CANTI e SUONI della TRADIZIONE di CARPINO

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CANTI e SUONI della TRADIZIONE di CARPINO
Associazione Culturale Carpino Folk Festival
presenta
CANTI e SUONI
della TRADIZIONE di CARPINO
a cura di Pio Gravina e Enrico Noviello
Si ringraziano: Adriano Castigliego, Roberta Jarussi, Vincenzo Santoro, Mimmo Ferraro,
Raffaella Vitale, Domenico Sergio Antonacci, Alessandro Sinigagliese, Antonio Basile,
Michele Ortore, Luciano Castelluccia, Antonio Manzo, Michelina Sacco, i Cantori di Carpino, Paolo Modugno, tutti i cantatori intervistati e i loro familiari
Associazione Culturale Carpino Folk Festival
Via Mazzini, 88 – 71010 Carpino (FG)
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ISBN 978-88-95161-55-6
Progetto grafico Alessandro Sicuro 3289683018
Stampato presso Martano Editrice – Z.I. Lecce
Foto: E. De Carolis, D. S. Antonacci, P. Gravina, A. Negrin
L’editore si rende disponibile per eventuali richieste di soggetti o enti che possano vantare dimostrati diritti sulle immagini riprodotte nel volume
© Edizioni Kurumuny – 2011
Indice
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Le radici del futuro
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Alla dëspërátë:
manuéttë e suoni tradizionali di Carpino
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La ricerca e le registrazioni attuali (CD 1)
Le registrazioni storiche (CD 2)
Conclusioni
Gli informatori
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I canti
Michele Di Giacomo, 2010, foto di Domenico S. Antonacci
Le radici del futuro
Associazione Culturale Carpino Folk Festival
Al centro del sistema insediativo distribuito a corona intorno al
lago di Varano, lungo la strada pedecollinare che lambisce l’anfiteatro naturale costituito da Capoiale, San Nicola di Varano, Cagnano
Varano, Ischitella, Vico del Gargano fino a Rodi Garganico, in posizione rialzata e panoramica sul Poggio Pastromele si è realizzato un
incontro di saperi, di generazioni, di competenze e di stimoli ideali
che ha permesso a Carpino, grazie ai suoi cantori e all’intera comunità, di divenire una sorta di santuario simbolico dell’“altra musica”.
Il suo patrimonio è una memoria vivente che rappresenta un esempio di buona pratica nelle relazioni interpersonali.
Una memoria orale di storie, canti e balli tessuta su tre forme
principali di tarantelle (Viestesana, Montanara, Rodiana) e sulle
loro varianti espressive (Rodianella e Cagnanese), utilizzate indifferentemente per cantare li sunèttë con l’accompagnamento degli
strumenti tipici della tradizione musicale garganica: la chitarra battente, la chitarra francese, il tamburello e le castagnole.
Un’ulteriore forma di espressione è costituita dalla canzunë, un
canto a distesa che, accompagnato dalla sola chitarra battente, rap5
presentava il corpo centrale e il punto più colto della serenata. Se,
infatti, questo patrimonio musicale, recitato a cappella, era funzionale ai lavori nei campi, accompagnato dagli strumenti musicali
serviva “a portare la serenata”, per dichiararsi o ufficializzare un
rapporto di fidanzamento.
Oggi resta la funzione sociale del cantare, suonare e ballare soprattutto come forma di divertimento e di socializzazione durante
le occasioni festive e festivaliere.
Per perpetuare la crescita in coscienza della comunità e per ritessere i fili della propria memoria può essere utile raccogliere in
un unico supporto digitale le voci testimonianti il repertorio ricchissimo di Carpino: Nunzia D’Antuono, Michele Maich Maccarone,
Matteo Scansuso, Carlo Trombetta, Michele Di Giacomo, Angela
Sacco, Maria Di Perna, Maria Vittoria Sacco, Nicola Di Perna, Andrea Sacco, Rocco Antonio Sacco, Rocco Valente, Antonio Piccininno.
Con questo lavoro l’Associazione Culturale Carpino Folk Festival
rende pubblico l’impegno sia ideale sia di ricerca e di metodo preso
oltre 15 anni fa. Non lo fa con le parole, ma con la realizzazione di
questo CD musicale che, insieme alle pubblicazioni precedenti, testimonia il presente di una comunità. Un presente in cui un’associazione, partendo dallo studio sessantennale degli etnomusicologi
e dei ricercatori (qui ricordiamo Ettore De Carolis, Roberto Leydi
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e Diego Carpitella) e grazie all’apporto di chi si è inserito in questa
comunità in modo partecipativo (Enrico Noviello e Pio Gravina),
tenta di ricostruire il tessuto della memoria comunitaria agendo a
quattro livelli: come figli della comunità che continuano a vivere il
territorio insieme alle precedenti generazioni; come ricercatori che
documentano la memoria orale di storie, canti e balli; come suonatori che promuovono l’aggregazione sociale nel territorio e come
operatori culturali che mediano tra la tutela e la valorizzazione di
questo immenso patrimonio culturale, ancora in grado fattivamente di provvedere ai bisogni fondamentali della comunità stessa.
Il risultato è sotto i vostri occhi e lo valuterete insieme ai Carpinesi di oggi, ma soprattutto delle generazioni future.
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Da sinistra Rocco Cozzola, Matteo Scanzuso, Carlo Trombetta, 2010, foto di Pio Gravina
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Alla dëspërátë:
manuéttë e suoni tradizionali di Carpino
Pio Gravina e Enrico Noviello
Cinquant’anni fa saremmo arrivati a Carpino, e avremmo chiesto:
“Chi è qui in paese che sa suonare e cantare?”. Senza fatica la gente
del paese ci avrebbe accompagnato da Sacco, Di Mauro, e gli altri più
conosciuti perché, ai tempi, portavano le serenate, facevano tardi la
sera e spesso si trovavano in litigi. Con un buon registratore a bobine,
in un giorno o due, avremmo registrato i suoni e i canti.
Tutti noi dobbiamo essere grati alle figure storiche della registrazione sul campo, i Lomax, i Carpitella, i Leydi, che con la loro splendida intuizione in anticipo sui tempi, e le grandi doti di
competenza, ci hanno lasciato traccia di un universo percettivo e
sensoriale nato nella dimensione agro-pastorale e, di fatto, molto
distante dalla quotidianità odierna.
La socializzazione di questi materiali, invece, è sempre stata debole, a causa di istituzioni e allievi sbadati, o più spesso in malafede, che per disattenzione o per rivalse, invidie, stupidità,
cupidigia di diritti di autore, hanno spesso confinato questi patrimoni nei fortini arroccati delle accademie.
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Pubblicare questo lavoro con il Carpino Folk Festival (di seguito
CFF) ha per noi il senso di contribuire a diffondere questo patrimonio non soltanto tra gli addetti ai lavori, ma anche tra tutti coloro che sentono oggi il bisogno di non perdere il contatto con le
proprie sorgenti, e che per questo ogni agosto, magari dalla prima
edizione nel 1996, vengono al Festival a ballare e a sentire la musica di tradizione e le sue contaminazioni.
La musica popolare oggi ha toccato vette considerevoli di diffusione.
Si moltiplicano e si diversificano gli operatori culturali, collocandosi in varie aree della politica e del sociale, in un fenomeno che
fino a qualche anno fa sarebbe stato difficile anche solo prevedere.
E si sommano esponenzialmente fruitori e musicisti, ogni giorno
più numerosi, ma con un palato artistico qualitativamente ancora
lontano rispetto ad altre aree geografiche del mondo, che hanno
coltivato con più continuità e coerenza la relazione con il proprio
passato.
Operatori culturali e musicisti che, pure, di queste fonti spesso
sanno poco e niente.
Se per altri generi musicali la ricerca è un elemento prezioso, per
la musica popolare la ricerca è condizione necessaria per accedere
a standard di qualità.
Ed è anche un punto base per quelle realtà che, come Carpino,
fondano sulla propria musica e sul proprio rapporto con le tradi10
zioni non soltanto un proprio orgoglio identitario, ma anche una
serie di interessi politici, sociali, culturali, economici.
E vale anche in un’accezione più vasta, quindi, di quella meramente musicale, perché i valori e i principi del mondo contadino
dell’immediato dopoguerra esprimono una visione ancora poco
permeata dagli eccessi e dalle pervasioni della mercificazione e del
consumo, e quindi di possibile resistenza all’ipertrofia consumistica.
Quando per vecchiaia se ne saranno andati anche gli ultimi cantatori, pastori e contadini nati negli anni ’20, non ci sarà più modo
di poter ascoltare dal vivo le voci tradizionali di Carpino, e di capire
di chi siamo figli, e da dove proveniamo.
Non casualmente, e quasi come beffa, il tramonto irrevocabile si
prepara quindi proprio in questi anni di intensa esplosione della
musica popolare.
La ricerca da noi condotta dal 2009 al 2011 è quindi una ricerca
alla dëspërátë, nel senso che abbiamo voluto lasciare una traccia,
prima che fosse troppo tardi, offrendola, ripetiamo, a una nicchia
di ascoltatori quanto possibile estesa.
A differenza degli anni ’50, ai tempi di oggi è finita l’abbondanza
di cantatori virtuosi. Di questi tempi, la ricerca la fai soprattutto
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con chi è rimasto, letteralmente, con chi è vivo, e sta bene in salute,
perché molti cantori se ne sono andati.
Il lavoro che pubblichiamo si compone di due distinti CD.
Nel primo si possono ascoltare 20 tracce direttamente registrate
da noi, sul campo, e che fanno ri-emergere diversi cantatori tradizionali rimasti in questi ultimi 10 anni all’ombra di fenomeni di
massa legati alla contaminazione e alla riproposta.
Nel secondo invece riuniamo diverse registrazioni storiche “ritrovate”, di peggiore qualità tecnica, ma di grande valore documentale.
Nel complesso, crediamo di restituire un’idea complessiva di uno
dei corpus musicali della tradizione agricolo-pastorale più interessante di tutta Italia, quello carpinese, in particolare per le forme
musicali di serenata e di ballo.
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La ricerca e le registrazioni attuali (CD 1)
Quando intitoliamo la ricerca alla dëspërátë, in realtà c’è anche
un altro significato, meno letterale e più profondo, perché intimamente legato alle vocalità carpinesi. Ce lo suggerisce un giorno, nel
suo garage dove stavamo suonando e cantando, Michele Di Giacomo, detto Pëlìgnë.
Pur con un filo di voce, data l’età, Michele canta con grande sicurezza e con uno stile antico, che non ha risentito per nulla delle
contaminazioni e delle influenze della riproposta degli ultimi anni.
Ci racconta dei grandi cantatori del passato, citando subito ‘mbà
Andrejë Sbarlagammë e Rocchë Garëbaldë, e dicendo che loro sì
erano bravi, perché sapevano cantare come si cantava una volta, e
cioè alla dëspërátë, in quel modo gridato, e su toni particolarmente
acuti, che raccontava le pene dell’amore e della vita stessa.
Sempre Michele e poi Angela Sacco ci introducono a un’altra parola,
caduta probabilmente in desuetudine negli ultimi anni, tanto che non
ve n’è traccia nei lavori di ricerca su Carpino. Infatti, piuttosto che
parlare di sunettë preferibilmente parlano di manuéttë paesane.
Questo termine è conosciuto anche da altri cantatori che intervistiamo, e citato in una delle registrazioni storiche che pubbli13
chiamo (CD 2 – traccia 3), nelle dirette parole di presentazione di
Rocco Antonio Sacco.
Sunettë e manuéttë sembrano essere sinonimi, anche se la versione manuéttë sembrerebbe più in voga tra gli informatori meno
esposti alla modernità quotidiana.
Se poi la parola manuéttë vada messa o meno in connessione con
la parola italiana “minuetto”, che deriva dal francese pas menu e significa “piccolo passo”, rimandando a danze caratterizzate da piccoli passi, è tema che ci auguriamo possa essere approfondito da
altre ricerche.
In ogni caso, manuéttë o sunettë, stiamo parlando dei sonetti cantati e suonati ad uso tradizionale, nei tre modi di Carpino, che prendono nome da tre paesi limitrofi: alla montanara (mundanarë), alla
viestesana (vistësanë), alla rodiana (rurëjanë). Il primo in modo minore, i secondi due invece giochi in maggiore di tonica e dominante.
In realtà da Andrea Sacco negli anni passati abbiamo imparato
che esistono, oltre alla rodianella (rurjanellë), variante in quinto
capotasto della rodiana, anche altri modi di suono tradizionale
della chitarra battente carpinese: la manfrina (manfrinë), la cagnanese (cagnanesë), e la carpinese (carpënesë). Queste ultime sono
però meno diffuse e conosciute tra gli informatori (in particolare
l’ultima, la carpinese), e pongono quindi delle domande sul loro effettivo carattere tradizionale, o se invece siano dovute al genio mu14
sicale inventivo dello stesso Sacco, ultimo grande suonatore di chitarra battente di Carpino.
Mentre scriviamo “informatori”, un po’ ci viene da sorridere.
Come il già nominato Michele Di Giacomo, a Carpino sono rimasti
altri interpreti autentici, che cantano all’antichë, perché hanno
ereditato di prima mano questo patrimonio, e cioè nel contesto
organico della fruizione rituale in cui questi canti venivano eseguiti.
E sono i nostri amici, alcuni anche da più di 10 anni, nonostante
le differenze di età e di mondi. Ci aspettano, se non passiamo per
lungo tempo si dispiacciono, come noi del resto, e se non portiamo
le chitarre quando li andiamo a trovare rimangono male, perché
una visita vuole sempre una cantata, e le chiacchierate e le battute
prevalgono sulla “ricerca” e sulle registrazioni.
O meglio: è la dimensione della ricerca che si è spostata, ormai
da qualche anno. Una volta queste persone si chiamavano informatori, e il rapporto amicale era anche mal visto, come possibile concausa di una ricostruzione non “oggettiva” della ricerca.
Per noi, e fortunatamente per diversi ricercatori di oggi, gli “informatori” sono amici, con cui passiamo molto tempo, e le cose più
importanti le scopriamo anche scherzando e ridendo, a registratore chiuso cioè, quando li ascoltiamo raccontare i tempi loro, di
quando erano giovani e zumbavënë li macchijë.
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L’amicizia diventa quindi parte della ricerca, e anzi, è attraverso
essa e l’empatia che si crea nelle relazioni amicali che ci sembra di
poter comprendere l’essenza di un mondo così vicino e così lontano. Ed è così che altri elementi emergono.
Chiediamo spesso ai nostri amici “informatori” in che modo abbiano imparato a cantare, e che rapporto avessero con questi canti.
Le storie che ascoltiamo come risposta si somigliano molto l’una
con l’altra: storie di famiglie di musicisti, con nonni o nonne particolarmente virtuosi musicalmente, e sterminati eserciti di sorelle
e fratelli che ai tempi ballavano, cantavano, suonavano.
Basta arrivare al livello dei nonni, e subito gli intrecci tra le famiglie di Nunzia D’Antuono o di Matteo Scanzuso, o di Angela Sacco,
si fanno più chiari e diretti: rapporti di parentela, o amicali, o di vicinato, sembra come se tutti i loro avi si conoscessero bene, e si legassero l’un l’altro, come se davvero la comunità dei cantatori fosse
una comunità (li cafunë) dentro un’altra comunità (i carpinesi).
Un’altra parola, questa volta già usata da altri ricercatori, fa
quindi il suo ingresso in campo.
La parola cafunë viene pronunciata dai nostri amici informatori
con un misto di vergogna e di orgoglio, e rimanda a gruppi sociali
molto chiusi, per l’appunto, caratterizzati da una certa povertà materiale, e da vissuti in cui la furbizia (l’essere cazzingulë, cioè furbi,
coraggiosi, dritti) è parte integrante delle relazioni sociali.
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Tornano così i racconti notturni, racconti di chitarre sfasciate, di
morti ammazzati, di furti, di agguati, di onore, di coraggio e di malandrini, di cui amava tanto raccontare Andrea Sacco: è il mondo
della serenata.
Già, perché le manuéttë sono cantate in diverse occasioni, tra cui
è bene citare certamente le feste di carnevale, o la raccolta delle
olive, su cui brevemente torneremo. Ma il contesto della serenata
è il contesto principe dei repertori tradizionali carpinesi.
Angela Sacco e suo marito Nicola D’Arnese sottolineano che
l’espressione “portare la serenata” non è corretta. La serenata infatti è riferibile a esecuzioni di soli strumenti (mandolino, violino,
chitarra, ma senza voce).
Quando entrano le chitarre battenti, le voci alla dëspërátë e li cafunë, siamo invece in un altro universo, che i carpinesi chiamavano
“andare a cantare alla femmënë” (o al massimo, alla giovënë), e non
invece serenata.
Anche questa differenza linguistica ci viene confermata dagli altri
cantatori intervistati, e ci obbligherà nel prosieguo dello scritto a
virgolettare il termine.
La funzione sociale della “serenata”, nella Carpino prima della Seconda guerra mondiale, è rilevante: collocandosi quasi come rito
di passaggio, accorciava i tempi e soprattutto facilitava le scelte reciproche di partner (Cfr. Adriano Castigliego, La serenata nel Gar17
gano in AA.VV., Sui patrimoni immateriali del Salento e del Gargano:
problemi e prospettive, Squilibri, Roma 2010).
A conferma di ciò, Nunzia D’Antuono ci racconta di come la scelta
di chi dovesse essere il suo pretendente si risolse tra i due fratelli
proprio nel momento di andare a cantare alla femmina. O anche,
che il cantare poteva influenzare la decisione positiva della giovane
di accettare il corteggiamento del futuro marito.
Come in altri paesi garganici, la “serenata” consisteva di una
struttura di esecuzione piuttosto definita: si cominciava con il sonetto che chiedeva il permesso, poi venivano i sonetti d’amore, che
finivano per annunciare la canzunë. A seguire poi altri sonetti
d’amore che conducevano alle scuse finali e alla buonasera.
Nei racconti di Matteo Scanzuso e di Michele Maccarone emerge
chiaramente che tanti sapevano cantare le manuéttë, loro compresi.
Ma poi, quando si arrivava alla parte centrale, la canzunë, entravano in campo i “professionisti”, quelli che, come dice Michele facendoci ancor meglio capire, cantavano alla dëspërátë.
Scopriamo insomma che alla dëspërátë si riferisce esclusivamente al canto della canzunë, e che proprio questa abilità distingueva il cantatore “professionista” dal dilettante, quello di serie A
da quello di serie B.
Non possiamo chiudere gli spunti della nostra ricerca senza far
affacciare, dulcis in fundo… le capre.
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Quando ai nostri amici informatori chiediamo cosa abbiano fatto
di mestiere, normalmente la prima risposta è sempre “contadino”,
ma poi approfondendo si arriva sempre a un periodo della vita in
cui lui o qualcuno di famiglia aveva 300 o 500 capre, che portava a
pascolare.
Non è un caso, e non occorre scomodare teorie totemiche: semplicemente i repertori garganici delle “serenate” appartengono ai
pastori più che ai contadini, e all’interno di quelle famiglie e di quei
contesti si trovavano i virtuosi del canto tradizionale.
Una delle ragioni che possiamo comodamente ipotizzare è che il
pastore trascorreva le sue giornate negli spazi aperti, facendo un
tipo di lavoro che permetteva e stimolava il canto, cosa meno naturale per il tipo di lavoro del contadino.
Il rapporto tra il paesaggio sonoro garganico ed i suoi canti
emerge quindi in modo chiaro ed evidente. Se poi nelle tonalità dei
belati delle capre, più grattati e di toni più alti di quelli delle pecore,
si nasconda il segreto del fascino delle manuéttë e del canto alla
dëspëratë di Carpino, è sentenza suggestiva, ma anch’essa da lasciare alla ricerca futura.
C’è un’unica eccezione, ci sembra, particolarmente rilevante in
questa dicotomia pastori vs. contadini: la raccolta delle olive.
Probabilmente anche per il tipo di lavoro, diviso in squadre, e in
spazi larghi, in questo contesto il canto (senza accompagnamento
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musicale) tornava ad essere protagonista. Più volte abbiamo sentito dire dai nostri amici informatori: “chi andava alle olive, certamente sapeva cantare”.
Il contesto più favorevole era quello in cui nella stessa squadra,
o in squadre limitrofe, ci fossero cantatori che potessero alternare
il canto all’interno dello stesso sonetto.
Scriviamo cantatori, ma in realtà la parola più adeguata è cantatrici, perché alle olive cantavano sia maschi che femmine, a differenza delle “serenate” dove si esibiscono soltanto maschi. è il luogo
della rivincita delle donne, che cantano naturalmente su toni molto
alti, e con un raggio di ascolto davvero smisurato, come accadeva
per alcune donne che sono rimaste leggendarie alle olive: Angiulinë, e poi Angela Lu Spacconë, e anche la nostra amica Nunzia Capëriccë.
E proprio da Nunzia, cominciamo a presentarvi i nostri amici informatori:
Nunzia D’Antuono detta Capëriccë, voce precisa e potente, nipote
di primo grado di Sbarlagammë, esempio eccellente delle tante voci
sapienti delle donne di Carpino, troppo poco investigate, troppo
poco registrate. In questi dieci anni di amicizia, Nunzia ha cantato
con noi tante volte, sempre tra le quattro mura di casa e solo
quando suo marito Albino, allora gravemente malato e oggi purtroppo estinto, dava segni di gradirlo.
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Michele Maich Maccarone detto Farfonë, fratello del più famoso
e compianto Antonio, del gruppo musicale dei Cantori di Carpino,
come lui ha passato diversi anni da emigrato, prima in Germania e
poi a Milano. Maich soltanto recentemente ha mostrato il desiderio
di ri-cantare anche pubblicamente i repertori carpinesi.
Matteo Scanzuso detto Viatissë è conosciuto ovunque in paese per
la sua simpatia e per il suo sorriso. Proviene da una famiglia di suonatori, in particolare la nonna era una virtuosa del tamburo, mentre
il padre era conosciuto come instancabile ballerino di tarantella.
Carlo Trombetta detto Lavrònë, o Zëcocchë, è autore di un bel
libro di strofette e sonetti. Infatti Carlo è conosciuto in paese
come una persona di grande memoria per i materiali tradizionali,
che è capace anche di reinventare e ricreare a piacimento.
Michele Di Giacomo detto Lu Scarpàrë o Pëlìgnë, contadino, è, tra
tutti, quello che meno va in piazza, e che meno ha assistito alla parabola di successo dei Cantori di Carpino, finendo per conservare
linee melodiche di canto piuttosto arcaiche.
Angela Sacco detta Cacuddë, sempre imparentata con la grande
famiglia dei Sacco di Sbarlagammë, donna spiritosissima, che presentiamo attraverso un sonetto molto divertente e una versione
vocale del canto narrativo: La vijë dellë fundanellë.
Hanno fatto parte della ricerca anche altri informatori. Sebbene
interessanti dal punto di vista documentale, non rientrano per mo21
tivi di spazio all’interno del CD: Maria Di Perna detta Trebbandë,
Maria Vittoria Sacco detta Calavresë, e Nicola Di Perna detto Vëzzarréttë.
Come abbiamo accennato, a fronte di diversi cantatori, oggi a Carpino non è rimasto nessun suonatore di livello di chitarra battente.
Ciò ha comportato come conseguenza il fatto che, nel registrare
queste tracce, noi stessi abbiamo accompagnato i cantatori con le
chitarre, battente e francese, come facciamo sempre anche senza
registratore, tentando di ricreare con discrezione un universo sonoro quanto più possibile vicino ai suoni tradizionali.
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Le registrazioni storiche (CD 2)
Il secondo CD si apre con uno dei cantori più straordinari della
Carpino del dopoguerra, e purtroppo registrato meno di quanto
meritasse: Antonio Di Cosmo, detto Marèssë, cognato di Andrea
Sacco, e vissuto per anni come emigrato nel nord Italia.
In questa rodiana “sporca”, registrata nel 1966 da Leydi e Carpitella, è possibile apprezzare l’infinita capacità di micro-variazioni
del cantatore, e la sua padronanza completa dello strumento
“voce”: una vera lezione di canto alla carpinese.
Subito dopo, tre tracce tratte dalla raccolta del musicologo Ettore
De Carolis del 1987 (che presto sarà pubblicata integralmente da
Squilibri all’interno delle attività dell’Archivio Sonoro Musiche di
Tradizione della Puglia).
La prima è una famosa montanara di Andrea Sacco, che canta il sonetto Lu poverë corë mijë feritë feritë, a lui da sempre e per sempre
caro, che – raccontava Andrea – gli era stato dedicato alle olive da una
femmina con la quale aveva avuto un amore anni prima. Quest’amore
però non era andato avanti, e la giovane era ancora tanto risentita, e
alle olive aveva cantato a voce spiegata, dicendo alla comunità carpinese al lavoro, cioè a tutto il mondo, che Andrea aveva rotto l’amore.
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