Sociologia e spatial planning: l`esperienza italiana, di Annick Magnier

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Sociologia e spatial planning: l`esperienza italiana, di Annick Magnier
Sociologia e spatial planning: l’esperienza italiana
Annick Magnier
Lo spatial planning italiano, alla convergenza di due processi di innovazione
In Italia, dalla metà degli anni Novanta, due intensi movimenti di riforma investono l’attività degli enti locali nel governo del loro territorio. Ambedue si intrecciano con la riforma dell’attività regionale di pianificazione,
il primo per l’affermarsi del federalismo urbanistico, il secondo per la via
scelta in Italia nella definizione del Quadro Strategico Nazionale, che ha
affidato alla Regioni l’individuazione delle loro proprie linee strategiche
sulla base di poche raccomandazioni del governo centrale.
Il movimento di revisione delle pratiche e della cultura amministrativa nazionale etichettato ‘pianificazione strategica’ trova dal 1998, con l’esperienza
torinese, una sua declinazione ‘territoriale’ che investe in meno di dieci anni,
con modalità diverse, alcune province, ma soprattutto molti piccoli e grandi
comuni, in particolare una quota importante dei capoluogo di provincia.
Nel contempo si assiste all’evoluzione, altrettanto dirompente, di modalità di analisi e di tratti operativi di pianificazione fisica (urbana e territoriale) che ha portato dall’inizio degli anni Novanta alla costruzione di nuove
procedure di spatial planning. Nelle sue diverse declinazioni regionali,
questo sistema nuovo attribuisce al piano funzioni, contenuti e attori spesso
in totale contrasto con quello instaurato dal testo Unico del 1942, che ha
modellato fino ad oggi mestieri e mondo dell’urbanistica. Ma è l’intero apparato normativo di governo del territorio e più in generale di programmazione pubblica a trovarsi progressivamente coinvolto in un ampio processo
di razionalizzazione e ricostruzione, ancora largamente in fieri. Dopo la definizione, imposta dall’appartenenza all’Unione Europea e del tutto inedita
nella storia politico-amministrativa nazionale, di primi indirizzi nazionali di
riassetto del territorio (il Quadro Strategico Nazionale emanato a fine dicembre 2006), il dibattito si è allargato, da una parte allo stesso sistema degli enti locali (dove si ribadisce tra l’altro la necessità di affrontare lo snodo
del livello metropolitano di governo), d’altra parte al sistema della pianificazione fisica, oggetto perfino pur senza successo di proposte legislative di
riforma complessiva, nell’intento di recepire e approfondire le trasformazioni già avvenute: ciò nella direzione dell’integrazione con la pianificazione socio-economica e della cooperazione tra livelli decisionali: non più
quindi mera ‘urbanistica’, ma ‘governo del territorio’.
Questi due movimenti culturali (riforma delle norme che reggono la pianificazione fisica, sviluppo della pianificazione strategica) appaiono generati
da comunità di saperi diversi, che guardano soprattutto, l’uno alla giurisprudenza e all’urbanistica, l’altro alle scienze sociali, economia, scienza
dell’amministrazione ma soprattutto sociologia.
I sociologi nella comunità di sapere del ‘piano strategico’ italiano
L’ispirazione della prima esperienza italiana, quella torinese, è attribuita ad
Arnaldo Bagnasco, nella concezione del processo e nella sua messa in opera.
Le altre esperienze pionieristiche che sono varate nei cinque anni che seguono,
dichiarano nei loro manifesti, in alcuni casi svilupparsi all’interno delle amministrazioni locali, certo con brevi deleghe di operazioni tecniche, ma sotto un
coordinamento generale affidato a dirigenti oppure a responsabili di uffici tecnici esternalizzati, ma più spesso ricorrere ampiamente a comitati tecnici in
stragrande maggioranza coordinati da scienziati sociali: molti economisti, ma
più spesso scienziati dell’amministrazione o della politica o sociologi. Meno
frequenti sono i casi in cui il gruppo di consulenza (in questo caso assai composito) è coordinato da urbanisti.
Torino
La Spezia
Firenze
Piacenza
Trento
Venezia
Pesaro
Piano strategico Nord Milano
Bologna
Perugia
Area Varesina
Palermo
Catania Città metropolitana
Verona
Vercelli
Comuni del Copparese
1998
1999
2000
2000
2000
2001
2001
2001
2001
2002
2002
2003
2003
2003
2003
2003
Arnaldo Bagnasco, sociologo
Roberto Camagni, economista
Carlo Trigilia, sociologo
Interno
Interno
Interno
Bruno Dente, politologo
Comitato scienze umani
Interno + comitato
Gastone Ave, urbanista
Gioacchino Garofoli, economista
Maurizio Carta, urbanista
Interno
Federico Butera, sociologo
Paolo Perulli, sociologo
Gastone Ave, urbanista
Tab. 1
Ritroviamo molte tra queste città pioniere nella rete ‘Città strategiche’: essa è
ad oggi l’unica rete italiana che raccoglie città che si sono cimentate
nell’esperienza di un piano strategico, anche se qualche progetto di costituzione
di rete alternativa per particolari categoria di città è a volte emerso. Obiettivi dichiarati1: «diffondere l’approccio della pianificazione strategica quale modello di
governance locale ed europea; Promuovere attività di benchmarking; Avanzare
proposte di servizi collettivi; Rafforzare il ruolo delle città nello scenario nazionale e internazionale; Ricercare strumenti di supporto alla pianificazione strategica urbana; Realizzare l’Osservatorio Internazionale delle città; Ampliare il numero dei soggetti competenti» (www.recs.it). Il gruppo promotore è costituito da
sette città tra le prime ad aver sperimentato il Piano strategico, con modalità assai
diverse, ma che riconoscono come comuni alcuni ‘motivi’ per costruire un piano
strategico, riassunti nel proclama costitutivo dell’Associazione: Firenze, Torino,
Trento, Venezia, Verona, Spezia, Pesaro.
Vi si trova oggi associata una trentina di città, città che hanno aderito
formalmente al proclama costitutivo dell’Associazione e condividono la
volontà di offrire in una vetrina nazionale e internazionale qualche sunto
dell’innovazione introdotta, di scambiare informazioni sui processi in corso. La rete, per gli incontri organizzati e per la sua partecipazione alla convegnistica nazionale sull’innovazione nella pubblica amministrazione, è il
luogo nel quale si costruisce la narrazione e la codifica culturale dominante
del movimento italiano per la pianificazione strategica. La composizione
del comitato scientifico, che «ha il compito di indicare gli orientamenti della Rete ed accompagnare e sostenere le sue attività dal punto di vista scientifico e culturale»(www.recs.it), illustra ulteriormente, nel più attivo nucleo
produttore di norme sociali per i piani strategici territoriali, la predominanza della sociologia e della scienza politica (componenti citati: Luigi Bobbio, Roberto Camagni, Bruno Dente, Paolo Perulli, Fabio Rugge, Carlo
Trigilia).
Confrontando i due movimenti di riforma
I due movimenti che contribuiscono negli ultimi anni alla costruzione
del sistema italiano di spatial planning, la riforma della pianificazione ‘fisica’, la diffusione della pratica della pianificazione strategica territoriale,
hanno diversa portata sotto il profilo dell’istituzionalizzazione. Il primo ha
dato luogo ad una sequenza importante di momenti di istituzionalizzazione
1
Più generalmente si afferma: «La rete si muove nell’ambito della promozione e del sostegno
della governance locale. La rete intende affermare e sviluppare modelli di governance efficaci per
la definizione di strategie urbane e la loro messa in atto, attraverso il confronto tra strumenti e
procedure funzionanti, già in corso nelle città europee, e l’individuazione e la sperimentazione di
nuovi modelli possibili. Questi, i principali obiettivi che la rete intende perseguire» (www.recs.it).
‘legale’, quindi ad un sistema giuridico nuovo, l’altro si è espresso nella
moltiplicazioni di esperienze, libere fino a pochi mesi fa di riferimenti e
quadri normativi, azioni collettive ‘informali’ che, a guardarle da vicino,
appaiono disparate, nelle loro ambizioni e nel loro impatto.
Fino ad oggi dobbiamo considerare che si sono sostenuti a vicenda, come potrebbe suggerire la semplice osservazione della concordanza nei tempi di sviluppo; o che sono da contrapporre l’uno all’altro?
In alcuni attori, politici, imprenditori in particolare, ma anche teorici della
pianificazione, si constata che il piano strategico è interpretato come la soluzione a (o la via di fuga da) le lungaggini e la farraginosità della norma, anche
se rinnovata, della pianificazione fisica. Camagni, nel volume collettivo che
lancia il tema nel dibattito urbanistico accademico italiano (Curti-Gibelli
1996), è in forma più propositiva nella raccolta successivamente curata da Pugliese e Spaziante (2003), presenta il piano strategico come una delle soluzioni
razionali alla crisi del piano tradizionale. L’introduzione della sua razionalità
procedurale è il mezzo per uscire dall’impasse pianificatoria, superare la narrazione della crisi o la mera accettazione della progettualità mossa dagli interessi
forti, nella quale si è are nata la cultura urbanistica. Lo consente, secondo Camagni, per alcune sue caratteristiche definitorie: la partecipazione della cittadinanza e nuove pratiche di comunicazione finalizzate alla definizione dei progetti concreti; la democraticità del percorso gestito dall’autorità pubblica;
l’attenzione alla costruzione del futuro piuttosto che all’interpretazione del passato; la valorizzazione del ruolo delle tecnostrutture nelle sue diverse articolazioni e professionalità integrate (urbanistica, trasportistica, economica, idrogeologica e valutativa).
Altri invece vorrebbero chiudere la strada a tali esperienze ribadendo
che il piano fisico rimane l’unica tutela del bene collettivo contro una modernizzazione approssimativa attuata da amministrazioni che ragionerebbero sulla durata del mandato anche quando si pretendano ‘strategici’.
La questione delle relazioni tra queste due direzioni di mutamento socio-istituzionale è decisiva nell’affrontare il significato da attribuire loro
nella trasformazione del sistema di pianificazione socio-territoriale italiano.
Ma è anche cruciale nella riflessione sul ruolo possibile del sociologo in
questo sistema: la posizione della comunità sociologica nei due movimenti
di riforma è in effetti del tutto contrastante.
Inutile ricordare che, lontana dagli indubbi ‘elementi di novità’ rintracciabili nel panorama internazionale (Amendola 1999), fino ai primi anni novanta
l’apporto della sociologia alla pianificazione territoriale italiana di rado esulava
dal contributo segmentario, quando richiesto. Uno dei motivi dell’assenza del
sociologo nella pianificazione territoriale si rintraccia nella distanza tra urbani-
stica e sociologia ufficializzata negli stessi percorsi formativi (Magnier 1999,
Magnier, Russo 2003): essa ha portato tra l’altro alla discrasia tra una intensa
frequentazione della letteratura sociologica teorica e ad una renitenza dominante ad integrare la sociologia empirica nel percorso di progettazione. Tale è
l’atteggiamento che caratterizza ad esempio il campione di urbanisti intervistati
su questo punto da Mela, Belloni e Davico (2000). In rottura con tale tradizione, delle esperienze di pianificazione strategica i sociologi sono spesso
ideatori, promotori oltre che consulenti.
Nel contempo le leggi regionali più o meno implicitamente inseriscono tra
i requisiti del piano che fu ‘fisico’ analisi di contesto assai raffinate, mal concepibili senza i modelli e le tecniche elaborate dalla sociologia. Queste leggi,
in alcune nozioni come quelle di ‘statuto del territorio’, di ‘invariante’, sociale o meno, nella stessa idea di piano ‘strutturale’, ma anche nel riferimento
rituale a concetti sociologici, in primo luogo quello di ‘identità’, pongono al
centro del processo di lettura del territorio, quindi di costruzione del piano, la
visione soggettiva dell’utilità sociale tipica di una società locale. Eppure non
è diffusamente ammesso che queste stesse nozioni debbano suscitare, oltre
che letture sociologiche, la richiesta di un contributo professionale dei sociologi: continua a dimostrarlo la posizione riservata ai sociologi nei gruppi di
consulenza per i piani di natura ‘strutturale’. Sembra venuto il momento per
la ‘comunità’ dei sociologi italiani di ri-posizionarsi attentamente in questo
mondo in evoluzione, o almeno di tentare di capire perché non riesca ancora
ad inserirsi in questa metamorfosi profonda del sistema pianificatorio. Lo
stesso bilancio dell’esperienza dei piani strategici territoriali italiani, in attesa
anch’esso di una ‘valutazione’ sotto questo profilo strettamente disciplinare,
non può non tenere conto della parallela, perdurante e paradossale assenza
della sociologia nella pianificazione ‘fisica’.
Un termine, molte nozioni: pianificazione strategica territoriale, di routine o di rottura
Per inquadrare la questione nel contesto delle relazioni complesse della
pianificazione strategica territoriale con la riformata pianificazione ‘fisica’
italiana, è necessario attardarsi in qualche riflessione preliminare sulla funzione delle due modalità di piano.
‘Piano strategico’ nella retorica politico-accademica che in questi pochi anni si è venuta a costituire, come governance, sta per up to date. Riferimenti obbligati sono allora le esperienze straniere di eccellenza che indicherebbero il
cammino della ‘modernizzazione’, da Birmingham a Bilbao passando per Rot-
terdam e Berlino. Si dovrebbe però tener conto che la pianificazione socioterritoriale rimane l’area di politiche pubbliche dove l’isomorfismo europeo
rimane meno deciso e, che in questa materia, benché sempre utile come raccolta di idee progettuali, l’analisi dei casi stranieri spesso non aiuta molto a comprendere il significato sociale e politico di un’esperienza italiana. Guardando al
piano strategico territoriale, si deve tener conto che assume una posizione istituzionale e una funzione assai diverse a seconda dei sistemi di pianificazione,
poiché questi sistemi ancora rispecchiano tradizioni nazionali appena scalfite
dal movimento verso l’integrazione europea.
Non è un caso se alla fine degli anni Novanta la Commissione europea ha
lanciato una vasta operazione di bilancio comparato sulle pratiche di spatial
planning nei paesi dell’Unione (European Compendium of Spatial Planning
Systems e relativi rapporti nazionali); e ha adottato lo stesso termine di spatial
planning per designare «l’influenza delle autorità pubbliche sulla distribuzione
delle attività nello spazio»[EC 1998b, p 5] in quanto neutro, estraneo a tutte le
tradizioni nazionali. Dal rapporto risultava chiaro che ancora dieci anni fa le
strutture di spatial planning esprimevano con immediatezza la varietà delle
culture politico-amministrative e delle ripartizioni di competenza tra livelli territoriali di governo, nonché tra privato e pubblico, tra privato «organizzato» e
singolo cittadino. Nell’intervallo, qualcosa - forse addirittura molto - può esser
cambiato, questi sono tuttavia gli anni durante i quali si sostanzia il movimento
verso la pianificazione strategica territoriale e durante i quali si definiscono i
nuovi sistemi regionali di pianificazione fisica.
Due linee di frattura tra sistemi nazionali di spatial planning sono enfatizzate in questo compendium. In primo luogo, in alcuni paesi (Germania, Francia, Austria, Finlandia) le pianificazioni sociale, economica, ambientale e
delle infrastrutture sono per tradizione fortemente integrate dal punto di vista
funzionale (e in primo luogo sono svolte dagli stessi attori), mentre negli altri
ciò non avviene. In secondo luogo varia la relazione tra i luoghi della produzione del piano e quelli dell’implementazione. La tradizione in Europa del
Sud era che l’ente dotato dell’autorità per la definizione del piano comunale
non detenesse i mezzi, risorse tecniche, finanziarie e fondiarie utili a mettere
il piano in azione e delegasse al mercato la realizzazione degli obiettivi collettivi che vi sono inscritti; in Gran Bretagna e nell’Europa settentrionale era
invece che gli attori pubblici che producono il piano partecipassero in misura
sostanziale alla sua implementazione.
Se ne desume una tipologia di sistemi di pianificazione territoriale, oggi
sarebbe già più opportuno dire di tradizioni di pianificazione territoriale, in
quattro classi, che in parte travalicano le classiche distinzioni ecologiche tra
sistemi di governo locale (Hesse-Sharpe 1991, Page-Goldsmith 1987).
Definizione e implementazione
dagli stessi attori pubblici
Definizione, senza implementazione, dagli attori pubblici
pianificazione integrata
pianificazione solo fisica
Pianificazione comprehensive
Land use management
Pianificazione regionale
Urbanistica
Tab. 2. Tradizioni di spatial planning
La pianificazione spaziale definisce i grandi obiettivi economici e sociali. Tale è l’approccio caratteristico dell’aménagement du territoire francese,
del Portogallo, così come lo è stato della Germania orientale, definito nella
pubblicistica europea regional economic planning approach. La pianificazione spaziale è invece, non soltanto definizione, ma anche messa in atto a
tutto tondo degli interventi pubblici nelle comunità. Tale è l’approccio tipico di tutti i paesi nordici e dell’Olanda, detto di comprehensive integrated
approach. In altri casi il piano si inserisce in una strategia di controllo
dell’uso del suolo da parte dell’ente locale, che passa dalla definizione degli obiettivi alla realizzazione dei progetti urbani; così si caratterizza il land
use management di Regno Unito, Irlanda, Belgio. L’interesse esclusivo per
la struttura urbanistica, il paesaggio urbano e il controllo dell’attività edilizia, nella tradizione di urbanistica si esprime invece nella preminenza della
zonizzazione sulla base della destinazione d’uso, con la relativa normazione delle caratteristiche architettoniche. È la forma di intervento che caratterizza la tradizione dell’Europa mediterranea. Una tradizione inadatta a rispondere ai bisogni mutevoli di trasformazione territoriale, asseriva pesantemente anche il Compendiun europeo. Rigidità della codificazione e scarsa
efficacia del piano sono le due facce della stessa medaglia. Per un classico
‘effetto perverso’, la rigidità della norma suscita illegalità diffusa: il mutamento, secondo il processo tipico delle organizzazioni nelle quali si approfondisce all’eccesso il ‘fenomeno burocratico’, avviene negli ‘interstizi’ per
forza tralasciati dal controllo (Crozier, 1963). Varianti e abusivismo sono le
soluzioni adattive classiche alla rigidità dell’impianto.
Le differenze che intercorrono tra gli assetti nazionali di pianificazione
sono ancora forti. Se ne deduce che dal piano di Birmingham o di Amsterdam possiamo ricavare idee e suggerimenti per l’azione; ma che il ‘piano
strategico’ territoriale non può avere lo stesso significato nel Regno Unito,
in Olanda e nei paesi del Sud Europa.
A leggere Patsy Healey (2003), la pianificazione strategica in GranBretagna intende ad esempio affermare la ‘governance del luogo’ rispetto
alla programmazione disciplinare dei servizi: essa punta all’integrazione
delle politiche pubbliche e ad introdurre quella impronta spaziale richiesta
in particolare dagli attori privati per garantire l’efficacia dei loro investimenti nonché l’impatto giusto agli investimenti pubblici. «La politica pubblica nel Regno Unito ha una debolissima tradizione di fuoco territoriale o
spaziale (… Si) trovò che molti partecipanti ai processi di sviluppo si preoccupavano per la mancanza di strategie coerenti e integrate aventi una dimensione spaziale. Essi venivano particolarmente dal settore degli impianti,
dalle lobby degli affari e da alcuni interessi fondiari ed edilizi. Le ragioni di
ciò erano espresso chiaramente negli studi dell’economia del benessere sul
fallimento del mercato nei mercati di sviluppo fondiario ed edilizio. Queste
enfatizzavano il ruolo delle strategie spaziali nello stabilire condizioni di
mercato e, dunque, nel ridurre il rischio. Le lobby ambientali richiedevano
anche strategie più robuste. Era inoltre chiaro che l’interazione di interventi
di pianificazione e processi di sviluppo produceva nel contempo ingiustizie
distributive. Molte politiche e norme di pianificazione erano progettate per
proteggere qualità ambientali e amenità locali» (Healey, 2003, p. 10-11).
«Nel Regno Unito, il nostro ipercentralismo ha esacerbato questo approccio
divisivo all’esperienza della vita quotidiana delle persone. Per me il fulcro
della pianificazione trova la propria legittimazione e logica in un ruolo di
forza di contobilanciamento della logica funzionale dell’offerta di servizi
nell’organizzare il governo» (ibid., p. 27). Le carenze alle quali la pianificazione strategica deve far fronte sono quelle proprie della tradizione di
land use management: separatezza delle politiche territoriali rispetto alle
altre politiche pubbliche e conseguente inefficacia legata alla distanza dalla
concreta complessità dei sistemi e della vita quotidiana.
In Italia, l’imprenditore istituzionale e l’amministratore innovatore partono da una definizione della situazione diversa, leggibile nei due movimenti,
quello istituzionale della riforma delle grandi leggi che definiscono l’assetto
della pianificazione fisica, quello informale della pianificazione strategica.
Le esperienze di ‘piano strategico’ si sviluppano, a macchia d’olio in
pochi anni, in Italia come negli altri paesi dove il governo locale in particolare mantiene un impianto ereditato dal codice napoleonico, in una tradizione di governo del territorio che ha per strumento principale, culturale e
tecnico, l’‘urbanistica’; ma nella quale, per le deficienze degli altri livelli di
governo, il Comune è l’attore cruciale dello spatial planning, vale a dire è
al centro dell’attività regolativa, se non programmatoria, del destino dei territori. Dove quindi, al contrario di quanto avviene nella Gran Bretagna interpretata da Patsy Healey, il ‘territoriale’ è già nucleo simbolicamente identificativo dell’attività del governo locale.
In Italia come negli altri paesi del Sud Europa, la pianificazione strategica, contrariamente a quanto avviene in altri sistemi di pianificazione, si
viene allora a sovrapporre, contestandole, alle pratiche richieste dalla tradizione di ‘urbanistica’, o, in altre parole, alla norma.
Il piano strategico, come il piano regolatore, si definisce però senza che
il Comune o l’ente pubblico promotore abbia a disposizione proprietà, capacità di governo fondiario, strumenti aziendali per la realizzazione delle
opere, capacità tecniche per mettere in atto le sue grandi scelte urbane.
Questa linea di frattura tra le esperienze di pianificazione strategica in un
sistema di land management o di comprehensive planning e in un sistema
di urbanism non va offuscata.
La debolezza operativa dell’ente locale nella realizzazione delle proprie
grandi opzioni territoriali nella tradizione di ‘urbanistica’, genera difatti, come vedremo, un discorso politico contraddittorio che acuisce i rischi di prevaricazione delle minoranze attive (interessi forti o élite mobilitate); tanto più
che lo stesso dibattito culturale sull’inadeguatezza del sistema pianificatorio,
in Italia, al contrario di quanto avviene in Gran Bretagna, si viene a focalizzare - a ridurre - non sull’integrazione funzionale, ma sullo sviluppo locale: la
necessità ricordata con maggiore insistenza nel dibattito nazionale è quella di
piegare il sistema pianificatorio alle esigenze dello sviluppo locale.
In tutti i paesi del Sud Europa il piano strategico territoriale è affermazione di rottura con la tradizione di ‘urbanistica’, ambisce ad una rivoluzione
dei processi e delle competenze degli attori della scena locale. Le inadeguatezze denunciate nel sistema pianificatorio tornano in modo ricorrente, al di
là della diversità dei contesti nazionali e dei momenti storici. In questa vasta
‘regione’ politico-amministrativa, i documenti di pianificazione territoriale
che si autodefiniscono ‘strategici’, nei diversi momenti e nelle varie forme
che hanno rivestito, intendono rispondere a necessità stabili. Vogliono collocare le scelte di breve periodo in un quadro previsionale che abbracci medio
e lungo periodo, usare un approccio multidisciplinare all’analisi e
all’interpretazione dei processi di trasformazione degli spazi, raccordare o
integrare politiche di settore; proporre una interpretazione della pianificazione come processo dinamico, quindi in parte perfezionabile o negoziabile (Gibelli ,1996, p. 15). I loro tratti comuni si possono così sintetizzare:
•
•
•
•
la pianificazione strategica territoriale è concepita per il governo dei sistemi
socio-territoriali complessi;
l’approccio all’analisi delle situazioni socio-territoriali è multidisciplinare;
è dichiarata la volontà di integrare le politiche di settore;
il piano è concepito come processo, non come prodotto;
•
•
il piano strategico si proietta su un orizzonte temporale ampio, ma definito;
si definiscono figure e procedure per la contrattazione degli obiettivi.
Modelli di ‘rottura strategica’ della tradizione di urbanistica
È diventato riferimento abituale nella pubblicistica sul tema la proposta
analitica di M.G. Gibelli fondata sull’idea di una sequenza temporale di generazioni di piani strategici (Gibelli, 1996, p. 24). Se affrancata da qualunque valenza evoluzionistica alla sequenza, essa fornisce uno schema analitico utile a distinguere modalità diverse con le quali, in paesi di tradizione
‘urbanistica’, il piano ‘strategico’ territoriale possa essere proposto per mutare il governo del territorio.
Con l’etichetta ‘pianificazione strategica’, in fasi precedenti della storia
della cultura amministrativa, altrove nell’Europa del Sud, si sono designati
documenti di meso-pianificazione: i piani sovralocali di matrice socioeconomica destinati ad un inquadramento delle prospettive di sviluppo territoriale di medio-lungo periodo: E’ stato in particolare, per citare il caso di
un paese di tradizione di pianificazione simile a quella italiana, in Francia
con i Schéma Directeur d’Aménagement et d’Urbanisme regionali. Piani
strategici che si possono, seguendo M.C. Gibelli, definire sistemici, se si
intende con ciò che esprimono una volontà che parte dal “centro” di un sistema nell’intento di mettere ordine nell’azione degli enti locali. Essi segnano il varo di una struttura di pianificazione duplice in cui, alla pianificazione ‘fisica’ comunale (plan d’urbanisme), si sovrappongono in posizione
gerarchicamente dominante piani di indirizzo economico, sociale e spaziale
su vasta scala e con prospettiva di medio-lungo periodo.
Aziendalisti sono chiamati i piani strategici che appaiono negli Stati Uniti e che diffondendosi negli anni Ottanta in Europa si trovano ancora in
parte ben rappresentati in molte delle più note esperienze recenti del Sud
Europa. Questi piani si ispirano ad una interpretazione del piano strategico
che si incentra sull’attività di definizione degli obiettivi di lungo periodo
integrata con le attività di controllo/ottimizzazione dei processi idonei per
perseguire tali obiettivi. Le prime esperienze statunitensi di pianificazione
strategica pubblica collegabili al modello nascono sullo sfondo della
deregulation e della penuria di risorse finanziarie. Esse tendono in primo
luogo a coinvolgere la ‘comunità degli affari’ nelle decisioni e nei progetti
locali attraverso il ricorso crescente al partenariato tra pubblico e privato. I
piani strategici che vengono promossi in questi anni privilegiano forme di
accordo negoziale con i privati e iniziative di partenariato che prevedono la
contrattazione come misura di compensazione volta a produrre benefici collaterali per la collettività urbana (JAPA 1987, Fainstein 1994). Le prime
esperienze europee riferibili ai modelli in questione risalgono alla metà degli anni Ottanta: una prima ricerca della DATAR (Demeestere, Padioleau,
1988) è allora dedicata agli approcci strategici di alcuni comuni francesi.
Le leadership urbane imprenditoriali vi vedono l’opportunità per raggiungere l’obiettivo pragmatico del get something done, vale a dire realizzare in
tempi brevi piani e progetti coerenti con gli obiettivi dell’amministrazione;
ciò significa legittimare l’amministrazione con qualche realizzazione visibile. L’inner city policy, nella versione conservatrice degli anni Ottanta, è
piuttosto eterodiretta, ma fuori dal contesto anglosassone di quegli anni la
pianificazione strategica di seconda generazione si associa al processo di
decentramento e di crescente competizione tra sistemi urbani. Vengono accentuate le propensioni alle politiche per lo sviluppo, con progetti ‘modernizzanti»’ stereotipati, come rilevato ad esempio in segnalate indagini francesi (Le Galès, Oberti, 1993); altrove il movimento trova sostegno, è il caso
in particolare in Spagna, nello sviluppo delle società di consulting specializzate, nell’alleanza privato-pubblico che viene a saldarsi nella nuova
competizione internazionale tra grandi sistemi urbani
Vengono infine definiti reticolari quei piani strategici che rappresenterebbero le risposte ai bisogni più attuali di innovazione nella pianificazione,
in particolare al bisogno di garantire la mobilitazione della popolazione per lo
sviluppo locale. In questa fase, detta di ‘terza generazione’, la pianificazione
strategica tenderebbe a ritrovare l’attenzione per la scala vasta, ma con un
approccio incrementale, secondo un modello cooperativo di pianificazione
che esprime, prima che la ricerca di una razionalità sostantiva
(l’ottimizzazione del contenuto delle decisioni), la volontà di migliorare la
razionalità procedurale; si tratta in breve di lavorare innanzitutto alla definizione di obiettivi largamente condivisi nella società locale nonché alla costruzione di un consenso considerato come la condizione necessaria
all’efficacia dell’azione pubblica.
Area culturale
Esempio
Dinamiche
socio-territoriali
Sistemico
Aziendalista
Reticolare
Francia, Gran Bretagna, Olanda
Schéma
Insieme dei paesi
europei
Italia
d’Aménagement
Directeur regionali
francesi
Grandi piani
strategici spagnoli
?
Diffusione urbana,
carenza di
risorse pubbliche,
deregolamentazione
Diffusione urbana,
carenza di
risorse pubbliche
Concentrazione urbana, demografica
e funzionale
Dibattito
urbanistico
Temi
Prospettiva
temporale
Prospettiva
territoriale
Ricerca di strutture e
procedure
di pianificazione di
area vasta
Indirizzo socioeconomico;
pianificazione
separata dalla pianificazione fisica» e
vincolistica alla quale è sovraordinata
Medio-lunga
Attori promotori
Area vasta, piani
sovraordinati
ai piani locali
I luoghi di governo
possibile
della metropoli e
della regione
urbana
I planner
Attori coinvolti
Pubblici
Meccanismi
Norma, fiscalità,
infrastrutturazione
Focus
Motivi per
l’azione dei
promotori
Concetto di piano
Tradizione
sociologica di
riferimento
Governare la concentrazione
spaziale
razionale
positivismo
Ricerca di ottimizzazione dei processi
decisionali
Ricerca di procedure
incrementali
di pianificazione e di
allargamento del
partenariato
Progetti
Agende
programmatiche di
intervento
socio-territoriale
Media
Media
Comune
Area vasta
Le coalizioni locali
Le istanze private e
pubbliche della società metropolitana
I sindaci
Istituzioni e aziende,
locali o non
Finanza di progetto:
contrattazione
e compensazione
Realizzare progetti
«modernizzanti
» con sufficiente visibilità
nell’arco di un mandato
razionale comprensivo
sociologia
dell’azione
I leader politici
‘metropolitani’
Imprese locali, associazioni, movimenti,
istituzioni
Tavolo di concertazione, patto locale
Definire priorità
condivise per
l’azione locale
comunicativo
sociologia
dell’interazione
Tab 3. Modelli di piani strategici territoriali (fonte: ns. adattamento da Gibelli, 1996)
Il prospetto è sufficiente per suggerire che, piuttosto che generazioni, si
possano qui enucleare ideal-tipi di piani strategici, utili ad una analisi comparata operativa. Ogni modello è associazione coerente di caratteristiche.
La combinazione di caratteristiche afferenti a sistemi diversi può quindi essere considerata come associazione erratica, che, se non giustificata da tratti
speciali del contesto, rischia di compromettere l’efficacia dell’intervento. I
primi modelli non sono per forza meno adeguati dell’ultimo a rispondere ad
alcune esigenze locali. Vedremo che la proposta attuale del Ministero
dell’Industria e dei Trasporti per una codifica dell’esperienza dei piani stra-
tegici alterna tra due modelli (senza riuscire davvero ad integrarli): quello
sistemico, quello reticolare.
Questi tipi ideali di pianificazione strategica rimandano a scuole diverse e
ormai altrettanto classiche di pianificazione. I due primi tipi afferiscono alla
tradizione della pianificazione razionale e razionale comprensiva, attribuendo
la competenza del pianificare, nel primo caso al planner professionale, nel secondo caso delegittimando nettamente il planner a favore dell’élite politica. Il
terzo tipo afferisce alla tradizione della pianificazione comunicativa, pur proponendone una declinazione specifica. Guardando non più alle differenze interne alla disciplina dell’urbanistica, ma ai filoni sociologici, essi corrispondono a concezioni diverse del significato sociale del piano. Nel primo caso il piano è fulcro della razionalità dell’organizzazione pubblica, nel secondo è strumento di competizione con altre organizzazioni (altri enti locali ma anche altri
leader politici), nel terzo è costruzione simbolica destinata ad allargare consenso ed influenza. Sono determinanti per la sua efficacia, nel primo caso
l’attinenza ai bisogni del contesto locale e alle caratteristiche
dell’organizzazione pubblica, nel secondo l’adeguatezza al contesto non locale
e alle aspettative locali, nel terzo la forza dei simboli e della retorica. Questi tre
modelli rispondono a visioni contrastanti delle dinamiche sociali, quindi si apparentano a scuole diverse di lettura sociologica, un affinità che, come vedremo, pesa nelle relazioni contemporanee tra sociologia e pianificazione strategica. Per cui al rifiuto del positivismo e dell’individualismo metodologico e alla
ricerca di modelli interpretativi che superino il dualismo struttura/azione enfatizzando le capacità strutturanti dell’interazione degli individui corrisponde la
propensione del sociologo a sostenere una forma specifica di pianificazione
strategica, quella detta ‘reticolare’.
Tornare all’area di innovazione organizzativa di riferimento: la pianificazione strategica in ambito pubblico
Per comprendere l’esperienza dei piani strategici territoriali nella storia
politico-amministrativa italiana, è necessario tuttavia allontanarsi provvisoriamente del dibattito sulla pianificazione strategica territoriale per rimarcare il significato più ampio attribuito alla pianificazione strategica nella cultura nazionale.
Nei paesi del Sud Europa, in particolare in Italia, il ricorso all’etichetta
‘pianificazione strategica’ in ambito pubblico, riferito a varie modalità di
intervento pubblico, esprime prima di tutto una semplice ma rivoluzionaria
ambizione, la tensione verso una revisione culturale e un ripensamento dei
percorsi formativi dei dirigenti della pubblica amministrazione, da non ancorare più sulla trasmissione di conoscenze in diritto amministrativo assortita da rapide introduzioni all’economia politica e aziendale, ma sulla preparazione alle sfide poste dalla gestione pubblica in un contesto di risorse
scarse. Con percorsi formativi ancorati sulle molte discipline a ciò utili e
sul modo di ragionare che esse possono proporre per programmare la spesa
pubblica e misurarne i risultati. La pianificazione strategica esprime in
breve l’essenza del reinventing government italiano.
Il movimento verso una revisione delle pratiche politico-amministrative
nella direzione della ‘pianificazione strategica’ è variegato, per non dire
frammentario, ne consegue un uso spesso poco discriminante dell’etichetta.
L’ampia definizione di pianificazione strategica – in ambito pubblico - che
propone Archibugi costituisce un utile punto di partenza per delinearne
un’accezione significativa per l’analisi della trasformazione delle culture e
delle pratiche italiane, anche nell’ambito delle politiche territoriali: «La
pianificazione strategica è una ‘disciplina’ che addestra all’impiego di metodi mirati a migliorare la razionalità delle decisioni (o azioni) nella gestione sistematica degli affari pubblici» (Archibugi 2005, p. 27-28). È di conseguenza anche branca dell’istruzione o «esercizio finalizzato ad addestrare
ad una migliore condotta o azione» (Ibid., p. 28), mediante la trasmissione
di metodi e procedure specifiche. La razionalità alla quale punta la pianificazione strategica è razionalità ‘rispetto allo scopo’, uno scopo, rimarchiamo a margine, la cui definizione è ‘politica’: in un sistema rappresentativo
questa definizione è competenza dei politici, in un sistema orientato a democrazia diretta, o alla delimitazione di arene deliberative complementari
auspicata da chi sostiene una concezione detta ‘deliberativa’ della democrazia, è competenza dell’insieme dei cittadini o di una cerchia più ampia di
cittadini; in un caso come nell’altro la ‘macchina amministrativa’ non è legittimata a definirlo. Del concetto stesso di razionalità rispetto allo scopo si
propone però una applicazione più specificamente economica: è ‘razionale'
una «decisione (o azione) che è coerente o compatibile con le possibilità e i
vincoli esistenti e/o con i mezzi (o risorse) a sua disposizione» (Ibid., p.
28).
‘Strategia’ non implica ‘piano’, come ricorda Mintzberg (2003, p. 431).
L’immagine dell’attività creativa dell’artigiano si presta meglio a cogliere il
processo mediante il quale vengono alla luce strategie. Ma il processo organizzativo pubblico non è concepibile senza pianificazione poiché si fonda
sulla condivisione democratica delle decisioni. Come altri (la famiglia, il
gruppo politico, l’associazione), l’azienda può fornire best practice, purché
si abbia ben presente nell’atteggiamento strategico la consapevolezza delle
differenze tra sfere di azione. Ai due domini del pubblico e del privato non
possono infatti che corrispondere due modalità diverse di pianificazione
strategica. La distinzione sta, sottolinea Archibugi, nell’attributo di ‘sistematica’ e ‘integrata’ dato alla gestione pubblica, che deve contemplare
l’attenzione al contesto, non tanto come elemento condizionante l’efficacia
dell’azione organizzativa (elemento altrettanto importante nei due domini)
ma anche come campo di effetti e di impatto di tale azione.
«L’organizzazione pubblica, qualsiasi sia, e da qualsiasi pluralismo di entità pubbliche sia circondata, con difficoltà può disinteressarsi degli effetti in
output che le sue decisioni hanno nel contesto o ambiente, e soprattutto nel
contesto delle altre entità pubbliche e sull’efficacia delle decisioni rispettive. Mentre l’organizzazione privata può in certo modo - entro limiti sanciti
dal diritto comunitario della convivenza - disinteressarsi degli effetti prodotti dalle sue decisioni» (Ibid., p. 31). E’ quindi la necessità di migliorare
la consapevolezza degli effetti a distinguere la pianificazione strategica
pubblica rispetto a quella privata, con la conseguenza che la qualità stessa
della ‘valutazione’ di questi effetti vi diventa un elemento qualificante decisivo.
«La pianificazione strategica dentro una organizzazione pubblica, deve,
assai più di quella di una organizzazione privata, includere la conoscenza
approfondita degli effetti delle sue decisioni nel contesto in cui opera, primo fra tutte le decisioni delle altre organizzazioni pubbliche, secondo
l’ordinamento pubblico che ne regola la esistenza prima ancora che le attività. In particolare, considerando solo un aspetto della interazione fra unità
di pianificazione (o organizzazione) e il suo ambiente – a differenza della
organizzazione privata che può non misurare il danno che le sue decisioni
recano alle decisioni e agli obiettivi di altre organizzazioni private (per il
danno che recano alle decisioni e agli obiettivi delle organizzazioni pubbliche ci pensa eventualmente la regolamentazione pubblica) – la organizzazione pubblica deve misurare (con le opportune strumentazioni di consultazione e coordinamento) il danno che le sue decisioni recano alle decisioni e
agli obiettivi delle altre organizzazioni pubbliche; altrimenti è perduto un
fondamentale criterio di razionalità, perseguito dalla pianificazione strategica. Lo stesso avviene per gli aspetti positivi della interazione, per esempio le sinergie. Un’organizzazione pubblica è opportuno che cerchi di realizzare sinergie con altre organizzazioni pubbliche, ed anche private, perché
ciò costituisce un risparmio complessivo di risorse per il settore pubblico
ed è interesse e dovere di ogni organizzazione pubblica perseguire tale risparmio» (Ibid., p.31).
Il termine ‘strategico’ può allora, nelle organizzazioni pubbliche, essere
inteso come rafforzativo di quello di pianificazione. Così declinato comunque il tema della pianificazione strategica offre nel contesto italiano un richiamo forte al coordinamento tra organizzazioni pubbliche, al monitoraggio costante degli effetti dell’azione pubblica, all’analisi operativa del quadro di risorse finanziarie e umane, alla programmazione dell’azione pubblica sulla base di una configurazione di obiettivi adeguati a questo quadro,
alla ricerca di sinergie con le organizzazioni private laddove consentano un
risparmio di risorse: una interpretazione della pianificazione integrata con
la quale si intende affrontare gli ostacoli organizzativi e culturali che più di
altri limitano oggi le capacità di agire degli enti pubblici italiani.
Così definita, la proposta di ‘pianificazione strategica’ rispecchia la tensione – suscettibile di varie contestualizzazioni, a seconda delle aree di politica pubblica nonché della natura dei documenti – verso una revisione culturale e un ripensamento degli atteggiamenti e della formazione della dirigenza
amministrativa. La pianificazione territoriale, tradizionale momento della difficile alleanza tra le pianificazioni sociali ed economiche e della delimitazione fisica dei loro intenti, ne forma un ambito emblematico di applicazione.
Dal piano strategico territoriale ‘volontario’ al piano finanziato: la codifica
degli esperti
Sono esperti, e specialmente la comunità di sapere dalla quale scaturisce
la rete delle ‘Città strategiche’, a proporre la codifica italiana del ‘piano
strategico’, nelle dichiarazioni dei consulenti ai piani pionieri, in alcuni volumi collettivi; una codifica che verrà successivamente ripresa in alcuni documenti dal taglio più manualistico (Cavenago 2004, Ministero dell’Interno
20004, Formez 2006). Costanti, ma rituali e non comparativi, sono i riferimenti internazionali, Lisbona, Bilbao, Lione, Glasgow, Amsterdam, che
vengono invocati spesso in sintetici medaglioni. Sostengono un programma
che si inscrive in alcuni indirizzi orientativi e indicazioni procedurali, riconducibili in buona parte in un lessico: esso uniforma esperienze per altro,
come poi vedremo, assai diverse.
L’inclusione (un indirizzo con il quale si intende aderire al modello reticolare)
La comunità di sapere politico-scientifica alla quale fanno capo gli attuali
‘piani strategici’ italiani proclama come proprio il modello di “terza generazione”, reticolare o ‘comunitaria’ secondo l’etichetta preferita da alcuni (cfr. Fera,
in Martinelli 2005, p. 298); insiste sulla dimensione ‘inclusiva’ del piano stra-
tegico, anche in opposizione ad un modello ‘élitista e neocorporativo’ (cfr.
Camagni, Gibelli 2005) che si vedrebbe realizzato nell’anomalo caso milanese,
un caso a nostro avviso da interpretare ben diversamente .
Nella retorica della pianificazione strategica, e in molta analisi sociologica
sul tema, affrontando la questione degli ‘attori del piano’, non ci si pone
l’obiettivo di comprendere per criticare processi e mappa degli attori, ma
quello di favorire l’integrazione degli approcci, per giungere ad una pianificazione coerente che preveda una stretta collaborazione tra molti attori della
società locale. Tra le molte accezioni della pianificazione ‘integrata’, i manifesti del movimento enfatizzano quella dell’integrazione tra attori della comunità locale, in elogi tinti di evoluzionismo sull’apparizione della governance come svolta positiva nella storia della democrazia locale occidentale.
Una attenzione relativa, minore senza dubbio, è dedicata alla cooperazione
interistituzionale, tra enti locali di livello territoriale identico o diverso, nella
pianificazione. Pochissima attenzione si rivolge all’integrazione tra settori
diversi dell’amministrazione, alla razionalizzazione delle attività programmatorie, che qualificano invece, come abbiamo appena ricordato, la nozione di
pianificazione strategica alla quale si ispirano le riforme amministrative nazionali, tema rintracciabile invece in proclami per altro collocabili anch’essi
nella tradizione della pianificazione comunicativa, come quelli proposti da
Patsy Healey nella sua lettura dell’esperienza britannica.
Il piano strategico italiano si vuole ‘reticolare’, e tutte le definizioni più
citate di pianificazione strategica territoriale in ambito nazionale pongono
grande enfasi sul coinvolgimento ampio degli attori locali: «i piani strategici agiscono attraverso la costruzione ampia di un impegno collettivo che
incorpora la molteplicità dei centri decisionali a partire dal basso e la fa
convergere su una visione socio-politica della città e del suo territorio
proiettata in un futuro anche lontano, ma realizzabile sulla base di partenariati, di risorse, di tempi individuati, di interessi convergenti, del monitoraggio dell’efficacia dei tempi di attuazione» (Spaziante, 2003, p. 42).
Viene spesso ribadito, d’altra parte, in questa stessa letteratura definitoria dell’esperienza italiana, che ‘costruzione dell’impegno’ non significa
soltanto messa in ordine di uno schema di ‘obiettivi’ o di ‘idee-azioni’ condiviso. «La pianificazione strategica può essere interpretata come costruzione di capitale sociale (o di capitale relazionale finalizzata al miglioramento della community governance)» (Camagni, in Pugliese, Spaziante,
2003). In questo prospetto, la più larga partecipazione dei membri della collettività alle decisioni sulle politiche pubbliche non è solo mezzo per raggiungere una più efficace integrazione nella pianificazione, per garantire
aderenza alle necessità dell’area o maggiore correttezza nei disegni progettuali, ma è obiettivo in sé.
La valenza processuale del piano (anche questo indirizzo si riferisce al modello reticolare)
Dedicato alla costruzione di capitale relazionale e sociale, il piano, secondo la formula adottata anche per i piani regolatori nella retorica politicoamministrativa, ma per motivi diversi, è processo più che prodotto: in questo
caso, non tanto perché si completa progressivamente tramite la pianificazione
di dettaglio, ma perché consiste proprio nel costruire una procedura che consenta di favorire la creatività e la capacità di realizzazione della società locale. «Il percorso di pianificazione strategica si configura innanzitutto come un
processo di apprendimento e di comunicazione in quanto si basa sullo scambio di conoscenze, informazioni, competenze e sull’apprendimento di pratiche decisionali di tipo strategico» (Cavenago, 2004, p. 113).
Di questa procedura si prevedono le prime fasi, che possono essere replicate a breve senza che ciò possa costituire diniego del primo ‘piani strategico’ (come sta avvenendo in alcune delle prime esperienze): preparazione al piano, costituzione del tavolo di interazione, visioning e costruzione di
uno scenario futuro, analisi del contesto e diagnosi, definizione degli obiettivi, delle strategie e delle azioni, attuazione del piano, monitoraggio e valutazione; in questa successione di fasi variano i meccanismi di inclusione
secondo una struttura organizzativa flessibile (tra esperti, politici, interessi
e gruppi organizzati, cittadini singoli) che prevede un allargamento progressivo delle fasce di cittadinanza coinvolte.
Una pianificazione per progetto (dal modello aziendalista?)
Nell’interpretazione di ‘pianificazione strategica’ alla quale afferma la
sua adesione, il movimento italiano, nel momento della codifica organizzativa da parte dei suoi grandi ispiratori, indica nella tensione verso la definizione di obiettivi largamente condivisi lo strumento di razionalizzazione
dell’azione pubblica. L’‘obiettivo’ è l’unità analitica prescelta per la comunicazione, e la definizione degli ‘obiettivi’ la funzione centrale dei gruppi
di lavoro. L’impressione è quindi di trovarsi di fronte ad un movimento socialmente inclusivo nella sua ideologia che, quando affronta gli aspetti organizzativi, senza proporre meccanismi analitici specialmente tarati sulle
necessità particolari che possono determinare la realizzabilità degli intenti
di allargare il processo decisionale, tenda a replicare le più limitate intimazioni dell’OCSE per una pianificazione per obiettivi circoscritta in un ambito culturale omogeneo e specifico, quello della pubblica amministrazione. Il
cosiddetto visioning, quella fusione di visione e di planning che consiste nel
definire qual è il futuro desiderabile per la comunità locale, al quale deve
piegarsi la programmazione (Green, Haines, Halebsky, 2000), dopo
l’analisi del contesto, si riduce prontamente nell’elencazione di ‘linee di azione’, ‘azioni’, vale a dire progetti urbanistici o socio-economici, ‘obiettivi’ per l’amministrazione.
Così codificato, il piano strategico territoriale appare come la veste nuova
della “pianificazione per progetti”, pianificazione partecipata per progetti; e
in ciò precisamente, come vedremo sta la sua incontestabile utilità nel sistema pianificatorio italiano, ma anche le difficoltà davanti alle quali si trova nel contemperare realizzabilità e coinvolgimento; nonché le sfide che
pone alla “tecnica” sociologica.
La strategia come prefigurazione di azioni, non come sviluppo di azioni
La strategia espressa è quindi composizione di visioning e di azioni. Lo sviluppo stesso delle azioni non è parte integrante del quadro di problemi affrontati. Le condizioni generali della comunità locali sono analizzate nella fase di visioning, di norma affidata al binomio politici-consulenti, visioning per il quale
si propone spesso l’articolazione ‘orientata allo sviluppo’ dell’Oregon model
(«a che punto siamo?, dove stiamo andando?, dove vorremmo andare?, come
ci arriviamo?»), ma in queste condizioni generali non sono contemplate le sue
capacità realizzative. Queste sono oggetto dell’analisi SWOT, affidata agli esperti ai quali non si tende in generale a raccomandare particolare approfondimento nell’indagine, ma piuttosto una ragionata raccolta sintetica dei dati pubblici arricchita con consultazioni degli esperti di settore: a loro si tende a delimitare l’area di pertinenza del social learning affermato come componente essenziale della costruzione del piano strategico.
Dal visioning e dall’analisi SWOT, si delineano le aree problematiche,
poi le linee di azione, sulle quali si strutturano i tavoli tematici o gruppi di
lavoro nei quali cooperano esperti, stakeholder, responsabili degli enti locali per la definizione delle azioni. L’analisi delle capacità realizzative si concretizza nella ‘scheda di azione’ in un esame sintetico degli stakeholder
coinvolti o da coinvolgere e della fattibilità finanziaria.
Risorse e freni organizzativi, in breve, non sono contemplati. Più in generale,
il piano strategico italiano non contiene linee-guida per lo svolgimento
dell’azione, o dedicate ai meccanismi di un suo possibile controllo a vista (malgrado richiami introduttivi continui alla necessità della valutazione). La procedura standard non prevede in breve nessuna riflessione sull’action development.
Il piano strategico territoriale come linea di finanziamento: istituzionalizzazione o destrutturazione dell’esperienza?
L’ultima fase del percorso di codificazione culturale del piano strategico in
Italia, in parte in continuità, in parte in rottura con quello finora descritto, si apre con la lettura ministeriale degli indirizzi della programmazione europea
2007-2013. Essa, indicando il ‘piano strategico delle città’ come «strumento
per ottimizzare le condizioni di sviluppo della competitività e della coesione»
(Linee-Guida MITT, 2006, on line) lo indica come modello di organizzazione
dello sviluppo finanziabile, precisa quel meta-modello già ricercato dagli studiosi, richiamando il mainstream italiano, ma piegandolo a logiche accentratrici.
Si riconosce il valore delle esperienze compiute: «Le migliori pratiche scaturite dall’esperienza avviata, sul finire degli anni ‘80 da alcune città europee e
da quella più recente di alcune città italiane portano ad identificare nel Piano
strategico lo strumento all’interno del quale le città e le società locali possono
costruire, in un impegno comune e consapevole, la visione condivisa e dinamica del proprio futuro e del proprio posizionamento competitivo, finalizzando,
secondo un approccio aperto e flessibile, le proprie politiche, le proprie scelte
di priorità, i propri investimenti, per ottimizzarne l’efficacia» (Ibid.). E si ribadiscono i principi ispiratori del modello ‘reticolare’: «il Piano strategico si caratterizza come un atto volontario, che affida il suo successo alla capacità delle
città di promuovere e implementare la vitalità dei sistemi partenariali e delle
reti delle alleanze, attorno ad obiettivi strategici consapevolmente e costantemente valutati e condivisi, per sostenerli in termini decisionali ed economici,
anche sperimentando – di concerto – modelli procedurali, organizzativi, gestionali, innovativi più efficaci nel generare e accelerare il verificarsi di condizioni attrattive di investimenti funzionali a sostenere la qualità dello sviluppo»
(Ibid.).
Si ricordano d’altra parte priorità di riequilibrio territoriale estranee alla
costituenda tradizione di pianificazione strategica italiana, priorità ‘nazionali’ che esulano dalla logica ‘glocalista’ dalla quale discende quest’ultima.
Prima di tutto, la lotta alla marginalità nei grandi sistemi urbani: «il Piano
strategico è, contestualmente, lo strumento che, potendo anche superare le
barriere dei confini amministrativi, offre alle città l’opportunità di affrontare le dicotomie tra le aree di concentrazione dello sviluppo e dell’attrattività
e le aree della marginalità sociale e del degrado urbano, riposizionandone le
prospettive di rigenerazione fisica, economica e sociale all’interno di una
scala territoriale di area vasta» (Ibid.). Nel testo che collega, insistentemente, la pianificazione strategica allo sviluppo dei territori, si incastonano poi
richiami alla ‘sostenibilità’, non definita, ma qualificata implicitamente
come coesione territoriale. Il Mezzogiorno si afferma poi come il destinatario primario del meccanismo di sostegno costruito, e la città, la città media
nella sua ambigua accezione, come il suo contesto chiave.
Sia rispetto alle priorità del Fondo Sociale Europeo, che rispetto ai
grandi principi – e forse ancora di più ai problemi – aperti dal ricco dibattito sulle strategie spaziali dell’Europa unita, l’elaborazione italiana è allora
scarna e indifferente alle particolarità dei contesti; appiattiscono la struttura
urbana sulla struttura di mobilità, non indagano sull’effetto città, assimilando le potenzialità per lo sviluppo all’accessibilità, se non ad alcuni rituali
caratteri della struttura produttiva e di propensione all’innovatività, illustrati nella loro povertà nella batteria di indicatori utilizzati per la designazione
delle città leader dei ‘contesti bersaglio’. La codifica ministeriale integra i
risultati della definizione da più anni avviata di ambiti territoriali strategici,
in particolare nel progetto Sistema (i ‘sistemi territoriali’ o ‘contesti bersaglio’), mentre si individuano al loro interno dei comuni leader ai quali affidare il processo di pianificazione strategica, ciò sulla base, si indica, di criteri attinenti alla correttezza amministrativa, al dinamismo occupazionale,
alla ricchezza culturale, e alla pratica pattizia.
Malgrado l’encomio ai progetti di territorio e alle esperienze pregresse di
innovazione espresse in particolare nei piani strategici ‘volontari’, queste stesse
città leader, sulle quali si riversano i finanziamenti per i nuovi piani strategici o
piani urbani della mobilità sono state scelte senza tener conto delle pregresse
esperienze di piani strategici. Anzi, in più casi i nuovi finanziamenti sono attribuiti a città vicine a quelle che appartenevano alla conclamata ‘geografia
dell’eccellenza’. La stessa qualifica premiante di città leader di piano strategico
è infine attribuita non di rado a edge city di aree metropolitane, in posizione politica non particolarmente forte, un’attribuzione non adeguata al consolidamento di ‘area vasta’ (più efficace sarebbe senz’altro stata l’attribuzione della qualifica all’intera area, o alla città capoluogo, con criteri cogenti di eleggibilità per
quanto concerne procedure e diffusione dei benefici). In breve, dalla scelta delle città leader non appare altra logica strategica che quella della rappresentazione di ogni contesto bersaglio, mentre, sotto il segno della sussidiarietà integralista, non ci si preoccupa di garantire la coerenza dei piani strategici con
grandi indirizzi nazionali, che non siano di infrastrutturazione.
L’esperienza volontaria è in breve ricondotta in un quadro, di finanziamento (di particolare interesse per il Meridione) se non in un quadro normativo, che esprime un inedito dirigismo, schermato dal richiamo generico
all’automobilitazione delle collettività locali e al valore delle esperienze
passate. Si tratta di una svolta che allontana innegabilmente dal modello
‘reticolare’, nella misura in cui, sotto il profilo funzionale che interessa al
Ministero, sono definiti come equivalenti il Piano Urbano della Mobilità e
il Piano Strategico. E di conseguenza la struttura organizzativa e decisionale suggerita è decisamente accentrata. I consigli comunali non ne fanno parte, assume preminenza l’esecutivo, il coinvolgimento degli stakeholder non
può che essere fortemente selettivo considerate le modalità di deliberazione, ma anche la struttura, scarna, di analisi preliminare consigliata. Il modello indicato, pur ancora ricco di appelli vari al coinvolgimento della popolazione, risponde ad una logica più ‘sistemica’ che ‘reticolare’.
Questa codifica del piano strategico deve essere letta come mera tappa nel
processo, lento e spesso tinto di forte velleità, di definizione della politica
‘spaziale’ italiana, che prende le mosse dalla prima proposta nel 1994 di strategia territoriale sopranazionale, di Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo. Il documento preparatorio presentato nel 2004 a Rotterdam (in quella riunione informale dei Ministri dell’Ambiente su coesione territoriale e politica
urbana considerata come il punto di partenza del processo di revisione, meno
‘guidato’ dalla Commissione che dai governi, dello stesso Schema di Sviluppo Spaziale Europeo, il cosiddetto ‘processo di Rotterdam’) formula per la
prima volta con una certa linearità le tre semplici priorità italiane. In primo
luogo, si punta allo sviluppo delle capacità tecniche e logistiche dell’armatura
infrastrutturale (vale a dire il suo potenziamento e la sua messa a sistema attorno ai vasti snodi infrastrutturali allora chiamati i ‘contesti bersaglio’). Si
afferma in secondo luogo la volontà di ‘territorializzare le reti infrastrutturali’, che vengono interpretate come vettori insostituibili di coesione territoriale, potenziando i poli e le città medie che possono garantire la diffusione dei
benefici che saranno portati dai collegamenti potenziati. Si proclama in terzo
luogo l’urgenza di valorizzare le potenzialità dei territori peninsulari e insulari del Mezzogiorno italiano, ‘come avamposto verso il Sud del Mondo’2. Dal
Documento di indirizzo nazionale, Verso il QSN (ottobre 2005), fino al documento definitivo di Quadro Strategico Nazionale, il riferimento principale
per un disegno compiuto della strategia è al progetto Sistema (complessità
territoriali e aree sottosviluppate), che porta nel 2005 al progetto Pilota ‘Piani
strategici e piani della mobilità’, già esaminato nelle dimensioni organizzative espresse nelle linee guida ministeriali .
2
Sull’esperienza siciliana di pianificazione strategica in applicazione di questi indirizzi, si
rinvia in particolare agli atti del Seminario su La pianificazione strategica territoriale, Università di Palermo, 27 settembre 2007.
Gli sviluppi più recenti di questo processo di costruzione dello spatial
planning italiano, con la stesura definitiva del Quadro Strategico Nazionale
per la politica regionale di sviluppo 2007-2013 (dicembre 2006), introducono ulteriori ambiguità sullo statuto del ‘piano strategico territoriale’ nello
spatial planning nazionale.
Qualche considerazione preliminare sul documento di Quadro Strategico
Nazionale può essere utile per inquadrarne il significato nel processo più ampio
di ridefinizione degli strumenti e delle competenze professionali nella pianificazione territoriale. Esso presenta un’analisi dei freni allo sviluppo italiano e
alla sostenibilità degli stili di vita ben più organica di quella rilevabile nei diversi documenti che lo hanno preceduto. Ne risulta un lungo elenco di temi
prioritari per il governo del territorio. Tra questi tuttavia pochi sono declinati
geograficamente, salvo il costante richiamo, che unifica tutte le indicazioni per
l’agire pubblico, alla necessità di colmare il divario Nord-Sud e quello alla crucialità delle scelte infrastrutturali (e infostrutturali) che segna la continuità con
la bozza che lo ha preceduto. L’accento posto sul ruolo propulsore delle città
recepisce poi il progressivo riconoscimento dell’‘effetto-città’ nello spatial
planning europeo – nelle sue ambigue relazioni con il “policentrismo” auspicato – (CE 2005). Il Quadro Strategico Nazionale, tuttavia, seppur dedicato in
buona parte al destino delle risorse naturali, paesaggistiche, di sviluppo locale,
difficilmente può essere considerato come documento di assetto del territorio,
per la carenza quasi totale di articolazione ‘geografica’.
Tra le priorità nazionali è comunque oggi iscritta la ‘materia’ propria del
piano strategico territoriale nel modello italiano che lega così strettamente
‘sviluppo locale’ e piani strategici: la promozione della ‘competitività e attrattività delle città e dei sistemi urbani’. Per i grandi sistemi urbani si raccomandano politiche pubbliche che pongano l’enfasi sull’ampliamento dei
servizi di mobilità su scala comunale e sovra-comunale, sulla questione abitativa, sulla concentrazione del disagio in aree periferiche e peri-urbane e la
corrispondente lotta alle marginalità, sull’attrazione di investimenti per la
ricerca e la produzione tecnologica, sulla diffusione di servizi avanzati, sulla maggiore valorizzazione dei vantaggi competitivi già esistenti (dai sistemi turistico-culturali, all’alta formazione, all’intrattenimento), sulla connessione dei progetti urbani con infrastrutture e reti sovra-regionali e internazionali, sulla vivibilità e la sostenibilità ambientale.
Sotto il profilo operativo, la priorità attribuita alla competitività e attrattività delle città e dei sistemi urbani «si articola in programmi per città metropolitane, di cui vanno valorizzate la funzione trainante e le potenzialità
competitive nei mercati sovra-regionali e internazionali, e per sistemi territoriali inter-comunali. Tale programmazione dovrà inserirsi in cornici isti-
tuzionali, strategiche e operative, che garantiscano una visione integrata tra,
da un lato, la pianificazione urbanistico-territoriale, il sistema storico, paesaggistico-ambientale, e, dall’altro, lo sviluppo economico, con riferimento
anche alle potenzialità turistiche, l’integrazione degli investimenti e
l’efficace coordinamento con le politiche e i programmi di settore» (Quadro
Strategico Nazionale on line). Nella volontà dichiarata di «consentire la
più appropriata concentrazione di risorse e interventi che, per la intrinseca
multi-settorialità delle politiche urbane, troveranno attuazione attraverso
progetti integrati e complessi, secondo schemi e disegni progettuali flessibili definiti dalla programmazione operativa regionale» (Ibid.) si conferma il
disegno di razionalizzare il finanziamento delle iniziative locali per lo sviluppo a partire da un quadro coerente di priorità nazionali, di procedure e
criteri di selezione. L’attenzione si sofferma sui criteri di selezione, rimandando alle legislazioni regionali e ai documenti di programmazione regionale per la definizione dei meccanismi di messa in atto degli indirizzi nazionali.
Si richiama di conseguenza in modo generico alle molteplici forme di
piani e programma integrati e cooperativi, alludendo soltanto una volta alla
tradizione ‘spontanea’ di pianificazione strategica territoriale nonché alla
necessità di garantirvi ‘requisiti minimi di qualità e avanzamento’3.
Il piano strategico territoriale, una delle tante modalità ‘nuove’ di pianificazione integrata e cooperativa, registra quindi un marginale, poco discriminante, riconoscimento in un testo d’indirizzo, che ancora non si può
definire come documento di assetto del territorio, salvo per le scelte di infrastrutturazione transnazionale che vi sono confermate, ma che contiene i
principi ai quali le regioni si dovranno attenere nella definizione del loro
documento di assetto del territorio.
La ‘strategia’ nella semantica del piano fisico di nuova generazione
Mentre cresceva il movimento verso la pianificazione strategica territoriale e si perfezionava la sua codifica, le Regioni italiane definivano la propria struttura di pianificazione fisica in rispondenza con le stesse esigenze
del contesto, istituzionale e socio-politico, alle quali i piani strategici vole3
Sono proposti, per il Mezzogiorno in particolare, tavoli permanenti Regione e Comuni per
l’attuazione delle priorità e la possibilità di adottare accordi di programma «da elaborare
attraverso procedure negoziali che ne identifichino gli obiettivi strategici, i piani di investimento, la struttura e le fonti finanziarie, i meccanismi gestionali e amministrativi».
vano fornire risposta. L’isomorfismo delle due innovazioni è quindi patente
e tende anche ad occultare le differenze fondative tra le due forme di piano.
Qualunque definizione di piano è operazione strategica, a tal punto che
parlare di pianificazione strategica sarebbe pleonastico se non esprimesse,
come è il caso nell’Italia degli anni novanta, la volontà di rottura con una
tradizione di pianificazione. Quindi, anche il piano regolatore come normato dal Testo Unico del 1942 esprimeva una strategia locale. Una strategia
incompiuta, però, poiché, se definiva obiettivi a lungo termine, il ragionamento sui mezzi che proponeva era assai parziale. I piani di nuova generazione, al di là delle differenze tra legislazioni regionali, intendono invece,
riuscendoci più o meno, includere analisi attente delle risorse dalle quali
discende la stessa definizione degli obiettivi a lungo termine. Affermano
poi, anche qui con successo variabile, la loro vocazione ad inscriversi in
coerenza nel complesso delle pianificazioni locali. Se assumiamo che «la
pianificazione strategica è una disciplina che addestra all’impiego di metodi
mirati a migliorare la razionalità delle decisioni (o delle azioni) nella gestione sistematica e integrata degli affari pubblici» (Archibugi, 2005, p. 2728), i piani fisici di nuova generazione sono senza dubbio estremamente
‘strategici’ rispetto alla generazione precedente. La strategia proposta guarda ai tempi lunghi, poiché la ricerca della ‘sostenibilità’ la orienta, e solo ai
tempi lunghi poiché la realizzazione (la tattica), secondo il principio della
pianificazione in due tempi, viene oggi rimandata alla pianificazione di dettaglio. Tra i mezzi da mobilitare per la realizzazione degli obiettivi si tiene
sempre gran conto, con modalità varie, della mobilitazione della popolazione, sotto la veste della comunicazione o della partecipazione.
Richiamo ad una definizione soggettiva dell’utilità collettiva da affidare
alla popolazione, quindi richiamo alla partecipazione nel disegno e nella
valutazione integrata del piano, ma anche richiamo all’interdisciplinarietà
sono ulteriori elementi che avvicinano la normazione nuova del piano fisico
alla codifica del piano strategico territoriale. Investendo anche – seppure
sempre molto nei proclami e poco nella realtà – la configurazione di professioni che guidano la definizione dei piani, suggerendo più o meno esplicitamente una presenza visibile delle scienze sociali, in particolare dei sociologi nella pianificazione fisica.
È difficile contestare che la generazione spontanea di molti piani strategici
territoriali volontari, in ambiti urbani molto diversi, testimoni di un bisogno
diffuso di innovazione nelle pratiche di pianificazione territoriale che la pianificazione fisica, anche in questa nuova veste, non sembrava soddisfare. È meno
facile comprendere quanto effetto-moda abbia indirizzato la soluzione dei problemi e portato alla scelta dello strumento piano strategico territoriale, quanto
anche le necessità alle quali si intendeva far fronte non fossero risolvibili con lo
strumento del piano ‘fisico’, del piano strutturale nella sua attuale accezione.
Quanto, in breve, siano specie particolari – insostituibili, utili – quei documenti
etichettati negli ultimi decenni come ‘piani strategici’ territoriali. Di fronte, non
tanto ad altri documenti settoriali che possono assumere una funzione strategica – in particolare nell’accezione riconosciuta dalla cultura amministrativa italiana – differenziandosi per la loro stessa peculiarità d’area, ma in prima istanza di fronte ad un pianificazione fisica rinnovata nella quale l’enfasi è posta
sulle dimensioni strategiche della pianificazione ‘strutturale’.
Relazioni tra livelli
di governo
Ambito di
applicazione
Meccanismi di
definizione
Tradizione di
pianificazione
Il piano fisico nel TU del ‘42
Il piano fisico nelle leggi regionali di prima e seconda generazione
Gerarchia
Sussidiarietà
Confini amministrativi
Confini amministrativi
Adozione + approvazione
Copianificazione, conferenza dei servizi, procedimento unico
Urbanistica
Pianificazione integrata
Durata
Tempo indeterminato
Obiettivi
Sviluppo ordinato
Azzonamento
(destinazione d’uso +
norme edificatorie)
Procedimento
analitico
Strumenti di controllo
della qualità dei servizi e dei
dimensionamenti
Coinvolgimento
dei cittadini
Trattamento delle
disuguaglianze
Modalità di
adattamento
Significato del
documento
Valutazione
Figure professionali
dominanti
Pianificazione in due tempi (strutturale vs. programmatoria o di progetto)
Sostenibilità
Azzonamento sulla base delle invarianti
Standard
Standard prestazionali
Osservazioni
Osservazioni, partnership, comunicazione
Residui di piano
Perequazione
Variante, abusivismo
Progetto complesso, piano di dettaglio
Impatti
Piano come documento e come processo (inteso come sequenza di piani
di dettaglio)
Integrata
Urbanista
Urbanista e scienze umane
Piano come prodotto
Tab. 4. Come cambia la semantica della pianificazione territoriale italiana
Le vocazioni del piano fisico e del piano strategico (e relative competenze
professionali): alcune distinzioni imprescindibili
In alcuni casi, quelli speculari di Bologna e di Milano, si è scelta la strada
della fusione tra i due strumenti, scegliendo le soluzioni opposte, da una parte
di un quadro strategico strumentale al piano regolatore, dall’altra di un ‘piano
strutturale strategico’. Sia la via milanese che la via bolognese appaiono soluzioni interessanti per la razionalizzazione che apparentemente consentono.
A guardare da vicino le dinamiche che presiedono allo sviluppo della pianificazione strategica in Italia, l’impressione è tuttavia che la strada della fusione
sia destinata - all’eccezione di contesti assai particolari – ad offrire soluzioni
molto parziali ai bisogni dai quali scaturiscono le esperienze di piani strategici. La soluzione della ‘fusione’ rischia anzi più spesso di apparire come mera
concessione alla moda, e per i motivi che ora cercheremo di illustrare, sembra comunque utile solo laddove esista un parco progetti ricco e condiviso in
un contesto socio-economico stabile e coeso.
È vero che i piani fisici secondo gli ordinamenti regionali degli ultimi
decenni devono sempre più assolvere anche alle funzioni attribuite alla pianificazione strategica: vi si richiedono il coordinamento interistituzionale
(fino alla co-pianificazione) o la partecipazione allargata per la condivisione comunitaria degli obiettivi di tutela e di sviluppo, definiti sulla base di
un quadro di conoscenze condiviso, che dovrebbero consentire una decisione davvero consapevole delle compatibilità con le altre decisioni importanti
degli attori pubblici e privati che intervengono nell’implementazione; vi si
richiede valutazione integrata, analisi delle risorse comunitarie, non prettamente architettoniche, paesaggistiche e ambientali che consentano di misurare l’impatto atteso dalle stesse decisioni.
È indubbio quindi che i piani regolatori di nuova generazione siano espressione patenti di una strategia politica, molto più di quanto non lo fossero i loro predecessori. Perché recepiscono formalmente indicazioni interdisciplinari con i grandi obiettivi della pianificazione economica e sociale,
perché propongono oltre alla definizione di obiettivi a lungo termine per la
tutela e lo sviluppo delle risorse locali un ragionamento sui mezzi per ciò
disponibili, perché vi si suggerisce la necessità di costruire il consenso al
di là della comunicazione. Ma sono piani alla dimensione dell’aggregato
amministrativo tradizionale che è il comune e le considerazioni proposte
sugli strumenti per la messa in atto degli obiettivi si ferma nelle sue prime
fasi. Non risolvono in breve alcuni dei problemi per i quali sono nati i piani
strategici, tra cui quello del governo di area vasta (il tentativo bolognese di
coinvolgimento di alcuni comuni contermini rimane parziale).
Nel contempo inaugurano un rapporto nuovo tra piano e progetto: il
progetto urbanistico nelle nuove legislazioni urbanistiche viene infatti rimandato alla pianificazione di dettaglio. Per questo motivo, il sistema italiano di spatial planning si propone come modello originale nel panorama
europeo, avvicinandosi in parte alla tradizione di aménagement du territoire per la sua attenzione nuova all’integrazione delle politiche, ma allontanandosi decisamente da quella di comprehensive planning per la posizione
particolare del piano di dettaglio.
Per delineare meglio le funzioni rispettive del piano fisico e del piano
strategico territoriale nel nuovo sistema italiano di spatial planning, è utile
distinguere le due forme di azzonamento che possono associarsi alle due modalità di pianificazione; nel piano strategico si opera difatti – anche se la
mappa spesso manca – un azzonamento sulla base di progetti, nel piano strutturale un azzonamento sulla base di indirizzi e invarianti. Nella prospettiva
dei piani fisici di ultima generazione, l’azzonamento non si collega infatti a
decisioni sull’espansione urbana, ma ad esigenza di tutela. Non avviene
quindi ‘su progetto’. Da ciò si deve desumere che il piano strategico territoriale è reso più utile dalla riforma (non meno utile), poiché può diventare uno
strumento integrato di razionalizzazione nella pianificazione di dettaglio.
Il piano strutturale rimane carta a lungo termine, definisce il concetto di sostenibilità della progettazione, enuclea le grandi opzioni di tutela e di riqualificazione degli spazi, stabilisce, con il regolamento, i principi e le norme che regolano le attività di trasformazione degli spazi. Ha valore cogente per gli enti
pubblici e per i cittadini. Ha influenza sul solo territorio comunale.
Il piano strategico può invece costituire il documento di area vasta che ad
oggi manca nel sistema di pianificazione italiano. Fondato sul patto, può essere il motore con il quale gli attori locali spingono alla razionalizzazione e
all’integrazione dell’azione dei diversi enti pubblici in seno all’area vasta,
indebolendo quella resistenza delle élite politiche locali che hanno annullato i
successivi movimenti verso la costituzione di strutture politico-istituzionali di
area vasta. Ciò non soltanto negli ambiti fortemente urbanizzati; esperienze
interessanti di piani strategici volontari si contano già oggi in un numero limitato di associazioni di comuni rurali
Relazioni tra livelli di governo
Ambito di applicazione
Meccanismi di definizione
Tradizione di pianificazione
Durata
Obiettivi
Procedimento analitico
Strumenti di controllo della
qualità dei servizi e dei dimensionamenti
Coinvolgimento
dei cittadini
Trattamento
delle disuguaglianze
Modalità di adattamento
Significato del documento
Valore giuridico
Figure professionali
dominanti
Il piano fisico nelle leggi
regionali di prima e seconda
generazione
Sussidiarietà verticale
Confini amministrativi
Copianificazione, conferenza dei servizi,
procedimento unico
Pianificazione integrata
Pianificazione in due tempi
(strutturale vs. programmatoria o di progetto)
Sostenibilità
Azzonamento sulla base
delle invarianti
Il ‘piano strategico’ funzionale al nuovo sistema di pianificazione territoriale
Sussidiarietà orizzontale
Boundaries del sistema urbano
Arene deliberative specifiche, arene deliberative del
governo locale
Pianificazione integrata
Elenco di priorità progettuali
consensuali (a breve e medio
termine)
Mutamento: miglioramento
della qualità della vita, efficacia
Tavola di coerenza dei progetti
inseriti nel quadro
dell’azzonamento strutturale
Standard prestazionali
Fattibilità
Osservazioni, ascolto, comunicazione
Partnership, partecipazione
Perequazione
Consenso e automobilitazione
Progetto complesso, piano
di dettaglio,
Atti dell’amministrazione,
attività delle associazioni,
project financing
Piano come documento e
come processo (inteso come
sequenza di piani di dettaglio)
Piano come processo di revisione continua dell’agenda
progettuale
Cogente
Cogente per
l’amministrazione, pattizio
Urbanista e scienze umane
Sociologo
Tab. 5. Piani fisici e piani strategici nel sistema attuale di Spatial Planning italiano
La dialettica tra i piani, strutturali, strategici, riveste ulteriore utilità nella misura in cui riesce a mantenersi come dialettica tra discipline: il piano
regolatore all’urbanistica, il piano strategico alla sociologia.
I piani strutturali sono spesso sfibrati da un’eccessiva contaminazione:
architetti che riaffermano la loro capacità di supplenza di tutte le scienze
sociali, marginalizzazione, quindi estrema separatezza tra le diverse analisi
sociali, sbrigative e prescrittive più che descrittive. Ciò non significa che il
piano regolatore possa fare a meno di analisi sociali accurate; ma è essenziale che si creino delle strutture di analisi sociali funzionali alla definizione delle scelte di azzonamento su invarianti e di dimensionamento; che nella pianificazione ‘fisica’, il lavoro del sociologo sia strumentale all’analisi
delle scelte di uso del territorio. La fusione tra piano regolatore-strutturale e
piano strategico territoriale, formula elegante, non crea le condizioni perché
si sviluppo questo dialogo. E’ d’altronde evidente che il piano regolatore
costituendo l’armatura del sistema di tutela della sostenibilità nel territorio
comunale, che si sviluppa sui diversi orizzonti temporali, del piano, del regolamento e della pianificazione di dettaglio, il piano strategico d’area vasta debba a rigore di logica iscriversi in un quadro già completo di pianificazione ‘regolatrice’ comunale.
Strategie locali e protezionismo
Consideriamo ora le relazioni tra pianificazione strategica e sviluppo locale, poste al centro del “modello” italiano. Ricordiamo la definizione di
Camagni: «la pianificazione strategica può essere interpretata come costruzione di capitale sociale (o di capitale relazionale finalizzata al miglioramento della community governance)» (in Pugliese- Spaziante 2003). Rileva
Mazza (e su questo tratto giustifica la sua proposta di una struttura di pianificazione territoriale a vocazione strategica assai diversa dal mainstream
nazionale come quella promossa a Milano), che in molte città italiane, per
la debolezza della struttura di impresa e della cultura imprenditoriale, spesso ‘mancano’ quelle consolidate coalizioni di sviluppo la cui presenza può
apparire come precondizione alla crescita di una ‘rete’ utile alla definizione
e alla messa in atto di strategie di sviluppo. Quando esistono tali coalizioni,
il ‘sentimento comune di obiettivo’, sul quale si fonda ogni coalizione, si
incentra certo sul raggiungimento stabile di benefici non universali: lo sviluppo complessivo della comunità ne può risultare indirettamente per generico spill-off, o non risultarne. Assumiamo però che la coalizione in quanto
forma continuativa di cooperazione possa offrire la trama per sviluppare
ulteriori sforzi coordinati, laddove in particolare la frammentazione locale è
accentuata: tralasciando per ora le condizioni alle quali ciò può avverarsi.
Laddove non esista questa trama dovrà essere sopperita da modalità di cooperazione istituzionalizzata: la pianificazione strategica può essere una di
queste.
Community (che in italiano traduciamo con ‘comunità locale’), però, non
è comunitas: il territorio delimitato dai confini amministrativi in genere non è
formazione sociale dotata di struttura coesa e nella quale dense relazioni quotidiane formano la base di un capitale relazionale sufficientemente esteso per
ridurre gli effetti delle disuguaglianze di accesso alla decisione. La pianificazione strategica in Italia, tenuto conto della dimensione dei sistemi urbani e
della frammentazione comunale, deve per forza di cose essere concepita come sovracomunale. La cooperazione istituzionalizzata del piano strategico si
viene allora a collocare sullo sfondo problematico del deficit di pratiche di
collaborazione intercomunale, se non di conflitto tra le autorità locali.
Il costituire coalizioni di sviluppo a dimensione dei sistemi urbani italiani
appare spesso a ben guardarci come sfida improba se non si adotta della stessa coalizione di sviluppo una definizione ampia, e diversa da quella tipica del
mainstream nazionale. L’impianto analitico stesso della pianificazione strategica italiana, il suo ruotare così ossessivamente attorno ad un termine, sociologicamente fecondo, ma anche polisemico, come quello di ‘capitale sociale’ (perfino nella sua versione concettuale più tecnicamente neutra di ‘capitale relazionale”’ preferita ad esempio da Camagni), riallaccia forzosamente l‘agire pubblico ad una ‘comunità’ fittizia (comunitas), che niente ha a
spartire con la realtà degli aggregati di ‘comunità locali’ (communities).
La sociologia statunitense, oltre ad offrirci precetti e concetti neocomunitaristi, ci propone strumenti analitici di ambizione più circoscritta per la
caratterizzazione empirica delle coalizioni locali e dei cosiddetti ‘regimi
urbani’ (Stone 1995), ampiamente recepita nella sociologia urbana anche
europea (si vedano le proposte in particolare di Elker, Davies, Stoker e
Mossberger e per una rassegna Borelli, 2006). Che aiuta ad immaginare estensioni e forme molteplici di coalizioni, nelle quali il potere pubblico assume maggiore o minore centralità, e nelle quali lo ‘sviluppo locale’ è obiettivo più o meno presente, nonché diversamente interpretato.
Nelle esperienze italiane appena tratteggiate, l’ente pubblico è sempre il
promotore della coalizione. A prima lettura, il piano strategico appare come lo
strumento chiave di un ‘regime urbano’ che nella letteratura statunitense verrebbe definito ‘regime simbolico’, centrato, diremmo in termini più schietti, sul
marketing territoriale, nel quale l’ente pubblico cerca di creare un meccanismo
virtuoso suscitando egli stesso la nascita di una coalizione sulla base di grandi
indirizzi di sviluppo definito dagli ‘uffici’. A seconda lettura, consultando le
mappe degli attori coinvolti pubblicizzate dagli stessi enti locali4, alla centralità
del pubblico, si vede che nel costruire il piano si associano sempre, al di là della volontà proclamata di universale coinvolgimento, configurazioni circoscritte
di attori. Queste configurazioni, diverse, si aggregano in due tipi fondamentali,
quello della growth machine allargata (nel quale al binomio amministratoribusinessmen si associano a seconda dei contesti pochi diversi attori influenti),
quello del ‘reticolo della concertazione’ (che ruota attorno al triangolo amministratori-sindacati-imprenditori allargandosi a qualche associazione locale); configurazioni che comunque suggeriscono un meccanismo tipico del piano strategico italiano, di consolidamento delle coalizioni esistenti a partire da un progetto pubblico di marketing territoriale.
Il costruire capitale relazionale è disegno particolarmente delicato nel
contesto speciale formato oggi dai grandi sistemi urbani. Le imprese e gli
imprenditori che intervengono nelle metropoli del mondo globale (in particolare quelli dotati della maggiore capacità di influire) sono spesso privi di radici locali, ed è difficile rintracciare un’agenda comune a questi soggetti (le
cui agende specifiche sono perfino più debolmente ancorate sull’interesse
fondiario di quanto non fosse tradizionalmente).
Le ‘visioni’ territoriali dichiarate nei Piani strategici italiani si possono
utilmente riferire al concetto di ‘localizzazione globale’ o ‘glocalizzazione’
(come proposta da Robertson, 1992, trad. 1999, p. 235), tramite il quale si
rimarca che le modalità attuali di globalizzazione includono oltre ad una
crescente competitività tra territori quella propensione alla ‘ricerca dei fondamentali’ particolari di ogni comunità locale, che può tingersi, e non di
rado si tinge, di nostalgia.
Il richiamo ad un ampio coinvolgimento degli attori locali nei piani strategici italiani partecipa, a seconda dei casi, di diversi tipi di disegni, ispirati
ad un generico ‘glocalismo espansivo’ (volontà di accogliere le opportunità
offerte dalla competizione globale (Ohmae, 1995; Saxenian, 1994), meno
spesso e meno chiaramente al glocalismo difensivo (esaltazione di biodiversità da sottoporre a tutela di fronte al ‘rischio globale’ (Sale, 1990; Nader,
Wallach, 1998) poiché il messaggio è sempre improntato all’espansione, e
più raramente a ciò che potremmo infine etichettare come glocalismo sociale
(vale a dire al rifiuto di sacrificare ai vincoli globali che potrebbero rendere
4
Una buona illustrazione è offerta dalle liste degli attori coinvolti presentate nelle schede
standardizzate sul processo di piano compilate dalle amministrazioni locali della rete Città
Strategiche e presentate nei rispettivi siti web.
più acute disuguaglianze locali5). Questi disegni fanno riferimento a diversi
segmenti della community.
Sullo sfondo dell’integrazione europea, nonché della crescente unificazione del mondo delle imprese, il puntare alla costruzione di “capitale relazionale finalizzato al miglioramento della community governance” può manifestare diverse volontà da parte di chi detiene il governo dell’ente locale.
Ma per interpretarle, accanto alla nozione di glocalismo, dobbiamo scomodare un’altra nozione, oggi di nuovo in auge nel dibattito sulle relazioni tra Stati, ma dimenticata nell’analisi del governo locale, quella di protezionismo.
È nella dimensione protezionista che esalta il ruolo dell’imprenditoria
politica locale, afferma il primato della politica locale e del suo governo nel
rifiuto dell’appiattimento sotto l’effetto di determinanti globali, che il piano
strategico si viene ad integrare. Nel creare la macchina per la pianificazione strategica, un governo locale manifesta quindi in maggiore o minore misura, un disegno protezionista: la volontà di far crescere le imprese locali o
di creare una cultura economica con la quale si possa più agilmente interloquire, alla quale si possa più facilmente imporre un progetto politico.
Interesse generale, deliberazione, protezionismo, dittatura delle minoranze
Nel progetto di piano strategico territoriale il richiamo al consolidamento
della sfera economica e delle solidarietà locali può esprimere apprezzamento
degli equilibri, economici e sociali esistenti minacciati dal contesto globale,
può anche essere quasi del tutto privo di connotazione nostalgica, semplice
affermazione del primato della politica locale sulle leggi del mercato globale.
Non si connota per forza per una ispirazione oligarchica, può anche associarsi ad una forte preoccupazione di integrazione sociale; può in particolare attestare un disegno di rivalsa, non della community in quanto tale, ma dei segmenti della popolazione meno atti ad affermare i propri bisogni nell’agenda
‘glocale’. E’ chiaro tuttavia che richieda molta attenzione ed abilità il sanare
nel prosieguo del piano la contraddizione tra la vocazione protezionista dello
strumento (che ripone sul principio di appoggiarsi alle risorse esistenti per
attuare le strategie) ed eventuali intenti di mutamento sostanziale degli equilibri sociali. Di fronte a questa contraddizione, l’approccio attualmente dominante alla pianificazione territoriale, ispirato ad una interpretazione specifica della pianificazione ‘comunicativa’, non garantisce efficacia.
5
Sulla presenza ricorrente di questi tre modelli tra i progetti dei leader locali europei, sia
consentito rinviare a Magnier-Navarro-Russo 2006)
Che di rado possa essere individuata una coalizione di sviluppo già esistente dotata di sentimento comune di obiettivo, che l’ente pubblico, con il
piano strategico, si ponga alla testa di un’operazione di marketing destinata
a stimolarla, che in alcuni casi la sua volontà sia di creare una coalizione
ampia, non significa che nelle città italiane tutti possano ugualmente avvicinarsi alla ‘pianificazione come processo’. Tra interessi (se non poteri) forti e interessi deboli, la capacità di informarsi e di mobilitarsi è ben diversa.
E’ chiaro quindi che il rischio maggiore inerente al modello sia quello della
strumentalizzazione del piano attraverso la finzione demagogica del consenso e del semplice consolidamento delle coalizioni di governo preesistenti o in fieri: coalizioni rivelatrici certo di un tipo di capitale sociale, ma non
sottoposte a quel vaglio critico ampio destinato a verificare, nella dialettica
tra popolazione e rappresentanti, la consistenza dell’interesse generale che
determinerà le scelte strategiche.
Come ammonisce con grande efficacia Boudon (2006, p. 12) nel suo ultimo saggio richiamando al rispetto del senso comune di fronte alla retorica
fuorviante del discorso accademico: «‘Democrazia partecipativa’. Questa
nozione è di carattere, a dir vero, più incantatoria che operativa. Essa pretende di identificare un salto qualitativo che ci condurrebbe da una forma
superata della democrazia, la democrazia rappresentativa, ad una forma
moderna o post-moderna della democrazia, nella quale ognuno avrebbe diritto alla parola e avrebbe la capacità di essere inteso. Il quadro idilliaco
delle relazioni sociali che così evoca è ovviamente solo finzione. Nei fatti,
la nozione di ‘democrazia partecipativa’ propone di istituzionalizzare con
discrezione l’azione delle minoranze attive: di dare alla loro voce, ai loro
auspici e alle loro attese un carattere quasi ufficiale, con la conseguenza che
queste istanze rappresentative avrebbero l’obbligo di riconoscerle. Di nuovo, dietro la nozione di ‘democrazia partecipativa’ si profila la visione relativista di una polis composta da una giustapposizione di ‘comunità’ e di
gruppi di interessi latenti o patenti, e di una vita politica ridotta a ricercare
compromessi efficaci tra le esigenze delle minoranze attive che si presentano come i portavoce di queste ‘comunità’ e di questi gruppi di interesse».
Ricordare l’advocacy planning per non capitalizzare sulle sole coalizioni
Le varie esperienze di piani strategici censite negli studi disponibili o
oggetto del nostro approfondimento analitico offrono diverse gradazioni di
allargamento della partecipazione; solo una minoranza di esperienze attri-
buisce reale centralità alla partecipazione non soltanto dei cittadini non organizzati, ma perfino delle associazioni, e con successo diversificato.
La fragilità dei risultati raggiunti, che contrasta con le dichiarazioni di intenti, solleva implicitamente interrogazioni basilari. Non sembrano adeguate le
modalità di partecipazione scelte, perfino, si potrebbe supporre che non sia adeguato il concetto di partecipazione nella pianificazione dalle quali discendono. Esso si collega all’interpretazione di mainstream del piano come piano
‘comunicativo’ e di un piano comunicativo che si sviluppa in un contesto di
comprehensive planning, o tutt’al più di land management, dove vi è stretta
connessione tra piano e progetto, e dove la distinzione tra piano fisico e piano
strategico territoriale non ha funzionalità. Nel sistema italiano, invece, come si
viene oggi a proporre, il piano strategico dovendo essere concepito come la tavola di coerenza dei progetti, urbanistici e non, che viene ad inserirsi nelle scelte relative al destino del suolo, dei manufatti e dei paesaggi racchiuse nei piani
regolatori, anche la partecipazione al piano strategico deve essere intesa come
partecipazione alla progettazione. Si tratta di progetti urbanistici, sociali, economici o culturali, di cui il piano deve verificare le condizioni generali di fattibilità, che chiedono quindi un grado di tecnicalità non particolarmente acuto,
ma chiedono comunque una conoscenza dei temi importante. Si tratta in breve
di aree cognitive di frontiera dove possono convergere sapere esperenziale e
sapere tecnico, ma solo in precise condizioni, poiché la convergenza è sempre
difficile se non è adeguatamente guidata e presuppone comunque la capacità
del sapere esperenziale di affermarsi di fronte al tecnico: più ancora che nel caso del comprehensive planning, dove la concretezza dei temi proposti può essere maggiore, ma anche nel caso del piano regolatore italiano, dove le scelte sono di indirizzo e possono dar luogo (anche se non lo fanno quasi mai) ad interrogazioni sulle percezioni dei luoghi, sulle aspettative di intervento pubblico e
sugli atteggiamenti verso la trasformazione territoriale.
Nella retorica della partecipazione diretta della cittadinanza al governo
del territorio, si dimentica infatti che essa richiede tecniche diverse a seconda del tipo di piano. Nel sistema italiano che si sta oggi consolidando, il
piano strategico appare chiamare tecniche volte a suscitare la mobilitazione
piuttosto che a gestire il conflitto per definire posizioni di mediazione. In
ciò la posizione di Boudon che vede nella partecipazione diretta della cittadinanza il diniego dell’esistenza di un interesse generale delinea un rischio
sempre latente, ma non è del tutto applicabile alla polity italiana. E’ vero
che l’appello alla partecipazione diretta della cittadinanza alle decisioni
cresce sempre nei momenti di sfiducia verso la democrazia rappresentativa,
e che anche nell’Italia di oggi, i suoi fautori non nascondono il rifiuto della
politica ‘classica’, ma la partecipazione inizia anche ad essere interpretata
dagli stessi eletti come strumento di rinnovamento della democrazia rappresentativa. Il successo, ancora relativo ma significativo, della prospettiva deliberativa nella definizione della democrazia, nasce dalla consapevolezza
diffusa che la costituzione di nuove arene deliberative possa essere il truchement di un rinnovo gattopardiano della democrazia rappresentativa. La
carenza di formalizzazione delle issue, la scarsa vivacità del dibattito politico, le debolezze del circuito comunicativo locale sono rischi per la sopravvivenza del modello che possono essere ridotti con un innesto di partecipazione alla decisione. Nelle aule consiliari dei comuni e dei i quartieri italiani, la “deliberazione” è limitata, e quando si sviluppa non è percepita dai
cittadini, i partiti sono lontani: spesso di conseguenza le minoranze attive
sono i grandi vettori di informazione e di sviluppo dello spazio pubblico.
La reazione della classe politica, in particolare dei sindaci eletti direttamente, diffusamente aperti alla sperimentazione partecipativa6 (Magnier 2006),
è conforme a quanto richiesto dalla tutela del principio di interesse generale, che può accettare, anzi può essere favorito, da una partecipazione orientata all’informazione e al confronto delle posizioni, se strettamente collegata agli istituti della democrazia rappresentativa. Il piano strategico, a queste
condizioni, lungi dal fragilizzarli, è uno degli strumenti di possibile consolidamento degli istituti rappresentativi.
Perché il meccanismo virtuoso di mobilitazione si allarghi al di là della
minoranza attiva, in alleanza con le arene deliberative ‘costituzionali’ del
governo locale, è necessario che, come è avvenuto in poche delle esperienze esaminate, consigli e consiglieri siano coinvolti dall’inizio nel processo
di piano, che si dispongano meccanismi di ascolto della popolazione più
articolati di quelli che sono stati fino ad oggi utilizzati, ma anche che il dibattito si sviluppi su livelli decisionali nei quali la tecnicalità delle scelte è
limitata e dove il sapere esperenziale assume valenza decisiva.
Il termine composto ‘idea-progetto’ è spesso usato nei piani strategici italiani, ma nell’accezione di ‘progetto di massima’. Nel binomio sarebbe stato
invece più funzionale all’allargamento della partecipazione agli interessi deboli e non organizzati il porre l’accento sull’‘idea’, sull’indirizzo progettuale,
più spesso suscettibile di deliberazione sulla base dell’esperienza nelle condizioni attuali di empowerment. Per quanto concerne le tecniche di ascolto, il
piano strategico italiano in generale combina una rapida analisi SWOT da
parte degli esperti (dove in qualche raro caso converge una survey sui pro6
Il dato caratterizza genericamente la fase attuale della storia della democrazia locale in Europa (per un confronto comparato, cfr. Magnier 2006).
blemi percepiti dalla popolazione) e l’interrogazione in interviste collettive di
soggetti autoselezionati o selezionati dagli esperti per la loro perizia o rappresentatività, in particolare nell’ottica della concertazione tradizionale.
Sono proprio questi meccanismi di selezione a costituire la lacuna maggiore
delle proposte di piano strategico in Italia, e a spiegare l’impatto ridotto di molti piani nel dibattito locale. Dalle prime esperienze di advocacy planning
(Gans, Davidoff , 1965), non mancano, soprattutto nella tradizione statunitense, le proposte di metodo perché nella pianificazione sia alfine rappresentato
chi finora non lo è stato. Lo stesso impianto dell’advocacy planning, così criticato già con immediatezza dal suo interno (Peattie, 1968; Goodman, 1972), potrebbe ancora ispirare un approccio diverso alla pianificazione strategica italiana. I pianificatori a difesa dell’Architects Renewal Committee di Harlem o
dell’Urban Planning Aid di Boston affrontavano lo stesso problema di distanza
dal governo di una parte significativa della popolazione che condiziona così
fortemente il successo della pianificazione italiana, utilizzando tecniche di interrogazione come quella dell’intervista aperta ai membri delle comunità marginali, mentre interpretavano il loro ruolo come quello di portavoce dei segmenti ‘invisibili’ della società locale(con i rischi ovvi, e da loro stessi denunciati, di manipolazione, anche inconsapevole). Ciò significa in concreto usare
tecniche sociali e modalità di intervento da parte di chi dirige il piano alle quali
non si è mai pensato di dover ricorrere nei piani strategici italiani, poiché questi
ultimi sono promossi da scuole sociologiche che si ispirano ad un altro modello
di pianificazione: quello di una pianificazione comunicativa improntata specialmente alla mediazione tra minoranze organizzate. Un modello, va rimarcato, che in fondo non è tanto lontano da quello, invece tradizionalmente riferito
alla scuola di pianificazione razionale comprensiva, di pianificazione come aggiustamento partigiano mutuo di Lindblom – lontano da qualunque orientamento prescrittivo –. Alla lontananza dalla sfera politica delle comunità marginali, la prima grande corrente secessionista del movimento di ‘pianificazione a
difesa’, detta della ‘pianificazione per l’equità’, volle ovviare, si ricorderà, ridistribuendo forzatamente potere e partecipazione (Forester, 1989; 1990; Mier,
1993): il meccanismo, messo in atto in alleanza con alcuni politici progressisti
come Harold Washington, era quello dell’inclusione nei tavoli decisionali del
piano di rappresentanti dei ceti abitualmente lontani dalla sfera politica; quindi
della costruzione, stimolata dal pianificatore, di una comunicazione intensa con
i settori più attenti della burocrazia per costituire, attorno al piano e dal piano,
una comunità di riforma interna all’ente locale. Un modello di intervento che si
rimette all’expertise, a quella del pianificatore-ricercatore sociale e a quella
dell’amministratore, puntando sulla comunicazione, rifiutando meccanismi di
scelta che si fondano sulla negoziazione tra chi è già organizzato, ed incaricando
una élite dicotomica (riceratori-amministratori) della definizione dell’interesse
generale a partire da un ascolto attento della popolazione.
Rielaborare una sociologia per i piani territoriali
Il dibattito urbanistico successivo ha insistito fino all’eccesso sul velleitarismo della pianificazione a difesa e sui pericoli di manipolazione, più o
meno inconsapevole, che comporta la delega agli esperti. Lo sforzo si incentra di conseguenza sull’empowerment e sulla necessità di apprendimento mutuo (quindi di connubio tra sapere esperto e sapere esperenziale) che
richiedono uno stile detto ‘transattivo’ di pianificazione (Friedmann, 1973;
1987; Leavitt, 1994), sullo sfondo di una diffusa crisi di valori professionali
che porta infatti alla negazione della insostituibilità dell’esperto.
Le modalità di apprendimento, di acquisizione delle conoscenze da parte di
chi pianifica vanno sempre arricchite e le stesse capacità della popolazione nel suo insieme - ad intervenire nella cosa pubblica devono esser sostenut. Ciò
non deve tuttavia portare ad occultare la questione, fondamentale nel determinare la qualità democratica e l’efficacia della pianificazione: alcune frange della popolazione sono drammaticamente estranee al mondo della pianificazione e
della politica, mentre alcune minoranze invece vi sono ben presenti ed organizzate per influirvi. Nel modello attualmente dominante, quello della pianificazione transattiva – poiché in buona parte si sviluppa in un contesto di comprehensive planning, quindi assimila – forzosamente nel caso italiano- l’attività di
costruzione di un piano a quella di definizione di un progetto esecutivo, questo
tema, centrale nel movimento di advocacy planning, è in sostanza tralasciato,
rimandato ai soli interventi correttivi di una struttura di intervento che suppone
la popolazione interessata, mobilitata o quanto meno facilmente suscettibile di
avvicinarsi da sé al piano. È invece su questo tema che deve svilupparsi oggi
in prima istanza la riflessione operativa sulla partecipazione nel governo del
territorio, per ovviare ai rischi evidenti di aggravio delle disuguaglianze connaturati ad una pianificazione che è volta alla ‘mediazione’ (tra istanza formalizzate), nella quale alla retorica della partecipazione larga tende a corrispondere
nei fatti una realizzazione élitista7.
Per ridurre questi rischi deve esser mobilitato un fascio ampio di tecniche
di sostegno alla partecipazione, e non soltanto quelle di moda (in altri termi7
Il rischio di deriva élitista, contrariamente a quanto affermato da Gibelli e Camagni nel già citato articolo su Eddyburg, è infatti almeno altrettanto forte in una struttura di piano negoziale o che comunque
interpreta la pianificazione come attività comunicativa che in una prospettiva del tutto ‘razionale’.
ni, quelle adeguate alla pianificazione di tipo transattiva). Per quanto concerne la sociologia, vi si possono quindi includere molta osservazione, partecipante e non, storie di vita, ma soprattutto procedure meno impegnative in materia di costi e di tempo, care ai movimenti di pianificazione a difesa e di pianificazione per l’equità, come le interviste collettive o individuali standardizzate. Queste tecniche, che sono ovviamente da utilizzare con precauzione, in
particolare quella di offrire gli strumenti ed i tempi necessari ad una reale deliberazione, quindi non esclusivamente in interrogazioni puntuali (utili, purché somministrate con cura, a delimitare e sondare il campo delle opinioni
formate), sono in effetti insostituibili per dar efficacemente voce a chi di regola non la prende.
modello di pianificazione
la pianificazione a difesa
la pianificazione per l’equità
la pianificazione transattiva
l’empowerment radicale
ruolo del pianificatore
l’ascolto e la trasmissione
del portavoce
il sostegno alla
comunicazione e
l’inclusione nel circuito
decisionale
il sostegno
all’apprendimento
mutuo nell’analisi
contestuale
generica assistenza
tecniche sociologiche a sostegno della pianificazione
intervista
intervista collettiva,
tecniche a sostegno della
deliberazione
(giuria di cittadini)
storia di vita,
osservazione
osservazione partecipante,
formazione
Tab. 6. Possibili modalità di intervento del sociologo nella pianificazione partecipata
Il ruolo del sociologo in una pianificazione strategica ben compresa, più di
quanto non avvenga nella pianificazione strutturale, non sembra in breve dover
essere quella di ‘ideatore’ del piano, ma dover fondarsi su una mansione principale, quella di raccogliere un quadro delle aspettative di intervento pubblico
(idee-progetto in senso proprio, radicate nel sapere esperenziale), preliminare
alla definizione di specifici progetti, affidata al lavoro congiunto degli amministratori e degli esperti (tra cui i sociologi, ma affiancati da molti altri), perché
richiede maggiore ‘sapere esperto’. La stesura del quadro delle aspettative,
quelle degli stakeholder organizzati e quella degli stakeholder lontani dalla politica e non abituati a formalizzare aspettative e bisogni, può utilmente ritemprarsi nella lettura di una tradizione di pianificazione per certi aspetti desueta,
per altri fonte di suggestioni sempre intense, come quella della ‘pianificazione
a difesa’ o quella della ‘pianificazione per l’equità’. A maggiore ragione in si-
stemi urbani dalla forte complessità, nei quali convergono etnie, culture, stili di
vita sempre più ‘molteplici’, nella cosiddetta multicittà (Sandercock, 1998).
Si tratta in breve in questa prospettiva di definire un ruolo per il sociologo che non sia di supplenza agli amministratori, ma di sostegno ad un
processo, quello della partecipazione alla costruzione di un piano d’area vasta, nonché di controllo della coerenza delle scelte prospettate con gli indirizzi culturali che emergono dalla società locale e dalle scelte precedentemente compiute dagli eletti8. Un ruolo decisivo, ma in fondo più strettamente specializzato di quanto non dovrebbe essere il ruolo del sociologo, se
ben compreso, nella pianificazione fisica, strutturale.
8
Come si segnala in Mela-Belloni-Davico 2006, “i piani ‘visionari’ stimolano il sociologo
ad intervenire tanto come specialista (ovvero come utilizzatore di tecniche di rilevamento
empirico), quanto come ‘generalista’ , vale a dire come esperto capace di proporre sintesi
credibili e comunicabili, a partire dagli stessi risultati delle analisi degli altri esperti. La vocazione della disciplina ad una approccio sintetico e critico delle altre discipline non autorizza a nostro parere il sociologo ad assumere una generica supplenza degli altri esperti in
scienze sociali e degli amministratori eletti.
La comunità di sapere sociologica di fronte ai piani strategici territoriali
Ciò che viene in genere richiesto al sociologo:
•
promuovere l’idea del piano strategico;
•
selezionare e coordinare il gruppo di esperti;
•
redigere la lettura di scenario;
•
assumere la responsabilità della concertazione degli stakeholder;
•
redigere il piano come cucitura di progetti.
Ciò che gli si dovrebbe chiedere:
•
informare sulle definizioni soggettive dell’utilità sociale nella società locale;
•
contribuire alla definizione oggettiva dell’utilità sociale chiarendone le dimensioni sociali;
•
sostenere di conseguenza l’allargamento della partecipazione a stakeholder non organizzati per tracciare il quadro delle attese di prestazioni dei servizi e del territorio e
produrre idee-progetto;
•
contribuire alla definizione di scenari alternativi per quanto attiene agli effetti sociali
delle scelte;
•
collocare il piano strategico nel quadro strategico d’area vasta definito nei documenti di
pianificazione esistenti nelle loro dimensioni sociali;
•
analizzare freni e risorse organizzative rilevanti per la realizzazione del piano
•
partecipare alla definizione dei progetti chiarendo la mappa dei beneficiari e effetti
sociali presumibili
•
contribuire alla valutazione per gli aspetti relativi alla struttura sociale e alla percezione
degli interventi
La comunità di sapere sociologica di fronte ai piani strutturali
Ciò che viene in genere richiesto al sociologo:
•
stendere un segmento socio-economico del quadro conoscitivo sulla base di dati oggettivi;
•
raccogliere informazioni soggettive nei casi di conflitti espliciti;
•
facilitare il dialogo tra partner,
•
partecipare alla valutazione degli impatti:
Ciò che gli si dovrebbe chiedere:
•
analisi della struttura sociale, delle sue dinamiche e degli stili di vita a partire da dati ‘oggettivi’;
•
contributo alla definizione di scenari alternativi per quanto attiene alle dimensioni sociali;
•
partecipare all’individuazione delle tipologie architettoniche caratteristiche del territorio;
•
analizzare la percezione delle risorse territoriali, con le tecniche di ascolto adeguate;
•
analizzare le attese di prestazioni dei servizi e del territorio con le tecniche di ascolto
adeguate;
•
analizzare le attese di intervento pubblico con le tecniche di ascolto adeguate;
•
partecipare all’individuazione delle invarianti ‘sociali’;
•
collocare il piano in un quadro strategico d’area vasta nell’analisi sociale del sistema urbano;
•
analizzare la congruenza tra iniziative locali nelle loro dimensioni sociali;
•
analizzare la congruenza tra pianificazione ordinaria e politiche di sviluppo locale per
quanto concerne gli indirizzi sociali.
Rivendicare un’esperienza, mobilitare una molteplice competenza disciplinare
Il Quadro Strategico Nazionale, nel contesto della revisione contemporanea della legislazione urbanistica e della struttura degli enti locali, con il
rinnovato tentativo di istituzione di un livello metropolitano di governo, apre quindi una fase decisiva nello sviluppo dell’esperienza italiana di pianificazione strategica territoriale. Sono oggi più che mai indispensabili una
attenta riflessione sul significato complessivo di questo vasto movimento e
una corretta valorizzazione delle sue esperienze emblematiche. Si tratta di
ricavare dalle innovazioni locali indirizzi nuovi per una efficace ‘codifica’,
coerenti con una strategia territoriale nazionale davvero compiuta (che non
si limiti in altri termini alla dimensione dell’infrastrutturazione associandola a poche ulteriori indicazioni per il riequilibrio e la tutela); una ‘codifica’
nella quale la retorica, oggi invasiva in alcuni piani meno curati, sia meglio
controllata e resa funzionale alle reali potenzialità dello strumento ‘piano
strategico territoriale’. Questa ‘codifica’, radicata nelle migliori esperienze
locali, è condizione necessaria al prolungamento di un movimento che nella
molteplicità delle sue concretizzazioni appare costituire oggi, specialmente
nei contesti metropolitani, uno strumento difficilmente sostituibile per la
razionalizzazione dell’agire pubblico e la ricostruzione del legame politico,
anche nel contesto normativo nuovo di pianificazione ‘fisica’.
Una constatazione iniziale sull’esperienza sembra doversi imporre in questo
percorso di ‘codifica’, culturale prima ancora che normativo, alla quale la sociologia italiana, protagonista dell’esperienza, è destinata a contribuire. La stagione dei piani strategici volontari, nella storia delle autonomie locali italiane,
forma il primo momento di intensa progettazione istituzionale decentrata. Dotati nel 1990 di autonomia statutaria i Comuni italiani si sono nell’immediato
accontentati di replicare modelli istituzionali, con le loro implicazioni organizzative, calati dall’alto – le associazioni di comuni, in particolare. E’ vero che il
movimento di pianificazione strategica segue in buona parte anch’esso un andamento eterodiretto. L’idea di lanciarsi nell’avventura, gravosa, del piano
strategico, è suggerita spesso dai consulenti, spesso dalla stessa cerchia intellettuale che anima la rete ‘Città strategiche’: essa offre modelli organizzativi, oltre
a procurare direttamente a molti il sostegno tecnico e il networking che garantisce la diffusione delle ‘ricette’ per l’azione e la conoscenza dei casi e delle pratiche esemplari. La ricchezza delle pratiche tuttavia rischia però di essere offuscata, se non imbrigliata, dalla retorica comune. Queste pratiche affrontano in-
fatti problemi adattivi delle organizzazioni assai diversificati. Nei loro piani
strategici, i Comuni italiani dimostrano, infatti, sia la decisa volontà di affrontare con i propri mezzi, mobilitando quelli della società locale nel suo insieme, le
carenze della loro organizzazione rispetto ai bisogni della comunità locale, che
una capacità di innovare in autonomia non adeguatamente riconosciuta e quasi
mascherata dal lessico e dai proclami unificante dei manifesti. Nella sua comunicazione esterna e nelle sue relazioni con il mondo della ricerca, il movimento
‘piani strategici’ ha già trovato il solido appoggio di una efficace cerchia intellettuale che molto deve ad una disciplina, la sociologia economica; sembra oggi importante consolidare questo legame con la sociologia ancorandolo su una
ampia gamma di temi e di tecniche.
La serie di esperienze diverse di piano strategico nelle quali si cimentano, in genere con molti sacrifici sotto la pressione delle esigenze della
normale amministrazione, molti enti locali italiani segnano un tappa importante nella storia della democrazia locale italiana, verso una concreta autonomia comunale. Segnala Alexander (2004, p. 45, passim) che la pianificazione strategica è sempre progettazione istituzionale, in genere di ‘livello
intermedio’, orientata a creare strutture di pianificazione e di realizzazione,
in particolare mediante la costruzione di network interorganizzativi.
Nell’esperienza ‘volontaria’ italiana, la pianificazione strategica consiste
invece in progettazione istituzionale del livello più alto: si tratta di identificare regole nuove per la definizione delle grandi opzioni colle quali, formalmente (laddove il Piano strategico è iscritto tra gli strumenti democratici previsti dallo Statuto comunale) o meno, si riscrive la costituzione del
Comune. Si tratta in altre parole di dar un significato concreto al termine
troppo spesso fuorviante di governance, pronunciandosi sulla liceità degli
interventi nelle decisioni dei diversi attori pubblici o privati, in altre parole
attuando governance interattiva (Kooiman, 1993).
Quando lavorano sul livello ‘intermedio’ di progettazione istituzionale, i
piani strategici territoriali, esulando spesso dalle indicazioni di mainstream,
non di rado testimoniano di uno sforzo di innovazione attenta al contesto,
assai pregevole, che costituiscono suggerimenti per l’azione più per la tensione innovativa dai quali discendono che per una estesa applicabilità a
contesti diversi. Dimostrano comunque una creatività organizzativa che non
si risolve negli elenchi di best practice stillati nella manualistica e tendono
complessivamente a qualificare davvero gli enti locali che li hanno promossi come luoghi di eccellenza politico-amministrativa.
La retorica del piano strategico rispecchia una interpretazione del piano strategico tutta volta al visioning per lo sviluppo e meno attenta a quell’adattamento
delle organizzazioni a modalità di programmazione integrata, concertata e parte-
cipata al quale le migliori esperienze di piano strategico territoriale si sono attentamente dedicate. Troppo spesso la manualistica ha favorito la mera aggiunta di
strutture ad hoc dedicate al piano strategico senza particolare attenzione al coordinamento intra e interamministrativo, quindi al consolidamento dell’operato
dell’episodica macchina del piano strategico. Troppo spesso si è convalidata
l’assenza di valutazione che priva il piano strategico della legittimazione che potrebbe conferirgli nell’opinione della burocrazia un’efficacia verificata, per cui
esso tende ad apparire come un momento di rinnovamento del parco progetti, di
associazione con stakeholder decisivi per la realizzazione o di mobilitazione della cittadinanza su ciò che rimane il programma di una giunta, alla quale
l’amministrazione può utilmente contribuire; un momento nel quale però questa
amministrazione non troverà un vettore di integrazione della pianificazione o di
razionalizzazione organizzativa di lungo corso. In breve, l’assumere il visioning
come operazione qualificante della strategia locale porta a tralasciare gli elementi
di strategia che non concernono la definizione delle funzioni urbane da privilegiare.
La sequenza dei quesiti, di stampo evoluzionista, «a che punto siamo? Dove stiamo andando? Dove vorremmo andare? Come ci arriviamo?» si interpreta spesso in Italia come bussola nella competizione interurbana, utile solo a tutelare o migliorare la posizione della città sul mercato globale: soltanto nelle
migliori esperienze locali la rotta da tracciare si allarga più che formalmente
verso altre mete, di sviluppo ‘umano’. Il proposito strategico appare poi confinato alla definizione di linee di azione e di azioni, senza estendersi alla messa
in opera, allo sviluppo di queste azioni: Tralasciando, tra i suoi metaobietttivi,
l’integrazione delle pianificazioni a favore degli obiettivi di ‘sviluppo locale’,
la manualistica della pianificazione strategica italiana, al contrario della sua
migliore pratica, ha troppo spesso mantenuto l’organizzazione in posizione ancillare.
La codifica ministeriale assume di fatto che il piano strategico territoriale
deve essere un piano di area vasta. I contesti bersagli (i ‘generatori’) italiani
sono tuttavia piattaforme infrastrutturali, non sono per forza grandi sistemi urbani, i piani strategici finanziati ricadono di conseguenza su formazioni territoriali dalla diversa entità e status urbano. La questione della relazione in un quadro pianificatorio complessivo, tra centri generatori esistenti (le grandi aree urbane, con il loro centro e le loro edge city) e nuovi centri delineati (non di rado
aggregati di città medie e di periurbano, oppure aggregati di edge city di grandi
aree urbane) deve essere affrontata come quella giustamente posta nelle riflessioni europee, e diversamente risolta nei Quadri nazionali, della necessaria ridefinizione operativa del rapporto tra rurale e urbano, tema oggi cruciale nella
riflessione sociologica sul territorio nazionale.
Con l’inserimento del movimento volontario verso la pianificazione strategica in un Quadro nazionale codificato sfuma infine, in parte, il tratto protezionistico tipico fino ad oggi del piano strategico italiano: l’afflato competitivo
locale è ordinato dall’alto per assecondare la coesione socio-territoriale. Ciò
non annulla tuttavia il rischio di disfunzionale preferenza localistica, inerente
ad una interpretazione del piano strategico come risposta protezionista della
società locale alle sfide della globalizzazione. Tutela delle capacità occupazionali locali e tutela delle rendite di posizione aziendali non essendo facili
da distinguere, forse si impone una ricostruzione della retorica che permetta
di porre meno enfasi sulla competizione tra territori (o eviti di considerarli
come aggregati di aziende) e che sia comunque più risparmiosa nello scomodare la categoria del capitale sociale: non annoverandolo tra i meta-obiettivi
del piano strategico, rispettando la dimensione strutturale, quindi i tempi lunghi e i meccanismi complessi della sua genesi, non risolvibili in breve in un
solo piano, anche se definito come ‘processo’.
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