuovi principi, ma non si è poi intervenuti a modificare e adattare i principi
contenuti negli artt. 316 e 320 c.c.
Uno dei temi che è causa degli scontri di maggiore importanza tra genitori e figli adolescenti è ad esempio quello della scelta delle persone con le quali intrattenere relazioni sociali e anche il tipo di relazioni che i minori vanno intrattenendo o
delle pretese di alcuni genitori di imporre ai figli minorenni determinate relazioni
sociali.
Temi di notevole interesse sono quelli che riguardano le scelte religiose, oltre a
quelle culturali e politiche e a quelle lavorative dei minori.