Nell`anno zero del liberismo, il futuro fa rotta verso una nuova
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Nell`anno zero del liberismo, il futuro fa rotta verso una nuova
Focus Finis Nell’anno zero del liberismo, il futuro fa rotta verso una nuova società senza lavoro? 76 Loop Europae foto di Giancarlo Ceraudo finis europae F ocus 8 maggio Può l’Europa sopravvivere al collasso? Uno stallo emozionale e una incapacità manifesta di creare dinamismo sono lo specchio di un continente che non sa ancora su cosa investire per il futuro. di Franco Berardi Bifo lace de l’Europe, a Parigi, è una piazza sopraelevata in cui le rue de Vienne, di Londres, di Saint Petersburg e di Costantinopoli, fantasmi imperiali del passato, si incontrano in un luogo senza fascino. A Bologna hanno costruito una porta d’Europa. È un orrendo casermone in forma di ponte di fronte all’entrata della Fiera, in una zona deturpata dallo stile Lega-Coop. Chi viene da Nord-est, lungo via Stalingrado, se la trova di fronte a un certo punto, dove impedisce di vedere la collina di San Luca. L’immagine d’Europa è frigida per definizione. L’estetica europea ha un carattere asettico e anti-passionale di cui è facile comprendere le ragioni: l’Europa è nata anzitutto come esorcismo contro le passioni del nazionalismo. In questo trova la sua radice progressiva. Dimenticare il Romanticismo è l’imperativo costitutivo dell’Unione europea. Il mito fondativo è cancellato nella memoria europea. L’8 maggio è giorno festivo in Francia, ma in Italia nessuno sa perché esso sia un giorno della memoria. P 78 Loop In un articolo sul Belgio come metafora d’Europa, Eve Charrin parla della crisi di identità che perseguita questo paese come metafora della crisi di identità che perseguita l’Europa dalla sua origine, e che oggi rischia di divenire paralizzante (La Belgique, vertige de l’Europe, Esprit, mars-avril 2009). “Non è un caso né un’aberrazione - scrive Charrin - se il centro d’Europa è un piccolo paese diviso in due, dall’identità indefinibile, la cui sopravvivenza è problematica è […]. Lungi dall’essere un’incongrua arretratezza al cuore di un’Europa moderna, la dislocazione del Belgio è ultramoderna”. Ma il punto essenziale del ragionamento svolto da Eve Charrin è un altro: “L’Europa è la pace, l’Europa è la prosperità. Questi luoghi comuni dei vertici europei indicano che i valori delle gilde fiamminghe sono quelli della modernità europea”. L’estetica europea rispecchia questo sentimento pragmatico, senza retorica. “Granito, vetro e cemento, espressioni di un potere di deprimente neutralità architettonica […]. Qui, al centro nevralgico d’Europa, sta il grado zero dello spazio pubblico. Questa modestia senza grazia è un modo di pretendere che non si faccia della politica, ma della gestione”. La tesi di Eve Charrin è interessante e lucida, descrive bene la storia d’Europa degli ultimi decenni. L’identità d’Europa consiste nella prosperità. Finché ha potuto garantire un livello di prosperità crescente nel tempo, fin quando i loro tassi praticamente a 0 per cento la BCE li ha abbassati soltanto all’1,25 per cento. Mentre la FED nel suo statuto ha l’obiettivo della stabilità dei prezzi e del pieno impiego, lo statuto della BCE si propone come un unico obiettivo: evitare l’inflazione, anche se questo comporta una caduta dell’occupazione. Questa paura dell’inflazione è oggi movimento europeo Solo un può salvare il continente da una deriva oscura. Ma il movimento, finora, non ha avuto altra idea dell’ se non quella di rifiutarla o esaltarla. Europa la rigida legge monetarista ha permesso all’economia di crescere, l’Europa ce l’ha fatta. Ma adesso? La costruzione europea ha preferito identificarsi con l’immagine funzionale dei banchieri piuttosto che attraverso l’adesione a progetti politici, a grandi visioni ideologiche, a personalità carismatiche. Finora ha funzionato, ma adesso è il momento di chiedersi: sopravviverà l’Europa al collasso finanziario ormai avvenuto e ai rivolgimenti economici che si sono avviati dal momento che l’unico elemento unificante è stata l’architettura finanziaria? La costruzione europea è una finzione democratica regolata da un organismo autocratico, la Banca centrale europea. Mentre la FED e la Banca d’Inghilterra hanno abbassato del tutto irrazionale dato che la tendenza è verso una deflazione. Ma questa politica non può essere influenzata dalla volontà della popolazione, dal momento che per statuto la BCE non risponde alle autorità politiche. Per tale ragione i cittadini considerano le elezioni europee come un momento in cui regolare affari interni, una sorta di sondaggio sulle scelte politiche nazionali. È evidente a tutti che il Parlamento europeo non ha alcun potere sulle questioni sociali ed economiche, e che dunque non conta nulla. Coscienza americana Paradosso: la costruzione europea ha seguito una linea direttrice a livello econoArzignano: immigrati a lavoro in una conceria. maggio 2009 79 F ocus 80 Loop mico: diventare come gli Stati Uniti d’America. Ridurre la spesa sociale, ridurre il costo del lavoro, ridurre le tasse, favorire il profitto d’impresa. Ma ora che il modello americano viene abbandonato negli Stati Uniti d’America, può l’Europa insistere nel suo solitario fanatismo neoliberista? Se paragoniamo l’atteggiamento della Banca europea e del ceto politico dei paesi europei con l’atteggiamento dell’amministrazione americana, la differenza è evidente. La coscienza americana ha registrato la Il problema è che la coscienza dei movimenti si è spenta, in Europa. Non esiste più né il movimento della pace, né il movimento anti-corporation, che pure fiorì nei primi anni 2000, da Bologna NoOCSE a Praga No-WTO e Genova No-G8. Non esiste più una intellettualità capace di prendere la parola, di fare proposte coraggiose, di dire la verità. Impressionante la differenza tra la vivacità e l’immaginazione dell’intellettualità americana, se paragonata alla viltà, al cinismo, drammaticità della situazione. Una riflessione radicale è iniziata nel mondo intellettuale statunitense, sulle riviste, sui quotidiani intelligenti. La coscienza europea invece respinge l’evidenza. Continua a considerare indiscutibile il dogma della privatizzazione, del rigore dei bilanci, della riduzione del costo del lavoro. Persiste dogmaticamente nella direzione che ci ha portato qui. all’apatia degli intellettuali degli scrittori e dei giornalisti europei. Sul Time (chw non è propriamente una fanzine radical) è uscito un servizio di Kurt Andersen intitolato End of Excess (Why the crisis is good for America), nel quale si dice fra l’altro: “Non fingiamo di non aver visto che questa crisi si è preparata da lunghissimo tempo”. E ancora: “Quelli di noi che sono abbastanza vecchi da ricordare la vita prima che cominciassero i ventisei anni della baldoria, passeranno probabilmente il resto della loro vita a cercar di affrontare le conseguenze - nell’economia, nella politica economica, nella cultura e nella politica con la deformazione e la lacerazione delle nostre vite quotidiane”. Questo scrive Kurt Andersen sul Time. E John Tirman, in un articolo apparso nel The American Scholar, si interroga su quale sia una possibile reinvenzione della frontiera nell’epoca presente (The Future of the American Frontier). Il mito della frontiera, che è stato centrale nella formazione e nell’evoluzione della civiltà americana appare oggi consunto, da quando il globalismo ha cancellato l’esistenza stessa delle frontiere. Ma quel mito fa oggi fallimento, con il collasso dell’economia globale, e con la crisi dell’egemonia militare statunitense. “Se il mondo è la nostra ostrica, non c’è più bisogno di regole né di limitazione delle aspettative. Per quattrocento anni quest’ideologia promossa dalla Chiesa e dallo Stato, dai media, dalle scuole e dalla cultura popolare, ha nutrito l’eccezionalismo americano che alimenta arroganza e spreco e guerra”. E allora? si chiede Tirman. E allora, insinua, forse la nuova frontiera è quella che ci porta oltre la società della crescita e del consumo, verso un ripensamento radicale che riporti l’America all’umiltà pionieristica dei primi coloni. “La risposta alla domanda: quale frontiera adesso? può essere il ritorno all’umiltà della prima frontiera”. Traducendo potremmo dire che la frontiera che oggi l’America deve superare è la frontiera stessa del capitalismo. Due processi si intrecciano all’orizzonte degli Stati Uniti: la crisi dell’egemonia militare e la crisi finanziaria. Sono due processi che si alimentano a vicenda. L’indebitamento illimitato su cui gli americani hanno fondato la loro economia è stato possibile grazie all’egemonia politica e al ricatto militare. Ma le disfatte politico-militari in Iraq, Afghanistan, Russia, Sudamerica hanno sgretolato la forza di ricatto di cui la potenza americana disponeva. Alcuni commentatori sollecitano un maggiore coraggio keynesiano da parte dell’amministrazione. Per esempio Paul Krug- man incalza quotidianamente il Presidente per suggerirgli un maggiore coraggio nel dirottare risorse verso la domanda attraverso un prelievo fiscale sui redditi alti. Krugman ha ragione, ma alcuni dubitano che il keynesismo possa essere applicato con successo alla crisi di questi mesi. Scrive Paul Craig Roberts sulla rivista Counter Punch: “La politica macroeconomica ha oggi di fronte due sfide nuove. Nel ventunesimo secolo, l’economia americana è andata avanti grazie all’espansione del debito dei consumatori, non attraverso aumenti veri di reddito. I consumatori sono sommersi da debiti e mutui… Le politiche monetarie non sono di grande aiuto dato che i posti di lavoro americani sono stati delocalizzati. Dato che la produzione è all’estero, aumentare la domanda significa stimolare la produzione in Cina e in altri paesi”. In un intervento dal titolo Financial Katrina, David Harvey scrive: “Il problema per gli USA oggi sta nel fatto che il paese parte da una posizione di indebitamento cronico verso il resto del mondo (ha preso in prestito più di due miliardi di dollari al giorno durante gli ultimi dieci anni), e questo pone un limite economico sulle dimensioni di un extra debito (ciò non era un problema per Roosevelt che cominciò con un budget abbastanza equilibrato)”. Lo stesso Harvey aggiunge che in questa situazione la sola misura che potrebbe aiutare l’economia americana sarebbe una riduzione della metà della spesa militare e uno spostamento di quelle risorse verso grandi lavori di ricostruzione delle infrastrutture americane. Ma è evidente che Obama non ha la forza politica per imporre questa soluzione perché dovrebbe affrontare un’opposizione violentissima del partito repubblicano, e la resistenza di buona parte del suo stesso partito. Il pragmatismo post-partisan che Obama dichiara di professare è il metodo politico migliore in una situazione come questa perché riconosce l’esaurimento delle ideologie novecentesche (liberismo e socialismo) e si predispone realisticamente a registrare l’evidenza: che il dispiegamento delle potenze produttive e intellettuali richiede un abbandono dell’economia finanziaria legata al predominio immediato del profitto, e che la stessa forma del salamaggio 2009 81 finis europae F ocus rio non è più in grado di misurare le forme immateriali dell’attività. Paralisi europea Mentre il pensiero americano sta cercando di prendere seriamente le misure alla trasformazione che si sta svolgendo, il pensiero europeo sembra incapace di immaginare alcunché. La classe dirigente europea non deflette minimamente dalle politiche monetariste e neoliberiste, né sul piano ideologico né sul piano degli interventi economici e monetari. Riduzione del costo del lavoro, privatizzazione dei servizi, privatizzazione del sistema educativo – questa rimane la linea di marcia della classe dirigente europea. Il paradosso è che questa cecità sta producendo effetti di protezionismo, e conflitto tra stati nazionali. In Europa, territorio delle innumerevoli radici, il processo di deterritorializzazione tecnologica produttiva e culturale provoca controeffetti di riterritorializzazione ideologica, psichica e securitaria. Pensiamo a come ci sembrava di poter vedere il rapporto tra Europa e Stati Uniti solo qualche anno fa. Il paese di Bush era entrato in un’epoca torva di oscurantismo e di aggressività mentre l’Europa sembrava aprirsi in un processo di inclusione pacifica. Oggi le cose sono del tutto rovesciate. Mentre gli Usa di Obama affrontano la crisi con la consapevolezza di un salto di qualità eccezionale che segna la fine dell’egemonia In un articolo dal titolo A continent adrift, un mese fa Paul Krugman diceva che, per quanto preoccupante sia la situazione economica americana, quel che più lo preoccupa è il destino d’Europa. La crisi è destinata infatti a colpire l’economia europea non meno di quella nordamericana, ma la differenza tra le due situazioni secondo Krugman sta nell’incapacità europea di elaborare una risposta unitaria alla crisi. L’Unione si è costituita e consolidata come processo essenzialmente finanziario di coordinamento e omogeneizzazione delle politiche economiche e oggi questo piano si sgretola. Tale sgretolamento può aprire la voragine del nazionalismo e della guerra civile interetnica. In un’intervista a Le Monde del 19 aprile, Daniel Cohn-Bendit parla di una “rinazionalizzazione delle politiche economiche e dei comportamenti”. I segni del ritorno al protezionismo sono tanti e così evidenti che il richiamo all’Unione e la condanna del protezionismo son diventati ritornelli retorici. Occorre ripensare la ragione e la finalità del processo europeo, e il crollo rovinoso del liberismo dovrebbe condurre in quella direzione, anche se per il momento non se ne vede la possibilità. Il discorso dominante resta dominato dal pregiudizio monetarista, il patto di stabilità permane come una sorta di dogma burocratico che blocca ogni conversione in senso sociale delle economie nazionali. lettiva all’altezza del simbolo Obama. Guattari avrebbe detto che Obama è un fattore di ri-semiotizzazione universale che ridefinisce l’intero campo dell’immaginazione mondiale. Non sappiamo cosa farà Obama, né quale siano le sue linee strategiche, probabilmente non lo sa neanche lui. Probabilmente sarà costretto a piegarsi al potere delle corporation e del sistema militare. Può darsi. Ma Obama rappresenta il simbolo, l’unico simbolo attuale, di una rottura possibile nell’ordine della percezione, dell’immaginazione, e del linguaggio. Obama rappresenta la consapevolezza di essere entrati in un passaggio in cui solo l’intelligenza tollerante condurrà il pianeta fuori dal disastro. In Europa questa consapevolezza non vuole esistere. Gli intellettuali sono stanchi. Ma in qualche punto del continente questa coscienza deve pur formarsi, coagularsi, iniziare a connettersi. Non basta più la motivazione originaria su cui è nata l’Unione europea: risolvere il secolare conflitto tra le nazioni, instaurare una logica fredda della compatibilità finanziaria. Questa motivazione ha funzionato nei decenni passati, ma ora non funziona più. L’estetica d’Europa va ripensata, e quindi la sua percezione sociale. L’orizzonte nuovo che i movimenti possono indicare all’Europa è quello della decrescita felice e della riduzione generalizzata del tempo di lavoro. Re-investire l’energia sociale, che la recessione deprime, verso una riattivazione del corpo emozionale della società europea. Un’Europa che investe le sue risorse verso un processo proliferante e generalizzato di auto-formazione e di terapia, di cura della singolarità. G SANDRO GOBETTI, DA ANNI NEI MOVIMENTI SO- CIALI, REDATTORE DELLA RIVISTA INFOXOA, SOCIO FONDATORE E COORDINATORE COMUNICAZIONE DEL BIN ITALIA (BASIC INCOME NETWORK). Obama rappresenta il simbolo di una rottura nell’ordine della percezione, dell’immaginazione, e del linguaggio, la consapevolezza di un passaggio in cui l’intelligenza tollerante condurrà il pianeta fuori dal . disastro americana, e costringe a immaginare orizzonti nuovi, l’Europa non ha dimostrato fino a questo momento alcuna comprensione della radicalità della crisi. Non sto parlando solo delle reazioni dei governi nazionali e della Banca europea. Non sto parlando neppure del conformismo e del servilismo degli intellettuali europei. Parlo proprio dell’incapacità della società europea, e dei movimenti che ne esprimono l’autonomia, di elaborare una prospettiva indipendente dal destino delle vicende nazionali. 82 Loop Il simbolo Obama Solo un movimento europeo può salvare il continente da una deriva oscura. Ma il movimento, finora, non ha avuto altra idea dell’Europa se non quella di rifiutarla (resistenza delle componenti vetero-comuniste) o esaltarla (Cohn Bendit, Negri). Il problema è come modificarne la direzione per la sua propria salvezza, per la salvezza di quanto di positivo l’Unione ha comunque rappresentato. Quel che occorre in Europa è un movimento capace di portare la coscienza colmaggio 2009 83 Europa: l’Ancien Régime da abbattere La sinistra europea al confronto con la realtà post elettorale: ecologia e società in rete abbracciano l'antifascismo e l'antisecuritarismo, in un contesto multietnico. di Alex Foti Europa è in crisi e le sue città insorgono da Atene a Berlino, da Sofia a Londra. La legittimità politica e sociale dell’Unione Europea fa acqua da tutte le parti. Meno della metà degli europei vota per il parlamento di Strasburgo e Bruxelles. Tre paesi hanno rifiutato, in referendum assolutamente democratici, l’ar- L’ multinazionale e confederale che fu al centro della governance europea dal Medioevo alla Rivoluzione francese. L’Europa è in crisi perché milioni di persone non ne sono incluse. Milioni di bambini nascono in Europa senza essere europei, milioni di individui vivono e lavorano in Europa senza avere diritto al passaporto europeo, milioni di precarie e precari vivono e lavorano senza godere delle garanzie tanto strombazzate dai cantori del “modello sociale europeo” L’Europa è oggi sottoposta a due forze, una centripeta e della crisi economica e della geopolitica. La spinta centripe chitettura istituzionale pensata dagli eurocrati per l’Europa a 27, che associa all’eurozona, la metà ricca e fondatrice dell’UE, ossia la regione occidentale, latina, carolingia e renana del continente, la metà orientale, bizantina, ortodossa, ottomana, ex comunista. L’urto della recessione globale sta minando alle fondamenta quello che con Max Guareschi chiamo il Sacro Europeo Impero, per analogia con l’entità 84 Loop e della “economia sociale di mercato”, milioni di studenti escono da università semiprivatizzate per scoprire che i posti di lavoro sono stati distrutti dalla crisi in corso. Per di più, gli ex garantiti dello Stato sociale, classe operaia, ceto impiegatizio e piccola borghesia, si ritraggono verso i propri stati-nazione davanti all’insicurezza economica della globalizzazione e all’ansia sociale dell’immigrazione. E quindi abban- donano l’Europa e il suo cosmopolitismo e le votano contro. In effetti l’Europa è oggi sottoposta a due forze, una centripeta e l’altra centrifuga. Dal prevalere dell’una o dell’altra dipenderà la sorte del Sacro Europeo Impero. Le spinte centrifughe sono date dagli effetti della crisi economica e della geopolitica, vale dire dall’atteggiamento da tenere rispetto al Kosovo, la NATO, l’America e la Russia. La spinta centripeta è il potenziale di attrazione dell’eurozona. Gli effetti deflazionisti che l’euro impone all’interno ne fanno all’esterno una divisa apprezzata dai mercati finanziari (il Frankenstein del capitalismo globale): paesi dell’Est come l’Ungheria, che ne sono fuori, sono esposti al rischio di baratro finanziario, che risucchierebbe nel suo vortice anche molte banche euroccidentali, soprattutto austriache, tedesche, italiane, svedesi. Per fare un altro esempio, la sinistra islandese è tornata al potere dopo decenni sull’onda della bancarotta del paese col programma di entrare nell’euro. E la crisi irlandese, pesantissima come quella spagnola e inglese a causa della speculazione immobiliare fuori controllo, avrebbe travolto il paese se non ci fosse stata l’unione monetaria a garantire la solvenza delle sue banche. Se l’euro è davvero l’ultimo elemento di coesione dell’Europa, a maggior ragione urge un governo democratico della moneta che la sottragga al dominio di banchieri ed economisti falliti. La situazione geopolitica è ancor più precaria.Tutta la Nuova Europa si è integrata prima nella NATO e solo dopo nell’UE. I paesi eurorientali temono la Russia autoritaria ed espansionista di Putin, che invece l’establi- sioni con la Russia ed evidenziato una volta di più la totale inconsistenza e subordinazione della diplomazia europea a quella americana, come si è visto drammaticamente durante il mattatoio di Gaza perpetrato dalle forze armate israeliane. La crisi d’inclusione sociale e la gestione macroeconomica reazionaria che l’ha causata stanno mettendo a rischio l’integrità dell’Unione Europea e rivelando che l’eurozona non ha una direzione politica univoca, se non il perpetuamento a Francoforte del monetarismo coatto di gerontocrati votati alla difesa della rendita finanziaria. Dal canto suo, la Commissione neoliberista di Bruxelles è stata esposta, nella sua impotenza e fragilità, dal rifiuto tedesco di dotarla di mezzi di reflazione fiscale. Risultato: al momento l’economia UE sta crollando più rapidamente di quella USA, che con il piano Obama, vale a dire deficit di bilancio a oltre il dieci per cento (altro che il tre per cento presidiato con ottuso zelo da Barroso e Almunia) e il quantitative easing della FED (creazione di moneta a volontà, tramite l’acquisto non sterilizzato di asset privati e pubblici) hanno tamponato il peggio della Grande Recessione. Le ultime statistiche dicono che la Germania è a -6 per cento, come gli Stati Uniti. Speriamo che il governo Merkel (e il rigorismo masochista della SPD nel suo governo) paghi alle urne europee e nazionali la stolida difesa di rigorismo fiscale e interesse nazionale. La crisi è sorta in America, ma l’Europa la pagherà più degli altri per l’incapacità dei suoi governanti. L’Europa è quindi a un bivio fra allargamento e disintegrazione, e più la tendenza l’altra centrifuga. La spinta centrifugha è data dagli effetti ta è il potenziale di attrazione dell’eurozona. shment europeo euroccidentale blandisce con richieste di discussione e collaborazione, mentre quello taglia il gas all’Europa e intimidisce l’Ucraina. L’enorme pasticcio del Kosovo, con il rappresentante della politica estera, Solana, ex segretario della NATO, che riconosce l’indipendenza a nome dell’Europa, mentre molti paesi ONU e diversi paesi UE (fra cui la Spagna di cui è cittadino) si rifiutano di farlo, ha aumentato le ten- liberista e tecnocratica diventa impopolare (ne sanno qualcosa i manager francesi) e più l’Ancien Régime europeo rafforza le sue difese antidemocratiche, sospendendo Schengen ogni qual volta ci sono proteste transnazionali come quelle viste il mese scorso a Londra e Strasburgo, e creando strutture di polizia alle proprie frontiere (Frontex) e al suo interno (Stockholm Program) per tenere sotto controllo migranti e maggio 2009 85 finis europae F ocus manifestanti. Un’élite sconfessata dalle urne e dalla crisi rimane aggrappata al potere intensificando la stretta securitaria, proprio mentre l’America obamita compie un’evoluzione in senso contrario. Mentre l’Europa ancora liberista si trincera dietro un programma monoetnico e securitario, niente fosse, a restare al potere: vogliono addirittura riconfermare Barroso e lo dicono persino prima delle elezioni dell’europarlamento: il messaggio è chiaro, la gente in Europa non conta nulla. È una situazione perfetta per la destra populista e xenofoba, che avanza in Italia, Austria, Ger- La sinistra ha paura di volare, di cimentarsi con uno spazio vece di aprirsi al futuro: alla società in rete, alla rivoluzione l’America obamita ritorna keynesiana e multiculturale. L’Ancien Régime di Barroso e Trichet dipende dall’armonia nella Santa Alleanza di Sarkozy, Merkel, Berlusconi che al momento comanda in Europa. Si tratta di una visione occidentalista, cristiana, securitaria, Stato-nazionalista dell’Europa, che considera i musulmani in Europa come nemici interni e la sinistra come fattore residuale. Certamente non sarebbe un cattivo segnale se l’europarlamento dovesse spostarsi a sinistra in risposta alla Grande Recessione in corso, a condizione di ricordare che votare a sinistra e andare sulle barricate sono parte del medesimo gesto di opposizione a un potere europeo invecchiato e delegittimato. Perché sia chiaro, in Europa non arriverà nessun Obama, fintantoché non avremmo sloggiato da Bruxelles e Francoforte l’eurocrazia attuale e sconfitto la Santa Alleanza in Francia, Germania e Italia. E allora basta scomuniche contro i no-global. Perché la governance monetarista e liberista d’Europa non sarà sconfitta alle urne, sarà sconfitta nelle strade e nelle piazze. Se la sinistra non vuol morire d’eutanasia, deve riconoscere che non solo ecologisti e queer, ma anche black bloc e banlieues le appartengono. I cattivi sono altrove e sono quelli che comandano le forze di polizia. Otto anni dopo Göteborg e Genova, si ritornano ad ammazzare i manifestanti: Alexis Grigoropoulos e Ian Tomlinson uccisi dallo stesso delirio d’impunità poliziesca. La patria dell’habeas corpus, l’Inghilterra, è stata ridotta a un incubo securitario dalla Terza Via di Blair e Gordon Brown. A fronte della sconfitta politica e della crisi economica che non hanno saputo prevedere, le élite europee che ci hanno portato a questo disastro continuano, come se 86 Loop ficiale dell’eurocrazia. L’Europa di sinistra si fa dal basso, nei movimenti, nei quartieri, nelle reti. E allora bisogna trarre le giuste lezioni da quanto accaduto dopo le enormi manifestazioni per Gaza e le grandi proteste di Londra e Strasburgo. Un’Europa di sinistra non può che essere multietnica e multireligiosa, antisecuritaria e antifascista, neutrale ed ecologista, queer, libertaria e peer2peer. G ALEX FOTI È AUTORE DI ANARCHY IN THE EU: MOPINK, BLACK, GREEN E GRANDE RECESSIONE, APPENA PUBBLICATO DA AGENZIA X. VIMENTI politico più vasto e tutto da esplorare. Si rinchiude in sé indi genere, al meticciato urbano, all’innovazione intellettuale. mania e in tutta l’Europa centrorientale. Per difendere l’idea di progresso sociale e cooperazione transazionale alla base dell’Europa unita, bisogna uscire dal dilemma paralizzante in cui si è dibattuta la sinistra di ogni tendenza in Europa. Da una parte i moderati con l’adesione incondizionata alla bandiera delle dodici stelle e alle sue inevitabili sorti progressive, dall’altra il rifiuto totale dell’Europa d’ispirazione cattosocialista perché in realtà un comitato d’affari delle multinazionali europee e americane. Si tratta di una mistificazione pericolosa, di solito dettata dalla volontà conservatrice di mantenere in vita un’identità asfittica, ieri rivoluzionaria oggi massimalista, legata alle diverse storie politiche nazionali. La sinistra, soprattutto quella ereditata, ha paura di volare, di cimentarsi con uno spazio politico più vasto e tutto da esplorare. Si rinchiude in sé invece di aprirsi al futuro: alla società in rete, alla rivoluzione di genere, al meticciato urbano, all’innovazione intellettuale, che invece i no-global assumono in pieno, eredi come sono della cultura autonoma e libertaria degli spazi sociali che caratterizza le metropoli europee. In particolare, la sinistra comunista compie un errore grave a rifiutare l’ipotesi transnazionalista europea che è vissuta come un dato di fatto da tutta la gioventù del Continente. Bisogna dar vita a un’identità europea che sia alternativa a quella frigida e tecnocratica ben descritta da Bifo nel suo recente articolo. Un’identità che si opponga al nazionalismo risorgente quanto al liberismo che non vuole tramontare. Dobbiamo reinventarci l’europeismo di sinistra, che non sarà la stessa cosa dell’eurofederalismo sconfitto in Francia e Olanda nel 2005 e divenuto (fra le proteste di Altiero Spinelli) ideologia ufmaggio 2009 87 F ocus OSTINATA MENTE La battaglia contro una legge che, nel nome della libertà e dell'autonomia, mira alla privatizzazione selvaggia mettendo a rischio tutto il sistema educativo francese. di XXX egli ultimi quattro mesi, l’università francese ha conosciuto una delle più lunghe e gravi crisi della sua storia. Il focolaio della contestazione covava da più di un anno nei vari atenei e centri di ricerca e s’era già espresso attraverso un largo movimento di protesta all’inizio dello scorso anno accademico. All’origine della preoccupazione universitaria v’era una nuova legge, la LRU (Libertés et Responsabilités des Universités) che - come spesso accade in questi tempi in cui l’ideologia avanza mascherandosi dietro parole dal significato opposto – nel nome fa riferimento alle libertà e alle responsabilità delle università. Votata in sordina durante l’estate, senza dubbio per impedire una qualsiasi opposizione, la legge aveva condotto una parte della comunità universitaria, in particolare gli studenti, a mobilitarsi durante l’autunno 2007 contro il rischio di una privatizzazione selvaggia del sistema educativo. N 88 Loop catori, docenti e persino i rettori, inizialmente piuttosto favorevoli all’autonomia delle università - si è unita chiedendo che le riforme fossero sospese e che cominciasse una reale concertazione. In effetti, la maggioranza degli universitari concorda sulla necessità di un rinnovamento del sistema universitario, troppo spesso trascurato nei confronti delle elitarie “grandes écoles”, ziari a disposizione delle università - hanno prolungato per più di tre mesi lo sciopero generale ed illimitato delle facoltà. Le forme di protesta più svariate e creative sono state messe in opera in tutta la Francia, dalla creazione di università popolari alle letture pubbliche, dal freezing al lancio di scarpe contro il ministero della ricerca, dalle lezioni nella metropolitana o nelle Nella maggior parte degli atenei assemblee generali di studenti, docenti e personale amministrativo hanno prolungato per più di tre mesi lo sciopero e delle facoltà. generale illimitato ma le modifiche ipotizzate non vengono considerate né giuste né adeguate. Il rifiuto da parte dei ministri di accogliere la richiesta di dialogo ha portato ad un braccio di ferro che si è protratto per più di sedici settimane e che non si è ancora concluso. Nella maggior parte degli atenei assemblee generali di studenti, docenti e personale amministrativo - anch’esso minacciato dalla legge sull’autonomia, che va di pari passo sovente con una riduzione dei mezzi finan- stazioni ai presidi degli atenei. Fra queste, va ricordata l’occupazione (evento totalmente inedito) del CNRS da parte dei ricercatori. Più di 12 manifestazioni in 13 settimane sono state organizzate in segno di protesta e hanno portato in strada a varie riprese più di centomila persone. In risposta all’inflessibilità dei ministri, che non hanno concesso se non modifiche superficiali, e per mostrare la determinazione del movimento, circa 1.000 studenti e do- Se la minaccia nei confronti dei laboratori di ricerca e in particolare del Centro nazionale di ricerca (CNRS) aveva già messo in allarme una componente del mondo universitario, la miccia che ha scatenato l’incendio di queste ultime 16 settimane è stata la serie di riforme promosse dai ministri dell’Insegnamento Superiore e della Ricerca, Valerie Pécresse, e della Pubblica Istruzione, Xavier Darcos. Sono riforme che, accompagnate dal taglio di un gran numero di posti di lavoro, mettono in pericolo la reale autonomia delle università, assoggettandole a logiche mercantili, attentano allo statuto dei docenti e dei ricercatori e tendono a precarizzare i giovani insegnanti; con il rischio, fra l’altro, di abolire il rapporto diretto fra l’esame di abilitazione all’insegnamento e la collocazione al lavoro. Sullo sfondo della preoccupazione legata a queste riforme, il disprezzo manifestato da Sarkozy nei confronti della ricerca durante un discorso alla comunità universitaria il 22 gennaio è servito da detonatore. Per la prima volta da più di 40 anni, tutta la comunità universitaria - studenti, ricermaggio 2009 89 F ocus centi hanno girato, dandosi il cambio giorno e notte, per più di 1.000 ore nel “girotondo degli ostinati” davanti all’Hôtel de Ville di Parigi. Ma anche questa forma di lotta non è riuscita a scalfire l’ostinazione del governo che ha abilmente portato avanti una strategia di logoramento, tentando di indebolire la contestazione con tutti i mezzi a sua disposizione e strumentalizzando l’opinione pubblica tramite i media. Cosa si nasconde dietro tale ostinazione? Secondo alcuni, essa maschera un profondo cinismo, una totale indifferenza riguardo alle sorti degli studenti universitari ma non solo; è anche una chiara espressione del disprezzo nei confronti dell’intellettualità: universitari e ricercatori sono considerati una categoria sociale che non ha più un reale peso politico. Ed è probabilmente questo venir meno del valore simbolico e politico attribuito all’università che spiega perché, malgrado il fatto che la Francia viva una situazione di crisi sociale diffusa, le lotte universitarie non siano riuscite a catalizzare lo scontento sociale. In effetti, la ricerca di un allarga- ranza di estremisti che tengono in ostaggio quei poveri studenti che vogliono ottenere il loro diploma. La questione degli esami ha così monopolizzato il dibattito, spostando l’attenzione dai problemi politici legati alle riforme. L’ipotesi di una “validazione” automatica del semestre (il dieci politico) è stata respinta con fermezza dal governo che ha ventilato la minaccia di un non riconoscimento del diploma a livello nazionale. Per uscire da questa impasse - mi ricordo in una manifestazione un cartello particolarmente significativo, che imitando una targa stradale portava scritto “Impasse Pécresse” (Vicolo cieco Pécresse, dal nome del ministro) - i docenti, con senso di responsabilità, hanno deciso di non sacrificare gli studenti e di organizzare sessioni di esame per salvare l’anno accademico. Se questo può far pensare a una vittoria almeno parziale del governo, va detto che si è forse persa una battaglia ma non si è persa la guerra. In effetti, in molte università la decisione della tenuta degli esami è stata accompagnata da mozioni che ne rivendi- Cosa si nasconde dietro tale ostinazione? Secondo alcuni essa maschera una totale indifferenza riguardo le sorti degli studenti universitari; ma non solo: è anche una chiara espressione del nei confronti dell’intellettualità. disprezzo mento della mobilitazione ad altre categorie è stata al centro delle preoccupazioni degli universitari, senza che si riuscisse però a creare una reale convergenza delle lotte. Così, ad esempio, se gli studenti hanno preso in prestito alcune forme di lotta agli operai, sequestrando rettori sulla scia dei sequestri degli imprenditori, o se la comunità universitaria ha sfilato a più riprese con gli ospedalieri e con gli insegnanti, la coesione fra questi vari settori è rimasta superficiale e circoscritta. Come se mancasse una chiara percezione dell’implacabile coerenza che sottende le riforme messe in atto dal governo il quale, guidato dalla sola logica neoliberista del rendimento, ha a più riprese dichiarato guerra al servizio pubblico. Con l’avvicinarsi delle sessioni di esami è cominciata una nuova battaglia mediatica. La contestazione, nell’immagine fornita dall’esecutivo, sarebbe frutto di una mino90 Loop cano il carattere politico e che spiegano come la contestazione non sia finita, ma riprenderà dopo la naturale pausa estiva. In particolare, la consapevolezza che questi progetti di riforma, anche se applicati a livello nazionale, hanno origine da politiche europee, porta i protagonisti della contestazione a ricercare una convergenza delle lotte a livello sovranazionale e ad organizzare una risposta concertata più incisiva di singole iniziative locali. Un tentativo di allargamento della mobilitazione che può rivelarsi efficace, se si pensa ai vari movimenti contro riforme analoghe nati negli atenei spagnoli, danesi, finlandesi, per non parlare dell’“Onda” italiana. G ALEX FOTI È AUTORE DI ANARCHY IN THE EU: MOPINK, BLACK, GREEN E GRANDE VIMENTI PINK, BLACK, GREEN E GRANDE RECESSIONE, APPENA PUBBLICATO DA AGENZIA X. VIMENTI giugno 2009 91