Intervento di Alfredo Carlo Moro

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Intervento di Alfredo Carlo Moro
RICORDO DI VITTORIO BACHELET
A VENTICINQUE ANNI DALLA SUA MORTE
1.
La pubblicazione – venticinque anni dopo la sua morte – degli scritti religiosi e
di quelli civili di Vittorio Bachelet è certamente una utile occasione per fermarsi un
momento a riflettere sul suo insegnamento, ancora straordinariamente attuale. Mi
sembra che le difficoltà della nostra vita sociale di oggi, e dello stesso popolo di Dio
in cammino in Italia, rendano particolarmente vive ed essenziali le riflessioni che tanti
anni fa Vittorio, anche se in un contesto notevolmente diverso, sentì il bisogno di
sviluppare: esse ci possono aiutare a comprendere meglio problemi di sempre, a
riprendere un cammino in parte interrotto, a risuscitare responsabilità a cui in qualche
modo sì è abdicato, a ritrovare un nuovo senso e una nuova efficacia al nostro
impegno nella Storia.
Cercherò di far parlare Lui attraverso le citazioni che ho scelto: certo la selezione
effettuata, tra un'imponente mole di documenti, è molto soggettiva e di ciò mi scuso;
ma ho cercato principalmente risposte a miei problemi che penso siano anche i
problemi di tutti voi in un momento difficile come quello attuale in cui siamo chiamati
a vivere.
2.
Vorrei innanzi tutto partire da alcune importanti sottolineature di Vittorio sul
modo con cui l’uomo, più che il cristiano, deve porsi di fronte alla vita.
a) Ci ha innanzi tutto insegnato Vittorio ad amare la vita e ad avere fiducia nella vita.
Nel 1947 scriveva: «In tutti i tempi la vita vale la pena di essere vissuta: anche in
questo nostro tempo faticoso che sembra troppo pieno di difficoltà per essere lieto e
troppo poco grande per essere eroico... Io credo che se da una posizione negativa si
vuol passare ad una posizione positiva, costruttiva cioè e concludente, è necessario
superare questa forma di insofferenza che ha aspetti notevoli di pessimismo e di
scetticismo per trovare intorno a noi i valori positivi, i vecchi che non abbiamo
perduto e i nuovi che siamo andati acquistando quasi a nostra insaputa». E nel 1968,
in una relazione ai presidenti diocesani di ACI, ricordava l'ottimismo di Papa
Giovanni XXIII «che non è incosciente bonomia di chi non sa valutare le difficoltà e í
rischi ma fede umile nel Signore e docile risposta alla sua chiamata»; un ottimismo
con cui guardare non solo alla Chiesa ma anche al mondo perché «vediamo nel
mondo accanto a rischi e oppressioni e violenze e ingiustizie rinascere sempre
contra spem la forza della libertà, della giustizia, della pace, della solidarietà».
A questo impegno Vittorio è rimasto sempre straordinariamente fedele: cercando di
guardare alla realtà in cui si vive con realismo, senza lasciarsi travolgere da una
preconcetta ostilità verso il proprio tempo e un miope rimpianto per un mitico passato
(con ironia ricordava che una tavoletta assira del 2800 a C. prevedeva l'imminente
fine del mondo perché la corruzione e l’insubordinazione sono diventate cose comuni
e i figli non obbedivano più ai genitori); cercando di individuare e valorizzare le
positività che sempre la vita propone; rifiutandosi di discettare sulle nequizie dei
tempi per impegnarsi a costruire nel piccolo le cose grandi (diceva, con la consueta
ironia, che fu una grande forza per Vittorio, che quando improvvisamente si
spengono le luci è più utile chi accende un cerino che chi disserta sulle responsabilità
dell'Azienda elettrica); accogliendo con pazienza ed umana fortezza tutte le difficoltà
che la vita inevitabilmente impone senza autocommiserazioni, senza cercare
improbabili scorciatoie, senza abdicazioni. In un momento storico in cui l'ottimismo
beota si coniuga spesso con un catastrofismo di maniera; in cui sembra che tutto si
possa ottenere con estrema facilità ed in tempi brevi; in cui la paziente attesa della
maturazione e della gradualità della crescita sembra solo fuga da una vita ai cui ritmi
frenetici bisogna adeguarsi; in cui l'impegno nelle piccole cose è travolto dalla
tendenza a costruire solo utopici e rutilanti progetti, le riflessioni di Vittorio, e tutta la
sua vita improntata a quelle convinzioni, dovrebbero costituire un punto di forte
riferimento.
b) Ci ha insegnato Vittorio a rispettare i valori umani e ad aver fiducia e rispetto
nell’uomo, in ogni uomo. Nel 1966, nella relazione al convegno nazionale dei
presidenti diocesani di ACI, dopo aver rilevato che la Chiesa del Concilio aveva colto,
nella vita degli uomini d’oggi, valori positivi e grandi, attese nascoste, possibilità di
ripresa, errori che possono essere sanati e che ha impegnato tutti i suoi figli a
operare per la salvezza, l'ordine e la santificazione di questa realtà ricordava che
tutto ciò «richiede a ciascuno di noi la capacità di avere attenzione alla realtà
dell’uomo di oggi,
senza chiuderci nell’alterigia del fariseo e sapendo invece farci tutto a tutti... Non
contrapponendosi... non (divenendo) fazione tra fazioni, non organizzazione di
potere ma sale e luce del mondo». E nella relazione del 1970 all'Assemblea
nazionale dell’ACI ricordava che «per costruire la comunità non basta gridare ciò che
si ritiene buono ma occorre anche apprendere la virtù dell’incontro e questo richiede
fatica e amor di Dio». E citava Bonhoeffer «Dio non vuole che io modelli il prossimo
secondo l'immagine che pare buona a me, cioè secondo la mia propria immagine;
ma nella sua libertà di fronte a me ha fatto il mio prossimo a sua immagine. Non
posso mai sapere in precedenza quale debba essere l’immagine di Dio nel prossimo;
sempre di nuovo questa assumerà una forma diversa e nuova che dipende dalla
libera creazione di Dio: a me può anche sembrare strana, indegna di Dio. Ma Dio
crea l'altro a immagine e somiglianza del suo figliolo, del Crocifisso: anche questa
immagine a me era pur parsa strana, indegna di Dio prima che l'avessi compresa». E
in un articolo scritto nella giovinezza per Ricerca (agosto 1947) e significativamente
intitolato “Amico di tutti” affermava «I cattolici combattono, devono combattere il male
che è l'unica cosa che possono non amare; ma non possono combattere, essere
nemici, degli uomini, anche quando questi sono a servizio del male, anche quando
combattono la verità, la giustizia, la carità, la Chiesa. È certamente questa una delle
leggi più singolari e difficili del cattolicesimo: difendere le proprie idee e i propri diritti
ma difenderli amando coloro che combattono per ideali opposti... E amare vuol dire
essere in ansia per la loro vita, avere a cuore il loro buon nome, sapere pregare per
loro, essere capaci di offrire in ogni momento un sorriso di pace... E tutto questo non
vuol dire essere fiacco».
In un momento storico in cui vengono sempre più alimentate divisioni manichee del
mondo; in cui lo sfruttamento dell'altro in funzione dei propri interessi sembra lo
strumento privilegiato per realizzare se stesso; in cui si vanno creando tanti nemici
anche per costruirsi o rafforzarsi nella propria incerta identità; in cui si ritiene che la
verità possa essere testimoniata e proclamata solo agitando la clava; in cui ritorna la
tentazione delle crociate come strumento di difesa delle proprie verità; in cui è più
importante raggiungere comunque un risultato anche a costo di profonde lacerazioni
piuttosto che cercare di portare avanti le proprie idee mantenendo buoni rapporti di
convivenza, la meditazione di Vittorio può particolarmente e proficuamente illuminare
la nostra coscienza.
c) Ci ha insegnato ancora Vittorio che la vita non va solo amata ma va anche
continuamente sviluppata in sé e negli altri. Costruirsi in pienezza di umanità è
condizione per essere più compiutamente se stessi e per rispondere così in modo
più adeguato al dono della vita che il Signore ci ha dato.
Una costruzione lenta, graduale ma continua; una costruzione radicata su una
conoscenza di sé e cioè delle proprie positività ma anche delle inevitabili negatività
esistenti e delle realtà in cui si è chiamati a vivere e a crescere e che condizionano
positivamente o negativamente l’esistenza. Nella relazione ad un Convegno dei
presidenti diocesani di ACI del 1969 ha detto «non c’è opera umana che non nasca
dalla fatica di una crescita che trasforma e arricchisce: perché ogni cosa viva è
sempre se stessa e ogni giorno nuova. Di qui un impegno più grande che non si
esaurisce nella chiamata di un momento o nel grido scandito di uno slogan ma che
sa che ogni giorno si deve costruire la giustizia... sa che ogni giorno si deve costruire
la libertà nella verità e nell'amore».
Una crescita che si realizza principalmente iniziando dal basso ed impegnandosi
nelle piccole cose per cambiare le grandi. In un articolo del 1947 apparso su Ricerca
e significativamente intitolato “la fatica di tirare la carretta” aveva scritto «Non
sappiamo più fare le piccole cose, il lavoro seccante quotidiano, nascosto, così poco
eroico, così monotono anche. E così succede che facciamo, ogni tanto, quando
un’idea ci entusiasma, quando un programma ci si rivela in tutta la sua attuale
bellezza, dei grandiosi propositi di generosità, di fedeltà, di attività ma subito poi ci
ammosciamo appena ci accorgiamo che è necessaria una azione lunga, paziente, di
cui forse noi non vedremo i risultati».
Ed è assai significativo che Vittorio ha ripetutamente richiamato la fondamentalità
della formazione: una formazione non solo cristiana ma anche umana, ancorata sulla
crescita in sè delle virtù non solo teologali ma anche cardinali e sull'esercizio «delle
virtù anche umane di lealtà, di coraggio per il pieno sviluppo di tutti i talenti» (Relaz.
al convegno dei presidenti diocesani di A.C del marzo 1966); una formazione
radicata, come ha detto nella stessa occasione, su una educazione continua «non
solo alla responsabilità ma anche all'esercizio virile della libertà e quindi alla capacità
di sapere in ogni occasione vedere, giudicare e agire alla luce della fede»; una
costruzione che deve essere costantemente perseguita anche se comporta fatica (e
Vittorio ammoniva a non dimenticare mai la preghiera di Leonardo: «Tu o Dio tutti i
beni li vendi a prezzo di fatica»: Rel. al Convegno nazionale dei Presidenti diocesani
dei giugno 1965).
Non mi sembra che nel mondo di oggi si accetti la fatica del tento costruire perché si
ignora il passato e si è insensibili al futuro, contando solo il presente; non mi sembra
che il richiamo al radicamento in sé delle virtù anche umane faccia parte del bagaglio
dell'uomo moderno troppo sicuro di se, troppo proiettato verso un successo da
ghermire ad ogni costo, più preoccupato di apparire che di essere.
3.
Rilevanti e assai attuali sono anche le riflessioni di Vittorio sulla politica: una
politica intesa in senso molto alto come lo strumento privilegiato per assicurare la
buona vita umana di tutti, per sviluppare la solidarietà tra i consociati, per ampliare i
diritti fondamentali della persona ma anche per saperli coniugare con i corrispettivi
doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Un insegnamento particolarmente significativo, questo, in una stagione politica in cui
la politica con la “P”, maiuscola è stata sostituita da una politica che cede alla
tentazione di risolversi in mero spettacolo teso a catturare consenso più che a
risolvere problemi; da una politica ridotta a pubblicità e per lo più a una pubblicità
ingannevole in cui il carisma della immagine è a tutto scapito del carisma delle idee;
da una politica che tende a sviluppare perennemente lo scontro cercando una
propria identificazione più nell'essere contro qualcuno che nel proporre programmi
propri; da una politica che tutela prevalentemente interessi di un gruppo
contrabbandandoli come interessi di tutti e si radica sullo scambio tra consenso e
privilegi; da una politica incurante di realizzare, attraverso la legalità, l'effettiva
eguaglianza di tutti i cittadini.
Sin da giovane – in un contesto in cui si enfatizzava la politica dei partiti e il momento
parlamentare come unico strumento di sviluppo della comunità – Vittorio ci
ammoniva: “di politica possono darsi due accezioni fondamentali: la politica come
attività o vita propria della polis cioè come collaborazione attiva, dei singoli o delle
organizzazioni, alla vita sociale e la politica come meccanismo di funzionamento
degli organi e degli uomini che diventano summa rerum in un certo ordinamento
statale... Questo secondo tipo di politica è compreso nel primo come la specie nel
genere ma non si può con quello confondere senza cadere in una concezione cara a
tutte le dittature perché totalitaria nel senso deteriore” (Ricerca, 1949 “Università e
politica”). E sottolineava nel 1976 (Coscienza, Ritrovare una profonda ispirazione)
che «non c’è democrazia, non c’è vitalità politica se le forse politiche non sanno farsi
interpreti delle attese, delle speranze e delle angosce dei cittadini, se non sanno
proporre linee capaci non di subire ma di guidare lo sviluppo del paese e le
trasformazioni necessarie per rendere l’ordinamento della società adeguato ai
mutamenti che hanno profondamente modificato la sua composizione, la sua cultura,
il suo assetto territoriale e sociale, la sua mentalità, il suo costume» aggiungendo,
sempre nello stesso articolo, «si tratta di sapere se nella intricata e mutevole vicenda
della nostra Storia, vi è un ideale di uomo e società capace d’incidere in questa storia
e di orientarla a servizio dell'uomo, capace di costituire un punto di riferimento e una
forza traente al di là di vittorie e sconfitte, di successi e soluzioni subite; capace di
confrontarsi su altre proposte e altri valori senza intolleranze ma senza lasciarsi
intimidire; capace di affrontare non con operazioni di piccolo cabotaggio ma con
animo grande i temi essenziali della vita dell’uomo, della difesa della sua dignità,
della sua famiglia, del suo lavoro, della sua cultura, della sua responsabilità, della
sua libertà nella giustizia e nella pace».
E nel 1954 su Civitas (Uomini e masse) – dopo aver riaffermato la funzione dei partiti
«per contribuire a fare delle “masse” un popolo cioè una comunità non più soggetta e
spesso miserevole ma divenuta responsabile e attiva nella conquista del proprio
avvenire» – riaffermava che «la vita sociale e politica richiede... – più che mai
l'articolarsi di quei “corpi intermedi” che, se sono necessari per ogni ordinata
convivenza, lo sono in modo evidente in una società così vasta e così potente da
minacciare addirittura la personalità stessa dell'individuo ove questo non si renda
conto della necessità di riunire sforzi comuni, idee comuni, iniziative comuni in
organizzazioni sociali che rafforzino e garantiscano la sua possibilità di esistenza e di
azione». Avvertiva lucidamente anche il pericolo che le organizzazioni intermedie
«divengano talmente serrate e forti da costituire piuttosto una minaccia che un
efficace strumento della convivenza civile. Nella società di vaste dimensioni il
feudalesimo – nelle forme più diverse e impensate – è sempre un pericolo reale».
E, in una intervista al Mattino nella sua qualità di vicepresidente del CSM ( 30 luglio
1979) ribadiva che «a difesa della libertà di tutti e soprattutto dei più deboli non potrà
non esserci un comune impegno di tutte le forze sociali e politiche non per sradicare
– come taluni vorrebbero – il diritto e la funzione del giudice ma piuttosto per avere
leggi sempre più giuste e magistrati che per umanità, rigore morale, capacità
professionale, imparzialità di giudizio sappiano essere corretti interpreti di quelle leggi
nella concreta realtà sociale. Magistrati di questo tipo ne ho conosciuti molti in questi
anni di esperienza».
Non sono drammaticamente attuali queste riflessioni?
4.
Era convinto Vittorio che per realizzare una migliore casa comune non
bastasse la politica ma che fosse fondamentale anche lavorare profondamente
nel sociale. Del resto fu questa una scelta che Vittorio fece negli anni della
giovinezza, quando la FUCI del suo tempo non solo volle riaffermare la propria
autonomia assoluta da ogni organizzazione politica, per preservare il suo specifico
ruolo nella vita della società, ma volle che i suoi giovani si preparassero più alla vita
sociale che a quella politica, convinta che la vita comunitaria non si esaurisce nel
momento politico ed in una sorta di omnicomprensività della politica. Non era una
preconcetta sfiducia nello strumento politico, non era il desiderio di non sporcarsi le
mani: era invece la consapevolezza che la crescita della comunità andava promossa
attraverso una azione nelle Università, nelle professioni, nel tessuto variegato delle
molteplici relazioni sociali, nei corpi intermedi che costruiscono la società. Ricordava
Vittorio (Relazione al Convegno nazionale ACI del 1966) che «L’ordine temporale
non riguarda solo la più appariscente facciata della politica ma anche la realtà
complessa e mutevole che costituisce il retroterra del tessuto sociale».
a) Per operare proficuamente nel sociale è, per Vittorio, innanzi tutto necessario
essere rispettosi delle leggi e valori che sono propri delle realtà terrene e riconoscere
che tale autonomia è conforme al volere del Creatore, come affermava un
documento conciliare, perché è proprio dalla loro stessa condizione di creature che
le cose tutte ricevono la propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi e il loro
ordine. Già dopo il 18 aprile 1948 – e quindi molto prima del Concilio – su Ricerca
(del maggio) scriveva «vi è il pericolo che per qualcuno o per molti questo reciproco
collegamento (tra cattolico e cittadino) naturale e necessario divenga in questa
ancora eccitata atmosfera post elettorale una disordinata confusione di fini e di
mezzi. ... Non è improbabile che singoli uomini e singole organizzazioni cattoliche –
dimentiche che se la separazione dello spirituale dal temporale è un assurdo la
distinzione tra i due campi è basata invece sulla natura umana e come tale non solo
accettata ma difesa e propugnata dalla Chiesa – ritengano, per santo zelo, doveroso
dopo la potente affermazione dei cattolici italiani, intervenire direttamente in campi e
materie che una elementare prudenza riserva alle organizzazioni politiche». E nel
1966 come Presidente dell'ACI affermava decisamente «Una presenza diretta,
tuttavia in questi campi non rientra nel nostro compito ordinario essendo nostro
dovere mantenere il rispetto delle competenze di quanti operano nelle strutture
temporali secondo le regole ad esse proprie e con specifica e principale
responsabilità in scelte che sono spesso complesse e talora drammatiche. Nostro
intento è di avere sempre nei confronti di tali istituzioni un atteggiamento rispettoso
così della loro competenza come dei loro valori propri».
Se sono da rispettare i valori propri delle realtà terrene deve essere rispettata anche
la alterità della proposta religiosa che non può essere né declassata a ideologia né
tanto meno ridotta a struttura di sostegno di una determinata società: diceva Vittorio
(Relazione al Convegno dei Presidenti ACI del maggio 1972) «La Chiesa è impastata
nella storia ma deve difendersi a ogni stagione dalla tentazione di confondersi con la
società civile. Pur essendo radicata nel cuore di ogni generazione la Chiesa tanto più
contribuisce alla trasformazione dell'umanità quanto maggiore sarà l’autenticità del
suo annuncio evangelico. Esperta in umanità essa può avere una funzione profetica
in ordine a momenti o valori essenziali della vita dell’umanità: ma il suo compito
essenziale rimane quello di rispondere al bisogno che c’è nel cuore di ogni uomo di
incontrarsi con il Dio che salva».
Non è questo un avvertimento estremamente attuale in un momento in cui, da parte
di molti, si tende a ridurre la proposta evangelica ad una ideologia religiosa che
dovrebbe assicurare identità a specifiche società che oltre tutto di cristiano hanno
molto poco?
b) operare nel sociale significa porsi al servizio dell’uomo. Ed ha sempre riaffermato,
Vittorio, che non si costruisce in sé la pienezza umana se ci si disinteressa dello
sviluppo umano degli altri fratelli, se non si pone se stessi al servizio degli altri,
specie se feriti sulle strade della vita. Ricordava che «idea suprema presente nel
nostro mondo è la convinzione di questo necessario servizio alla vita dell’individuo,
non però dell’individuo importante, del superuomo ma dell'individuo comune: servizio
alla vita elementare dell'uomo elementare... E questo non solo o non tanto perché
l'uomo comune cerchi il benessere ma perché vuole che si allarghi al massimo
possibile la sfera degli individui che non sono oppressi o mortificati dalla insicurezza,
dalla disoccupazione, dalla mancanza del senso della propria partecipazione... Vuole
che la società sia fondata sulla volontà degli individui comuni e non ostacolata, per lo
sviluppo della propria vita, da condizioni negative; e che ci sia pareggio per tutti tra
comodi e incomodi, fra sacrifici e vantaggi» ( La pianificazione e i diritti della
persona... in Riv Trim. di diritto pubblico, 1954). E nel saluto conclusivo
all'Assemblea dell'ACI del 1973 affermava che tutti con Tagore «dovremmo dire alla
fine della nostra esistenza “Io dormivo e sognavo che la vita non era che gioia; mi
svegliai e ho visto che la vita non era che servizio. Io ho servito e ho visto che il
servizio era gioia. E ho visto che la vita non era che servizio. Io ho servito e ho visto
che il servizio era gioia”. Che tutti sappiamo davvero scoprire che il servizio è la
gioia. Questo è l'augurio del vostro servitore, il campanaro della Domus Paci».
Un insegnamento, questo, profondamente antitetico alla realtà di, oggi: in cui il
piacere è più rilevante che la gioia; in cui predomina l'idea che l'uomo senza ideali e
senza valori può vivere meglio la sua vita; in cui si è convinti che la vita deve essere
depredata più che servita, che solo i diritti – o meglio le esigenze più banali –
contano e i doveri relazionali costituiscono un inceppo e non un accrescimento
dell'io, che ogni limite posto alla mia onnipotenza sia di per ciò solo castrante. E
sembra che le virtù umane non abbiano più senso in una società che riduce la
giustizia a mero diritto, la fortezza ad aggressività, la prudenza a opportunismo, la
temperanza a diete alimentari per rendere più bello il corpo, la tolleranza a
compromesso o indifferenza.
c) Guardando al mondo a cui apparteneva Vittorio rilevò la particolare funzione delle
professioni nella costruzione della casa comune. In un intervento a un Congresso dei
Laureati ( in “Le professioni e il Movimento Laureati”, 1959) rilevò che «nell'esercizio
della professione il professionista collabora con il suo servizio al progresso e al
benessere della società (insegnando, costruendo, curando ecc.) ma soprattutto,
come portatore di valori spirituali che si trasformano in opere, è forse l'operatore che
più efficacemente influisce sul costume della collettività e può indirizzarlo nell'uno o
nell’altro senso... Tutto ciò non è azione specificatamente sociale o politica: è azione
al servizio dell'uomo, impostata in modo da educarlo ai valori essenziali della sua
dignità. Ma adesso diviene azione essenziale per la costruzione della società e
particolarmente di quella società libera in cui gli uomini sono abituati ad essere
consapevoli della loro dignità e a esercitare gli essenziali diritti. La prima e più
pericolosa, “trahison des clercs” non è stata tanto quella di aver rifiutato, all'ultimo
momento, un pur doveroso impegno politico per salvare la società dalla minaccia
totalitaria e da regimi negatori dei valori dell’uomo: è stata quella di avere rinunciato a
insegnare ogni giorno attraverso la propria azione professionale al cliente, allo
studente, all'imputato ad essere uomini». Nell'attuale declino delle professioni, in cui
I’aspetto meramente tecnico va di gran lunga sopravanzando l'aspetto sociale e di
servizio ed in cui l’asservimento al potente di turno ottunde libertà e responsabilità, le
riflessioni riportate dovrebbero far tornare ad un soprassalto di dignità per non
legittimare un nuovo tradimento dei clerici.
d) Infine Vittorio ha voluto ripetutamente sottolineare come per essere
compiutamente uomini e per poter costruire intorno a se una autentica comunità di
uomini liberi – capaci di obbedire in piedi, come Vittorio disse in un indirizzo di
omaggio a Paolo VI – sia indispensabile un supplemento di coscienza individuale.
Tra le moltissime citazioni possibili mi limito a quella tratta dalla relazione ai convegni
nazionali delle presidenze diocesane del maggio 1971 in cui commentò che «la
doverosa e benedetta liberazione dalle strettoie di certa casistica morale sia stata
interpretata da alcuni come una sorta di “rompete le righe” in cui tutto è consentito,
ognuno possa farsi del suo arbitrio regola alla propria coscienza. Mentre il richiamo
alla coscienza che il cristianesimo ha sempre fatto, ma che il Concilio ha rinnovato,
richiede – semmai – una più rigorosa ricerca di ciò che è doveroso secondo il piano
di Dio piuttosto che secondo i propri momentanei umori, e quindi una più esigente
formazione della coscienza cristiana sollecitata a nuove responsabilità. È questo un
punto essenziale: la nuova legge cristiana dell’amore e della speranza è
infinitamente libera e misericordiosa, ma proprio per questo più esigente. La
rettitudine del cuore, la purezza dello Spirito e perciò del corpo, la carità verso i
fratelli, la povertà, il disinteresse, la generosità, la fame e sete di giustizia sono i frutti
dello Spirito di Dio presente in noi, fragili vasi di creta. Ma neanche in noi il seme
porterà frutto senza macerazione e morte. La legge cristiana dell'amore e della
speranza passa inevitabilmente attraverso la Croce». Mi sembra importante
sottolineare come quest'ultimo richiamo alla Croce sia stato costante nella vita di
Vittorio: da giovanissimo aveva scritto «Dal giorno in cui Cristo è morto in croce noi
possiamo conquistare la nostra liberazione. Da quel giorno abbiamo appreso che la
liberazione è nella Croce. Perché se la Resurrezione è la manifestazione della
vittoria, la liberazione è l'effetto della Croce. Noi dobbiamo imparare che solo il
sacrificio totale è quello che ci libera, solo l'obbedienza totale, fino alla morte e alla
morte di croce, è quella che ci dà la liberazione. la liberazione cioè definitiva» (
Ricerca 1° aprile 1948).
Alla rigorosità della propria coscienza a servizio degli uomini e della comunità intera,
alla consapevole riscoperta di una identità cristiana non sociologica ma radicata su
una reale unione a Cristo, alla costante vigilanza interiore, alla accettazione della
Croce per far crescere il seme, Vittorio ha improntato l'intera sua vita. Al di là delle
illuminanti parole che in tanti anni ci ha donato è questo limpido esempio di vita che
deve rischiarare la nostra esistenza e contribuire a far crescere in noi l'amore e la
speranza, anche se il mondo di oggi sembra aver perso sia la capacità di amare che
quella di sperare.
Alfredo Carlo Moro