mai dire mai - ASSOCIAZIONE LIBERARSI onlus

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mai dire mai
“Io sono contro l’ergastolo prima di tutto perché non riesco ad immaginarlo” Pietro Ingrao in “Ora d’Aria”,
numero speciale in collaborazione con il mensile “La Grande Promessa” di Porto Azzurro, n.2, 1989.
APRILE 2010
gennaio
febbraio
marzo
dibattiti e iniziative
per l’abolizione
dell’ergastolo a:
Milano, Pinerolo, Pisa, Lecce,
Taranto, Seriate (Bg),
Tremezzo (Co), Lecco,
Corridonia, Firenze, Roma etc.
28 aprile
FIRENZE
Centro Comunitario Valdese
Via Manzoni, 21 - ore 21,00
MAI
DIRE MAI
coordinamento toscano per
l’abolizione dell’ergastolo
Interventi di:
Beniamino Deidda
Alessandro Margara
Nicola Valentino
16 maggio
partecipiamo alla
Marcia della pace
Perugia - Assisi
28-29-30 maggio
siamo presenti a
ABBONATI E DIFFONDI
il periodico
MAI DIRE MAI
(vedi ultima pagina)
La cultura della mostrificazione
prepara la condanna a vita
“Il delitto è stato atroce. In una cittadina un
uomo violenta e poi uccide una bambina che
era anche sua nipote. Indagini: i primi sospetti e poi la certezza delle prove. Una notizia che appare sui giornali - un delitto già
accaduto altre volte e non per questo meno
mostruoso. Passa un po’di tempo e l’assassino viene condannato all’ergastolo. Passa
ancora qualche giorno e i giornali raccontano che, nel paese dove è accaduto il delitto, c’è stata una festa proprio per celebrare
l’ergastolo. La popolazione è uscita per le
strade, ha brindato nei bar e nelle case. Un
festeggiamento catartico per quella comunità, che si è liberata per sempre del ‘mostro’, rinchiudendolo a vita”.
Questo episodio accadeva all’inizio degli
anni novanta. Di recente dopo una sentenza di Cassazione che ha confermato 16 ergastoli in un processo conosciuto come
“processo Spartacus” molti commenti sulla stampa sono stati al pari trionfali e celebrativi dell’ergastolo, è stato infatti scritto
da più parti con soddisfazione “la loro pena
non finirà mai!”.
L’ergastolo sancisce l’esclusione a vita dal
consorzio umano della persona condannata
ma per legittimare questa espulsione è necessario che si metta in atto prima ancora
della sentenza un processo collettivo di mostrificazione di chi è individuato come autore di quel reato.
Mostro: creatura che ha qualcosa di inumano, di innaturale, che suscita orrore. È talmente disumano il mostro, che l’origine latina della parola rimanda al divino.
Tutte le nominazioni che mostrificano, attribuendo alle persone responsabili di un reato i tratti stereotipi d’estraneità alla specie
umana, favoriscono l’atmosfera culturale
per sanzionare l’ergastolo. È tranquillizzante per la società condannare a vita un mostro.
Potremmo dire che, prima ancora che giuridicamente, l’uso massivo dell’ergastolo
viene prodotto culturalmente. Ed è importante rilevare che la cultura fautrice della pena a vita si rifà sempre a delitti che suscitano forti emozioni nell’opinione pubblica
proprio per rilanciare, sull’onda emotiva
dell’evento “mostruoso”, la legittimità dell’ergastolo.
Questa abitudine alla mostrificazione richiama anche il dispositivo antico di costruzione del capro espiatorio ampiamente documentato da René Girard sia dal punto di
vista storico che mitologico. Girard osserva che la mentalità persecutoria creatrice del
capro espiatorio nasce quando la società si
deresponsabilizza rispetto a fatti ed eventi
che la feriscono trasferendo su individui o
gruppi sociali la causa e l’origine di ciò che
l’ha ferita. Questa distorsione persecutoria
si può realizzare anche se il bersaglio ha realmente commesso il fatto che le viene attribuito. Il capro espiatorio così creato viene inoltre svuotato di una sua identità altra:
reso “indifferenziato”, frequentemente immaginato come metà umano metà animale,
in sostanza deumanizzato. È attraverso la
produzione del capro espiatorio, osserva Girard, che nelle profonde crisi sociali le istituzioni ed i gruppi si compattano (René Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano,
2004). Il dispositivo culturale che tende a
mostrificare è socialmente radicato. Durante gli incontri di presentazione del libro che
ho pubblicato sull’esperienza dell’ergastolo (Nicola Valentino, L’ergastolo. Dall’inizio alla fine, Sensibili alle foglie, 2009) incontro di frequente persone che pur accogliendo in astratto un discorso critico sulla
condanna a vita, hanno nel proprio immaginario un evento che li ha emotivamente colpiti e un proprio mostro che metterebbero
volentieri all’ergastolo, inoltre, in base alla
propria cultura ed esperienza, il mostro può
esser diverso per ciascuna persona e non è
raro incontrare questo meccanismo culturale anche fra gli stessi reclusi che rifiutano per
sé lo stereotipo deumanizzante ma lo ammettono per altri. Sembra proprio decisivo
per poter superare l’ergastolo come istituzione penale interrogarsi sul meccanismo
culturale socialmente tranquillizzante che
tutti ci attraversa di dare a chicchessia lo
stigma di estraneità alla specie, trasferendo
fuori dalla società le ragioni di conflitti e ferite che la segnano, esultando infine quando
un essere umano, ucciso simbolicamente attraverso la mostrificazione, viene ucciso anche socialmente con la condanna a vita.
Nicola Valentino
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- INIZIATIVE - PROTESTE - INIZIATIVE - PROTESTE - INIZIATIVE
Cosa fare nei prossimi mesi?
lla fine del 2009 è circolata una lettera della nostra
Associazione inviata a circa 200 detenuti in cui veniva presentato un rapido bilancio di quello che era stato fatto e si iniziavano ad individuare alcuni progetti da portare avanti ne 2010. In breve si evidenziava l’importanza per
la continuazione della Campagna “Mai dire mai” per l’abolizione dell’ergastolo di creare momenti
di sciopero della fame dentro e fuori le
carceri, individuare interventi scritti per
specifiche situazioni esterne che ritenevamo significative e veniva citata, come
esempio, la tre giorni di Terni “Strada facendo”, momento positivo di analisi e di
dibattito organizzato dal CNCA (che riunisce numerose cooperative sociali), dal
Gruppo Abele e da Libera che si è tenuto all’inizio di febbraio (vedi documentazione in queste pagine), ma anche si proponeva una nostra partecipazione visibile
(con striscioni e volantinaggio) nella marcia della pace Perugia-Assisi di domenica 16 maggio. Si indicava anche come
momento importante di crescita organizzativa di Mai dire mai una giornata di riflessione all’interno di Terra Futura a Firenze o sabato 29 o domenica 30 maggio
collegata con una nostra presenza fissa
con uno spazio per diffondere materiale e
per rendere pubblica una mostra di dipinti di detenuti (vedi il progetto di Sensibili alle foglie pubblicato in questo numero) nei tre giorni di questo incontro nazionale che coinvolge migliaia di persone provenienti da tutta Italia.
C’è la necessità anche di creare Coordinamenti Mai dire mai
in alcune città italiane. Noi partiremo da Firenze agli inizi di
aprile, ma perché non si costituiscono anche a Bologna, a
Milano, a Roma o in qualunque altro centro Coordinamenti
che vedano impegnati in questa battaglia soggetti e associazione di varie aree? Sia chiaro che non è pensabile che noi
da Firenze ci facciamo carico di tutto questo, siamo troppo
pochi. Chiedevamo aiuto ai lettori detenuti e non detenuti e
loro suggerimenti. In preparazione di Terra Futura prevedevamo varie iniziative di dibattito utilizzando anche i tre libri
recentemente stampati e che vediamo come strumenti validi
proprio per socializzare i temi dell’abolizione dell’ergastolo,
della tortura nelle carceri, della campagna Mai dire mai. E
già ci sono state serate (o ci saranno nelle prossime settimane) a Napoli, Firenze (CPA Firenze Sud), Roma (La Città
dell’Utopia), Milano (Centro Sociale Conchetta), Pinerolo,
Pisa, Lecce, Taranto, Seriate (Bg), Tremezzo (Co), Lecco,
Corridonia, Roma (presso il settimanale Carta), Padova, Bologna, Firenze … In alcune siamo presenti anche noi dell’Associazione Liberarsi, a Lecco, a Seriate e a Tremezzo è Nicola Valentino con Cecco Bellosi che presentano i libri di Nicola e di Annino Mele, “Strabismi”, a Pinerolo sono stati i
compagni anarchici che hanno discusso il libro di Carmelo,
a Pisa Franco Corleone ha proposto il suo libro, in Puglia sono stati presentati il libro di Nicola e l’altro curato da Cor-
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leone e da Anastasia di Antigone . E’ bello così e speriamo
che le occasioni siano sempre più numerose. Chi poteva prevedere tre anni fa che si sarebbe messo in piedi questo interesse, questa nuova attenzione verso l’abolizione dell’ergastolo? E ricordiamolo tutto questo è ripartito con gli scioperi
della fame iniziati nelle carceri a dicembre del 2007.
Noi come associazione Liberarsi siamo
coinvolti il 28 aprile in una iniziativa di dibattito pubblico a Firenze con la creazione
del Coordinamento Mai dire mai a carattere regionale, agli inizi di maggio in un momento di discussione nella sede del settimanale Carta per cercare di creare anche a
Roma un coordinamento cittadino, il 16
maggio speriamo di essere alla marcia Perugia Assisi (speriamo con la partecipazione di numerosi altri soggetti), dal 28 al 30
maggio ci impegneremo in Terra Futura
(non certo da soli) e poi ad ottobre organizzeremo un secondo convegno su La tortura nelle carceri italiane con la presentazione del lavoro svolto dall’Osservatorio sul
41 bis, a fine novembre/inizi dicembre concretizzeremo un importante momento di dibattito sull’ergastolo in Europa che veda
coinvolte associazioni, studiosi, detenuti
provenienti da vari paesi europei. Se a questo si aggiunge che quasi ogni due mesi dovrebbe uscire il nostro periodico “Mai dire
mai”, che ogni tanto dovrebbe essere pubblicato un libro della
nostra editrice, che per quanto ci sarà possibile daremo una risposta positiva a tutte le richieste che ci verranno fatte perché
si sia presenti a manifestazioni, dibattiti, ecc … capite che non
possiamo altro che sperare che molto di questo lavoro sia svolto non da noi, ma … da altri … E’ quindi necessario che aumentino i nostri volontari (interni ed esterni al carcere), e si accrescano il numero di associazioni che lavorino in modo coordinato e/o autonomo sul tema dell’abolizione dell’ergastolo.
Ritorniamo però a quello che potrebbero, dovrebbero fare i
nostri lettori. Forza! Niente depressioni! Impegnatevi a farvi
venir in mente idee, persone da coinvolgere, iniziative da
creare o stimolare. Qui di seguito riportiamo stralci di lettere ricevute da Voghera, da Spoleto e da Alessandria su cosa
fare o non fare nei prossimi mesi. E’ ovvio che non pubblichiamo quelle di chi ci ha scritto che le iniziative proposte
per il 2010 sono valide e che le appoggeranno (compresi gli
scioperi della fame di un giorno), ma solo quelle che esprimono critiche. Evitiamo anche la lettera di un amico che dal
carcere di Carinola invita ad una lotta all’interno delle carceri che coinvolga tutti i detenuti e le detenute e che blocchi
tutte le attività (lavorative, la scuola, le attività ricreative, i
colloqui …). Questa sua posizione è espressa da tempo da
alcuni ergastolani. Speriamo che la discussione prosegua. Noi
riporteremo le varie lettere e i differenti consigli e progetti
che ci arriveranno. Abbiamo preferito non intervenire subito
sulle lettere che trascriviamo fedelmente per non “pilotare e
influenzare” il dibattito che vogliamo il più libero possibile.
Grazie!
Mai dire mai
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- INIZIATIVE - PROTESTE - INIZIATIVE - PROTESTE - INIZIATIVE
DAL CARCERE
DI VOGHERA
…i periodici “Mai dire mai”che mi avete inviato li ho, come al solito, distribuiti a vari destinatari. In merito alla “Lettera dell’associazione Liberarsi” fine anno 2009 rispondo ai vari
punti esprimendo la mia opinione personale:
1) Scioperi della fame … Penso che siano
inutili per gli scarsi risultati di visibilità esterna. Perciò non c’è stimolo ad intraprendere
una forma di “lotta” dai risultati che non sono quelli sperati. Viviamo in una società che
rifiuta non solo il proprio dolore, ma rifiuta
anche il dolore altrui. Non c’è nessun interesse e spinta emotiva verso chi soffre. La morte, la sofferenza, la tragedia, i drammi umani passano sotto gli occhi della gente sempre
con più indifferenza. Per cui il mio convincimento è NO.
2) Il convegno sulla tortura nelle carceri italiane dico SI’. Questo tipo di iniziative è positivo.
3) Il periodico. Ho fatto e cerco di fare ciò che
è nelle mie possibilità: cerco di coinvolgere
nella lettura, negli abbonamenti più persone
possibili. Continuerò su questa strada.
4) Il sito www informacarcere.it. Ritengo che
sia molto importante come strumento di informazione (mi auguro che invece di essere
visitato da 200 persone al giorno arrivi a 2000
al giorno)…
5) Libro di Nicola Valentino “L’ergastolo”.
L’ho già letto quando ero a Rebibbia al 41
bis, nel 2006, lo trovai nella biblioteca del
carcere, è uno dei pochi libri che ci sono sull’argomento. L’appoggio che avete dato alla
nuova edizione è un’ottima idea.
Sono del parere favorevole alle iniziative di
cui fate cenno nella lettera. Chiedere che sia
istituito il Garante a livello nazionale è una
giusta richiesta, non c’è stata fino adesso la
volontà politica, ma questo è un punto molto importante perché non abbiamo nessuno
che ci rappresenti, sarebbe un passo avanti di
civiltà giuridica …
Aspettiamo con ansia e speranza l’esito di
Strasburgo in risposta al nostro ricorso…
Un abbraccio con affetto a voi tutti.
Pierdonato Zito
DAL CARCERE
DI SPOLETO
… Bisogna “modernizzarsi”, “aggiornarsi”,
cambiare strategie, lasciare stare gli scioperi
della fame che non servono a nulla. La gente ha paura qui a farli da quando in un incontro l’educatore pubblicamente ha detto che
hanno ordine di sanzionarli per far perdere la
liberazione anticipata … grandissima bugia,
ma fra la popolazione detenuta ha funzionato. La battitura poi levatela dalla testa; hanno ordine tassativo di informare il DAP …
con la scusa del sovraffollamento il DAP
vuole che sia segnalato qualsiasi malessere
interno per intervenire tempestivamente.
… Cercate piuttosto di mettervi d’accordo
fuori tra quelli che fanno informazione per
l’abolizione dell’ergastolo. Ognuno sembra
che vada per conto suo. Se vi mettete d’accordo fuori io riuscirò a mettere d’accordo gli ergastolani dentro, ma per un po’ lasciamo perdere scioperi della fame, battiture e petizioni.
Gli ergastolani per essere attivi hanno biso-
Mai dire mai
gno di non sentirsi soli, hanno bisogno di sapere che là fuori non sono soli e che c’è gente
che li sostiene. Giusto per farti un esempio:
l’altro giorno al TG della “Sette” hanno parlato della lettera al papa e molti ergastolani si
sono sentiti al centro dell’attenzione, sic!
Successivamente Carmelo è ritornato su questo tema riconfermando: “A mio parere bisogna lasciare correre inutili scioperi della fame a tempo e lottare con le idee per far conoscere ai cittadini che in Italia esiste una pena che non potrà mai finire … Che fare? Lottiamo con il diritto e i mass media”.
Per questo Carmelo ritiene importante che si
crei “una collaborazione attiva fra il sito
www.informacarcere.it e quello www.urladelsilenzio.wordpress.com. L’Associazione
Liberarsi deve portare avanti il ricorso alla
Corte europea e integrare l’iniziativa con una
petizione al parlamento europeo proponendo
la semplice domanda: La pena dell’ergastolo ostativo a qualsiasi beneficio in Italia
(morte certa in carcere per chi non collabora) infrange la Convenzione europea? Per ultimo si chiede all’Associazione Liberarsi di
portare avanti la stampa del periodico “Mai
dire mai” e di appoggiare il progetto di stampare un libro elusivamente scritto da ergastolani per far conoscere l’ergastolo ostativo. Gli
ergastolani sono disposti ad autofinanziare
questo libro acquistando cinque copie ciascuno e gli introiti ricavati serviranno a pagare le spese del periodico “Mai dire mai”.
Carmelo termina il suo intervento dando consigli agli ergastolani e ai parenti ed amici.
“Agli ergastolani, invece di inutili scioperi
della fame, si consiglia di scrivere e di allacciare rapporti costruttivi con la parte sana
della società esterna per appoggiare l’abolizione della pena dell’ergastolo. Si invitano i
parenti e gli amici degli ergastolani a iscriversi al Gruppo “Urla dal silenzio” su facebook
e si invitano gli stessi ergastolani a partecipare con loro scritti ai due siti sopra citati, facendo riferimento per Informacarcere a: Associazione Liberarsi, via Tavanti, 20 - 50134
Firenze, e per Urla dal silenzio a: Alfredo Cosco, viale 1 maggio, 11 - 88060 Davoli (Cz)”.
Carmelo Musumeci
DAL CARCERE
DI ALESSANDRIA
Ho ricevuto i vostri bollettini “Mai dire mai”,
ma stavolta ti rispondo visto che hai voluto
coinvolgermi scrivendomi ed aprire uno spazio di confronto… Mi chiedi cosa me ne pare
e credo che la mia risposta vada divisa in due
parti. Credo infatti che il bollettino sia uno strumento efficacissimo per i vostri fini e sicuramente è l’unico spazio dove possono trovare
luce certe testimonianze. Capisco anche la volontà di dare spazio a contributi non strategici
o politici, quali racconti o poesie, almeno nella misura in cui possano far sentire il giornale
da parte dei detenuti più come un proprio strumento. Casomai trovo una grossa mancanza
nell’assenza di riferimenti ed indirizzi di altri
strumenti simili e pubblicazioni significative e
credo potreste inserire un riquadro del genere
e cercare di costituire una rete anche con realtà eterologhe. Questa però è solo parte della risposta. Perché mi sento di dover chiarire un altro punto: non credo che io e voi condividiamo
lo stesso obiettivo. La mia non è affatto una
critica, quanto una constatazione. D’altronde
io sono un anarchico inviso ad ogni riformismo
e trovo che la lotta al carcere sia solo parte della mia lotta e per questa non vorrei finire rafforzare invece che indebolire altri bersagli del
mio odio, quali il concetto stesso di delega, lo
stato e la sua legalità e forse anche peggio la
comunicazione di massa, altro lato della medaglia dei gendarmi armati. Non per questo
trovo inaccettabile la vostra lotta, che io intendo mirata al miglioramento delle condizioni
detentive a partire dalle più grosse aberrazioni
dell’attuale sistema repressivo: Non sono così
ingenuo da credere che il carcere si possa abbattere dall’interno, so bene che qualsiasi lotta dei prigionieri può essere solo parziale e rivendicativa: Per questo motivo mi troverete
sempre accanto a voi in tutte le proteste di cui
mi darete notizia, ma se io devo individuare
obiettivi e coordinarmi con i miei compagni e
compagne fuori, mi rifiuto di accontentarmi di
ricercare una risposta mediatica o di cercare di
convincere la gente. Il carcere è uno dei pilastri del capitalismo ed andare a chiedere a qualcuno di capire che ci si può liberare dalla necessità del carcere è come tentare di convincerli dell’orrore dietro la proprietà privata o la civiltà industriale. No, la lotta e l’odio anticarcerario saranno per me sempre e solo leve su cui
applicare la mia forza per cercare di spingere
all’azione diretta ed alla rivoluzione e per questo dovrò affidarmi ad altri strumenti e contenuti comunicativi. Se voi vorrete, sarò più che
felice di approfondire questo dibattito e sono
curioso di sapere come la vedete voi. Quello
che io mi auguro più caldamente è che non si
crei l’apparentemente inevitabile scollamento
tra i diversi approcci e che anche se ognuno
proceda lungo il proprio percorso, si riesca a
tendere tutti verso una stessa meta.
In concreto, credo sarebbe vitale smettere di
ricercare la sola spettacolarizzazione delle
proteste e cercare di colpire gli interessi economici legati al business carcerario. Non trovo significative lotte quali gli scioperi del carrello od i digiuni di un giorno, mentre troverei
stimolanti lo sciopero della spesa e dei lavoranti, inoltre si aprirebbe un fronte esterno, ad
esempio, con tutte le ditte ed i privati che lucrano sul carcere. Starebbe poi solo alla scelta individuale se ostacolare le attività di simili soggetti con un presidio di fronte al loro indirizzo, mandare un fax/mail contenente il roprio disappunto o qualcosa di diverso.
Lo sciopero della fame rimane un mezzo efficace solo nel momento in cui acquista valore
agli occhi di chi è fuori , della massa e quindi
diventa uno strumento di pressione sull’amministrazione carceraria. La mia paura è che a chi
è succube della TV possa solo fare piacere se i
detenuti stanno male, figurarsi se poi si lascia
scuotere da due o tre giorni di digiuno che ci
possono fare solamente bene. Spero mi risponderete e apprezziate la mia franchezza. Sono
convinto che le “pacche sulle spalle” servano a
molto poco e spesso siano più utili i rompicoglioni. Non ho neanche idea se sapete quali sono le nostre condizioni qui ad Alessandria o se
ne vogliate un resoconto. Purtroppo sapete
sempre dove trovarmi ed io rimango sempre
aperto al confronto ed alle critiche. Spero di
crescere e non certo di convincere qualcuno
delle mie opinioni. Io cosa ci guadagnerei ?
Aspettando la vostra risposta saluto tutto il
gruppo di Liberarsi con un abbraccio ribelle.
Sergio M. Stefani
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- INIZIATIVE - PROTESTE - INIZIATIVE - PROTESTE - INIZIATIVE
Strada facendo:
apriamo un dialogo
Terni dal 5 al 7 febbraio si è tenuto l’incontro annuale
di “Strada facendo”. Riportiamo qui di seguito: l’intervento scritto da Luigi Ciotti, pubblicato sul quotidiano
Il Manifesto, una nostra lettera aperta e il resoconto scritto da
Giuseppe Battaglia sul cantiere aperto dedicato al carcere a cui
Giuseppe ha partecipato attivamente.
E’ importante che il confronto tra la nostra piccola associazione e i tre soggetti che organizzano ogni anno “Strada facendo”
prosegua essendo tutti noi accomunati dal credere fermamente al rispetto dei diritti umani.
A
A TERNI, “STRADA FACENDO”
SENZA FARSI STRADA
Fare strada, non «farsi strada». È questo il senso profondo del
quarto appuntamento di «Strada facendo» che si apre oggi a
Terni. 1.200 operatori del sociale, educatori, volontari, insegnanti, studiosi, sindacalisti che si confrontano con amministratori pubblici e con politici su temi che toccano e spesso soffocano la vita di tante persone: il lavoro, la casa, lo stato sociale, l’immigrazione, il futuro dei giovani, il carcere e le politiche penali. Per fare strada e non farsi strada, per costruire insieme una società del «noi», dove ogni persona possa essere riconosciuta nei suoi diritti, nella sua dignità.Sono temi attraversati tutti dalla crisi economica, ma a Terni ribadiremo che, pri-
A tutti i lettori: organizzate dibattiti,
create comitati cittadini “Mai dire Mai”
Vi chiediamo due cose:
1) Organizzare nella vostra città un dibattito sull’abolizione dell’ergastolo in Italia, sulla non vita e sull’illegalità nel carcere e sulle forme di tortura. Sia
noi dell’associazione Liberarsi, sia Nicola Valentino che ha recentemente ristampato una nuova
edizione ampliata del libro “L’ergastolo. Dall’inizio alla fine” siamo disponibili a partecipare a questi incontri;
2) Creare nella vostra città un Comitato cittadino Mai
dire mai, per l’abolizione dell’ergastolo coinvolgendo associazioni, collettivi, gruppi, centri sociali, ecc. ecc. che potrà fare ed organizzare della controinformazione sul tema dell’ergastolo e più in
generale sul carcere.
Le due cose potrebbero esser collegate: Organizzare
un incontro pubblico nel quale presentare anche un
Comitato cittadino Mai dire mai. Sabato 30 maggio a
Firenze all’interno di Città Futura ci sarà un incontro
nazionale contro l’ergastolo a cui parteciperanno varie realtà nazionali e locali. Cercate di esserci. Se la
vostra attuale detenzione vi impedisce di essere presenti chiedete a parenti e ad amici di venire.
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ma che economica, questa è una crisi di diritti. Una crisi politica, etica, culturale. Una delle spie più evidenti è proprio il modo in cui si affrontano i problemi sociali. Nel migliore dei casi secondo la logica dell’emergenza, della soluzione «tampone» che agisce sui sintomi ma lascia intatte le cause. Nel peggiore, con la rimozione, la distorsione, la demagogia.
Stiamo assistendo a una impressionante riduzione del «sociale» in «penale». Le carceri scoppiano, diventano luoghi di sola sofferenza? Si annuncia la costruzione di nuovi padiglioni,
ben sapendo che subito verrebbero riempiti, perché il problema non è solo quello di ampliare e, come giusto, modernizzare l’edilizia carceraria, ma di fare in modo che le persone in
carcere non ci finiscano. Sembrava una conquista culturale acquisita, quella che riconduce gran parte della devianza alla povertà di politiche sociali, alla carenza di strumenti educativi e
culturali, e invece ci ritroviamo in una situazione in cui chi nasce povero, meno garantito, ha poche speranze di risalire la china, viene abbandonato a un destino che non lascerebbe indifferente una società più giusta e solidale. Lo stesso accade con
l’immigrazione. Potrebbe essere una grande opportunità: umana, culturale, anche economica, dal momento che la storia cammina da sempre sulle gambe dell’incontro con le diversità. Invece si è voluto far prevalere le ragioni dell’io su quelle della
vita. Alla via difficile ma feconda dell’integrazione, di norme
capaci di coniugare accoglienza e legalità, si è preferita la scorciatoia della repressione e della demagogia. E poco importa se
molte di quelle norme e ordinanze – in primis il mostro giuridico chiamato «reato di clandestinità» – incontrano difficile applicazione, vuoi per la scarsità di mezzi, vuoi per la resistenza
morale di chi non vuole farsi complice di misure apertamente
razziste. Ciò che conta, e preoccupa, sono le ricadute culturali, il riemergere dell’intolleranza, la legittimazione di una sicurezza «fai-da-te», sempre più sganciata dall’orbita del diritto.
Siamo a Terni per discutere di tutto questo, per chiedere alla politica di affrontare la crisi economica con un approccio diverso,
con più grinta, più lungimiranza, ma anche più onestà. La mancanza di risorse non può diventare un alibi per tacere sulla loro
iniqua distribuzione. Tra i paesi sviluppati, l’Italia è uno di quelli in cui è più cresciuta in questi trent’anni la distanza fra le classi sociali, lo scarto tra i profitti e i salari.
Chiederemo alla politica di non allontanarsi più dalla storia delle persone, di avere a cuore il bene comune e non solo quello di
pochi potenti e privilegiati, di abbandonare i personalismi, le tattiche senza strategie, i compromessi al ribasso. Senza dimenticare che politica siamo anche noi. Che la democrazia è un sistema prezioso quanto fragile che chiede a tutti i cittadini di guardare un po’ oltre se stessi, e che le difficoltà attuali non possono
giustificare, soprattutto in chi lavora nelle accoglienze, a stretto contatto con chi fa fatica, lo scoraggiamento, il ripiegamento, la routine. «Sociale» vuol dire persone che chiedono, a volte con il solo sguardo, attenzione, prossimità, riconoscimento.
«Sociale» è incontrare quegli sguardi di verità. Vuole dire camminare insieme a loro. Fare strada e non farsi strada.
Don Luigi Ciotti
Il Manifesto - 5 febbraio 2010
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- INIZIATIVE - PROTESTE - INIZIATIVE - PROTESTE - INIZIATIVE
COSA NE PENSATE SULL’ERGASTOLO
E SULLA TORTURA NELLE CARCERI
ITALIANE? LETTERA APERTA
Alle amiche e agli amici di Strada Facendo,
S
iamo una piccola Associazione di volontariato che si è costituita alla fine del 2008 per occuparsi soprattutto dei detenuti
condannati all’ergastolo e dei reclusi sottoposti al 41 bis. Siamo una specie di segreteria esterna del movimento creatodagli ergastolani che da alcuni anni ha ripreso a lottare in modo non violento
per l’abolizione dell’ergastolo attraverso scioperi della fame, controinformazione e un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo presentato nel maggio 2009 da 739 ergastolani.
Negli ultimi mesi stiamo creando un coordinamento nazionale “Mai
dire Mai” a cui hanno dato l’adesione oltre alla nostra Associazione,
l’Associazione Antigone, la Comunità Papa Giovanni XXIII ed altre
realtà nazionali e locali.
Cosa vi chiediamo? Di prendere anche voi posizione per l’abolizione dell’ergastolo in Italia, di aderire a questo coordinamento nazionale, di sensibilizzare i soci e gli aderenti alle vostre Associazioni su
questo problema così importante e così distruttivo che colpisce circa 1500 uomini e donne.
Si sente dire, talvolta anche da persone serie, che in Italia l’ergastolo non esiste, che dopo 20 anni gli ergastolani possono ottenere la
semilibertà e così via. Ecco noi conosciamo centinaia di detenuti ergastolani che non usciranno vivi dal carcere; sono quelli che hanno
il cosiddetto ergastolo ostativo, coloro ai quali non è più applicato
l’Ordinamento Penitenziario in quanto fanno parte delle categorie indicate dal 4 bis e che possono ottenere di nuovo i benefici solo “collaborando” con la giustizia. In ogni caso, vi sembra giusto che gli
ergastolani non abbiano un fine pena? Che lo Stato si sia preso la loro vita? Non sarebbe da eliminare l’ergastolo come si è tolta la pena di morte? Non sarebbe giusto che l’Italia abolisca questa pena come già hanno fatto la Spagna ed il Portogallo?
Vorremmo porvi brevemente anche il problema dei detenuti in 41 bis.
Anche nel carcere di Terni vi è una sezione di detenuti sottoposti a
questo regime. Perché ci rimane più facile condannare le Guantanamo esistenti negli altri paesi e ci resta così difficile contrastare la tortura del 41 bis in Italia? Non sono le sezioni del 41 bis le nostre
Guantanamo?
Grazie per quanto farete, sappiate che nelle carceri numerosi ergastolani seguono con speranza il vostro convegno e sperano che le loro lotte, i loro scioperi, le loro battiture delle sbarre giungano fino a
voi.
Christian De Vito, Giuseppe Battaglia,
Giuliano Capecchi, Carmelo Musumeci, Alfredo Sole.
Associazione Liberarsi - Firenze 4 febbraio 2010
MARCIA DELLA PACE PERUGIA-ASSISI
Domenica 16 maggio 2010 si terrà la Marcia della Pace Perugia-Assisi . Da alcuni dell’associazione Liberarsi è partito
l’idea di andare a questa grossa manifestazione con striscioni
e volantini per far presente la campagna Mai dire mai e la realtà disumana del carcere. Cosa ne pensate? Siete disposti a venire? Questo appello non è rivolto soprattutto ai detenuti (alcuni anni fa un gruppo di detenuti in permesso dal carcere di Massa parteciparono a questa manifestazione. Perché non vengono
i detenuti del teatro della Fortezza di Volterra? O detenuti e detenute in permesso da altre carceri?) Ma perché non vengono i
familiari ? E gli amici? E gli ex-detenuti? E i volontari? E i parenti e amici di Aldo Bianzino (ucciso nel carcere di Perugia)?
E i genitori e la sorella di Stefano Cucchi? E la mamma di Marcello Lonzi? E…e…e…? Che ne dite? Scriveteci numerosi.
Mai dire mai
PRENDIAMO UNO SPAZIO A FIRENZE
ALL’INTERNO DI TERRA FUTURA?
Ci sembrerebbe molto importante essere presenti nei tre giorni di
Terra Futura (28/29/30 maggio 2010) con una giornata di dibattito (pomeriggio di sabato 29? Domenica 30?), con la mostra di
cui parliamo nelle pagine dei Progetti, con un nostro spazio in cui
distribuire materiali informativi, ecc… Ma per fare questo ci vogliono persone disponibili a dare una mano, sono anche necessari soldi per pagare lo spazio, la mostra ecc… Noi da soli certamente non ce la facciamo. Aspettiamo… sperando in numerose
risposte positive che rendano concretizzabile l’iniziativa.
LA DISCUSSIONE A TERNI
NEL CANTIERE SUL CARCERE
I
l cantiere sul carcere (uno dei sette previsti) è andato avanti per
tutta la giornata di sabato 6 febbraio a Terni. Ovviamente l’accento della discussione si è posato su alcuni aspetti del carcere:
i diritti delle persone detenute, i numeri da record nella storia repubblicana, i morti di carcere, i suicidi, la composizione organica della
popolazione detenuta, i maltrattamenti, l’illegalità del carcere. Ma si
è anche parlato di tortura con riferimento al 41bis e all’ergastolo ostativo. E’ stata inoltre diffusa la lettera dell’Associazione Liberarsi che
interroga e s’interroga sopratutto sul 41bis e sull’ergastolo ostativo.
Su quest’ultimo punto non c’è stata grande discussione, tolta qualche battuta sull’improponibilità dell’abrogazione dell’ergastolo coi
tempi che corrono... Ormai è diventata una moda non tanto chiedersi se una cosa è giusta o sbagliata, bensì “l’opportunità” politica di
discutere o meno di alcune cose di ordinaria ingiustizia, come nel
caso dell’ergastolo ostativo. Un chiarimento invece è venuto sul 41bis
e “l’area riservata” che sovrasta addirittura il 41bis. Era presente, infatti, il direttore del carcere di Terni, che ospita al suo interno una
sezione 41bis. A lui è stato chiesto se poteva spiegarci cos’è il 41bis
(da notare che tra il centinaio di partecipanti ai lavori c’erano molti
che non avevano una conoscenza ravvicinata del carcere). Sul 41bis,
il direttore ha riferito che non spetta a lui dare un giudizio se il 41bis
è tortura o no. Ma, sopratutto, ci ha detto dell’ “area riservata”, nella quale lui aveva una sola persona: è l’isolamento totale, ci ha detto; una persona che vive ventiquattro ore su ventiquattro a parlare
con se stesso. Tant’è, ci ha detto, che quella persona che lui ha in
“area riservata” rinuncia ormai ad andare all’aria, perché intanto anche all’aria si ritrova solo con se stesso. Poiché abbiamo notizie dirette di persone ristrette che sono state in “area riservata” per lunghi
e lunghissimi periodi (qualcuno per anni), viene spontaneo chiedersi: a quale normativa si richiama questo regime di detenzione? Che
senso ha? Chi lo dispone e con quali garanzie di legalità? La sensazione che abbiamo avuto nel cantiere di lavoro è che si tratti in assoluto di un arbitrio, una sorta di scheletro nell’armadio del DAP.
Comunque non sfugge a nessuno che l’isolamento così totale e prolungato nel tempo configuri sicuramente una forma di tortura che si
consuma nelle nostre carceri, in barba a tutte le leggi che in qualche
modo regolano la detenzione. Per questo (e non solo) è stato ribadito con forza la necessità e l’urgenza di porre al centro della discussione la questione dei “diritti umani”, ben oltre l’illegalità che ormai
governa tutte le nostre carceri, per bocca stessa di autorevoli esponenti di governo che -peraltro- rifiutano la responsabilità per la quale sono pagati. La trascrizione dettagliata di tutti gli interventi saranno disponibili nella riproduzione, quanto prima, degli atti del convegno. In assemblea plenaria (1200 presenze) non è stata riportata la
sintesi di ciascun cantiere di lavoro, tutti e sette riassunti in un unico intervento.
Ha pesato come un macigno sui lavori la mancanza di una voce che
arrivasse dall’interno del carcere.
Giuseppe Battaglia,
Associazione Liberarsi
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- PROGETTI - PROGETTI - PROGETTI - PROGETTI - PROGETTI È importante iniziare questa nuova sezione del nostro periodico “Mai dire mai”, è estremamente utile che progetti (più o meno
strutturati) vengano sottoposti al giudizio, alla critica, alla partecipazione attiva dei nostri lettori. Questa volta diamo spazio a due
progetti: il primo (è definito da Carmelo ancora una bozza) riguarda la pubblicazione di un libro collettivo sull’ergastolo ostativo, il secondo è una mostra di opere pittoriche e disegni dall’ergastolo e altre reclusioni, il progetto è già realizzato da Sensibili alle foglie, ma potrebbe essere ampliato con la partecipazione di altri detenuti e detenute che si esprimono tramite la pittura, la grafica, ecc. Questi artisti dovrebbero mettersi in contatto rapidamente con l’Associazione Liberarsi e con questo nostro giornale. Noi
faremo di tutto per presentare la mostra a fine maggio a Firenze durante Terra Futura. Ma sarebbe importante che questo strumento artistico fosse visto da molte persone in varie zone d’Italia e che affiancasse il nostro movimento che vuole l’abolizione dell’ergastolo e un occhio attento sui luoghi di reclusione.
I progetti, è ovvio, sono sottoposti a suggerimenti. Se la rubrica proseguirà dipende dal vostro invio di ulteriori idee.
Progetto di un libro collettivo su
l’ergastolo ostativo
Cari compagni,
lcuni ergastolani accettano il loro destino senza fare nulla per tentare di modificarlo. Altri subiscono la loro peAna che non avrà mai fine, perché hanno rinunciato a vivere per poter sopravvivere. Molti si adeguano perché la pena
dell’ergastolo ostativo ti fa sentire impotente, solo contro il resto del mondo. Pochi decidono di lottare; sono quelli che non
saranno mai prigionieri del tutto.
Bisogna reagire perché possono metterci a morte, ma non
possono tenerci dentro tutta la vita, se lo fanno sono più criminali di come eravamo noi. Gli uomini nascono liberi e muoiono liberi, per questo, dopo aver pagato la nostra pena, vogliamo morire liberi.
Molti ergastolani sono convinti che non serve lottare perché
l’ergastolo non lo leveranno mai, io non sono d’accordo, l’ergastolo lo leveranno quando gli ergastolani s’incazzeranno.
Chi si rassegna non vive, riesce a malapena a sopravvivere,
per questo invito a lottare, a ragionare e a scrivere per partecipare a questo progetto.
Consapevole che la gente là fuori, compresi molti politici e
purtroppo anche alcuni ergastolani, non sanno cosa sia l’ergastolo ostativo, quello che se non metti qualcuno dentro in
galera al tuo posto non potrai mai uscire, ho proposto a Giuliano la pubblicazione nelle edizioni Liberarsi di un libro su
l’ergastolo ostativo.
A
Giuliano ha scritto:
“Carmelo ha proposto a me (ma ovviamente anche agli altri
membri del consiglio direttivo di Liberarsi) la pubblicazione di
un libro su l’ergastolo ostativo in cui coinvolgerebbe con due
scritti specifici gli ex senatori, che nella passata legislatura avevano presentato un disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo, Maria Luisa Boccia e Giovanni Russo Spena e altri. Io sono d’accordo purché lo curi lui e, se possibile, trovi lui 50 ergastolani che diano 50 euro per poterlo stampare”.
Il perché di questo libro? Prima di tutto per far conoscere “la pena di morte viva”, come io chiamo l’ergastolo ostativo, alla classe politica e alla società. Poi per dare un finanziamento serio al
nostro periodico “MAI DIRE MAI”.
Gli ergastolani che vogliano partecipare a questa avventura e alla stesura di questo libro inviino o facciano inviare dai loro familiari 50 euro tramite vaglia postale o tramite contocorrente postale n.92826684 intestati a: Associazione Liberarsi, via Tavanti, 20 - 50134 Firenze e alla pubblicazione del libro gliene verranno spedite cinque copie.
Gli autori del libro saranno gli scrittori/finanziatori del progetto. Il materiale da pubblicare sul libro dovrà essere inviato direttamente a: Carmelo Musumeci, Via Maiano, 10 - 06049 Spoleto (PG). Ovviamente non posso assicurare che tutto il materiale inviato sarà pubblicato, ma, ripeto, gli autori del libro risulteranno tutti quelli che parteciperanno al progetto.
Carmelo Musumeci
Carcere di Spoleto - febbraio 2010
Mostra di opere pittoriche e disegni dell’ergastolo e altre reclusioni
99/99/9999
costituisce
l’incubo numerico
con cui si scrive il FINE PENA MAI
nei certificati penali computerizzati
6
ettendo al centro la condizione
dell’ergastolo questa mostra ha
lo scopo di raccontare le reclusioni carcerarie partendo dal massimo
della pena.
L’ergastolo è il massimo della pena rispetto ad una condanna temporale, perché al recluso condannato ad una pena
temporale anche elevata viene in ogni
M
caso riconosciuto il diritto alla libertà. Il
giorno previsto del fine pena egli ritornerà una persona libera. Per l’ergastolano, che non ha un fine pena, la libertà,
se mai ci sarà, potrà essere solo una
concessione.
Per il diritto penale nato dalla rivoluzione francese l’ergastolo era una pena
fuori misura anche rispetto alla condan-
Mai dire mai
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- PROGETTI - PROGETTI - PROGETTI - PROGETTI - PROGETTI na a morte, tant’è che il codice penale francese del 28 settembre 1791, pur
prevedendo la pena capitale, abolì
l’ergastolo, ritenendolo disumano e
umiliante molto più della pena di
morte.
Se con la pena di morte lo Stato toglie la vita ad una persona, con l’ergastolo se la prende. Questa forma di
schiavitù, che attualmente investe
1430 persone, per gran parte delle
quali non è prevista nessuna possibilità di affrancamento, può costituire
un significativo analizzatore dello stato penale. Negli ultimi 10 anni nelle
carceri italiane sono morti più di
1.500 detenuti, di cui oltre 1/3 per
suicidio. Nel 2009 i suicidi sono stati 72, le morti per altre cause (sanità
disastrata, cause non chiare, overdose)
175, cifre elevate anche rispetto agli
anni precedenti (www.ristrettiorizzonti.it).
Il carcere, qualunque sia la condanna,
risulta essere quindi un luogo mortale e mortificante. Cosa fanno le persone recluse per non morire?
A quali risorse ricorrono quei reclusi
che non si suicidano o che non si lasciano morire? La creatività è una
delle risorse più efficaci per tenersi in
vita. Come scriveva il patriota Luigi
Settembrini recluso all’ergastolo di S.
Stefano nella metà dell’ottocento: “Io
scrivo perché scrivendo il duol si disacerba, perché ho bisogno di scrivere; e s’io non scrivo non vivo”. Questa mostra, utilizzando materiali dell’Archivio di scritture, scrizioni ed arte irritata della cooperativa Sensibili
alle foglie, propone opere pittoriche e
disegni prodotti da persone recluse all’ergastolo, in carcere, negli ospedali
psichiatrici giudiziari, nel braccio della morte. Attraverso gli autori in mostra e le loro opere si intende fornire
una documentazione sui diversi aspetti della condizione reclusiva, sulle
analogie e differenze fra le diverse
istituzioni di detenzione, per favorire
una maggior consapevolezza sociale
ed una conoscenza non astratta dell’esperienza umana della reclusione.
L’esposizione
a mostra comprende già non meno di 10 autori per un minimo di
30 opere.
Proprio per il suo carattere informativo
e formativo, si avvale di un apparato di
schede che illustrano di ogni autore il
suo processo creativo ed il contesto nel
quale si è generato, nonché un’informazione più generale sui dispositivi istituzionali di quel contesto reclusivo con
una indicazione delle analogie e delle
differenze fra le diverse condizioni di
istituzionalizzazione: l’esperienza del-
L
l’ergastolo differisce dalla condanna ad
una pena carceraria temporale, ma per
alcuni aspetti è simile alla pena capitale. Anche il manicomio giudiziario, per
l’indefinitezza dei tempi di reclusione
che comporta, viene a volte definito “ergastolo bianco”.
L’esposizione, per la cui attuazione si
stanno avviando contatti con enti pubblici ed associazioni, ha lo scopo prevalente di sollecitare una maggior consapevolezza sociale dei dispositivi che caratterizzano l’esperienza delle reclusio-
ni, ma anche delle risorse creative che
aiutano le persone recluse ad affrontarli, in tale senso può essere utile anche
per educare ad una cittadinanza solidale e attenta ai diritti delle persone ed anche alla creatività come una importante
risorsa umana.
Interlocutori possono essere le scuole,
soprattutto gli istituti superiori, ma anche tutte le professionalità che operano
in campo sociale, della cultura, dell’arte. Il mondo del volontariato e dell’associazionismo. I cittadini tutti.
La raccolta di opere
a mostra può anche costituire essa stessa il momento pubblico per
una raccolta di materiali provenienti dall’ergastolo, dal carcere, dagli
OPG, coinvolgendo parenti e amici dei
reclusi, costituendo in tal modo un aiuto concreto per molti reclusi ad uscire
dall’isolamento sociale nel quale vivono.
In tal senso, fin da subito, si invitano i
reclusi che disegnano o dipingono ad inviare due loro opere all’associazione Liberarsi, via Tavanti, 20 – 50134 Firenze
che collabora al progetto. Tali opere saranno accolte, archiviate e potranno es-
L
Mai dire mai
sere esposte compatibilmente con gli
spazi espositivi che di volta in volta saranno concessi per l’attuazione del progetto. Sarebbe cosa buona ai fini dell’esposizione che le opere siano accompagnate da una scheda con il nome dell’autore, il contesto reclusivo nel quale
si trova, da quando tempo è recluso,
quando ha iniziato a disegnare o dipingere, i materiali che usa, come è nata la
voglia di dipingere e le difficoltà che ha
incontrato e incontra per svolgere questa attività e, se ne ha voglia, una descrizione di cosa fa quando disegna o dipinge (se da solo, o in cella con altri, in
quali orari della giornata, come prepara
i materiali...) in modo che nelle schede
che accompagneranno gli autori si possa raccontare al pubblico l’importanza
ed il valore dell’atto creativo prima ancora che dell’opera in sé. Grazie fin da
subito ai reclusi che vorranno affidarci le
loro creazioni.
Coop. Sensibili alle foglie
Archivio di scritture
iscrizioni e arte irritata
Ufficio Tivoli
Vicolo delle Piagge, 4/B
00019 Tivoli (RM)
Tel./Fax: 0774311618
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Le carceri nel discorso
del Presidente della
Repubblica
75 bambini passano
il Capodanno in cella
con le loro madri
el discorso della fine dell’anno il Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano ha dedicato anche un
breve ma significativo passaggio al tema del carcere
che riportiamo integralmente: “È necessario essere vicini a
tutte le realtà in cui si soffre anche perché ci si sente privati di
diritti elementari: penso ai detenuti in carceri terribilmente
sovraffollate, nelle quali non si vive decentemente, si è esposti
ad abusi e rischi, e di certo non ci si rieduca”.
i apre il nuovo anno con questa notizia che si commenta
da sola. Che responsabilità hanno questi 75 bambini
sotto i tre anni? Perché non si creano strutture come
quella istituita a Milano che accoglie le madri detenute con
bambini all’esterno de
l carcere? Quando si riuscirà a scrivere che non esistono nelle
carceri italiane bambini e bambine detenuti/e insieme alle loro
madri?
N
S
Lettura aperta degli ergastolani
al Papa Benedetto XV
li ergastolani in lotta per la vita di Spoleto e la Comunità Papa Giovanni XXIII hanno promosso l’iniziativa di
scrivere una lettera aperta al Papa di cui riportiamo il testo integrale:
“Santo Padre, siamo degli ergastolani, dei condannati a essere colpevoli e prigionieri per sempre, ergastolani con l’ergastolo ostativo ad ogni beneficio. Santo Padre, molti di noi sono in carcere da 20, 30 anni, altri di più, senza mai essere usciti un solo giorno, senza mai un giorno di permesso con la propria famiglia. Molti di noi sono entrati da ragazzi adolescenti e ora sono quarantenni destinati ad invecchiare in carcere,
altri erano giovani padri e ora sono nonni con i capelli bianchi. Santo Padre, noi e la Comunità Papa Giovanni XXIII, Le
vogliamo dire che la pena dell’ergastolo è una pena che si
sconta senza vita; che avere l’ergastolo è come essere morti,
ma sentirsi vivi; che la pena dell’ergastolo è una pena del diavolo perché ti ammazza lasciandoti vivo; che la pena dell’ergastolo tradisce la vita; che subire la condanna dell’ergastolo
è come perdere la vita prima ancora di morire; che la pena
dell’ergastolo ti mangia l’amore, il cuore, e a volte anche
l’anima; che la vita senza promessa di libertà non potrà mai
essere una vita.
Santo Padre a cosa serve e a chi serve il carcere a vita? Si diventa non viventi. A che serve vendicarsi in questo modo?
Non vediamo giustizia nella pena dell’ergastolo, ma solo una
grande ingiustizia perché si reagisce al male con altro male
aumentando il male complessivo. Una società giusta non dovrebbe avere né la pena di morte, né la pena dell’ergastolo.
Non è giustizia far soffrire e togliere la speranza per sempre
per riparare al male che ha fatto una persona. Il male dovrebbe essere sconfitto con il bene e non con altro male. Il riscatto umano non è possibile con una pena che non potrà mai finire. La nostra vita è di una inutilità totale, è aberrazione, sofferenza infinita. L’ergastolo è una pena che rende il nostro presente uguale al passato, un passato che schiaccia il presente e
G
8
toglie speranza al futuro. Santo Padre, 310 ergastolani tempo
fa si sono rivolti al Presidente della Repubblica dicendogli di
preferire la morte al carcere a vita.
Nell’anno 2007 un migliaio di ergastolani, sostenuti da 10.000
persone fra amici e parenti, hanno fatto lo sciopero della fame
ad oltranza per l’abolizione dell’ergastolo.
Nell’anno 2008 quasi ottocento ergastolani hanno inoltrato un
ricorso alla Corte europea per chiedere l’abolizione dell’ergastolo perché in Europa solo in Italia esiste l’ergastolo ostativo.
Sempre nell’anno 2008 un migliaio di ergastolani hanno fatto
uno sciopero della fame a staffetta per l’abolizione dell’ergastolo. Santo Padre, i mass media dicono che l’ergastolo in realtà non
esiste, ma allora, se non esiste, perché non lo tolgono?
Vogliamo scontare la nostra pena, ma chiediamo una speranza,
una sola, chiediamo un fine pena certo.
Santo Padre ci sentiamo abbandonati da tutti, dagli uomini,
dalla Chiesa e a volte persino da Dio, perché non si può essere contro la guerra, contro l’eutanasia, contro l’aborto e non essere contro la pena dell’ergastolo.
Santo Padre, non abbiamo voce: ci dia la Sua per fare sapere
che in Italia esiste l’ergastolo ostativo, una pena disumana che
non avrà mai termine.
Sicuri di sentire la sua voce, grazie!
Gli ergastolani in lotta per la vita
e la Comunità Papa Giovanni XXIII - Dicembre 2009
Si può aderire a questo appello online collegandosi al sito
www.apg23.org o scrivendo a
Comunità Papa Giovanni XXIII.
Via del Convento, 7 - 06031 Bevagna (PG)
Per informazioni Animatore generale: Mauro Cavicchioli
Telefono: +39 0187.850022
Cellulare: +39 348.2488124
Fax +39 0187.850578
e-mail: [email protected]
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Nessuno Tocchi Caino
’ultimo Congresso di Nessuno Tocchi Caino (per la precisione il quarto), si è svolto il 17 e 18 dicembre
2009 nella Casa di Reclusione di Padova,
ha riconfermato a suo segretario Sergio
D’Elia e a suo presidente
Il dibattito ha affrontato, non solo il tema
della pena di morte, contro cui questa associazione partecipata da anni attivamente, ma anche la questione carceraria italiana. Sintesi del dibattito è la mozione finale di cui riportiamo la parte riguardante le carceri italiane mettendo in evidenza la presa di posizione sia sul 41bis che
deve essere “modificato radicalmente”
che sull’ergastolo che deve essere “urgentemente” abrogato.
“Il Congresso di Nessuno tocchi Caino
denuncia la paralisi della amministrazione della giustizia in Italia a causa degli
undici milioni di processi pendenti e la
drammatica condizione delle carceri dove
i detenuti sono ormai stabilmente oltre
ventimila di più dei posti regolamentari e
L
dove, in base al monitoraggio quotidiano
effettuato da “Ristretti Orizzonti”, da gennaio a oggi sono morti “suicidi” 68 detenuti mentre altri 102 sono morti di “malattia”. Per far fronte a questa situazione
di illegalità, per la quale l’Italia subisce
decine di condanne ogni anno da parte
della giustizia europea per denegata giustizia e violazione di diritti umani fondamentali, Nessuno tocchi Caino sostiene la
proposta di Marco Pannella di una grande amnistia per liberare i tribunali dal pesante arretrato che li paralizza, un’amnistia legale, decisa dal parlamento, contro
l’amnistia clandestina e di classe detta
“prescrizione”, decisa di fatto dai magistrati e che cancella 200 mila reati ogni
anno. Sostiene altresì le proposte contenute nella Mozione depositata alla Camera dei Deputati da Rita Bernardini e dai
parlamentari Radicali e sostenuta da oltre
90 parlamentari di tutti gli schieramenti
politici volte a rafforzare l’applicazione
delle misure alternative alla detenzione
Il quotidiano Il manifesto e
l’associazione Antigone chiedono:
Carceri aperte ai giornalisti
“L’opinione pubblica ha diritto di conoscere quanto accade nei penitenziari italiani. Non esiste alcuna norma che
vieti espressamente alla stampa di visitare gli istituti carcerari. Ma, negli ultimi anni, l’amministrazione penitenziaria ha ristretto sempre più le possibilità di accesso. Il diritto all’informazione libera deve poter comprendere la visita dei luoghi di detenzione, nel rispetto della sicurezza
pubblica. Al ministro della Giustizia, che denuncia l’emergenza carceri, segnaliamo che esiste anche “un’emergenza informazione”, per questo chiediamo di cambiare regole e prassi autorizzando l’accesso ai giornalisti nelle sezioni delle carceri al fine di raccontare la quotidianità della vita reclusa, non solo gli eventi tragici o eccezionali.
Primi firmatari:
Rita Levi Montalcini, Stefano Rodotà, Valerio Onida,
Lucia Annunziata, Bianca Berlinguer, Rosaria Capacchione, Gian Antonio Stella.
Hanno successivamente aderito numerosi giornalisti, volontari, uomini di cultura, singoli cittadini e associazioni.
Vi è stata anche una risposta da parte del DAP.
Associzione Antigone
Via Principe Eugenio, 31 - 00185 Roma
Tel./Fax 06.44363191
e-mail: [email protected]
Mai dire mai
previste dalla cosiddetta legge «Gozzini»
e della detenzione domiciliare, a creare
istituti «a custodia attenuata» per tossicodipendenti, a rivedere il sistema delle misure di sicurezza a cui sono sottoposti gli
“internati” che rischiano il “carcere a
tempo indeterminato” e a modificare radicalmente l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario a cui sono sottoposti
i detenuti nel cosiddetto «carcere duro»
che sono esclusi per legge dalle misure
alternative e, in particolare, dalla liberazione condizionale dopo almeno 26 anni
di carcere per i condannati all’ergastolo,
pena evidentemente contraria ai principi
costituzionali di rieducazione e risocializzazione dei detenuti e di cui pertanto è urgente l’abolizione”.
Nessuno Tocchi Caino
Via di Torre Argentina, 76
00186 Roma
Tel. 06.68803848
e-mail: [email protected]
Germania: Cedu condanna la detenzione
a tempo indeterminato
Agi, 17 dicembre 2009
La Corte europea per i diritti umani ha condannato la Germania per l’applicazione della "Sicherungsverwahrung", la detenzione di sicurezza,
che consente a un giudice di prolungare a tempo indeterminato la detenzione di un condannato, anche dopo l’espiazione della pena, se il detenuto viene considerato pericoloso per la sicurezza pubblica.
I giudici di Strasburgo hanno accolto il ricorso di un detenuto di 52 anni, condannato nel 1986 a 5 anni di reclusione per tentato omicidio dal
tribunale di Marburg e da allora detenuto in base alla norma della detenzione di sicurezza, di durata massima pari a 10 anni, ma estesa retroattivamente a tempo indeterminato nel febbraio 2004 dalla Corte Costituzionale di Karlsruhe.
L’avvocato Bernhard Schroer, difensore del detenuto Reinhard M., ha
fatto valere davanti ai giudici di Strasburgo che "a distanza di anni dalla condanna, non si può prolungare la reclusione di un detenuto con un
ergastolo fatto rientrare dalla porticina di servizio". La Corte europea ha
accolto il ricorso ed ha condannato la Germania a versare al detenuto
50mila euro a titolo di riparazione del danno subito, sostenendo che non
si può mantenere in prigione una persona per un reato che non ha ancora commesso, solo in base al suo grado di pericolosità sociale.
Il legale di Reinhard M. ha chiesto l’immediata scarcerazione del suo assistito, anche se contro la sentenza di Strasburgo le parti possono presentare un ricorso entro tre mesi. Attualmente sono 70 i detenuti nelle
carceri tedesche che dopo aver scontato la pena comminata da un tribunale sono soggetti alla detenzione di sicurezza a tempo indeterminato.
Sul piano legale la Germania è tenuta a rispettare le decisioni della Corte europea, ma in ogni caso l’ultima parola sulla vicenda spetta al legislatore.
Riferimenti sentenza:
QUINTA SEZIONE - CASO DI M. V. GERMANIA (Application no.
19359/04) - SENTENZA STRASBURGO del 17 dicembre 2009
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Incontro della Federazione nazionale
dell’informazione dal e sul carcere
(Carcere di Padova 8 febbraio 2010)
rano presenti i seguenti giornali dal e sul carcere: Ristretti Orizzonti di Padova (che coordina la Federazione Nazionale), Voci di dentro (Chieti e Pescara), Carte Bollate (Bollate), Microcosmo (Verona), Uomini Liberi (Lodi),
Buona Condotta (Modena), Area di servizio (Genova), (Piacenza), Salute ingrata (Bollate) e il nostro Mai dire mai. Ognuno ha presentato i suoi progetti e le sue realizzazioni.
La giornata è stata aperta da un intervento di Luigi Ferrarella, giornalista di giudiziaria del Corriere della Sera, autore di
“Fine pena mai”, un libro che è un viaggio amaro e impietoso dentro alla giustizia italiana. Nel suo contributo significativo ha dato spunti importanti sul rapporto che chi fa informazione dal carcere può stabilire con i media, su come arrivare ai lettori "maldisposti" rispetto alle questioni della giustizia e
del carcere, attraverso la credibilità e
l’attendibilità dei dati e delle testimonianze, su come approfondire il lavoro di controinformazione attraverso lo
“smontaggio” di notizie riguardanti il
carcere e l’esecuzione delle pene.
Riportiamo dal comunicato stampa di
Ristretti Orizzonti. “Tre i temi fondamentali di cui si è trattato: 1) Informazione dal carcere, stampa locale, seminari di formazione per giornalisti.
2) Informazione dal carcere e politica. Le visite di Ferragosto delle carceri, i parlamentari coinvolti, l’importanza di tenere viva la loro attenzione
e di sviluppare e proporre loro possibili soluzioni per far fronte al sovraffollamento. 3) Informazione dal carcere e scuole.
Il punto sui progetti di sensibilizzazione e prevenzione che
coinvolgono carcere e scuole.
Per ciò che riguarda il primo punto, che è fondamentale in un
momento in cui l’informazione ha un peso notevole sulle scelte politiche riguardanti la sicurezza e le “emergenze” continue in questo ambito, Ristretti Orizzonti ha illustrato la sua
esperienza con l’Ordine dei Giornalisti del Veneto, con il quale ha, nello scorso ottobre, organizzato un Seminario di formazione per giornalisti e praticanti sui temi della giustizia e
dell’esecuzione penale, dove sono intervenuti come relatori i
Magistrati di Sorveglianza di Padova, un avvocato delle Camere penali, l’autore di una importante ricerca sulla recidiva
dell’indulto, e anche molti detenuti con le loro testimonianze.
La proposta, approvata da tutti i presenti, è quella di provare
a organizzare il prossimo ottobre, in accordo con gli Ordini
dei Giornalisti delle diverse Regioni, le Scuole di giornalismo,
le Facoltà di Scienze dell’informazione, un Seminario di formazione per giornalisti e praticanti, simile a quello realizzato
a Padova, nelle diverse carceri sede di redazioni delle riviste
più significative.
E
10
La seconda proposta approvata parte da un suggerimento di
Luigi Ferrarella, che invitava a riprendere una proposta di Rita Bernardini e dei parlamentari radicali relativa alla creazione di un’Anagrafe delle carceri. Si è deciso quindi, visto che
per ora questa proposta non è stata accolta dalle istituzioni,
laddove sono presenti i giornali, di creare una griglia comune
e poi raccogliere tutti i dati disponibili - presenze, attività, stato della sanità, misure alternative, ma anche qualità e prezzi
del sopravvitto e ogni altro piccolo e grande dettaglio sulla vita carceraria - per rendere il carcere sempre più trasparente, e
aggiornare periodicamente i dati in questione.
Per quel che riguarda il sovraffollamento, si è pensato di elaborare una piattaforma comune, riprendendo alcuni punti come la detenzione domiciliare per l’ultimo anno di pena e la messa alla prova, che
sono gli unici finora proposti che vanno nel senso di far uscire dalle carceri, e non di riempirle ulteriormente.
Le proposte verranno presentate, con
testimonianze di detenuti e riflessioni, dati e approfondimenti delle redazioni, in un inserto comune a più giornali, anche ai politici che hanno partecipato all’iniziativa del ferragosto
del 2009, entrando in carcere e dimostrando un interesse non occasionale
per le condizioni della detenzione.
Con loro si cercherà di trovare forme
stabili di collaborazione.
Un altro punto discusso approfonditamente riguarda la richiesta, avanzata
dal quotidiano Il Manifesto e dall’associazione Antigone, di
cambiare regole e prassi che riguardano la visita dei luoghi di
detenzione, autorizzando l’accesso ai giornalisti nelle sezioni
delle carceri al fine di raccontare la quotidianità della vita reclusa, non solo gli eventi tragici o eccezionali. Le redazioni
dei giornali dal carcere hanno deciso di sottoscrivere la richiesta, elaborando nel contempo alcune proposte proprie, una
specie di Carta della trasparenza delle carceri, che preveda tra
l’altro, anche per chi opera all’interno sui temi dell’informazione, un accesso più libero a dati e notizie.
Ultimo punto approvato è quello che riguarda i progetti di sensibilizzazione sul territorio che sono rivolti in particolare le
scuole: la proposta è di dedicare uno spazio del sito di Ristretti a tutti i progetti in cui carcere e detenuti diventano protagonisti di un lavoro di prevenzione, indirizzato soprattutto alle
giovani generazioni.
Ristretti Orizzonti
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia, 35 - 35138 Padova
Tel./Fax 049.8712059 - Cellulare 349.0788637
e-mail: [email protected]
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u questo tema, su cui organizzeremo una seconda giornata di studi nel prossimo ottobre, diamo rilievo in questo numero del giornale al dibattito che si è tenuto il 16 febbraio nella Sala Stampa del Senato che è stato
convocato da un chiaro documento sottoscritto da varie associazioni. Inoltre riportiamo integralmente tre articoli di quotidiani: due usciti proprio in occasione e a commento di questa iniziativa e uno invece che fu pubblicato a un mese dalla morte di Stefano Cucchi nel novembre 2009. E’ interessante notare come i tre giornalisti fanno riferimento ad aree politiche dell’informazione molto differenti tra di loro ma che le conclusioni sono simili. Gli
articoli sono apparsi su Liberazione, organo del partito della Rifondazione Comunista, su L’Avvenire, quotidiano
di ispirazione cattolica e sul sito di Farefuturo, Fondazione che ha il suo punto di riferimento in Gianfranco Fini,
presidente della Camera.
Riportiamo anche una nota dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere intitolata “11 detenuti suicidi da
inizio anno ma un solo killer: l’invivibilità delle carceri” sui primi due mesi del 2010. E’ di questi giorni (18 marzo) il rilievo dato dalla stampa sulle conclusioni a cui è giunta la Commissione parlamentare sulla morte di Stefano Cucchi: traumi al viso e alle vertebre “probabilmente inferti”, tradotto in italiano “pestaggio”, e poi incuria da
parte dei medici che hanno cercato di rianimare Stefano … tre ore dopo la sua morte e numerose irregolarità.
La tortura non riguarda solo i detenuti assassinati nelle carceri italiane, è, secondo noi, la normale situazione in
cui si trovano gli oltre 600 detenuti in 41 bis, è la normale vita degli ergastolani che non hanno un fine pena certo e che quindi devono “sperare” che un tribunale di sorveglianza gli restituisca la vita e nel caso degli ergastolani sottoposti al 4 bis devono attendere la morte in galera, è la normale vita della stragrande maggioranza delle
detenute e dei detenuti italiani sottoposti ad un sovraffollamento disumano e a continue illegalità e vessazioni.
In questi giorni la stampa riporta la notizia di Giuseppe Uva, morto a Varese, il 14 giugno 2008, dopo essere stato pestato dai Carabinieri. Ne riparleremo nel prossimo numero.
S
I f a m i g l i a r i d e i d e t e n u t i morti chiedono allo Stato
risposte “chiare e oneste”
roppi morti nelle carceri italiane: 1.579 solo negli ultimi 10 anni. Oltre 500 suicidi, altrettanti casi sui quali la
magistratura ha aperto un’inchiesta. Ma quando lo Stato sbaglia, quando non riesce a garantire la vita a persone detenute, dovrebbe almeno dare delle risposte chiare e oneste ai
loro famigliari.
Le Associazioni ed alcuni Parlamentari denunciano da tempo
il dramma delle troppe morti in carcere, ma adesso anche i famigliari dei detenuti hanno trovato il coraggio di darsi voce e
domani 16 Febbraio, alle ore 11.00, tengono una conferenza
stampa in Sala Stampa del Senato.
Finora erano stati “esclusi”, erano gli “ultimi” anche loro, ma
hanno cominciato a farsi sentire, anche grazie anche a una informazione giornalistica finalmente attenta, che ce li ha mostrati come sono, cioè “persone perbene”, persone “come noi”.
In tanti si sono fatti avanti per chiedere allo Stato risposte “chiare e oneste” sulla morte dei loro cari e saranno presenti alla conferenza stampa: Valentina Ascione, Rudra Bianzino, Clara
Blanco, Adriano Boccaletti, David Boccaletti, Rita Calore, Maria Ciuffi, Mario Comuzzi, Ilaria Cucchi, Antonietta Di Sarro,
Francesca Dragutinovic, Patrizia Favero, Rosa Federici, Ida
Frapporti, Martina La Penna, Angela Lescai, Bruno Martini,
Giorgio Naccari, Anna Petrillo, Roberto Poli, Daniele Sabiu,
Cristiano Scardella, Ezio Sobrero, Claudia Sterzi, Fabio Tittarelli, Laura Traviotto.
I figli, fratelli, padri, di queste persone sono entrati in carcere,
da vivi e sani, e ne sono usciti morti: cos’è successo mentre erano sotto la “custodia” dello Stato? hanno subito violenze? hanno avuto una malattia e non sono stati curati? Domande che loro da anni pongono, ma che non hanno avuto risposta o, più
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spesso, hanno avuto “risposte” che non hanno chiarito quasi
nulla.
La garanzia del diritto alla vita per chi è privato della libertà
passa anche attraverso le risposte che le istituzioni del nostro
Paese vorranno dare a questi cittadini. Infatti, quella che noi poniamo è una questione di cittadinanza, di rispetto dei diritti civili, più ancora che un richiamo alla trasparenza delle carceri,
e di quello che avviene al loro interno, che pure è importante,
in un momento in cui le condizioni di vita delle persone detenute sono davvero sempre meno rispettose di un altro diritto,
quello a non subire trattamenti disumani o degradanti. Ma non
solo, per i parenti dei detenuti morti in condizioni non chiarite
è una questione “d’onore”, è la possibilità di dare una morte rispettabile ai propri cari. Per “morte rispettabile” intendiamo il
poter rispondere in futuro in modo chiaro e univoco sulle cause e sulle modalità di quella morte.
È come se un parente chiedesse alle istituzioni “Cosa risponderò ai miei figli quando mi domanderanno come è morto quel
nostro famigliare in carcere?” e non avesse mai una risposta, e
fosse costretto a spiegare che una istituzione che non tutela il
diritto alla vita e alla salute dei propri cittadini in carcere è
un’istituzione che non tutela i diritti di tutti noi! Che non risponde perché non è capace di prendersi le proprie responsabilità, che non sa di avere una responsabilità.
Eppure le istituzioni della giustizia, proprio perché dovrebbero seguire le persone condannate in un loro percorso di assunzione di responsabilità rispetto al reato, e alle vittime di quel
reato, dovrebbero anche, per prime e con coraggio, rispondere
in modo responsabile a tutti i cittadini, e primi fra tutti a quei
famigliari che hanno perso un loro caro, morto “di carcere”.
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Il carcere che uccide e le vittime in cerca della politica
“I
l butano non spacca il naso, non spezza le dita...”. Maria
Eliantonio mostra le foto di Manuel, suo figlio di 22 anni
ucciso a Marassi. “Suicidato” dice la verità ufficiale ma
lei non ci può credere. Sarebbe uscito pochi giorni dopo e, poche
ore prima di crepare aveva scritto che lo riempivano di botte e psicofarmaci. Come Maria, una piccola folla di donne e uomini ha
potuto raccontare - ieri alla sala stampa del Senato - la propria vicenda di parenti di vittime di malocarcere, cattiva giustizia e ferocia di forze dell’ordine o di ospedali psichiatrici. Ognuno aveva
con sé foto, faldoni, carteggi.
E un dolore raccontato mille volte per anni. Un massacro come
quello che ha subito suo figlio Riccardo, Duilio Rasman , 84 anni, le aveva viste solo in tempo di guerra: sei poliziotti gli sono saltati addosso e quel ragazzo tornato “strano” dal militare s’è schiantato. Cristiano Scardella lo racconta da 25 anni il “suicidio” di suo
fratello Aldo, finito dentro innocente e mai più uscito. Nessuno ha
mai chiesto scusa.
La madre di Riccardo Boccaletti spiega la morte lenta, “annunciata” del suo ragazzo in galera a Velletri, disidratato e rimpinzato di
psicofarmaci. Anche la madre di Katiuscia Favero non crede al
“suicidio” di sua figlia, 12 giorni prima di uscire dall’Opg di Castiglione delle Stiviere: aveva la tuta sporca d’erba ma le suole
asciutte e non poteva essersi impiccata a una rete da pollaio.
Qualcuno ha fatto sparire il certificato ginecologico che provava
gli abusi nella struttura. Anche la sorella di Stefano Frapporti non
riesce a credere che, dopo due ore in mano ai carabinieri suo fra-
tello si sia ucciso col laccio di una tuta spuntata chissà da dove.
Rita e Ilaria Cucchi , madre e sorella di Stefano annunciano l’ultimo mistero: dov’è la tac? Perché quattro mesi dopo Stefano non
può riposare in pace? La madre di Marcello Lonzi ha mandato una
lettera per ricordare la sua lotta per riaprire l’inchiesta sulla morte alle Sughere di suo figlio.
Quando lo Stato sbaglia, uccide. Irene Testa, che ha convocato la
piccola folla dolente, è la segretaria dell’associazione radicale “Il
detenuto ignoto”. Chiede che si faccia luce su questi e altri casi
magari con una commissione ad hoc del Senato e si unisce al digiuno della deputata Bernardini che da due settimane chiede che
si apra un serio dibattito sul carcere.
Dov’è finito lo stuolo di deputati bipartisan che - due mesi fa - si
facevano belli intorno alle foto di Cucchi massacrato? L’assenza
di un’autentica sinistra parlamentare (e di un movimento di massa fuori) si avverte ma non c’è nessuno a evocarla. “La strada sarà lunga”, dice Emma Bonino alla platea di familiari coraggiosi,
quasi soli e disperati.
Poche ore dopo arriva la notizia di un tentato suicidio al un venticinquenne tunisino che dalla fine di gennaio si trovava recluso al
Cie di Ponte Galeria: è montato in cima al cancello della gabbia e
poi si è gettato al suolo. Aveva già tentato il suicidio venerdì. Succede due volte al giorno nelle carceri italiane e le morti violente
sono 4 volte più che negli Usa.
Checchino Antonini
Liberazione, 18 febbraio 2010
Protestano parenti dei detenuti morti; diteci la verità
o Stato me lo ha portato via. Lo Stato me lo ha
ridato morto. Spero che dicano tutta la verità. Non
ce l’abbiamo con le istituzioni o con l’Arma, ma
con una manciata di persone, in camice o in divisa, pagate
dallo Stato. Vogliamo che siano giudicati da semplici cittadini”. La signora Rita Cucchi non ama esporsi. A chiedere
giustizia per il figlio Stefano finora s’era fatta coraggiosamente avanti la sorella Ilaria. Ma stavolta la donna non s’è
risparmiata e ha voluto dire la sua sulla morte del figlio. Uno
scandalo che sta squarciando la cortina di silenzi e omissioni su tante morti incomprensibili nelle carceri italiane.
“L
L’Osservatorio permanente sulle morti in carcere,
voluto e guidato da Ristretti Orizzonti, continua a
svolgere un lavoro importantissimo. Dell’Osservatorio fanno parte i seguenti soggetti: Radicali Italiani, Associazione “Il Detenuto Ignoto”, Associazione “Antigone”, Associazione “A Buon Diritto”,
“Radiocarcere”, “Ristretti Orizzonti”.
Da parte nostra, come Associazione Liberarsi, chiederemo all’Osservatorio di farne parte perché condividiamo il suo impegno e perché potremmo appoggiarlo tramite i numerosi detenuti e detenute a
noi associati.
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Con lei, stavolta, ci sono altre madri, padri, fratelli dei tanti
Cucchi scomparsi in qualche cella in circostanze ancora da
chiarire. Come Manuel Eliantonio, Marcello Lonzi, Aldo
Scardella, Riccardo Boccaletti e tanti altri nomi presto dimenticati. Dal 1990 a oggi sono stati 1.027 i suicidi, 14.840 i tentati suicidi, 98.342 gli atti di autolesionismo. E il 2009 è stato l’anno record con 72 suicidi pari a 11,64 ogni 10 mila detenuti. Il tasso in assoluto più alto è stato nel 2001 del 12,52,
pari a 69 suicidi. A chiedere verità, giustizia e un carcere diverso sono i promotori dell’incontro a Senato, l’associazione
“Il detenuto ignoto” e il centro studi “Ristretti orizzonti”.
Qualcosa si può fare subito. Ignazio Marino, presidente pd
della Commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale, annuncia la conclusione della prima stesura dei risultati
dell’indagine parlamentare su Cucchi. E promette modifiche
legislative: “I medici che curano i detenuti - dice Marino devono comportarsi come in qualsiasi altra circostanza: chiamare i familiari delle persone che stano male”: Così non è
stato per Stefano Cucchi: “Se ci sono regolamenti che non
consentono il contatto dei detenuti che stanno male con i loro familiari, sono sbagliati e vanno cambiati. Questo posso
prometterlo. Se una persona si trova in carcere e si sente male deve avere una pronta assistenza”.
Come è successo, denunciano le famiglie dei detenuti scomparsi in circostanze poco chiare, per i loro congiunti. Manuel
Eliantonio, per esempio. “Manuel è morto nel 2008 a 22 anni nel carcere di Marassi - dice la madre Maria - ufficialmente perché era un tossico e aveva inalato gas butano”.
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Nell’ultima lettera, il giorno prima della sua morte, non trapelano propositi suicidi. Dice cose diverse: “Mi ammazzano
di botte almeno una volta a settimana... mi riempiono di psicofarmaci... ti voglio bene, stai in forma, scrivimi”. Le foto
della salma lo mostrano gonfio e col naso rotto. Terribile anche la storia di Aldo Scardella, 24 anni, suicida il 2 luglio 1986
al Buoncammino di Cagliari.
Era stato arrestato nel dicembre 1985, accusato di una rapina
con morto nel suo quartiere sulla base di elementi inconsistenti: è alto un metro e settanta come uno dei rapinatori, il passamontagna viene abbandonato vicino casa sua. Lo arrestano
impedendogli di avvertire i genitori che lo apprenderanno dalla tivù. Poi finisce in isolamento. “Per quattro mesi gli è stato negato il contatto col suo legale - dice ora l’avvocato Rosa Federici - e l’autopsia rivela la presenza di metadone, ma
nessuno gliel’ha mai prescritto”. Dieci anni dopo vengono arrestati i veri colpevoli.
A 25 anni da quei fatti la famiglia aspetta ancora la proclamazione postuma d’innocenza e la verità sul suicidio ma l’inchiesta rischia di essere di nuovo archiviata. Poi c’è Marcello Lon-
zi, 29 anni, che muore l’11 luglio 2003 nel carcere di Livorno. La versione ufficiale è: collasso cardiaco, dopo essere caduto battendo la testa. Ma la madre non ci crede: l’autopsia
sulla salma parla di otto costole rotte e due fori nel cranio.
Riccardo Boccaletti, 38 anni, viene recluso a Velletri, nel
2007, in attesa di giudizio per reati di droga. Accusa inappetenza, vomito, astenia, diventa anoressico, perde 30 chili in
pochi mesi.
Ma non scattano gli interventi specialistici adeguati alla gravità del caso. Muore il 24 luglio 2007. Il caso Cucchi è dunque solo l’ultimo. “Stefano non può riposare in pace - dice la
sorella Ilaria - perché ancora non ci ridanno il suo corpo. Il
dolore per la sua riesumazione è stato inutile perché siano ancora in attesa della Tac senza la quale i nostri medici non sono in grado di stabilire ciò che da sempre sosteniamo, che è
morto per le percosse ricevute. Affrontare questa storia è un
dolore, ma fa male soprattutto dover combattere per avere giustizia, che dovrebbe essere doveroso in uno Stato di diritto”.
Luca Liverani
L’Avvenire, 17 febbraio 2010
Un riconoscimento alla memoria di Cucchi,
per sconfiggere un tabù
on c’è giustizia senza verità:
Stefano ce l’ha insegnato.
La storia di Stefano Cucchi – a un mese dalla sua
morte – ha ancora molto da insegnare. E non solo perché quelle immagini del suo corpo straziato continuano a tormentare
chi una coscienza la possiede. Ma anche in quanto tutto ciò
che è emerso ha aperto un dibattito senza precedenti su come
sia possibile che, in uno Stato di diritto, un uomo entri in carcere con le proprie gambe e dopo qualche giorno ne esca con
le ossa rotte. E tutto questo in Italia, la patria di Cesare Beccaria. Le indagini sulla sua scomparsa sono ancora in corso.
E ogni giorno nuovi particolari agghiaccianti mostrano i contorni di una vicenda drammatica che ha, per il momento, solo una certezza: un ragazzo di trentun’anni non c’è più.
Però, al di là dei risvolti giudiziari, la vicenda del giovane
romano ha aperto uno squarcio culturale importante. Intanto,
di uno Stato che non si autoassolve più in maniera preventiva. Certo, non è facile sfondare il muro di omertà che si respira all’interno di alcuni settori delle forze dell’ordine, delle carceri e dei tribunali, ma comunque le indagini stanno
continuando, e in tutte le direzioni. Lo stesso ministro della
Giustizia ha esortato che tutto si svolga con celerità, così come ampi settori dei sindacati delle forze dell’ordine hanno
chiesto che si faccia giustizia senza alcuna remora né retorica sulle poche “mele marce”. Ma la storia di Stefano ha permesso anche alla politica di interrogarsi, in maniera non strumentale, sulla necessità di una legislazione più attenta a tutto quello che accade nel momento in cui un cittadino viene
arrestato. E la politica lo ha fatto, fortunatamente, in maniera trasversale con un comitato composto da politici (veritapercucchi.altervista.org) che intendono vigilare e sostenere
gli inquirenti nelle indagini.
Stefano allora è diventato un eroe “di fatto”, potremmo dire.
Un eroe suo malgrado, come tanti in un’epoca in cui le guer-
N
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re non si fanno più ma si subiscono. Un eroe insieme e grazie alla sua famiglia che con coraggio e determinazione ha
portato davanti a tutti l’evidenza di una storia dai tratti parossistici. Una storia paradigmatica, però, che preannuncia
forse un cambio di registro non solo nel mondo delle carceri ma anche nell’approccio della società verso alcune categorie che troppo sbrigativamente vengono derubricate come
“emarginate”. Vuoi che siano ragazzi con problemi connessi
alla droga, o con problemi di violenza o immigrati: sempre
“persone” sono e da tali devono essere trattate. Stefano, insomma, ha costretto tutti a fare i conti con i limiti che uno
Stato occidentale deve porsi nella gestione dell’ordine pubblico. Che il debole di suo, come ha detto il sacerdote durante la messa del trigesimo, non può subire anche la “forza” delle istituzioni: «Che cosa significano – ha spiegato nell’omelia - quei segni sul suo corpo? Abbiamo bisogno di sapere. La sua memoria esce dal privato e diventa un appello
per il rispetto della dignità dell’uomo, per il rispetto dei diritti umani anche di coloro che si trovano in stato di detenzione».
Come si può vedere Stefano ha dato tanto, non solo alla sua
famiglia, ma anche al dibattito su un argomento quasi tabù
nel paese. E cosa può fare adesso la società tutta per lui?
Giustizia, prima di tutto. Ma ecco che l’idea di un riconoscimento alla memoria per Stefano, infine, potrebbe essere un
segnale ufficiale che lo Stato dà a un suo cittadino che ha
avuto la sfortuna di imbattersi in esecutori vigliacchi di una
legge che non esiste. Un riconoscimento alla memoria, dunque, perché da oggi tutto il paese non potrà non avercene una
ricordando quello che ha subito quel povero ragazzo. Proprio
da quello Stato che doveva proteggerlo. Non solo giudicarlo.
Antonio Rapisarda
Dal sito Farefuturo - 24 novembre 2009
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Osservatorio permanente sulle morti in carcere
Undici detenuti suicidi da inizio anno ma un solo killer:
l’invisibilità nelle carceri
Il sovraffollamento e la mancanza di attività fuori dalla cella triplicano la frequenza
dei suicidi: è il risultato di uno studio sulle
11 carceri teatro delle ultime morti.
Con il suicidio avvenuto ieri nel carcere di
Vibo Valentia salgono a 11 i detenuti che si
sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. Erano in prevalenza persone giovani (6 con meno di 30 anni) e in carcere per reati non gravi, alcuni appena arrestati ed altri prossimi
alla scarcerazione (solo in 3 casi si prospettavano detenzioni lunghe), 8 italiani e 3
stranieri.
Questi suicidi non sono quindi legati alla
disperazione di chi sa di dover passare molti anni in carcere, ma piuttosto all’angoscia
di un “presente” che spesso significa sovraffollamento pauroso, assenza di attività trattamentali, negazione di ogni dignità umana.
Vincenzo Balsamo, suicida a Fermo martedì scorso, prima di morire aveva presentato
un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo contro il sovraffollamento del carcere dove era ristretto. L’Associazione Antigone si è fatta tramite della
sua istanza e di altre 1.200 identiche: tutti
citano in giudizio lo Stato italiano per la
violazione dell’art. 3 della Convenzione dei
Diritti dell’Uomo, che proibisce di sottoporre i detenuti a “trattamenti inumani e degradanti”. Ma anche altre Associazioni ed i Radicali si stanno facendo carico dell’invio dei
ricorsi alla CEDU, che oramai si contano a
migliaia.
Cosa accadrà quando la Corte di Strasburgo emetterà migliaia di sentenze, inevitabilmente di condanna, nei confronti dell’Italia?
Il verdetto sul caso-pilota Sulejmanovic c.
Italia (n° 22635/03), conclusosi nel luglio
2009, non lascia scampo: un detenuto deve
avere a disposizione almeno 3,5 mq di spazio e deve poter trascorrere fuori dalla cella almeno 6 ore al giorno. In caso contrario
è vittima di “trattamento inumano e degradante” e ha diritto a un risarcimento economico per il danno subito.
Oggi quasi nessun carcere italiano rispetta i
criteri minimi stabiliti dall’art. 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo. Nelle celle
di 6 mq ci sono 3 detenuti, in quelle da 12
mq anche 10 detenuti.
Le “ore d’aria” generalmente sono 4 al giorno (ma negli istituti più sovraffollati bisogna fare i turni anche per i cortili dei passeggi, così si riducono a 2, o anche meno)…
mentre la Convenzione dei Diritti dell’Uomo stabilisce in 6 ore il tempo minimo da
concedere fuori dalla cella!
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Sovraffollamento e suicidi
Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, in collaborazione con il Volontariato, sta mettendo a punto un “piano” per
la prevenzione dei suicidi che contiene misure volte a migliorare - per quanto possibile nell’attuale stato di “emergenza” - le
condizioni di vita dei detenuti.
Ma certamente non sarà possibile risolvere,
almeno in tempi brevi, la “questione” del
sovraffollamento, maggiore responsabile
dell’invivibilità del carcere.
Confrontando il tasso di sovraffollamento
delle 11 carceri dove sono avvenuti i suicidi di quest’anno con il numero totale dei
suicidi registrativi negli ultimi cinque anni
(vedi tabella sotto) è emerso che la frequenza dei suicidi arriva a triplicare nelle condizioni di maggiore affollamento, ma anche di
particolare fatiscenza delle celle e assenza
di attività trattamentali.
Il “primato negativo” spetta al Carcere di
Cagliari, con 506 detenuti (affollamento al
146%) e 11 suicidi in 5 anni, con la frequenza di 1 suicidio ogni 46 detenuti. A San Vittore, con 1.127 detenuti (affollamento al
242%) e 13 suicidi in 5 anni, la frequenza è
di 1 suicidio ogni 86 detenuti; quindi l’affollamento è quasi doppio, ma ci si suicida
la metà!
Per capirne di più su questo apparente paradosso basta leggere alcuni passaggi riguardanti il carcere di Cagliari tratti dal
“Rapporto sulle carceri” dell’Associazione
Antigone:
“La struttura edilizia è fatiscente e inadeguata. La manutenzione è occasionale e ri-
sente dei pochi finanziamenti disponibili…”. “Fuori dalla cella solo le quattro ore
d’aria. Spazi di socialità ridotti, quasi nulli. L’aria e la socialità goduti da tutti i detenuti con molte limitazioni per carenza di
spazi…”. “Le attività culturali e ricreative
sono limitatissime per mancanza di spazi
così non esistono attività sportive per totale carenza di spazi…”. “Nessun progetto di
reinserimento viene preparato. I trasferimenti vengono comunicati appena prima e
di solito per motivi disciplinari…”.
Sulmona, che ha la triste nomea di “carcere dei suicidi”, si colloca al secondo posto:
con 481 detenuti, affollamento al 159% e 6
suicidi negli ultimi 5 anni registra una frequenza di un suicidio ogni 80 detenuti.
Il carcere meno affollato è Spoleto: 565 detenuti e affollamento al 124%; in 5 anni vi
sono avvenuti 5 suicidi, 1 suicidio ogni 113
detenuti (la metà di San Vittore e 1/3 del
Buoncammino di Cagliari).
Il carcere con la minore frequenza di suicidi è Verona, nonostante un affollamento
del 162% (956 detenuti e 3 suicidi in 5 anni, pari alla frequenza di 1 suicidio ogni
318 detenuti). Questo risultato positivo è
probabilmente in relazione con le numerose attività lavorative, culturali e sportive
che vi si svolgono e che consentono ai detenuti di trascorrere parte della giornata
fuori dalla cella.
Infine le carceri di Fermo e di Altamura (1
sola morte in cinque anni per ciascuna) presentano un tasso di suicidi molto elevato,
ma non indicativo, in quanto rapportato a un
numero limitato di detenuti.
Rapporto tra affollamento delle carceri e suicidi
Capienza
prevista
Detenuti presenti
al 18-02-2010
Vibo Valentia
256
411
160%
3 1 suicidio per 137 detenuti
Padova Casa Recl.
439
808
184%
5 1 suicidio per 161 detenuti
Fermo
36
68
188%
1 1 suicidio per 68 detenuti
Brescia
206
509
247%
3 1 suicidio per 169 detenuti
Spoleto
457
565
124%
5 1 suicidio per 113 detenuti
Milano San Vittore
712
1,127
242%
13 1 suicidio per 86 detenuti
Massa Carrara
185
238
128%
3 1 suicidio per 79 detenuti
Sulmona (AQ)
301
481
159%
6 1 suicidio per 80 detenuti
Verona
589
956
162%
3 1 suicidio per 318 detenuti
Cagliari
345
506
146%
11 1 suicidio per 46 detenuti
52
84
161%
1 1 suicidio per 84 detenuti
Carcere
Altamura (BA)
Tasso
Totale suicidi
Rapporto tra detenuti
affollamento in 5 anni
presenti e suicidi (5anni)
Per l’Osservatorio, Francesco Morelli
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- OSSERVATORIO SUL 41 BIS - OSSERVATORIO SUL 41 BIS obbiamo ringraziare i numerosi detenuti in 41 bis che ci stanno aiutando inviandoci materiali da pubblicare e notizie
che noi utilizziamo in questa parte di “Mai dire mai” e che presto collocheremo anche nel sito www.informacarcere.
Con alcune sezioni i contatti sono quasi impossibili, ma insisteremo e cercheremo di risolvere i problemi che, da
quello che capiamo, derivano da un comportamento non chiaro (illegale?) delle direzioni di quelle carceri.
Dopo aver visitato nel 2009 con Christian De Vito la sezione a 41 bis di Tolmezzo, sono stato il 4 marzo a Marino del Tronto – Ascoli Piceno, come accompagnatore del consigliere regionale delle Marche di Rifondazione Comunista Giuliano Brandoni. Attualmente i detenuti delle due sezioni a 41 bis sono 44 ed esiste inoltre una sezione riservata che ha due detenuti.
La direttrice dr.ssa Lucia Difeliceantonio ha risposto positivamente alla richiesta che il nostro giornale fosse dato in una copia personale ai 46 detenuti dopo essere stato, ovviamente, sottoposto a censura. Ci dispiace che per motivi di tempo abbiamo solo potuto incontrare 22 reclusi di una sezione e uno dei detenuti della sezione ad area riservata, dato che Leoluca Bagarella era impegnato in videoconferenza.
Importante è la presa di posizione della Camera Penale di Roma (di cui riportiamo l’intero comunicato stampa) con cui cercheremo un serio contatto per portare avanti insieme l’Osservatorio sul 41 bis.
In questo numero riportiamo scritti di: Antonio Piromalli (Tolmezzo), Massimiliano Bello (Spoleto), Salvatore Cappello (Viterbo), Salvatore Ritorto (Tolmezzo), Pasqualino Besaldo (Ascoli Piceno) e Giuseppe D’Agostino (Novara).
Ai nostri lettori e ai detenuti che attualmente subiscono il regime del 41 bis diciamo che faremo di tutto per proseguire ad
informare su questo regime di tortura e che contiamo molto sugli scritti che ci arriveranno dai reclusi in queste sezioni.
Giuliano Capecchi – Associazione Liberarsi
D
DAL CARCERE
DI TOLMEZZO Sezione 41 bis
Caro Giuliano,
ho letto il giornale di dicembre 2009 e mi è piaciuto molto,
ognuno scrive ciò che pensa con la giusta determinazione e soprattutto con la forza della verità. Se ti fa piacere voglio scrivere anch’io ciò che penso.
Ebbene in questo ultimo anno appena trascorso ho maturato la
convinzione che il 41 bis abbia, oltre che una funzione (principalmente) afflittiva, un’altra secondaria, ma non meno importante, di “gabinetto psichiatrico”, di laboratorio sperimentale
per il condizionamento comportamentale del detenuto. Chi vive all’interno del 41 bis non se ne accorge nemmeno; è un sistema fatto di gesti che si ripetono ogni giorno allo stesso modo. Penso a quando debbono perquisire la tau cella, vieni fatto
uscire, perquisito, parcheggiato in una stanza vuota, e quando
finiscono col controllo della tua cella, ti riperquisiscono e ti ci
rimettono dentro. Vai a fare l’ora d’aria, vieni perquisito all’andata e vieni ricontrollato al ritorno. Vai dall’avvocato, perquisizione sia prima che dopo. Ti arriva un pacco da casa e devi
andare al casellario a ritirarlo, perquisito e riperquisito. Devi
andare in doccia, stessa cosa. Vai a visita medica, dal cappellano, dall’educatore, vai in videoconferenza, è sempre la stessa cosa. Col passare del tempo l’abitudine vince dentro la tua
mente
Senza che tu abbia fatto battaglia alcuna. Basta che ti avvicini
a una guardia e ti viene di istinto allargare le braccia per farti
perquisire. E per quanto possa apparire bizzarro, c’è anche un
altro lato della medaglia costituito dal fatto che gli stessi effetti di questo meccanismo perpetuo si riscontrano anche sulle
guardie. Basta che ti avvicini a uno di loro e allarghi un po’ le
braccia che subito questo per istinto ti perquisirà, senza stare a
pensare che magari non è il caso. Come non ricordare la scena
del film “Non ci resta che piangere” quando Benigni e Troisi
urlano alla guardia “uhe”, e quello subito”Chi siete, che cosa
volete, un fiorino”. Ecco, la guardia è uguale.
Hai modfo pure di renderti conto, stando al 41 bis, degli effetti che il Procuratore del Tribunale di Sorveglianza causa alla psiche di alcuni. Ebbene, succede che ogni anno il Ministero ti manda il decreto di rinnovo per un altro anno di 41 bis.
Tu hai un’unica possibilità: appellarti al Magistrato di Sorve-
Mai dire mai
glianza. E allora il giorno dell’udienza ti presenti con una piccola speranza interiore e con un atteggiamento disilluso ma
distinto. Il giudice ascolta tutti in silenzio. Il Procuratore ti accusa di fare il colloquio ogni mese, dice che intrattieni corrispondenza epistolare con altri detenuti di altre carceri, e peggio ancora col mondo esterno. Dice che ti permetti di spendere duecento/trecento euro al mese. Poi parla il tuo avvocato.
L’udienza chiude e ti risbattono al fresco. Tutto questo ambaraban che si rpete ogni anno, ha due effetti: il primo “la speranza” è quello che dura circa un mese (giusto il tempo che il
giudice impiegherà per rigettare il ricorso), il secondo invece
è un effetto che ha del satanico, ossia insinua nella tua mente l’idea che se hai un solo colloquio all’anno, se scrivi soltanto ai famigliari, se spendi non più di 50 euro al mese, forse il prossimo anno il Procuratore darà parere favorevole per
l’accoglimento del tuo ricorso. E allora magari cominci a raderti più volte usando lo stesso rasoio, e non parlo di tre o
quattro volte. Magarui ti metti a mangiare le verdure “al naturale” (senza comprare il sale e l’olio). Cominci a pensare
che in fondo l’acqua del rubinetto ha un tanfo sopportabile, e
poi i tuoi reni non temono nulla. Eccetere, eccetera, tante piccole grandi privazioni. L’anno prossimo il Procuratore avrò
poco da dire su di te. L’anno prossimo ti aggiudicherai
l’udienza, e il giudice capirà che fai una vita grama. Caro Giuliano, non posso dire di aver visto tanti cristiani che si sono
ridotti in questo modo, ma qualcuno sì,qualcuno l’ho visto, e
non ho avuto il coraggio di dirgli niente, ho applicato la prima regola dei certosini: il silenzio. Ma non ce l’ho con queste persone, anzi loro non si accorgono nemmeno delle metamorfosi che hanno subito. Io penso al Procuratore che li fa diventare così. Penso che nessuno mai gli ha detto di smetterla.
Nessuno mai gli ha fatto notare che se non c’è proprio nulla
da ridire a quel detenuto, bisogna avere il coraggio di ammetterlo, anziché massacragli quelle’esistenza già di per sé amara.
Oggi ho letto il tuo giornale, e grazie al cielo leggo articoli, lettere, brani sanguigni, pieni di grinta, e capisco che chi li ha
scritti ha ancora un sacco di vitalità. E allora dico: “Avanti così, io sono dei vostri”.
Ti saluto caramente
Antonio Piromalli
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- OSSERVATORIO SUL 41 BIS - OSSERVATORIO SUL 41 BIS DAL CARCERE
DI SPOLETO Sezione 41 bis
Ho deciso di scrivere per dare un ulteriore contributo e per
far conoscere fino in fondo la realtà che vive un detenuto in
regime 41 bis, oltre a fornire anche la mia situazione giudiziaria.
Mi chiamo Massimiliano Bello, ho 37 anni, sono separato e
padre di un meraviglioso bambino di 9 anni. Ho una condanna di ergastolo con sentenza della cassazione nel 2007. Ho
già trascorso dieci anni in carcere, di cui 9 in 41 bis; ogni
qualvolta mi veniva rinnovato il decreto, ho sempre provato
a fare ricorso, ma veniva rigettato continuamente da parte
dell’organo giudicante che forniva regolarmente le stesse motivazioni. Con l’affermazione “stesse motivazioni”intendo dire che tutti i rigetti sono delle copie di motivazioni ripetute
negli anni in cui vedi modificato solamente la data e dove
viene dichiarata la convinzione circa la recidiva condotta criminale della persona. In questi anni non mi è stata contestata alcuna violazione rispetto ai reati per cui sono stato condannato, anzi, diversi collaboratori di giustizia hanno dichiarato la mia estromissione dall’organizzazione criminale; nonostante ciò, mi ritrovo ancora oggi a scontare la mia pena
di “fine mai” senza che mi sia data l’opportunità di un reinserimento graduale e senza la possibilità di far nuovamente
nascere quella speranza perduta.
Come si può pensare di essere rieducati, come prevede l’art.
27 della nostra costituzione, con una pena da scontare sotto
ad un regime crudele, quale il 41 bis che, dopo la nuova legge (N°94, art. 25 del 15-07-09), si intensifica ancora di più
una pena già aggravata da condizioni efferate? Non voglio
soffermarmi sulla situazione delle carceri in genere, cosa che
è già nota a molti, come il sovraffollamento, la mancanza di
un sostegno educativo e psicologico dei detenuti, etc., ma voglio sottolineare le condizioni di “quelli del 41 bis” (così si
chiamano) che devono quotidianamente affrontare una pena
nella pena. Ci sarebbero parecchi punti da elencare per rendere più chiara l’idea di cosa sia realmente il 41 bis, ma mi
voglio soffermare soltanto su alcuni aspetti che penso siano
quelli più significativi. I colloqui con i propri famigliari sono uno dei pochi momenti in cui il detenuto si sente vivo e
non dimenticato. “Noi del 41 bis” abbiamo la possibilità di
fare un unico colloquio al mese, per giunta solo di un’ora,
durante il quale non possiamo stringere i nostri famigliari a
causa del vetro che ci separa; solamente se hai dei figli piccoli (al di sotto dei 12 anni) puoi abbracciarli per dieci minuti. Così, un’occasione che dovrebbe essere un momento di
gioia si trasforma in tristezza perché, per persone che come
me non possono fare colloqui tutti i mesi, non possono dedicare più tempo al proprio figlio.
Come vi ho detto, io ho un figlio piccolo che rappresenta per
me l’unico e vero motivo per vivere, è la mia forza per andare avanti durante questa pena che non avrà fine. Quando
questa sofferenza influenza la vita di mio figlio, senza che
ne abbia colpe, mi sento umiliato e, ancora di più, se penso
che mio figlio deve essere seguito da uno psicologo perché
non si spiega il motivo per cui può abbracciare il suo papà
solamente dieci minuti al mese.
Non contenti di questo, la nuova legge sul 41 bis ci ha levato la telefonata mensile di cui potevamo usufruire oltre al colloquio; considerate che sia le telefonate, sia i colloqui sono
sempre registrati.
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Un ulteriore punto di questa nuova legge, che si contraddistingue per la sua violazione ai diritti del detenuto, è la riduzione delle ore da poter trascorrere all’aria aperta o in luoghi adibiti alla socialità. Premetto che all’interno delle sezioni hanno formato dei gruppi di persone non superiori a quattro e, talvolta, può anche essere un numero inferiore. Ci viene vietato il passaggio di qualsiasi cosa fra detenuti dello
stesso gruppo, come lo scambio di un pacco di caffè o di una
semplice caramella. Abbiamo una sola ora d’aria che parte
subito nel momento in cui esci dalla cella per andare al passeggio, spazi, questi, che a volte sono talmente ristretti da
non poter fare nemmeno una corsa. Un’altra ora si trascorre
in una saletta poco più grande della cella che offre una ciclette ed una panca per chi vuole fare attività sportiva, ma
non esistono altri attrezzi o pesi come, al contrario, dovrebbe prevedere la palestra per i detenuti; ci sono le carte da gioco perché è vietato tenerle all’interno della propria cella (anche un semplice “solitario”potrebbe essere pericoloso). Quindi, nelle restanti ventidue ore della giornata siamo sepolti vivi dentro una cella dove l’unica compagnia è la televisione
o, al massimo, la lettura di un libro. Ci hanno privato anche
la possibilità di cucinare riducendo notevolmente anche il
numero dei prodotti che potevamo comprare come sopravitto; ci nutriamo del vitto che ci viene distribuito (uso il verbo “nutriti” perché ci danno il minimo indispensabile per la
sopravvivenza). Il mangiare è molto scadente e non varia
molto; facendo un esempio, a pranzo distribuiscono pasta al
sugo o all’olio e a cena pasta in brodo ed è così tutti i giorni. Da parecchio tempo, l’amministrazione non ci consegnano la fornitura mensile per la pulizia delle stanze e siamo
quindi costretti ad acquistare personalmente i prodotti. Se
poi parliamo dell’assistenza sanitaria, è meglio augurarsi di
non averne mai bisogno perché non esistono medici specialisti, puoi solo contare sul medico che viene in sezione che
è solo pronto a darti dei farmaci per tamponare il problema.
Se il dirigente sanitario ti autorizza ad usufruire di un prodotto farmaceutico, sono poi gli organi interni che te lo vietano perché questi prodotti non sono elencati nel modello 72
della spesa. E non parliamo di quelle figure che dovrebbero
darti sostegno morale e psicologico all’interno del carcere,
come lo psicologo, il prete ed altri, e che risultano irraggiungibili. Siamo considerati irrecuperabili e senz’anima.
Potrei continuare descrivendo molte altre situazioni, ma basta dire che la continua pena psicologica a cui siamo sottoposti (controlli, perquisizioni, battiture, etc.) e la pena che
dobbiamo scontare, che già ci priva della libertà, non dovrebbero ledere la dignità dell’uomo.
Lascio a voi le conclusioni per definire il 41 bis e per pensare a quanto uno stato ipocrita come il nostro si vanta di
promuovere l’abolizione della pena d morte negli altri paesi
e non guarda la tortura che infligge ogni giorno prima di condurti alla morte con l’ergastolo.
Infine, vi comunico che sono in sciopero della fame per protestare contro un abuso di potere: sono stato autorizzato dal
dentista e da altri medici ad acquistare un prodotto per l’igiene e il direttore non me l’ha concesso; per questo sono in
sciopero da cinque giorni e non lo interromperò se non sarò
accolto (sono dimagrito 7 kg).
Massimiliano Bello
06 dicembre 2009
Mai dire mai
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- OSSERVATORIO SUL 41 BIS - OSSERVATORIO SUL 41 BIS DAL CARCERE
DI VITERBO Sezione 41 bis
… sono da 18 anni in 41 bis. Tempo fa avevo scritto una lettera quando si impiccò un detenuto al 41 bis, ma poi non ve
la invia, lo faccio oggi sperando che la inserirete nel vostro
sito. …
La Costituzione per noi al 41 bis non esiste. Se chiudono
Guantanamo perché non lo prende in affitto lo Stato italiano
e ci manda noi del 41 bis?
… Ho quattro nipoti, uno ha 12 anni, uno 9, uno 6 e il più
piccolo 3. Non li ho mai toccati, non posso comprare per loro un giocattolo, perché i giocattoli si possono comprare solo per i figli. La frase che “ai nipoti si vuole più bene che ai
figli” la possono dire il Presidente del consiglio, la possono
dire i politici, ma a me non è permessa e così a tutti gli altri
che hanno nipoti e si trovano rinchiusi nelle sezioni a 41 bis.
Ma la Costituzione non dice che tutti gli italiani sono uguali?
Scusate il mio sfogo con voi, ma voi sapete ascoltarci.
Sappiate che lo Stato ha trovato il modo per sconfiggere la malavita, ho mangiato la pasta in bianco preparata dal carcere e
non posso più cucinare per conto mio, se lo facessi commetterei un reato, è un fatto severamente proibito dalla legge. Così lo Stato e il parlamento combattono la mafia! …
Vi accludo il mio scritto: Morte dietro le sbarre.
“Oggi leggendo il giornale ci trovo l’ennesima notizia che il
sangue mi fa raggelare e mi dico di questa mia vita al 41 bis
cosa ne debbo fare, se i miei cari non posso abbracciare ? Se
con i miei nipoti non posso giocare ? Le lacrime del mio amore non posso asciugare ?
L’articolo è intitolato: “Uomo si impicca al 41 bis”, non un
solo rigo per dire che lascia moglie e figli! Né un rigo per dire che non toccava i suoi cari da anni e anni, né un rigo che
dica che è morto con un dolore perché non ha potuto abbracciare i suoi cari, il suo amore.
Per coloro che leggono è una semplice morte, ma chi sta al
41 bis sa che è l’ennesima condanna a morte. Il 41 bis è una
condanna a morte mascherata. Solo chi è “forte” e vive anche di fantasia dentro di sé dice: “devo vivere per la famiglia mia”.
E chi dice devo morire lo dice perché non vuole dare pene
a chi gli vuole bene. Perché ti fanno male le sofferenze che
affrontano per venirti a trovare , oltre mille chilometri per
non poterti abbracciare, perché quel vetro, come se tu fossi
un appestato, ti deve separare. Nei loro volti ci vedi la stanchezza, nei loro cuori leggi tutta la malinconia perché ti vedono per un’ora e poi devono andare via. Ti sorridono per
non farti rattristare, ma dentro di loro sai che stanno male.
Allora la tua mente comincia a pensare: “Perché devo far soffrire i miei cari? Dove è finita la mia dignità? Cosa ci faccio ancora qua? Dove è finito l’art.27 e la Costituzione?” Allora è lì che li saluti con un sorriso.
Ma nel tuo cuore hai già deciso e pensi “il mio non è un suicidio, perché se me ne vado la colpa è solo dello Stato!”.
Salvatore Cappello
Dedicata a tutti quelli che hanno perso un caro
nelle carceri perché nel loro cuore pensavano
“meglio farli soffrire una sola volta che tutta la vita”.
ANCHE LA CAMERA PENA DI ROMA PER UN OSSERVATORIO SUL 41 BIS
La Camera Penale di Roma ha da sempre posto al centro della propria iniziativa politica il tema del regime detentivo speciale regolato dall’ art. 41 bis O.P.
Noi consideriamo tale regime, e la sua concreta attuazione, una offesa alla costituzione ed ai principi più elementari di umanità e dignità che dovrebbero regolare la detenzione carceraria in uno stato democratico, tanto più
ove si consideri che esso si applica indifferentemente ai
detenuti in espiazione di una pena definitiva come a quelli in attesa di giudizio, e dunque assistiti dalla presunzione costituzionale di non colpevolezza.
Il sostanziale unanimismo - con poche, coraggiose eccezioni - delle forze politiche e parlamentari in difesa di
questo incivile istituto, frutto di conformismo e pavidità
intellettuale prima ancora che di radicata convinzione,
rende ancora più necessario ed urgente un forte rilancio
della iniziativa politica su questo tema.
È infatti indispensabile diffondere con ogni mezzo una informazione la più completa e dettagliata possibile sulla
realtà di questa moderno e legalizzato strumento di tortura, per evidenziarne ad un tempo la profonda disumanità e la sostanziale inutilità, contro la retorica conformista e consociativa che ne consente la assurda perpetuazione nel nostro sistema penitenziario.
La recente introduzione (l. 94 del 2009) della competenza territoriale esclusiva del Tribunale di Sorveglianza di
Roma in relazione ai procedimenti applicativi del regime
Mai dire mai
di cui all’art. 41 bis O.P. rende addirittura ineludibile un
forte rilancio della iniziativa politica della Camera Penale di Roma su questa cruciale questione.
Questa ennesima anomalia procedimentale, irragionevolmente derogatoria del principio costituzionale del Giudice naturale, appare foriera di conseguenze ulteriormente
ed impropriamente afflittive del diritto di difesa dei detenuti sottoposti o sottoponendi a tale regime detentivo, primo fra tutti una sorta di assurdo centralismo giurisprudenziale destinato inevitabilmente a tradursi in un profondo,
letale impoverimento della dialettica processuale, e dunque della possibilità per la difesa di interloquire produttivamente con questo Giudice Unico, che in realtà è più
onesto definire Tribunale Speciale.
Occorre dunque sviluppare, accanto ad un attenta e costante osservazione delle concrete applicazioni di tale regime detentivo, un altrettanto vigile e costante monitoraggio della pratica procedimentale e della giurisprudenza
che quotidianamente si andrà sviluppando avanti questo
Giudice Unico. La Camera Penale di Roma ritiene indispensabile coinvolgere in questa iniziativa quanti più soggetti possibile tra quelle associazioni che da tempo si dedicano coraggiosamente a questo tema, per denunziarne
la inammissibile violenza e per propugnarne la radicale
abolizione.
Comunicato stampa del 7 gennaio 2010
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- OSSERVATORIO SUL 41 BIS - OSSERVATORIO SUL 41 BIS DAL CARCERE
DI TOLMEZZO Sezione 41 bis
Carissimo amico,
in ogni caso ti invio assieme a questa missiva un mio scritto e
una mia poesia con la speranza che troviate un po’ di spazio per
inserirli nel nostro giornale “Mai dire mai”
Inizio questo scritto salutando e ringraziando tutti gli amici
dell’Associazione Liberarsi che si prodigano volenterosi affinché uomini e donne che ora sono messi al margine più lontano
di questa società possano di nuovo fruire dei diritti per loro sanciti dalla Costituzione.
Tempo fa guardando un programma televisivo ho ascoltato alcuni noti parlamentari inveire contro i padroni di cani cosiddetti “pericolosi” che sottopongono i loro animali a torture indegne al fine ultimo di renderli più feroci e poi utilizzarli nei
combattimenti. La cosa che mi ha realmente colpito in questo
dibattito è stato l’intervento di un noto cinofilo che ha elencato le varie sevizie con le quali trasformano i loro cani in bestie
feroci: 1) dar loro poco cibo; 2) incatenarli e picchiarli più volte al giorno con un bastone; 3) tenerli in ambienti angusti e bui
per parecchio tempo. Alla fine di questo trattamento al posto
di un barboncino al guinzaglio ci sarà una tigre siberiana.
Ora io dico: se prendiamo per buona la teoria darwiniana dell’evoluzione che ipotizza che anche l’uomo è un mammifero
terrestre come la scimmia, l’elefante e il cane e discendono tutti dallo stesso ceppo e quindi abbiamo gli stessi istinti , allora
possiamo dedurre che le sevizie sopra citate applicate sull’uomo detenuto otterranno lo stesso risultato: trasformarlo in una
bestia feroce.
DAL CARCERE
DI ASCOLI PICENO area riservata 41 bis
Cari amici,
ho avuto modo di conoscere nei giorni scorsi questa bella realtà che è l’associazione “Liberarsi”, grazie alla vostra visita
nel carcere di Ascoli Piceno e, dopo aver letto il numero di “Mai
dire Mai”, ho deciso di scrivervi per farvi conoscere una situazione della quale siete stati testimoni oculari durante la vostra
visita del 4 Marzo.
Mi chiamo Besaldo Pasqualino, sono nato ad Amantea (CS) il
11-06-1966 e sono detenuto in regime 41 bis dal Settembre del
2009. Mi hanno arrestato nel Dicembre del 2007 e, dopo pochi
giorni mi hanno trasferito nel carcere di Caltanissetta. Qui, forte dei miei 23 anni di servizio all’interno del Ministero dell’Istruzione, dopo pochi mesi inizio a lavorare come scrivano
ed addetto alla biblioteca mettendo a disposizione le mie modeste conoscenze ai miei compagni di sventura. Mantenendo
naturalmente un comportamento sempre consono alla situazione, ho alternato questo lavoro i viaggi a Catanzaro per i miei
motivi processuali. Il 19 Maggio del 2009vengo condannato in
primo grado a 16 anni e subito dopo ritorno a Caltanissetta al
mio lavoro. L’11 Settembre del 2009, con mia enorme sorpresa, vengo raggiunto dal decreto applicativo del 41 bis richiesto
dalla procura di Catanzaro nel mese di Luglio. Il decreto ministeriale basa le sue fondamenta sulla mia condanna che ingloba nei 16 anni il reato di 41 bis. Il 18 Settembre vengo trasferito ad Ascoli Piceno dove scopro di essere stato assegnato nella sezione “Area Riservata”. Non ho ben presente cosa significhi, cosa sia, ho sentito parlare di gruppi di quattro persone e
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Pongo una domanda: non è ipocrita inveire contro i padroni che
fanno diventare feroci i cani quando si usano le stesse violenze verso noi uomini detenuti? Perché non dobbiamo ugualmente indignarci quando a subire le stesse sevizie sono uomini e
donne nelle galere?
CHE VITA TRISTE
Che vita triste e inutile è quella del carcerato,
che mille volte al giorno si chiede: “Perché son nato?”
E altre mille si domanda: “Perché stare sempre incatenato?”
Che vita triste e inutile è quella del prigioniero,
che sempre in pena sta col cuore cupo e nero
e nella sua mente ha la libertà come unico pensiero.
Che vita triste e inutile è quella dell’uomo in cella,
che tutto il giorno sta chiuso e muto dietro una cancella
e, se parla e si lamenta, allora sì che son colpi di manganella.
Che vita triste e inutile è quella dei detenuti,
che dentro posti senz’aria e speranza sono caduti
e senza passato né futuro, perché in galera si è perduti.
Che vita triste e inutile è quella dell’ergastolano,
a cui nessuno al mondo vuol porgere una mano
ed è tenuto morto in un luogo troppo lontano.
Salvatore Ritorto
di colloqui con il vetro divisorio, ma non conosco il termine
Area Riservata. La risposta ai miei “Non so” non tarda ad arrivare ed è, a dir poco, traumatica, soprattutto per una persona
sottoposta per la prima volta al 41 bis. Così, mi ritrovo in una
piccolissima sezione in compagnia di un altro detenuto, isolati da tutto il resto del mondo. Arriva il momento della prima cena e faccio conoscenza con i tre contenitori di plastica che rappresentano il mio contatto con la cucina. La mattina dopo esco
dalla cella e, dopo otto passi, entro in un bunker di cemento armato con muri altissimi; otto passi per tre, questo è il passaggio, un’ora d’aria e via di nuovo in cella. Nel primo pomeriggio conosco il resto della sezione, esco e compio tre passi per
entrare in una stanzetta; misure 4 per 2, questa è la saletta per
un’ora di socialità con l’altro detenuto, alle 14 la giornata è terminata. Rientrato in cella noto che la stanza è praticamente buia
e istintivamente accendo la luce; è un gesto che non mi abbandonerà più. La finestra, infatti, ha una grata a maglie strettissime e da sul muro del passaggio che, a sua volta, è coperto da
un tetto di plexiglass. E così, dopo i primi giorni di smarrimento, mi ritrovo a leggere l’Ordinamento Penitenziario, una serie
di articoli che regolano la vita carceraria. I miei occhi si soffermano sull’Art. 6 e leggo: “..deve essere garantito al detenuto la giusta luce naturale e artificiale..”. Non credo ai miei occhi; inizio così uno sciopero della fame che va avanti per un
mese. Dopo un mese ricevo la visita del Magistrato di Sorveglianza di Macerata che ascolta le mie argomentazioni e mi
congeda. Resto così in attesa di qualcosa, poi, il 21 Dicembre
2009 mi viene notificato un decreto del Magistrato attraverso
il quale dispone che l’Amministrazione Penitenziaria provveda a potenziare la luce naturale o artificiale nella mia cella. “Na-
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- OSSERVATORIO SUL 41 BIS - OSSERVATORIO SUL 41 BIS turale o artificiale”, la cosa mi suona male e penso: “Perché è
stata usata una “o” invece che una “e” come previsto dall’art.6?”. Comunque mi ripeto: “E’ già qualcosa”. Passa Natale, Capodanno e non succede niente, però l’8 Dicembre ho
udienza presso il Tribunale di Sorveglianza di Roma per chiedere la revoca del 41 bis e così resto in attesa. Il giorno 8 affronto la mia prima video conferenza con una certa emozione,
peccato che sia durata solo cinque minuti. Il presidente, infatti, mi avvisa che dal Ministero non è arrivato niente che mi riguardi, né il decreto applicativo, né altra documentazione. Risultato? Rinvio al 20 Aprile 2010 e mi chiedo come sia possibile!! Il 20 Gennaio presento un’altra istanza a Macerata per
sollecitare l’applicazione del decreto precedente, quello del 2112-2009. La risposta arriva lo scorso 26 Febbraio e leggo: “..visto il precedente decreto, visto la nota dell’amministrazione
con la quale si comunica la decisione di aumentare la luce artificiale, il Magistrato impone alla Casa Circondariale di Ascoli Piceno di risolvere il problema nel più breve tempo possibile..”. Rifletto un attimo e mi viene in mente una frase del grande Flaiano: “Ho poche idee, ma confuse”; la trovo bellissima
e appropriata alla situazione. Insomma, adesso che i vertici romani hanno trovato il rimedio, la direzione del carcere si potrà
attivare per risolvere il problema, o almeno così pensano loro.
Così, lo scorso 1 Marzo è stato effettuato un sopraluogo nella
mia cella per stabilire che nelle prossime settimane saranno potenziati i neon. Peccato, peccato che qualcuno ne abbia sostituito una stabilendo, così, che sia superfluo per me avere una
finestra degna di questo nome. Peccato per il sole, la luna, il
cielo o le stelle; evidentemente per chi si trova nella mia solita situazione tutto ciò non deve esistere. Sicuramente fra qualche anno risentiremo parlare di questa storia tramite la Corte
Europea dei Diritti Umani alla quale mi sono rivolto. Sono certo, però sin d’ora, che a pagare sarà ancora una volta uno Stato astratto e non la persona che materialmente ha preso questa
decisione a dir poco cervellotica. E così, allo scoccare dei primi sei mesi di area riservata mi fermo a fare un resoconto di
cosa è successo in questi 27 mesi. Mi è stata tolta la mia dignità di insegnante, poi quella di uomo e, per ultimo, anche la di-
gnità e l’orgoglio di essere cittadino di questo stato. Sono stato privato del rapporto con il mio figlio minore che, faticosamente, ero riuscito ad incontrare dopo 18 mesi di carcere, superando i molti problemi psico-fisici che lo attanagliano. Mi è
stato tolto quell’abbraccio con le persone a me più care che ti
aiuta a superare le difficoltà di tutti i giorni. Grazie a Dio, anche nei momenti più duri, qualcosa resta sempre nelle nostre
vite. A me restano i molteplici rapporti umani, bellissimi, con
tute le persone che hanno condiviso con me la detenzione, rapporti, per altro, molto intensi se pensiamo anche agli spazi molto ristretti in cui si vive la quotidianità nelle carceri. Mi resta
l’effimera speranza che il 20 Aprile a Roma possa trovare un
giudice che metta fine a questa tortura. Mi resta la rabbia e la
voglia di combattere per dimostrare la mia innocenza nel processo d’appello che inizierà a Catanzaro il 14 Aprile. Mi resta
la certezza che quando tutto questo sarà finito dovrò, per la mia
onestà mentale e intellettuale, dedicare parte del mio tempo ad
associazioni come la vostra. E’ molto importante tenere viva
l’attenzione, anche se so bene che non è questo il momento per
pensare ad una revoca del 41 bis. La sua stabilizzazione, infatti, ha sancito l’emergenza perenne nella quale vive l’Italia e la
sua volontà da parte di alcuni di continuare a vivere in questa
emergenza. Assistiamo, così, ad una corsa continua, ad affermazioni che sottolineano sempre la necessità della lotta antimafia , anche in momenti in cui non vi è alcuna necessità. Tutto ciò porta, ovviamente, a catalizzare l’attenzione degli italiani su questo problema in modo, così, da rendere più facile nascondere tutto il resto. Spero di poter affrontare nuovamente
queste problematiche dopo che la Corte Costituzionale si sarà
espressa sul decreto restrittivo dello scorso Luglio, alla luce del
parere di ammissibilità già espresso alla fine dello scorso Febbraio.
Vi lascio ricordandovi ciò che voi rappresentate e cioè “uno dei
pochi lumini accesi in un cimitero di oltre 600 persone che hanno la fortuna o sfortuna di poter ancora respirare”.
Un saluto a tutti
Pasqualino Besaldo
8 marzo 2010
DAL CARCERE
DI NOVARA Sezione 41 bis
vrebbe fare distinzione tra i due, mai dovrebbe rendersi carnefice in cerca della vendetta sull’onda di accadimenti emotivi
che coinvolgono la collettività. Dobbiamo però renderci conto
che sia i familiari delle vittime di quelli dei condannati si trovano sullo stesso piano, soffrono entrambi alla pari, con la distinzione che i parenti dei condannati soffrono con loro per tutta la vita senza che ne abbiano colpa, senza trovare rassegnazione e mai una prospettiva per il futuro. Al contrario, anche se
è molto doloroso, i parenti delle vittime troveranno, anche se
in minima parte, un po’ di pace interiore. E’ inutile strumentalizzare questo problema.
Appare superfluo ribadire che l’ergastolo contrasta con l’art.
27 della nostra Costituzione e che l’art.4 bis ha negato a molti
ergastolani la possibilità di accedere ai benefici dell’ordinamento penitenziario e quindi condannandolo alla morte in carcere.
Cancelliamo l’ergastolo, questa aberrante parola equivalente a
pena di morte.
Il carcere è una discarica umana senza voce, dove la vita si spegne. Lo Stato però tace e non accetta il suo fallimento nei confronti di chi ha bisogno di essere sostenuto nella ricerca di un
riscatto per sé e per la stessa società.
Giuseppe D’Agostino
L’ergastolo è immorale in uno Stato di diritto, è repressivo e
punitivo. E’ la vendetta ipocrita dello Stato che si proclama garantista. Ergastolo uguale tortura e repressione. Guardiamo cosa sta accadendo proprio in questi giorni con diversi suicidi di
ergastolani senza speranza, senza un futuro. Senza contare gli
altri fatti che sono di attualità dove non si riesce a dare nessuna spiegazione sulle morti in carcere, occultando la verità e i
responsabili. Non si possono verificare oggi dei fatti che accadevano solo ai tempi del fascismo!
Perché il parlamento non firma la legge sul reato di tortura, ferma dal 1984?
Sull’ergastolo lo Stato si mette sullo stesso piano di chi ha
commesso il reato, bollerà per sempre il reo, senza dargli nessuna possibilità di redimersi, togliendogli qualsiasi opportunità. Nutrendo così una ripulsa profonda cerca in ogni maniera
la vendetta di Stato, mettendosi alla pari con chi nella società
ha commesso degli errori. Mai lo Stato pagherà per ciò che
commette, facendo tutto in nome della democrazia. E’ tutta retorica, demagogia quella che viene fatta sui familiari delle vittime. Vittime e carnefici sullo stesso piano. Lo Stato non do-
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- DIBATTITI - ATTUALITÀ - DIBATTITI - ATTUALITÀ - DIBATTITI
In questa sezione del nostro giornale riportiamo: interventi di associazioni, articoli già pubblicati su giornali, scritti
di amici detenuti, analisi generali sul carcere, quindi testi diversi tra di loro come taglio e come tematiche, tutti però
accomunati dalla capacità di stimolare ulteriore dibattito a cui invitiamo caldamente i nostri lettori a pendere parte.
Il nostro periodico ha un senso solo se coinvolge chi ci segue e fa diventare i lettori attori del proprio futuro.
In particolare in questo numero riportiamo due interventi di associazioni esterne: quello scritto da Tommaso Spazzali
e da Gino Tedesco dell’Archivio Moroni che si trova presso il Centro Sociale Conchetta di Milano dal titolo Contro la
pena fino alla morte e che riporta in parte i contributi dati da questi compagni che hanno organizzato nel Centro Sociale un dibattito a cui hanno partecipato anche Nicola Valentino, Giuliano Capecchi e Sara Papalia, figlia di Antonio e quello degli amici pugliesi di Altre Ragioni, che sono venuti a Firenze per incontrare noi dell’associazione Liberarsi e Giorgio Antonucci, una delle figure più importanti dell’antipsichiatria. Questa associazione è a carattere regionale, si basa sul coinvolgimento di persone che hanno conosciuto sul proprio corpo e sulla propria anima la violenza
psichiatrica e su altre amiche e amici che si schierano apertamente contro questa e tutte le altre coercizioni. I collegamenti tra il loro lavoro e il nostro sono tanti e siamo certi che proseguiremo ad impegnarci insieme.
E un collegamento all’intervento di Altre ragioni è messo in evidenza dall’articolo di Alessandro Margara sulla scandalosa esistenza (possiamo sperare per poco?) degli ospedali psichiatrici giudiziari, i vecchi manicomi criminali, e sugli ergastoli bianchi.
Pubblichiamo anche un articolo apparso sul settimanale Riforma, settimanale delle chiese evangeliche battiste, metodiste, valdesi, scritto dalla diacona Alga Barbacini della chiesa valdese di Biella (sede di un carcere “difficile”), che
prende spunto dagli ultimi scioperi della fame effettuati dagli ergastolani e non solo da loro, per chiedere un maggiore impegno delle chiese su questo tema. Ed oltre al fondamentale testo del vangelo di Matteo ( Giudizio contro le nazioni, Matteo, 31-46) ricordiamo l’esortazione di Paolo, Lettera agli Ebrei 13, 3 “Ricordatevi dei carcerati, come se
foste in carcere con loro; e di quelli che sono maltrattati, come se anche voi lo foste!” Verso il mondo cristiano, il
mondo delle religioni e della spiritualità dovremo sempre più avere attenzione e sempre più creare ponti di dialogo e
di azione comune.
Pasquale Genovese interviene su La giustizia di classe, come era intitolato l’intervento di Matteo Boe che avevamo
pubblicato nel numero precedente.
Riteniamo importante poi riportare l’intervento di Christian De Vito, il giovane presidente dell’Associazione Liberarsi, che affronta un tema dibattuto in questi ultimi mesi: il piano carceri, come risolvere il sovraffollamento ecc … che
è apparso sul quotidiano “Il Manifesto” del 5 febbraio 2010: “Sovraffollamento. Edilizia penitenziaria: “serve una
moratoria”.
Buona lettura!
Bibbia e attualità - In carcere
1 e il 10 dicembre
“Fui in prigione e non mi
nelle carceri italiane si è elevato
un grido di protesta: due giorni di sciopero della fame per dire
basta alle condizioni disumane di detenzione. Due date simbolo: il 1° dicembre ricorda le manifestazioni di protesta avvenute nei penitenziari nel 2007 e nel 2008, il 10 è la giornata internazionale dei diritti umani.
La cronaca ci ha fatto conoscere che esiste una realtà diversa
da quella che molti immaginano nelle carceri… quando si dice: «Vengono mantenuti e hanno pure la televisione!» si pensa a delle strutture dove non esistono drammi umani e dove tutto sommato si sta meglio che fuori, visto che non ci si deve scervellare per pagare l’affitto, si bighellona e non si pensa al vitto. In realtà i detenuti vivono in condizioni difficili perché il loro numero è superiore di 20.000 unità rispetto ai posti realmente disponibili. Il sovraffollamento crea disagi non solo ai reclusi, ma anche alle guardie penitenziarie, sotto organico, costrette a lavorare in condizioni stressanti in un ambiente pieno di
tensioni.
Se si scorrono i dati del Ministero della Giustizia si nota che
un terzo dei detenuti è straniero, un altro terzo è composto da
tossicodipendenti o ex tossicodipendenti. Il carcere diventa un
luogo dove rinchiudere persone di cui dovrebbero occuparsi in
realtà i servizi sociali o il sistema sanitario, che dovrebbero intervenire prima ancora dell’ingresso in carcere di senzatetto,
drogati, sbandati, malati di AIDS, attraverso progetti di recu-
L’
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pero per tutti coloro che
sono a rischio di devianza
e con percorsi di reinserimento nella società. L’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario sostiene che il lavoro all’interno del carcere è obbligatorio
come contributo del detenuto al suo mantenimento. In realtà i
carcerati, visto il loro elevato numero, lavorano a turno. Non
tutti sanno che scontata una parte della pena possono chiedere
di essere ammessi a lavori esterni o frequentare corsi di formazione professionali e non ne fanno richiesta Altri incentivi per
inserire i detenuti nel mondo del lavoro non bastano a far crollare le diffidenze nei loro confronti. Molti tornano a delinquere non avendo alternativa.
Il senso di abbandono, l’incapacità di reagire al disagio psicologico e psicofisico fa aumentare gli atti di autolesionismo e i
suicidi. Sessantasei dall’inizio dell’anno, ma molte morti non
sono definite suicidi, quanto piuttosto «incidenti». Il malessere dei carcerati non interessa, l’importante è che i colpevoli vengano puniti. Sapere chiusi in un luogo tutti i «cattivi» rassicura solo coloro che un carcere non l’hanno mai visto, ma non
serve a ricondurre quegli uomini e quelle donne alla consapevolezza di se stessi e di quante cose possono fare per contribuire al benessere dei propri simili. La loro vita viene persa e noi
tutti perdiamo una grande opportunità di stare a fianco dei più
deboli, di imparare a non giudicare, di amare il nostro nemico
e di vedere nel volto di un detenuto il volto di Gesù.
Alga Barbacini
visitaste” (Matteo 25,43)
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- DIBATTITI - ATTUALITÀ - DIBATTITI - ATTUALITÀ - DIBATTITI
Contro la pena fino alla morte
n un’era in cui il giudizio domina la comprensione, i conflitti sociali e il disagio diventano oggetti del diritto penale, l’istituto dell’ergastolo assume la funzione simbolica
della giustizia infinita. Simbolo e monito per i più, a spese di
vite svuotate della loro storia e bollate come ‘criminali’, ‘colpevoli’, degne solo di un rimorso rabbioso. L’antro del sentimento in cui non si vorrebbe mai precipitare.
Figlio della schiavitù, il carcere finisce così il suo giro tra gli
equilibri e le compatibilità del reiserimento sociale e torna, se
possibile peggio, ad essere una condanna a vita, senza appello.
L’astrazione del reo genera diffidenza, indifferenza, reifica la colpa che
merita la punizione. Quindi il primo
muro (il nostro muro) è la distanza
con le cose. Il primo passo è la conoscenza.
Il 25 gennaio 2009 al centro sociale
Conchetta di Milano l’Archivio Primo Moroni ha organizzato la presentazione dei libri
L’assassino dei sogni, di Carmelo
Musumeci (Ed. Biblioteca dell’evasione, 2009 )
L’ergastolo dall’inizio alla fine, di
Nicola Valentino (Ed. Sensibili alle
Foglie, 2009)
L’Archivio, che ospita la biblioteca e
il patrimonio documentale lasciato da
Primo Moroni, oltre che i fondi di
Carlo Cuomo, Sergio Spazzali e Roberto Volponi, ospita dal 2004 una sezione dedicata all’abolizionismo penale. Allora nella presentazione della sezione abolizionista scrivevamo:
Nei riguardi dell’intero sistema penale, del suo stesso diritto
e non soltanto delle carceri, vorremmo creare con questo spazio uno sguardo abolizionista anche in Italia, un Paese che conosce pene (effettivamente scontate) tra le più alte d’Europa,
dove dal dopoguerra ad oggi sono passati tra le mura delle prigioni persino 4 milioni di persone poi risultate ufficialmente
innocenti, dove ultimamente la sinistra ufficiale e girotondante ha creato la moda che chi critica l’operato della magistratura è di destra o mafioso, dove ci sono ancora prigionieri politici per i fatti degli anni Settanta nell’indifferenza o ignoranza di tutti ma con la complicità di tanti, dove si legalizza la
tortura rendendo eterno l’art. 41 bis (“carcere duro”), dove
l’ergastolo esiste anche se si dice comunemente il contrario.
Vorremmo organizzare una cosa un po’ da pazzi, insomma, come se fossimo almeno in un paese scandinavo o in Canadà:
un’assoluta novità.
Da allora molte cose sono successe ma il quadro di applicazione della giustizia penale è solo peggiorato.
Il ricorso alla giustizia penale avviene in sostituzione di tradizionali forme di mediazione dei conflitti e quindi estende il
suo campo di applicazione sia nella tipologia dei comportamenti che nella quantità dei soggetti interessati (si pensi anche solo al reato di “clandestinità”).
Al sovraffollamento carcerario si sommano le misure emergenziali sempre più dure (di un’emergenza che oramai è re-
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gola) e l’uso estensivo del giudizio soggettivo dei tribunali di
sorveglianza per la concessione dei benefici premiali (che sono una merce di scambio più che una tappa di un percorso di
reinserimento).
La pena esemplare (perché molto lunga, molto dura, molto applicata) diviene così in primo luogo una forma di controllo del
detenuto, del suo “ambiente” e costituisce un monito o una
minaccia esemplare anch’essa rivolta all’opinione pubblica.
Assistiamo in questi anni ad una crescente voglia di giudizio
(e quindi di pena) che trova forza e ragione proprio anche nell’uso estensivo della pena stessa. Il “grande criminale” merita una “grande pena” e viceversa. E’ facile arrivare a sostenere
che la “grande pena” deve essere una
sorta di “grande vendetta”, un motivo
di soddisfazione per chi (per interposta persona) la infligge ovvero per
chi, come il tifoso di una squadra di
calcio, puo’ dire “abbiamo vinto”.
Da questi atteggiamenti da tifoseria
non si salvano neppure personaggi
come Roberto Saviano che a proposito della sentenza al processo contro il
clan dei Casalesi afferma: finalmente
sull’ultimo foglio riposto in cima ai
faldoni degli inquisiti apparirà la dicitura: fine pena mai. La camorra non
è imbattibile.
Tutto ciò è molto pericoloso e molto
grave. In misura minore significa che
l’ergastolo colpisce (seppur solo nell’immaginario) anche chi ne è spettatore e ne diviene complice. Va aggiunto che questo meccanismo di appropriazione
della pena può funzionare solamente in virtù della spersonalizzazione del reo e della pena stessa, in galera non vi sono
più persone ma simboli, l’opinione pubblica è messa costantemente di fronte a comportamenti che sono solo astratti. E’
legittimata ad accettare e a compiacersi perché non sa (come ha detto una ragazza, il cui padre è in 41 bis, durante la
serata). La campagna contro l’ergastolo, contro la pena fino
alla morte, quindi, non è solo una forma di aiuto unidirezionale ma deve essere vista come una forma di aiuto reciproco, tra chi sta dentro e chi sta fuori, e naturalmente non ha
bandiera.
Per questo abbiamo voluto presentare i due libri di Musumeci e Valentino che, in maniera diversa ma complementare, raccontano la realtà dell’esperienza del carcere a vita meglio che
un proclama o un disegno di legge e contribuiscono a svelare
l’ipocrisia delle ragioni di chi usa giudicare e punire.
Per l’occasione abbiamo raccolto e ristampato alcuni articoli
usciti con l’inserto del quotidiano liberazione il 30 novembre
2008.
I materiali della sezione abolizionista dell’Archivio Primo
Moroni si trovano all’indirizzo:
http://www.inventati.org/apm/abolizionismo
Tommaso Spazzali, Gino Tedesco
Archivio Primo Moroni - Centro Sociale Conchetta – Milano
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Altre ragioni: contro tutte le forme di coercizione
ari amici detenuti e non,
contrari, auspichiamo, all’ergastolo e a tutte le forme
di coercizione.
L’associazione Altre Ragioni svolge la propria attività già dal
2006 e si costituisce formalmente nel 2009 in Provincia di Bari.
Nasce principalmente dalla volontà di alcuni psichiatrizzati,
ex, e critici delle logiche e prassi psichiatriche che, avendo
percepito il baratro loro socialmente assegnato, decidono di
ribellarsi, anche solo provando a solidarizzare con le persone
la cui strada assegnata era la stessa. Iniziano, così, a parlare e
a lottare insieme perché quella strada non fosse l’unica possibile, quella situazione di sofferenza, costrizione e coercizione che vivevano avesse altre letture e altre risposte, quei luoghi lontani dalla vita, sociale, in cui si ritrovavano spesso soli, non esistessero più.
Ed è da questo che vogliamo partire per raccontarci.
Alcuni di noi, specie quelli che sono ricorsi alle “cure” psichiatriche, hanno iniziato a soffrire molto emotivamente da
giovani, forse da bambini. Hanno provato, a volte inutilmente e disperatamente, a ribellarsi a quella sofferenza attraverso
le stanze che la strada socialmente accreditata indicava. Ma
nessun miglioramento della condizione, nessun miglioramento della qualità della vita, delle relazioni; e, sempre più, un restringimento degli spazi di libertà di pensiero ed azione.
Le ultime stanze di quella strada, di quel baratro a volte vertiginoso, indicavano, per gli psichiatrizzati, strutture residenziali per la cronicità dove terminare, spesso contenuti e/o sedati,
gli ultimi passi incerti, quasi sempre imposti, della propria esistenza. Per i non psichiatrizzati, stanze imbiancate da luoghi
comuni dove vivere la propria solitudine, famiglie senza più
persone, circoli senza più amici, luoghi senza più colori.
Ed è questa strada, per troppi aspetti assegnata, contro cui lottiamo, che ci ha avvicinato e ci avvicina ai reclusi di tutte le
strutture carcerarie, in maniera particolare a quelli che subiscono l’infamia sociale dell’ergastolo.
Qualcuno, guardando quella strada, percependo l’orrore dell’insieme e delle sue ultime stanze, ha deciso di iniziare ad
immaginare strade altre con stanze senza pareti in cui la luce
del sole potesse entrare liberamente e trasformare le urla confuse della sofferenza in pensieri e prassi di lotta che dessero
voce ai rumori dei silenzi.
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Oggi, sempre più persone che non hanno avuto mai nemmeno la possibilità di una sola scelta responsabile sono recluse
in strutture totalizzanti dove sottese forme di tortura rendono
la vita un inferno. Si pensi ai tanti bambini reclusi nei luoghi
dove la psichiatria esercita il proprio controllo, agli immigrati nei Centri di Identificazione ed Espulsione, molti dei quali
con la sola “colpa” di voler fuggire da paesi dove loro è negata la sopravvivenza e/o la libertà; si pensi a tutti i reclusi e
non e a quanto le nostre scelte siano, in fondo, quasi sempre
dettate dal vento degli eventi imposti.
Crediamo sia nostra responsabilità disegnare per noi e per altri nuove strade: percorsi dove l’umano possa rincontrarsi, dove il rispetto per l’altro e la solidarietà per il più debole si pongano come imperativi, in una visione di libertà intesa come
valore delle differenze e come opportunità, per tutte e tutti.
Vogliamo concludere questa nostra presentazione con l’auspicio che possano esserci momenti di incontro, condivisione di
intenti e iniziative di lotta comuni.
Rivolgiamo un invito, in maniera particolare ai carcerati, alla
dignità intesa come solidarietà, specie nei confronti dei compagni di cella a cui a volte, forse, balena l’idea del suicidio.
Così come la sofferenza emotiva è un atto di ribellione solitario allo stato delle cose, di in-sofferenza e richiesta di qualcosa di diverso, il suicidio è un atto estremo che esprime rabbia e disperazione. Lo sappiamo anche perché tra gli psichiatrizzati il numero di suicidi è altissimo.
E vogliamo ricordare a tutti, detenuti e non: l’ammazzarsi sarà anche, forse, un atto un po’ vigliacco, ma il non essere solidali con chi sappiamo sta per farlo o potrebbe pensare di farlo, è certamente un atto di vigliaccheria estrema!
Da parte nostra dedichiamo a tutti quelli incerti sull’arrendersi ponendo fine alla loro esistenza o continuare a lottare, una
poesia. Fu scritta da un nostro associato pensando a quanti,
nel tentativo di rendere più giusto e migliore questo mondo
ora marcio, hanno sofferto tanto da diventare “pazzerelli” come alcuni di noi.
La dedichiamo ricordando che: non c’è vita senza libertà.. ma
non c’è libertà senza vita!
Il senso del ricordo
Dobbiamo ricordare
Dobbiamo ricordare che c’era un tempo
in cui il sogno era ancora concesso
l’idea non era solo negazione
la fuga nel rancore non l’unica salvezza
e l’odio
l’odio non l’unica lingua parlata
Dobbiamo ricordare
se lo è stato
lo può essere di nuovo
Non c’è nulla da cambiare
non c’è nulla da ricercare
non c’è nulla da scoprire
Si dovrebbe imparare
imparare a ricordare
e ricominciare a sognare
[email protected]
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A proposito de “La giustizia di classe”
intervento del compagno Matteo Boe, apparso nell’ultimo “Mai dire mai”, mi ha stimolato particolarmente e per questo ho deciso di mandarvi questo mio
L’
scritto.
Vorrei però condurvi ad un concetto forse nuovo, il che ci ricollega al concetto marxista secondo il quale il governo è il
comitato delle classi dominanti. Fin quando saranno questi comitati ad approvare le leggi, non si avranno mai leggi dure con
i forti. Ad esempio un politico corrotto o corruttore non sarà
mai perseguibile con una pena severa. Ammesso poi che farà
un solo giorno di carcere. Al contrario le leggi saranno sempre più dure e severe per i deboli. I deboli appartengono alle
classi medio-basse.
A questo punto chi fa le leggi, in previsione di poter incappare in qualche reato – lui o chi come lui appartiene a quella
classe dominante – prevederà una pena mite per quel reato.
Invece, sicuro che non potrà mai commettere altri tipi di reati, prevederà per essi pene severe e lunghe.
Quindi per reati di corruzione, falsi in bilancio, abusi di potere e tutta una serie di reati legati all’alta finanza come gli scan-
dali delle ASL ecc …, avremo sempre pene molto miti, per
usare un eufemismo. Al contrario tutti gli altri reati legati al
denaro, ma che vengono perpetrati come condizione di chi appartiene alle classi sociali medie-basse, verranno puniti fino a
30 anni di carcere.
Negli Stati Uniti chi truffa rischia anche 150 anni di carcere,
e viene subito messo in galera, a qualsiasi classe appartenga.
A Napoli, invece, i processi di Bassolino e company, si stanno tutti prescrivendo. L’Italia mi fa ribrezzo. Mi fa ribrezzo
perché si erge addirittura come moralizzatrice.
Ogni società ha in sé i criminali che si merita.
I politici corrotti e corruttori dovrebbero essere due volte condannati: la prima perché sono cittadini come gli altri, o almeno così dovrebbe essere, la seconda perché hanno tradito la
fiducia del popolo quando li ha eletti. Almeno io, come tantissimi altri, non ho tradito nessuno. Anzi ho tradito mio padre e mia madre perché mi sono fatto fregare da questa classe dominante
Pasquale Genovese
Carcere di Livorno, 18 gennaio 2010
Manicomi criminali, la fine dell’ergastolo bianco?
Opg: una sigla per Ospedale Psichiatrico Giudiziario,
una ditta con fama pessima. Sta cambiando con il passaggio del servizio sanitario in carcere alla Sanità pubblica? La partenza è in forte salita.
l sistema della misura di sicurezza dell’Opg, introdotta
dal Codice penale Rocco per i soggetti autori di reati ma
prosciolti per vizio totale di mente, si fondava su tre presupposti assolutamente condizionanti: la incurabilità e sostanziale perpetuità della malattia mentale; l’esistenza della
pericolosità sociale, alla base del sistema giuridico delle misure di sicurezza, che potevano essere prorogate senza limiti (venne usato il termine “ergastolo bianco”); una condizione detentiva assolutamente priva di possibilità terapeutiche,
con strutture e personale carcerari.
Questo sistema è crollato nei primi due punti: la malattia
mentale può essere superata con interventi terapeutico-riabilitativi, che si possono giovare anche di nuovi farmaci, consentendo o la guarigione o, comunque, la vivibilità sociale
per la persona; grazie all’apporto di sentenze costituzionali e
di interventi legislativi, oggi nessuna misura di sicurezza può
essere eseguita se non si accerti la pericolosità sociale attuale della persona.
Se vogliamo, resta scalfito anche il terzo punto: una sentenza costituzionale (n.253/2003) ha affermato che il giudice
non è obbligato ad applicare il ricovero in Opg: quando le
condizioni della persona lo consentono, basta la libertà vigilata e la presa in carico da parte del servizio psichiatrico pubblico. Il che significa, però, che, in mancanza di quelle condizioni, la persona può ancora finire in Opg; e qui, allora, si
finisce per sbattere contro il vecchio Opg, le sue solite mura, la solita organizzazione.
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Sta, però, passando un modello diverso, che relega la sorveglianza e la sua gestione al perimetro esterno delle strutture,
mentre, all’interno, l’istituto è gestito interamente dal personale sanitario, che ha responsabilità, assistenza e cura degli
internati.
Queste strutture dovranno dimenticare non solo il modello
carcerario, ma anche quello ospedaliero e cercare un modello comunitario di vita. Dovranno inoltre essere limitate a un
numero modesto di utenti, anche se questo traguardo potrà
non essere immediato, specie per regioni con un alto numero di ricoverati. D’ora in poi, l’Opg dovrebbe essere riservato alle sole persone sottoposte a misura di sicurezza definitiva. Per gli altri, i soggetti in attesa di giudizio, dovranno
essere create apposite sezioni negli istituti di pena, sotto la
responsabilità del Servizio Sanitario Nazionale: come già avviene per le sezioni di osservazione psichiatrica, dove vengono inviate le persone che necessitino di una diagnosi. Tali sezioni sono già presenti in varie regioni e dovrebbero essere istituite in tutte.
Nonostante i disegni riformatori, attualmente il numero dei
ricoverati in Opg sta crescendo, particolarmente il gruppo
degli internati a misure di sicurezza provvisorie, problematici per vari aspetti. Questo accade perché l’Autorità Giudiziaria si avvale raramente del ricovero in strutture civili previsto dall’art. 286 del Codice di Procedura Penale. Per gli internati con misura provvisoria, non si possono utilizzare le
aperture del regime giuridico relativo agli internati definitivi, così che essi devono restare continuativamente chiusi negli Opg. Il loro ingresso è privo di garanzie, nel senso che,
sempre più spesso, arrivano negli Opg dalla libertà senza una
valutazione psichiatrica, che giustifichi la gravosità di quel
ricovero. La perizia è generalmente disposta successivamen-
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te, la sua durata è tutt’altro che breve e può anche concludersi con il disconoscimento della malattia o la curabilità
della stessa senza ricovero.
Rimane il problema dei soggetti giudicati “seminfermi di
mente”, attualmente ristretti nelle “case di cura e custodia”:
in attesa della loro soppressione (obbiettivo di tutti i progetti
di riforma del Codice Penale), ci sarebbe ancora da ridurre il
numero dei ricoverati individuando soluzioni esterne per i
molti internati definitivi che hanno terminato il periodo minimo di durata della misura di sicurezza e che restano dentro
perché non si trova una qualche accoglienza per loro fuori. I
condizionamenti del vecchio sistema sono tanti. Non sarebbe
l’ora di chiudere la ditta Opg per indiscutibile fallimento?
Alessandro Margara
Dalla rubrica Fuoriluogo, “Il Manifesto”, 20 gennaio 2010
Sovraffollamento. Edilizia penitenziaria:
“serve una moratoria
n centotrentadue anni, prima del 1984, lo Stato della California ha costruito 12 carceri; dopo quella data ne ha costruite 33. Il boom dell’edilizia penitenziaria viene dagli
Usa, dove anche il tasso di carcerazione è passato da 96 a 726
detenuti ogni centomila abitanti tra il 1973 e il 2005. L’Europa imprigiona relativamente meno – i tassi sono tra 90 e 150
– ma negli ultimi vent’anni molti paesi hanno visto raddoppiare la popolazione detenuta e moltiplicarsi il numero delle
celle: trentamila “posti letto” in più in Francia dal 1987 a oggi, ventimila in più tra il 1997 e il 2007 nel Regno Unito, dove altri 9.500
posti sono previsti entro il
2012.
In nessun paese i “piani carceri” hanno risolto il problema del sovraffollamento,
per il quale sono stati concepiti o perlomeno giustificati.
L’attività edilizia
rincorre
l’aumento,
ben più rapido, dei detenuti, come ha dovuto constatare il governo britannico nel febbraio 2008, quando è stato
sfondato il tetto di capienza “tollerabile” nonostante un decennio di costruzioni. Il “piano carceri” italiano è una corsa persa in partenza: con circa 65.000 detenuti attuali e un saldo di
800-1000 persone in più in cella ogni mese, gli 80.000 posti
di capienza totale previsti al termine del piano saranno superati già nel 2011.
L’ideologia dell’”emergenza” che giustifica la costruzione di
nuove carceri ha anche comportato un peggioramento delle
condizioni detentive. Bisogna fare in fretta: ecco allora le soluzioni edilizie “leggere”, concepite come strutture temporanee ma che il continuo afflusso di detenuti poi rende permanenti. Bisogna costruire molto: ecco le mega-carceri statunitensi, il progetto delle tre «Titan Prisons» britanniche da 2.500 posti ciascuna o le celle a sei posti di Lelystad nei Paesi Bassi.
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Costruire carceri costa molto; pressati dagli imperativi di bilancio, gli Stati ricorrono ai privati. La prospettiva di privatizzazione totale attuata negli Usa e nel Regno Unito non sembra (per ora) all’ordine del giorno in Italia; il previsto meccanismo del project financing ricorda di più l’esperienza francese, dove il ruolo dei privati è comunque progressivamente
aumentato negli ultimi due decenni, configurando secondo
l’associazione dei magistrati francesi l’inizio di un «mercato
dell’incarcerazione».
Alla base, c’è una contraddizione politica più profonda. Affermare di voler «combattere il sovraffollamento» costruendo
nuove carceri è come sostenere di voler «costruire la pace»
attraverso la corsa agli armamenti. Ovunque, il sovraffollamento è prodotto dalle scelte della stessa classe politica che
costruisce nuove carceri in nome della lotta al sovraffollamento. Il filo che lega i due fenomeni non è la «lotta alla criminalità», come affermano i vari ministri, visto che non esiste
alcuna relazione tra i tassi di criminalità e quelli di carcerazione; è invece l’opzione a favore di politiche neoliberiste in
campo sociale e, conseguentemente, di politiche della sicurezza in campo penale. Perciò si costruiscono nuove carceri anche se la metà dei reclusi è in attesa di giudizio, mentre si limita l’accesso alle misure alternative e si continua a imprigionare in massa migranti, tossicodipendenti, senza dimora, prostitute.
L’aumento dei posti letto ha rappresentato ovunque una spinta alla crescita dell’incarcerazione: ha rafforzato l’identificazione della pena con le sbarre del carcere e, immobilizzando
centinaia di milioni di euro negli edifici penitenziari, ha impedito il finanziamento di percorsi alternativi alla detenzione.
Fino all’estremo del “piano carceri” italiano, che “scippa” i
130.000 euro della Cassa Ammende, vincolati al reinserimento sociale, per finanziare la costruzione di nuove celle.
C’è urgenza di una moratoria sulla costruzione di nuove carceri e di un “numero chiuso”, superato il quale nessuno deve
entrare in carcere. Lo sostengono organizzazioni tanto diverse quanto il Prison Moratorium Project statunitense, il Krom
norvegese e il Prison Reform Trust britannico. Anche in Italia questo può essere un terreno di unificazione per movimenti, gruppi di operatori e amministratori locali: per invertire la
tendenza rispetto alle attuali politiche della sicurezza, penali
e penitenziarie.
Christian De Vito
Presidente Associazione Liberarsi
“Il Manifesto” 5 febbraio 2010
Mai dire mai
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- INSERTO GIUSTIZIA - INSERTO GIUSTIZIA - INSERTO GIUSTIZIA -
Pesare e tagliare: strumenti nelle mani di chi giudica.
Dall’antico Egitto a Roma, fino al processo di Kafka.
“La giustizia vede nonostante la benda.
La “bilancia”per valutare, la “spada”per dirimere.
Ma anche la fascia sugli occhi: la forza dei simboli.”
“Bilancia” e “spada” sono immagini ricorrenti nella raffigurazione della giustizia divina e terrena.
La “Bilancia”, con i due piatti in equilibrio, sta a raffigurare nel
mondo romano, come riportato da Cicerone, la capacità di bilanciamento in base allo status giuridico e sociale di ognuno (“a ciascuno il suo”) e, più tardi, rappresenta l’imparzialità e l’equità di
chi giudica, di chi è chiamato a decidere senza discriminare tra
potenti e gente comune, tra ricco e povero. L’immagine della bilancia, di origine religiosa e risalente all’antico Egitto, era caratterizzata da due piatti dove uno pesava le colpe dell’anima nel giudizio ultraterreno e l’altro conteneva una piuma di struzzo. Nella tradizione giuridica medioevale cristiana rappresentava, invece, uno strumento nelle mani del giudice giusto che doveva pronunciare la sentenza secondo giustizia, ma ammorbidire la pena
secondo misericordia (Decretum Gratiani, 1140). Anche nel celebre “ Il Processo ” di Franz Kafka (1925; ed. it., 2007, Rizzoli)) viene evocato tale significato in un monito rivolto al protagonista Josef K.: «..chi rimane fermo di fronte alla giustizia, senza
difendersi, corre il rischio di trovarsi su una bilancia e (di) esser
pesato con tutti i suoi peccati. »
La “Spada”, che simboleggia la punizione inflitta al reo, la sacra
spada della giustizia, già nel Seicento era considerata strumento
di vessazione che finiva per colpire i disperati, i “delinquenti per
necessità”. Per i loro delitti non meritavano la corda, ma ci finivano appesi per dare sicurezza a “ricchi e potenti”, come si legge nella “Favola delle Api” di Bernard de Mandeville (1705). La
“bilancia”, la “spada”, ma anche una “Dea bendata”; sono questi
i tradizionali e riconosciuti segni della rappresentazione iconografica della giustizia. Forse non tutti sanno, però, che l’immagine della giustizia, come figura femminile con gli occhi coperti da
una benda, risale al 1494 quando apparve per la prima volta nell’opera letteraria “ La nave dei folli “di Sebastian Brant (1458 –
1521), giurista all’Università di Basilea. In questo lavoro si narra di un viaggio immaginario e fantastico verso il paradiso dei folli e rappresenta l’occasione per fustigare i malcostumi e le debolezze di chierici, laici, nobili, letterati e giudici. È un’incisione di
Albrecht Dürer, a corredo del testo, che segna lo stacco con il passato; accanto agli usuali simboli della sovranità e del giudicare
(corona, spada e bilancia), ci sono gli occhi che, rappresentati da
Sant’Agostino (“Confessioni”) come il principale strumento della conoscenza e la prima porta attraverso la quale l’intelletto intende e gusta (come si legge in una rappresentazione sacra del
Quattrocento), appaiono oscurati da una benda messa sul volto
della Giustizia da un folle raffigurato con un berretto a sonagli.
L’immagine si afferma inaspettatamente e attraversa i secoli, trasformandosi da raffigurazione critica dei difetti dell’amministrazione della giustizia in icona allegoricamente positiva, in quanto
espressione d’imparzialità e di incorruttibilità dei giudici ( è “bendata” la giustizia in un’incisione che apre l’edizione della Costituzione penale di Worms pubblicata nel 1531 a Francoforte).
E un rischio perdurante quello della corruzione, quasi un “rumore di fondo nella storia della società occidentale”, come afferma
Adriano Prosperi, ordinario di Storia Moderna alla Normale di
Pisa, che alla “Giustizia bendata” ha dedicato un originale e af-
Mai dire mai
fascinante saggio nel quale narra di un viaggio nel tempo alla ricerca delle metamorfosi dell’immagine della giustizia. È sorprendente come la cecità, attributo considerato in natura negativo, possa assumere un significato positivo; persino l’amore è cieco, eppure Cupido è raffigurato nell’atto di liberarsi dalla benda. Ciò è
significativo anche perché, proprio sul terreno della giustizia penale, il condannato a morte viene bendato prima dell’esecuzione. Se quindi la giustizia è cieca, vuol dire anche che è insensata? Sembrerebbe di sì a leggere i versi di Edgar Lee Masters, avvocato noto soprattutto per l’immortale “ Antologia di Spoon River ” (ed. it., a cura di Fernanda Pivano, Einaudi, 1993): «... io vidi una donna bellissima, con gli occhi bendati... Una gran folla
le passava dinnanzi, alzando al suo volto il volto implorante. Nella sinistra impugnava una spada. Brandiva questa spada, colpendo ora un bimbo, ora un operaio, ora una donna che tentava di
ritrarsi, ora un folle. Nella destra teneva una bilancia; nella bilancia venivano gettate monete d’oro da coloro che schivavano
i colpi di spada. Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto:
“Non guardo in faccia a nessuno”. Poi un giovane con il berretto rosso balzò al suo fianco e le strappò la benda..la follia di
un’anima morente le era scritta sul volto. Ma la follia vide perché portava la benda... ».
Questo è un ritratto corrosivo del sistema giudiziario, certamente frutto dell’esperienza personale dell’autore ed è, altresì, espressione di tutti i casi di giustizia negata o di giustizia ingiusta, di cui
le cronache sono dense anche in questi giorni. In un mondo ormai dominato dai media, la giustizia è divenuta “giustizia mediatica”, dramma televisivo nel quale ognuno di noi è un giudice
provvisorio, ma potente, più potente, per certi versi, degli uomini in toga nera dei quali spesso si mette in dubbio la credibilità,
l’autorevolezza e serietà. La spettacolarizzazione delle vicende
giudiziarie – negli Stati Uniti esiste ormai da quasi vent’anni
Courtroom Television Network, una rete televisiva tematica riservata alla diffusione delle immagini dei processi e molto in voga, nonostante l’orientamento restrittivo della Corte Suprema –
ha posto una serie di questioni tutt’ora irrisolte, specialmente
quella sull’influenza dell’opinione pubblica sulla formazione dei
giudici che sono chiamati a decidere sotto ai riflettori. Televisione e giustizia sembrano, quindi, proporre nuovamente, in una versione riveduta e corretta, “l’antico problema dello sguardo e della benda “, come ci ricorda ancora Adriano Prosperi. Ieri era l’occhio di Dio a vedere tutto, a percepire anche il più riposto comportamento dell’uomo; oggi è l’occhio (e l’orecchio) “orwelliano” a controllare l’agire di ciascuno. Ci basti pensare al Panopticon, il carcere ideale progettato dal filosofo e giurista Jeremy
Bentham nel 1971. Grazie alla forma radio-centrica dell’edificio,
un unico guardiano può osservare, senza essere visto, tutti i prigionieri sostituendo, così, all’onniscienza divina quella (altrettanto non visibile) umana. Da qui l’emblema secondo Michel Foucault per cui, nel suo “Sorvegliare e punire: la nascita della prigione” (1975), parla di un potere che non scende più sulla società dall’alto, ma la pervade dall’interno, insinuandosi impercettibilmente nel nostro quotidiano.
Marcello Dell’Anna
Da questo numero inizia una nuova rubrica curata dal nostro
amico di Livorno, Marcello Dell’Anna. Il prossimo suo intervento sarà dedicato al 41 bis.
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ueste pagine sono importantissime, danno spazio alle vostre espressioni che ci arrivano da varie carceri attraverso articoli e note più articolate, lettere che spesso evidenziano situazioni di invivibilità e ingiustizie subite, poesie. Non tutto il materiale che ci arriva lo riproduciamo sul giornale, vari scritti sono resi pubblici tramite il sito www. informacarcere.it. Tutte le osservazioni, le idee, gli scritti che ci arrivano ci servono per
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migliorare e ci fanno sentire espressione di un movimento, del
movimento dei detenuti condannati all’ergastolo e di quelli che
se hanno un fine pena subiscono la detenzione nelle sezioni speciali, differenziate o nella bolgia di quelle cosiddette “normali”
in cui però le... “norme” spesso non esistono.
Ringraziamo chi ci invia la sua voce e chiediamo a tutti i lettori
di farsi sentire.
Vita
Sollicciano
Dalla vita alla morte in un istante; come un capriccio del destino
che si diverte con me per farmi fare esperienza di vita o semplicemente per curarmi?
Il mio cammino inizia diciotto anni fa con l’ingresso nella
morte, girovagando qua e là senza meta, senza sapere bene
quale fosse lo scopo; la non accettazione della realtà e il fuggire da essa per rifugiarmi in un’altra dimensione, nella “nonvita”.
La “non-vita” distacca da tutto, tutto dà fastidio, anche il semplice alzare della voce di qualcuno, il volume del televisore,
il canto mattutino degli uccelli va ad interrompere il “non sonno”. Nella “non-vita” l’incertezza la fa da padrona mettendosi sempre davanti all’iniziativa, soffocando ogni forma di speranza che trascina sempre più nel profondo baratro, dove si
tocca il fondo per poi ricominciare la salita, toccare nuovamente il fondo, iniziare la salita e ritoccare il fondo. Mi accorgo che non sono mai risalito dal fondo, anzi, sono sprofondato ancora più giù perché questo fondo in realtà non c’è,
è un fondo per tappe e c’è un fondo sempre più in basso.
Scuola, teatro, sport..e ancora scuola, teatro, sport..ma lei c’è
sempre e sempre lì! C’è di giorno quando curi tutte le tue cose, quando per fuggirla studi come un forsennato o ti immergi completamente nello sport, non puoi fermarti, se fai una
pausa lei ti cattura nuovamente e ti fa rientrare nella sua dimensione della “non-vita”. Nulla ha senso, niente conta, tutto si nota e tutto dà fastidio; le cose piacevoli non hanno il
gusto che devono avere, niente ha sapore, tutto è insipido,
niente è come deve essere, nulla va come deve andare.
28/11/2009 ore 13.30 Mi comunicano: “La Corte di Assise
di Messina assolve dalla condanna all’argastolo.” Che strana cosa... non so bene come mi sento... ancora devo prendere coscienza di ciò che rappresenta passare dalla “non-vita”
alla vita. Niente più sogni interrotti dall’assalto di una paura improvvisa, la mente ritorna ad immaginare, a sognare, a
pensare! La vita non è come la “non-vita”, la vita ha gusto
in qualsiasi cosa, in ogni situazione che vivi; la vivi e basta
così com’è! Tutto diventa semplice, naturale; c’è una voglia
irrefrenabile di fare, di dire e di capire.
L’ergastolo non è una tortura dal punto di vista della pena
in quanto “quantità”, ma una condizione che il soggetto vive, anzi, “non vive”.
Immagina le tenebre
quelle delle sbarre d’acciaio
incrostate di ruggine e di sporcizia
sbarre fisse nei blocchi di granito antichi
come le montagne
nelle quali il tempo le formò.
Sentivo nelle ossa
l’impulso di strascicare i piedi
nei corridoi impregnati di sudore e paura;
respira questa aria infernale
assaggiala, perché è l’essenza della punizione
ascoltata, perché il tormento di una razza unica
qui deve trovare la tua dimora
la tua cieca comunione finale
con la devastazione insaziabile e sfrenata
che è il destino di tutti.
Questa piaga nelle viscere della società
questa fogna nelle fogne del mondo
è il luogo dove la necessità finisce
e incomincia la possibilità
nella gloria e nel dolore
della perdita assoluta.
Questa è la fine di una storia
per lasciare il posto
all’inizio di una vita
questa è la prigione di Sollicciano
dove ho imparato l’arte di sopravvivere.
Ridha Chtorou
Carcere di Sollicciano - luglio 2009
Sebastiano Bontempo
Via Rampa di Castello, 4
Volterra (PI)
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A piedi nudi
A piedi nudi sei uscita
dal mio cuore,
mentre il vento cancellava
le tue orme …
Un immobile silenzio
calava nella notte
è opprimente il vuoto
che hai lasciato nel mio cuore …
Guardo indietro senza voltarmi,
e al nostro passato vissuto
porgo l’ultimo sguardo
mettendo fine all’ultima timida speranza …
Angelo Tisa
Carcere di Siano (Catanzaro) - 04/09/09
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- VOCI DAL CARCERE - VOCI DAL CARCERE - VOCI DAL CARCERE
Senza inchiostro
queste parole
che io detto al vento d’estate
mentre se ne va
per sempre
cedendo il passo
a un giovane sole.
Senza inchiostro
queste parole
che io dipingo sulle sbarre
e l’arma di un’onda
scaccia via
come un fantasma.
Senza inchiostro
queste parole
che ho incise nel cuore
e non temono fruscii e carezze di mare
ma aspettano solo
un giorno nuovo
per essere lette
da qualcuno
che saprà rendere la vita
troppo bianca
foglio nudo
armonia di pensieri
romanzo di esistere
poesia di fede
Nicola Ranieri
Carcere di Spoleto - 09/12/2009
Un grosso contenitore
Un grosso contenitore
di ferro e cemento
dove l’unica differenziazione
è quella di corpi umani
divisi come plastica e cartoni
pronti per un riciclaggio
che non avviene mai...
Trattasi forse di elementi scadenti?
ci vuole un bravissimo chimico
che capisca come riciclare
tutta la materia grigia
buttata dentro questo
enorme “bidone”.
Cuori, anime e sentimenti
sono questi gli elementi
che si devono unire
affinché un differenziato
diventi “uomo”.
Ma l’unico che può
fare tutto questo
è un “chimico” che ci ha
plasmato la prima volta
e si chiama Dio!!!
Marcello Ramirez
Carcere di Siano (Catanzaro) - Settembre 2009
La barzelletta di Berlusconi sull’ergastolo
Nell’attesa dell’arrivo del Capo dello Stato all’inaugurazione
dell’anno giudiziario, Silvio Berlusconi racconta una barzelletta ai presidenti delle Camere e ad alcuni magistrati:
- Dio è preoccupato per la degenerazione regnante sulla terra,e
invia Gesù in missione.
Dopo 33 anni, però, suo figlio ancora non ritorna.
Passa qualche altro decennio e di Gesù nessuna traccia.
Dopo100 anni sente alle porte del paradiso un imprevisto “toc
toc”.
Dio apre le porte del Paradiso. “Papà” esclama Gesù.
“Figlio mio, che cosa è successo? Ti aspettavo 60 anni fa”.
E Lui: “Papà in terra è successo di tutto, non c’è più la pena di
morte e mi hanno dato l’ergastolo”.
(Fonte: Corriere della Sera sabato 30 gennaio 2010)
Signor Silvio Berlusconi, poche volte ho sentito una barzelletta di così pessimo gusto, forse perchè, per l’appunto, sono un ergastolano.
Forse lei non sa, se lo faccia spiegare dai suoi famosi e bravi avvocati, che in Italia esistono due tipi di ergastolo.
Uno normale, che ti da la speranza, ma non la certezza, un giorno di poter uscire, mentre con l’altro, l’ergastolo ostativo, non
hai nessuna speranza se non passi il tuo ergastolo a qualcun’altro.
Io non so che tipo di ergastolo aveva il suo Gesù della barzelletta che ha raccontato, ma le assicuro che se aveva quello ostativo non sarebbe mai uscito se anche lui non avesse fatto come
Giuda.
Mai dire mai
L’ergastolano ostativo per tornare ad essere un uomo libero può
solo donare la sua vita alla morte.
Signor Silvio Berlusconi, raccontare barzellette sugli ergastolani è come ridere sui morti, perchè in Italia con l’ergastolo ostativo non c’è speranza.
E non hai scelta!
Hai solo la scelta di togliere la libertà ad un altro per avere la tua.
Signor Silvio Berlusconi, se siamo uomini non possiamo vivere senza speranza, solo gli animali ci riescono.
La criminalità organizzata non si sconfigge solo con il pentitismo, si sconfigge soprattutto con l’abolizione dell’ergastolo
ostativo.
L’ergastolo è una pena di morte a gocce ed è sbagliato dire che
assomiglia alla pena di morte perchè è molto peggio, in questo
modo continui a vivere, ma smetti di esistere: ti lascia la vita, ma
ti ammazza il futuro.
Signor Silvio Berlusconi, lo sa che cosa è la cosa più brutta della giornata dell’ergastolano?
Che domani inizia tutto daccapo, che sarà un giornata come ieri, come sarà domani e dopodomani, come sarà per sempre...
Un ergastolano ostativo non può fare altro che prepararsi a morire.
Signor Silvio Berlusconi, è già così dura la nostra vita, se può,
non ci prenda per il culo raccontando barzellette sugli ergastolani.
Carmelo Musumeci
Carcere Spoleto - Febbraio 2010
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- VOCI DAL CARCERE - VOCI DAL CARCERE - VOCI DAL CARCERE
Ho visto follia!
da un po’ che non scrivo i miei “dal di dentro”. A volte
per comprendere meglio tutto ciò che ci circonda bisogna allontanarsi dalla “folla” e cercare un punto più alto
di osservazione e stare fermo lì a osservare in silenzio. Solo così si possono notare le differenze, i cambiamenti. È come quando si gioca a scacchi o a dama, chi è fuori a osservare vede le
mosse meglio di chi sta giocando.
Cosa ho visto dal mio “osservatorio”? Ho visto follia! Sì, una
strana follia che si sta impossessando dell’essere umano. A
parte la xenofobia, l’omofobia, l’insensata paura non solo del
diverso ma dell’altro, quello che più dovrebbe in questo momento preoccuparci è la follia che si è impadronita dei nostri
stravaganti governanti. Si critica duramente l’Iran per la sua
intenzione di arricchire l’uranio per le centrali nucleari e il
giorno dopo annunciano la decisione d’iniziare i lavori per le
centrali nucleari in Italia. In Italia, vi rendete conto! Calpe-
È
stando la sicurezza di intere regioni e non solo, per amore verso il dio denaro. Questa è pura follia! Una centrale nucleare
non basterà ad abbassare le nostre bollette della luce, ne costruiranno altre ancora... e allora? Con tutti i soldi spesi per
costruirle inizieremo a risparmiare con la bolletta tra 50 anni,
quando le prime centrali saranno già obsolete. Allora lo scopo reale di questa follia qual’è? La mania di grandezza, la convinzione di potere assoluto di una classe politica che ha perso il lume della ragione, ecco qual’è il vero motivo!
Io avrei una proposta: costruire le centrali nucleari a patto che
i nostri governanti ci vadano ad abitare accanto. Questo darebbe più sicurezza? No, ma in caso di incidente nella centrale sarebbe una bella soddisfazione se i nostri folli governanti
fossero i primi a lasciarci il culo...
Alfredo Sole
Carcere di Opera - febbraio 2010
Giornata felice...
ualche giorno fa ho ricevuto una lettera da un mio compagno detenuto in un altro carcere. Un avvocato di un
detenuto gli porta la notizia che l’abolizione dell’ergastolo è passata alla Commissione Giustizia traendo spunto dalla proposta del Codice Pisapia. Giornata felice per quei compagni destinatari di una notizia così travolgente. Tutti ad ascoltare
i dibattiti televisivi dei politici, giorno dopo giorno, nella speranza di sentire quello che ognuno di loro si augurava. Nulla!
Nessun riferimento a ciò che si agognava...
Per qualche giorno i cuori dei miei compagni avevano ricominciato a battere, avevano di nuovo, anche se per poco, sentito la vita scorrergli nelle vene.
Li ho immaginati mentre ognuno di loro faceva progetti di vita, che scrivevano alla famiglia dicendo: Aboliscono l’ergastolo! Finalmente avrò una data sul calendario per tornare a casa tra le vostre braccia e il vostro amore...
Tutta questa felicità si è spenta in pochi giorni. Le loro anime ritorneranno nell’oblio della certezza di una pena che non
finirà MAI. Cosa è successo? Niente di “speciale”.
È tutto nella norma. È così che noi viviamo, apparentemente
rassegnati al nostro destino ma non appena intravediamo un
barlume di luce, eccoci precipitarci verso quello che si rivelerà essere l’ennesima illusione. Colpa di un avvocato che ha
detto una “fesseria”? Del suo cliente che ha frainteso? Non
importa di chi è la colpa, la verità è che alla fine abbiamo bisogno di questi fraintendimenti, ne abbiamo bisogno per spezzare, anche se per poco, quella certezza che divora il nostro
essere, la certezza del fine pena mai! Illusioni che come le onde si infrangono sugli scogli lasciandoti il sapore salmastro in
bocca, ma necessarie per rimanere confinati nel buio, un buio
irto di insidie, che non fa altro che indurti alla rabbia, di senso di impotenza che diventa la dipendenza di quell’Io che nessuno vorrebbe più essere. Pietà? No, non è questo che chiediamo, ciò che vogliamo è il diritto alla vita che non è il diritto a vivere. Noi viviamo e continuiamo a vivere. La vita, invece, è l’ESISTENZA! Ciò di cui siamo stati privati.
Dal camere di Parma
Dal camere di Parma
... In questo carcere anche i detenuti comuni sono trattati come
se fossero nelle sezioni al 41 bis. Siamo trattati come bestie.
Quando qualche parlamentare viene a visitare il carcere noi lo
sappiamo dai giornali, perché nelle sezioni non li vediamo. Chi
dirige il carcere di Parma l’art. 27 della Costituzione non sa cosa sia, ma deve aver letto bene le norme che regolano Guantanamo. Il problema è che nessuno parla di ciò che succede nel
carcere di Parma. Vorrei tanto essere trasferito. Voglio studiare, imparare, conoscere l’uso del computer, invece mi impongono di stare a Parma a non far nulla...
Vi invio i miei più cari saluti
Un detenuto di Parma
Sono Mario Martella, ho 31 anni e sono nato a Surbo in provincia di Lecce. I giudici della Corte d’Assise d’Appello mi hanno
confermato la condanna all’ergastolo e questo per le dichiarazioni di due collaboratori che hanno riferito cose sentite da altre persone su di me. Essi hanno dichiarato che per “sentito dire” sono stato il cambio macchina e l’esecutore dell’omicidio di
due persone che si trovavano nel bar Mille Sfoglie di Surbo il 31
marzo del 2001. Nella mia vita non sono stato un santo e sto pagando ancora i miei errori però non ho mai commesso questi reati di sangue e non sono un killer. Stanno distruggendo la mia vita e quella della mia famiglia e principalmente quella di mio figlio di 8 anni...
Mario Martella
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Alfredo Sole
Carcere di Opera - Marzo 2010
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- VOCI DAL CARCERE - VOCI DAL CARCERE - VOCI DAL CARCERE
Chi sono le vittime?
U
n’amica mi scrive che alcuni suoi amici leggendo ciò che
scriviamo... dicono che non riescono ad “intenerirsi”. La
loro riflessione è semplice, lineare e lecita: “Come mai
nessuno di quelli che scrivono hanno parole di scuse per il male
che hanno fatto? Parlano solo della loro sofferenza. E quella che
hanno inflitto agli altri? In tutti i loro scritti c’è la ferma convinzione che sono loro ad essere le vittime!!”.
Tutto sommato credo che anch’io la penserei allo stesso modo se
fossi nella “barricata opposta” ma non mi limiterei soltanto ad
esprimere il mio pensiero-convinzione, vorrei sapere il perchè di
questo “vittimismo”.
Voglio esprimere un mio pensiero con la speranza di articolarlo
in modo da essere di facile comprensione senza lasciare spazio a
“comprensioni di convenienza”. Qual’é il modo giusto per far
sentire colpevole una persona? Cercherò di fare un esempio con
un piccolo racconto: un delinquente si intrufola in una proprietà
privata. Entra nel magazzino dove trova della frutta stipata nelle
cassette pronta per il mercato. Vista la possibilità di tanta scelta
inizia a prendere da diverse parti non curandosi dei danni che sta
facendo buttando tutto sotto sopra. In quel momento viene scoperto e nel cercare di fuggire resta impigliato nel filo spinato. Il
proprietario, conscio di essere nella ragione, inizia a bastonare il
ladro ormai inerme e pieno di ferite a causa del filo spinato. In
quel preciso momento il delinquente inizia ad essere una vittima,
Lettera dal carcere
di Carinola
... Dal 10 luglio del 2008 sono sottoposto all’isolamento diurno che
finirò il 10 luglio del 2010. Voglio mandarvi alcune osservazioni
scritte sulla pena di morte. Alcuni Stati ancora la infliggono a persone ritenute responsabili di reati gravi come l’omicidio e l’alto tradimento e considerano questa pena come un efficace deterrente per
la criminalità, come una punizione esemplare per i delitti più efferati... Io sono fortemente contrario alla pena di morte e le mie motivazioni si basano: sulla disumanità di tale pena, sulla possibilità
dell’errore giudiziario, sull’irregolarità e non equità di alcuni processi, sull’esigenza di garantire al reo l’opportunità di redimersi e
di rendersi utile alla comunità sociale cui ha arrecato danno, sulla
illegittimità morale di stroncare una vita umana.
Io sono inoltre convinto che la pena capitale non funzioni come deterrente e questo si vede anche dalle statistiche che riguardano i
Paesi in cui è ancora prevista la pena di morte e dove i crimini non
sono assolutamente diminuiti.
Negli U.S.A. può essere condannato a morte e giustiziato anche
chi al momento del reato era minorenne. In Cina le condanne capitali sono accompagnate dall’umiliazione che avvengono in luoghi pubblici e che i condannati sono costretti a tenere al collo con
scritto il loro nome ed il reato per cui vengono giustiziati. Le loro
famiglie sono costrette a risarcire i costi delle esecuzioni. Vergogna! Altro che popoli civilizzati!
La vita è sacra e questo deve essere chiaro a tutti.
Carmelo Pugliara
Mai dire mai
la pena inflitta dal proprietario, nonostante sia nella ragione, non
può far altro che alimentare la rabbia di chi sta subendo, è lui ad
essere indifeso e solo, è lui a essere la vittima!
Adesso cambiamo solo il finale di questa storiella infantile.
Il proprietario si avvicina al delinquente impigliato nel filo spinato, si accorge che il filo spinato sta dilaniando le carni del malcapitato, non lo bastona, anzi, lo aiuta a liberarsi. Lo perdona e gli
fa capire che a causa sua domani perderà il mercato e il raccolto.
Sentendosi ormai libero dallo spinato il delinquente scappa ma
mentre corre inizia a sentirsi in colpa; ha fatto dei danni e in cambio ha ricevuto aiuto e perdono e per colpa sua quella persona perderà il raccolto. Sta male a quel pensiero, è una sensazione nuova quella che prova. Non può fare a meno di tornare indietro e
aiutare il proprietario a risistemare la frutta nelle cassette.
Morale? Beh, spero che sia evidente!
La nostra condanna è quel filo spinato che ci lacera le carni ma
siamo stati noi a impigliarci, quello che chiediamo è che si smetta di darci bastonate. Se continuano a “picchiarci” con quale pretesa si può anche solo pensare che possiamo sentirci “in colpa”
se sotto i colpi non possiamo fare altro che sentirci delle vittime?
Aiutateci a uscire dal filo spinato e ci aiuterete a sentirci in colpa, perchè solo smettendo di essere delle vittime possiamo davvero cercare di rimediare a ciò che abbiamo commesso.
Ma se tutto è così semplice, evidente, perchè si continua ad attuare ciò che ormai nessuno può negare: La vendetta sociale? Finirò col pensare che, in realtà, l’uomo ama la violenza e quando non
la può attuare di persona, si accontenta di guardare chi infligge il
dolore alimentandola con la falsa morale. Quando si dice di noi
che meritiamo di morire in carcere non si sta forse alimentando
una violenza estrema? Augurarsi la morte, anche sociale, di un altro essere umano, può mai essere segno di civiltà e giustizia? Qual’é la differenza tra chi conficca un coltello nel cuore di un altro
e chi se ne sta a guardare, magari godendo alla vista del sangue?
...Se mi sento una vittima? No, non mi sento una vittima, sono
una vittima! E lo sarò finché continuerò a ricevere bastonate mentre sono impigliato nel filo spinato. C’è solo una differenza: io sono capace di perdonare, e voi?
Alfredo Sole
Carcere di Opera – gennaio 2010
Castelli di ghiaccio
Fiocca la neve dal cielo, e il freddo glaciale rende più squallidi questi castelli di ghiaccio.
Tutt’intorno uomini spenti, appesi solo a fragili fili, a cui si aggrappano tenacemente.
Nemmeno la natura è clemente con noi!
Fiocca la neve dal cielo... I sogni, i desideri, i nostri amori ricoperti
di neve morranno senza un raggio di sole.
Nasciamo ogni mattina mentre sorridiamo.
Moriamo ogni notte dentro una lacrima.
Aspettiamo la fine.
Il filo fragile ormai ci è sfuggito di mano.
Fiocca la neve dal cielo, e il freddo glaciale, rende più squallidi questi castelli di ghiaccio.
Antonio Tafuro
Carcere di Fossombrone - Ottobre 2009
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Perché nelle carceri italiane ci si può togliere la vita
ma non si può fare l’amore?
el Corriere della Sera di martedì 2 marzo 2010 ho letto
che nel carcere di Bollate una detenuta è rimasta incinta da un detenuto.
Radio carcere sostiene che erano fidanzati e che si potessero
vedere solo nell’aula scolastica dell’istituto.
La cosa mi ha fatto sorridere, perché fa tenerezza che in un
luogo di sofferenza e dolore nasca l’amore e la vita.
Ho continuato a leggere l’articolo, ad un tratto ho smesso di
sorridere.
- Il segretario del sindacato di polizia penitenziaria SAPPE,
che ha denunciato l’accaduto, chiede che il ministro Alfano
predisponga approfondimenti.
Incredibile!
Il carcere di Bollate, l’unico che in Italia funzioni e che applichi il principio rieducativo previsto dall’articolo 27 della
Costituzione, fa scandalo perché i detenuti invece di ammazzarsi fanno l’amore.
Pazzesco!
Il segretario del sindacato di polizia penitenziaria invece di
chiedere approfondimenti nelle carceri dove si muore come
mosche, (da gennaio dodici suicidi dietro le sbarre, al
26/02/2010) chiede approfondimenti nell’unico carcere dove
non si è suicidato nessuno, ma è stata concepita una vita.
Tutti parlano e scrivono dei morti in zone di guerra in Afghanistan o in Iraq, ma nessuno ormai parla e scrive più dei morti in carcere in Italia.
N
Dietro il vetro
È un’ora che ti guardo, in silenzio
mi domando se ancora son vivo
e pizzicandomi le carni mi accorgo di sì.
È un’ora che ti guardo e mi chiedo
perché tutto questo succede proprio a me.
È un’ora che ti guardo,
racchiuso in questa sfera di cristallo
come pesce boccheggiante.
È un’ora che ti guardo, aspettando
inutilmente che da qualche pertugio
entri la scia del tuo soave odore.
È un’ora che ti guardo, dietro questo
spesso vetro, scrutando ogni tuo movimento, cercando di immettermi nella tua
mente e capire quel che pensi.
È un’ora che ti guardo, stare vicino a te
è come vivere nell’Eden, mia sublime.
È un’ora che ti guardo pensando ogni
momento solamente a te.
È un’ora che ti guardo negli occhi e mi
accorgo
che a stento trattieni le lacrime
per non darmi dolore.
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Che strano paese è l’Italia: fa notizia che due detenuti invece
di ammazzarsi fanno l’amore, ma nessuno scrive e parla del
fatto che le persone che si sono tolte la vita nel nostro paese
in carcere sono superiori ai soldati americani morti in Afghanistan o in Iraq.
Ricordo ai politici di questo nostro strano Paese che il desiderio d’amore è naturale e istintivo; che l’affettività è da sempre considerata un diritto fondamentale; che la pena dovrebbe privare le persone soltanto della loro libertà; che sono ormai tantissimi i Paesi nei quali sono permessi i colloqui intimi, persino paesi come l’Albania, considerato fanalino di coda dell’Europa; che è disumano il divieto di dare e ricevere
una carezza o un bacio dalla persona che ami; che la mancanza di contatti intimi reca danni alla psiche e alla sfera emozionale; che un individuo in carcere non perde il diritto di avere diritto; che un carcerato resta un membro della famiglia
umana: anche i detenuti, piangono, sorridono, si nutrono, respirano e pensano, eppure molti di noi non hanno rapporti intimi con le loro compagne da decenni.
Non è naturale questo modo di vivere: in carcere i detenuti
non dovrebbero perdere il diritto di amare e di essere amati.
Perché nelle carceri italiani ci si può togliere la vita ma non
si può fare l’amore?
Carmelo Musumeci
Carcere Spoleto - marzo 2010
Questo libro di poesie apre la nuova collana
“Voci dal carcere”, a cui la nostra associazione tiene molto. Riteniamo, infatti, importante che alcuni nostri amici, che hanno trovato nella scrittura poetica o narrativa uno
spazio vitale, abbiano la possibilità di far conoscere all’esterno i propri lavori. Il libro è
strutturato in una prima parte costituita da alcune prefazioni: quella del volontario Pier
Luigi Pertusati dell’Associazione Betel, che
ha conosciuto Antonio nel carcere di Alessandria, quella autobiografica dell’autore e
quella di sua figlia Sara che ha curato le fotografie che arricchiscono il libro e e che illustrano Platì, il paese natale dell’autore in
provincia di Reggio Calabria. La parte centrale è costituita da 76 poesie suddivise per
argomento: ricordi, fede, sentimenti, suggestioni. Qui a fianco riportiamo la lirica: Dietro il vetro.
Il libro può essere richiesto anche alla nostra
Associazione inviando 10 euro. Ai compagni detenuti viene inviato su offerta libera.
Mai dire mai
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In questa rubrica dedicata ai libri e ai siti e blog troverete qualche cambiamento. Anche questi sono nati da vostri suggerimenti. Così Sandro Padula ci ha scritto se eravamo interessati a pubblicare una sua recensione ad un libro interessante ma che non
aveva un diretto riferimento con il carcere, così da Agrigento un altro compagno detenuto ci ha suggerito di affrontare argomenti di carattere religioso (vedi quindi nella rubrica Interventi, l’articolo ripreso da Riforma) e noi abbiamo ancora portato avanti questo concetto e abbiamo chiesto anche ad uno di “famiglia”, Giovanni Capecchi, figlio di Giuliano, ricercatore di letteratura italiana presso l’Università per Stranieri di Perugia, di scrivere la recensione dell’ultimo libro di Tabucchi, facendo anche
una breve scheda dell’autore e scegliendo un brano significativo per dare un’idea del modo eccezionale con cui si esprime questo grande scrittore contemporaneo, e poi avendo modo di riincontrare dopo tanti anni Giorgio Bouchard, che presentava a Firenze un suo recente libro: “Evangelici nella tormenta. Testimonianze dal “secolo breve” gli abbiamo chiesto di curare una rubrica sui “testimoni” del novecento e chi meglio di Nelson Mandela poteva iniziarla?
Certo il nostro periodico rimane e rimarrà un giornale monotematico, con la centralità del carcere e con la specificità dell’abolizione dell’ergastolo e dell’opposizione ad ogni forma di tortura (ed ecco il perché della scheda sui tre importanti libri usciti su
questi temi), ma che ne pensate di queste “evasioni” nel mondo della letteratura e della cultura? Fateci sapere. Grazie !
Il saggio: Governare i beni collettivi
di Elinor Ostrom
arrett Hardin era del tutto pessimista sulla possibilità di
evitare la “tragedia dei beni comuni”. Attraverso un articolo pubblicato su Scienze (1968), propose di immaginare una zona di pascolo “aperta a tutti”. A suo avviso, ogni
allevatore avrebbe cercato di aumentare sempre di più il numero degli animali posseduti per beneficiare di tale zona e in questo modo, utilizzandola in modo eccessivo, si sarebbe verificato un deterioramento della risorsa comune.
Hardin riprendeva, con modalità del tutto specifiche, un vecchio ragionamento di Aristotele secondo cui “ciò che è comune alla massima quantità di individui riceve la minima cura.
Ognuno pensa principalmente a se stesso, e quasi per nulla all’interesse comune” (Politica, Libro II, cap. 3).
La tesi di Aristotele però, se ben compresa, segnala soprattutto la necessità sociale di analizzare e ben gestire “ciò che è comune”.
Elinor Ostrom, ad esempio, nel suo Governing the Commons,
pubblicato dalla Cambridge University Press nel 1990 e poi tradotto in diversi paesi (in Italia dalla Marsilio nel 2006 con il titolo Governare i beni collettivi), sottopone ad attenta analisi tre
tipi di sistemi di risorse collettive: “1) risorse rinnovabili, invece di risorse non rinnovabili, 2) situazioni in cui esiste una
notevole scarsità, 3) situazioni in cui gli utenti possono danneggiarsi notevolmente l’un l’altro, ma non situazioni in cui i
partecipanti possono danneggiare gravemente soggetti terzi”
(pag. 40 di Governare i beni collettivi).
Rispetto a questi tipi di sistemi, analizza sia delle realtà di successo che dei casi di fallimento dell’autogoverno dei commons.
Utilizza il metodo dell’“analisi istituzionale”, ha un approccio
empirico e concentra l’attenzione sulle figure sociali degli utilizzatori, da lei chiamati appropriatori (appropriators), perché
in passato l’analisi dei comportamenti degli appropriatori era
stata la base dei ragionamenti pessimistici di Garrett Hardin.
Scuote così le coscienze pigre e, a differenza dello stesso Hardin, prospetta soluzioni alternative alla privatizzazione da un
lato, e al forte ruolo dello Stato e delle regole esterne, dall’altro lato. Ritiene infatti che nella gestione dei beni comuni, per
i cui studi ha meritato il premio Nobel dell’economia nel 2009
rompendo per altro il monopolio maschile in tale campo, i sistemi migliori siano e debbano essere quelli basati sulla possibilità di mantenere nel tempo regole e forme di autogoverno
locale di uso selettivo delle risorse.
A tale proposito utilizza il concetto di local empowerment non
solo come sinonimo di capacità di autogoverno ma anche co-
G
Mai dire mai
me espressione di un’organizzazione dinamica che, sulla base
delle nuove acquisizioni cognitive e informative, detta delle regole flessibili e mutevoli di utilizzo dei commons
In questo modo propone un governo dei beni collettivi capace
da un lato di evitare sia l’utilizzazione eccessiva che un sovrabbondante e dispendioso lavoro amministrativo e dall’altro di favorire la scelta di strategie individuali cooperative da parte degli utilizzatori.
Come sottolinea Cristiano Andrea Ristuccia nel primo saggio
introduttivo a Governare i beni comuni, Ostrom dimostra che
nelle inevitabili condizioni di informazione asimmetrica e incompleta relativamente a determinati beni comuni autogestiti
da comunità locali che ne regolano l’uso – ad esempio banchi
di pesca, aree di pastorizia montana di proprietà comunitaria
ma con armenti di proprietà individuale, arre coltivate di tipo
open field caratteristiche dell’Europa nord occidentale nel basso Medioevo, o risorse idriche allo stesso tempo scarse, comuni, e afferenti ad appezzamenti privati - la somma del dispendio per acquisire le informazioni necessarie a definire il sistema delle regole, per il monitoraggio degli appropriatori, per
evitare le trasgressioni e per le forme di risarcimento da parte
di chi trasgredisce le regole stesse è spesso inferiore rispetto
alla somma del dispendio che sarebbe necessario per mantenere situazioni regolamentari eterodirette (dalla proprietà privata o dallo Stato centrale).
Il merito indiscutibile di questo studio è che la questione dei
commons è stata posta alla riflessione culturale mondiale andando oltre l’orizzonte binario e novecentesco che faceva
l’apologia del privato o del pubblico, della mercificazione o
della statalizzazione.
Il paradosso è che il pensiero di Elinor Ostrom da una parte si
è autoproclamato assertore della validità del metodo di Hobbes, Montesquieu, Hume, Smith, Madison, Hamilton e Tocqueville, perciò di un filone culturale di approccio liberale empirico, razionalista “critico”, antiideologico e individualista, ma
d’altra parte è utile ad ognuno e a tutti per riflettere sui commons e sulle forme relative alla loro autogestione.
I principali limiti dell’opera sono invece quelli di non affrontare la decisiva questione della qualità del lavoro di cura e mantenimento dei commons presi in esame e di non avere una cornice teorica ampia in cui collocare la relativa ricerca sui beni
comuni.
Specifici valori d’uso, compresi specifici valori d’uso comuni,
possono essere scarsi o diffusi, locali o globali. Il complesso
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dei valori d’uso, pur condizionato oggi dal modo di produzione capitalistico, è però variabile. In parte significativa dipende
dal divenire della conoscenza, dal grado di educazione rispetto all’idea che “l’umanità è una sola famiglia con interessi comuni” (Bertrand Russell) e dalla qualità del lavoro necessario
alla riproduzione sociale e al ricambio organico fra la società
e la natura di cui fa parte la società stessa.
Molti valori d’uso comuni, specie quelli scarsi e locali, necessitano ad esempio di lavori concreti di cura e mantenimento ad
alta e aggiornata qualità cognitiva rispetto ai metodi di volta in
volta migliori da utilizzare. Questi lavori, oggi chiamati in gergo politico lavori socialmente utili e spesso svolti da persone
semilibere o ex detenute, non sempre però risultano ben fatti.
A volte, e lo diciamo all’unico scopo di favorirne una generale riqualificazione, sono perfino controproducenti non solo per
gli utenti ma anche per il futuro mantenimento dell’occupazione da parte dei lavoratori addetti.
Facciamo un esempio: la potatura di quei beni comuni chiamati platani che troviamo in diverse città italiane. Secondo esperti come Maria Pia Montesi, presidente dell´associazione Ananke, e l’arboricoltore Marco Garbini, la potatura dei platani deve essere svolta in mesi particolari (d’estate è meglio non eliminarne le fronde e le ombre) e con grande accortezza. Deve
fare un attento ricorso al metodo del “taglio di ritorno”, usato
negli Usa, nel Nord Europa e in Giappone, che prevede lo sfoltimento con la recisione dei rami più grandi e il mantenimento di quelli più piccoli, ed evitare sempre la tranciatura di tutti
i rami. Un eventuale uso di quest’ultima e veloce metodologia
favorirebbe infatti la nascita di nuovi rami “cariati” e deboli, il
loro successivo crollo e una morte lenta delle piante (vedasi su
Internet: “Arrivano i superesperti per difendere i platani” di
Laura Serloni, su “La Repubblica”, cronaca di Roma, 16 settembre 2009).
Il problema della gestione dei beni comuni, che riguarda anche
beni come i saperi, la salute e la libertà di ognuno e di tutti, è
quindi connesso alla cultura e all’informazione dell’insieme
della società.
Pone infatti una complessa ma strategica questione: la coscienza della necessità di rivoluzioni cognitive, scientifiche, tecniche e sociali capaci di comprendere che la ricchezza effettiva
è costituita dai valori d’uso e può crescere nella misura in cui
il sistema dei bisogni della riproduzione sociale è soddisfatto,
localmente e globalmente, da valori d’uso abbondanti, rinnovabili e comuni. Da scoprire, studiare, conoscere e ben gestire.
Ognuno, in ogni ambito, può prenderne consapevolezza.
Le persone detenute, tanto per dirne una, possono fornire il proprio specifico contributo proponendo la riqualificazione dei lavori socialmente utili e delle misure alternative al carcere affinché, attraverso strutture cooperative e in rapporto con gli Enti Locali, possano lavorare e vivere all’esterno del mondo carcerario, con alta qualificazione professionale, adeguata retribuzione e in maniera responsabile. In fondo, nella pratica e non
certo nelle chiacchiere della retorica, amare i beni comuni e la
libertà è la stessa cosa. Come insegna la stessa Elinor Ostrom
nella sua critica alle tesi di Garrett Hardin, il gioco del “dilemma del prigioniero” dimostra che usare strategie individuali
non cooperative, cioè quelle mentalità e quei comportamenti
per cui ognuno pensa solo al proprio tornaconto personale e a
spese dell’altro, significa rimanere nell’ignoranza e compiere
danni incalcolabili nei confronti di ogni bene comune.
Sandro Padula
Il libro: Il tempo invecchia in fretta
di Antonio Tabucchi
na donna di quasi quarant’anni ripensa, improvvisamente, alle sue lontane radici, alla nonna cresciuta nel
Maghreb, ai racconti – fatti di sole e di deserto – ascoltati dalla propria madre: «Perché quei luoghi di sabbia di cui
le aveva parlato sua madre quando era bambina erano rimasti
sepolti nella sabbia della sua memoria?». Nella mente di un uomo, al capezzale della zia morente, affiorano immagini «dal
pozzo dei ricordi», frammenti di una vita che pensava definitivamente trascorsa e immersa nell’oblio; la zia, che lo ha allevato perché rimasto orfano, gli racconta di quando era molto
piccolo, di una stagione che non può ricordare: «Non ridere,
disse lei, avrei voglia di parlare, ti vorrei parlare, poi non so se
ci sarà un’altra occasione. Lui fece un cenno con la testa e le
chiese all’orecchio: di cosa mi vuoi parlare? Della tua infanzia, disse lei, di quando eri un bambino così piccolo che tu non
te ne puoi ricordare. (…) i ricordi di quando si è bambini li hanno quelli che allora erano già adulti». Un generale in pensione
aspetta sulle coste della Croazia gli effetti dell’uranio impoverito, dialoga con una bambina e osserva le nuvole, ripensa alle
guerre che ha fatto e ricerca la pace; il padre della bambina fa
l’architetto: «Ci sono uomini come tuo padre che per professione le case le costruiscono e uomini del mio mestiere che le
case le distruggono». Un ex agente della Stasi, ormai avanti con
gli anni e rimasto vedovo, cammina nelle strade di una Berli-
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no estiva senza saper dove andare, disorientato da quando il
Muro è crollato: «Ah, il muro, che nostalgia del muro. Era lì,
concreto, segnava un confine, marcava la vita, dava la sicurezza di un’appartenenza. Grazie a un muro uno appartiene a qualcosa, sta di qua o di là, il muro è come un punto cardinale, di
qua c’è l’est, di là l’ovest, sai dove sei». Un ebreo, perseguitato nella Romania della dittatura comunista, ripensa alla sua
storia di esodi e di inseguimenti, mentre dalla finestra osserva
il panorama di Tel Aviv, nella finalmente raggiunta terra promessa, e cerca di dialogare con il figlio: «Sai, figliolo, continuò, hai voglia di raccontare i tuoi ricordi agli altri, quelli stanno a sentire il tuo racconto e magari capiscono tutto anche nelle minime sfumature, ma quel ricordo resta tuo e solo tuo, non
diventa un ricordo altrui perché lo hai raccontato agli altri, i ricordi si raccontano, non si trasmettono». Il generale cecoslovacco che ha condotto la rivolta antisovietica a Budapest, ormai vicino alla morte, dopo essere stato riabilitato, va a Mosca
per conoscere colui che, nel 1956, aveva guidato la repressione russa, spogliato ormai dall’abito del nemico e incontrato come uomo; racconta quei giorni ad un amico: «Ferenc, ti voglio
dire una cosa, forse tu non ci crederai, ma a Mosca ho passato
i giorni più belli della mia vita».
È questo, in estrema sintesi, il contenuto di alcuni dei nove
racconti che compongono l’ultimo libro di Antonio Tabucchi,
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intitolato Il tempo invecchia in fretta e pubblicato nel 2009
dall’editore Feltrinelli. Nove racconti che sono tenuti insieme
non solo da una scrittura avvolgente e poetica, dall’inconfondibile andamento monologante e dal costante ricorso al discorso indiretto libero, ma anche da una riflessione continua sul
tema del tempo.
I racconti del libro, infatti, rappresentano nove diverse riflessioni sul tempo, sul suo trascorrere e invecchiare in fretta, sul
rapporto tra presente e passato, su ciò che rimane del passato,
su frammenti di questo passato che riaffiorano casualmente
(basta una parola, un suono, un’immagine a riportare a galla
una storia, un volto, un momento della vita trascorsa), sulla memoria e sul ricordo. Ma, secondo una caratteristica tipica della narrativa di Tabucchi, le riflessioni di carattere esistenziale
– che riguardano la vita di ogni singolo uomo, che sono legate a tanti frammenti di storie individuali – si intrecciano a riflessioni relative alla Storia (a quella con la “S” maiuscola). È
così che in questo libro, oltre al dominante sentimento del tempo (così lo avrebbe chiamato un poeta del ‘900, Giuseppe Ungaretti), oltre ai tanti interrogativi che riguardano la vita di
ognuno di noi (Tabucchi ha in varie occasioni sostenuto che lo
scrittore ha una «funzione interrogativa»: pone dei dubbi, non
è in grado di dare risposte certe), è possibile trovare pagine –
o magari poche righe – che raccontano la storia, drammatica,
del secolo scorso: la tragedia delle guerre, i mostri generati dalle ideologie salite al potere, la realtà dei regimi comunisti ben
lontana dai sogni di giustizia e di liberazione, il “secolo breve”
delle lunghe persecuzioni antiebraiche. Non senza qualche accenno, polemico, all’Italia di oggi, fatto attraverso le parole di
una donna ricoverata in un ospedale: «Cosa vuoi, educare il popolo è tempo perso, del resto questo grande popolo ora ha fatto i soldi e lo ha educato il Grande Fratello, per questo lo votano, è un circolo vizioso, votano chi li ha educati».
Giovanni Capecchi
PAGINA SCELTA
BREVE PROFILO
Nel racconto I morti a tavola, un ex agente della Stasi cammina per le strade di Berlino in una assolata giornata estiva. Rimasto vedovo da poco, si sente solo, inutile
e disorientato: prima, quando c’era il regime comunista e sua moglie Renate era viva, sapeva cosa fare e dove andare. Ora trascorre le giornate facendo finta di dover
pedinare qualcuno («Perché l’Obiettivo sapeva bene dove andare, e lui invece no»)
e andando a trovare al cimitero il poeta che ha seguito per molti anni, Bertold
Brecht. Proponiamo qui di seguito la pagina in cui l’ex agente della Stasi arriva al
cimitero e parla con Brecht:
«Quando arrivò davanti alla tomba disse: ciao, sono venuto a trovarti. Improvvisamente non ebbe nessuna voglia di parlargli della casa e di come si era sistemato bene per la sua vecchiaia. Indigiò e poi disse soltanto: tu non mi conosci, mi
chiamo Karl, è il mio nome di battesimo, guarda che è il mio nome vero. In quel
momento arrivò una farfalla. Era una farfalletta comune dalle ali bianche, una cavolaia vagabonda che vagava nel cimitero. Lui si immobilizzò e chiuse gli occhi,
come se esprimesse un desiderio. Ma non aveva nessun desiderio da esprimere. Riaprì gli occhi e vide che la farfalla si era posata sulla punta del naso del busto di
bronzo che sorgeva davanti alla lapide.
Mi spiace per te, disse, ma non ti hanno messo l’epitaffio che avevi dettato in vita:
qui giace B.B., pulito, obiettivo, cattivo. Mi spiace, ma non te lo hanno messo, non
bisogna mai fare epitaffi anticipati, tanto i posteri non obbediscono. La farfalletta
batté le ali, le alzò in perpendicolare congiungendole come se stesse per spiccare il
volo, ma non si mosse. Avevi proprio un bel nasone, disse, e una crapa ispida come
una spazzola, eri un testone, sei sempre stato un testone, mi hai dato un sacco da fare. La farfalla spiccò un breve volo e poi si riposò nello stesso punto.
Cretino, disse, io ero un tuo amico, ti volevo bene, ti stupisci che ti volessi bene?,
e allora senti, quell’agosto del Cinquantasei, quando ti sono scoppiate le coronarie, io ho pianto, davvero, ho pianto, non ho pianto molto in vita mia, sai?, Karl ha
pianto poco quando era in tempo, e invece per te ho pianto.
La farfalla si alzò in volo, fece due giretti sul capo della statua e si allontanò. Ho
bisogno di dirti una cosa, disse a precipizio come se stesse parlando alla farfalla,
ho bisogno di dirti una cosa, è urgente. La farfalla scomparve oltre gli alberi e lui
abbassò la voce. Io so tutto di te, so tutto della tua vita, giorno per giorno, tutto: le
tue donne, le tue idee, i tuoi amici, i tuoi viaggi, perfino le tue notti e tutti i tuoi piccoli segreti, anche quelli più minuscoli: tutto. Si accorse che stava sudando. Riprese fiato. Di me, invece, non sapevo niente. Fece una pausa e si accese una sigaretta. Aveva bisogno di una sigaretta. Che Renate mi ha tradito per tutta la vita l’ho
scoperto solo due anni fa, quando hanno aperto gli archivi. Chissà perché mi venne in mente che anch’io potevo avere una scheda come tutti. Era una scheda completa, dettagliata, di chi è stato spiato ogni giorno. La voce “Familiari” era un intero dossier, con fotografie prese col teleobiettivo, si vedono Renate e il Capo dell’Ufficio Interni nudi al sole, sul greto di un fiume, fanno naturismo. Sotto c’è scritto: Praga, 1952. Io allora ero a Parigi. Poi ce ne sono molte altre: nel Sessantadue
mentre escono da un albergo di Budapest, nel Sessantanove su una spiaggia del
Mar Nero, nel Settantaquattro a Sofia. Fino all’Ottantadue quando lui è morto, gli
sono saltate le coronarie come a te, era vecchio, aveva vent’anni più di Renate, la
verità è concreta».
da Antonio Tabucchi, Il tempo invecchia in fretta, Feltrinelli editore
Antonio Tabucchi è uno dei più importanti scrittori italiani viventi. È nato nel 1943 a Pisa e ha
esordito come narratore nel 1975, con il romanzo Piazza d’Italia. Docente universitario di letteratura portoghese (e traduttore in italiano dell’opera di Fernando Pessoa), è un intellettuale
che non ha esitato e che non esita ad intervenire
sulle vicende sociali e politiche contemporanee:
solo per fare un esempio, ha scritto un libro dedicato alle condizioni di vita disumane dei Rom
nelle periferie di Firenze (Gli zingari e il Rinascimento). Anche da un punto di vista autobiografico, Tabucchi rappresenta lo scrittore che non ha
Nazione, che va al di là dei confini: trascorre la
sua vita tra l’Italia (ha una casa a Vecchiano, dove si reca sempre più raramente), il Portogallo
(che ha fatto da sfondo anche ad alcuni suoi romanzi importanti, come Requiem –scritto prima
in portoghese e poi tradotto in italiano – e Sostiene Pereira) e Parigi (dove vive, attualmente, gran
parte dell’anno).
Tra i numerosi libri di Tabucchi, alcuni rappresentano delle tappe di fondamentale importanza
in un percorso narrativo per il quale il Pen Club
italiano ha proposto lo scrittore come candidato
per il Nobel della letteratura. Il gioco del rovescio
(1981) segna l’ingresso, nella narrativa tabucchiana, del tema – pirandelliano – della mancanza di certezze, dell’assenza di una verità unica e
assoluta: ogni cosa, ogni persona, ogni fatto, che
potrebbe apparire in un determinato modo, presenta sempre anche il suo rovescio (e, addirittura, infiniti rovesci). Notturno indiano (1984) racconta un viaggio fatto in Oriente: ma questo viaggio, pagina dopo pagina, perde i contorni reali e
diventa un percorso esistenziale, un itinerario alla ricerca di se stessi. A partire da questo libro, le
storie di Tabucchi sono sempre più bilanciate tra
realtà e sogno: è questa la caratteristica di un altro romanzo importante, Requiem (1992). Sostiene Pereira (1994) è uno dei titoli più noti di Tabucchi: divenuto anche un film famoso (con Marcello Mastroianni nei panni del protagonista),
racconta la storia di un giornalista nel Portogallo
del dittatore Salazar e il suo passaggio dal disimpegno all’opposizione contro il regime.
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Il testimone: il lungo cammino di Mandela
andela nasce 92 anni fa in un villaggio nero del Sudafrica: suo padre è un capo-tribù, pagano. Sua madre invece si converte al cristianesimo nella chiesa
evangelica metodista e in questa chiesa fa battezzare il figlio;
poi, appena possibile, lo manda alle scuole metodiste. Qui Nelson scopre il mondo: il mondo dei cristiani bianchi, rigidi nella loro morale,
ma molto aperti nei confronti dei neri.
Proprio a scuola, Nelson ha l’occasione
di ascoltare dei poeti neri che cantano le
lotte di libertà del loro popolo – del suo
popolo. Così il destino (o,forse meglio,
la vocazione) di Mandela è ormai segnato: tutta la vita sarà fedele alla causa del
popolo nero e alla fede evangelica che gli
hanno insegnato i suoi maestri metodisti.
Ancora molto giovane egli va a vivere a
Johannesburg e qui scopre la durezza del dominio bianco; arriva l’apartheid (sviluppo separato), questa ipocrisia “cristiana” che “copre” una delle peggiori forme di sfruttamento. Nelson entra così in contatto coi comunisti, di cui apprezzerà
sempre la tenacia e il coraggio, ma non diventa comunista, lo
disturba la politica antireligiosa del partito. Egli entra invece
nell’African National Congress (ANC), che è stato fondato da
un evangelico (Luthuli, premio Nobel); in questo movimento
militano molti credenti tra cui parecchi pastori e anche qualche bianco, l’ANC non vuole cacciare i bianchi, come hanno
fatto gli algerini, vuole solo forgiare un Sudafrica aperto, in
cui tutte le razze siano uguali e vengano abolite le peggiori
M
ingiustizie. Mandela vi si impegna a fondo. Risultato: un duro processo in cui il pubblico ministero chiede per lui (e per
altri) la pena di morte. Il giudice (bianco) è però un vero cristiano di stampo liberal, lascia parlare Mandela per quattro ore
e poi lo condanna solo all’ergastolo. In galera però Nelson
passerà solo 27 anni; lì dentro diventerà un leader di livello nazionale e anche
internazionale: contesta i carcerieri (ma
impara la loro lingua: lo afrikaans), tiene corsi di studio per i suoi compagni di
sventura e la domenica va sempre al culto. Arriva il 1989, la caduta del muro di
Berlino. Questo fatto libera i dirigenti
bianchi dalla paura del comunismo e
apre una trattativa, a farla è un credente
bianco, Frederik de Klerk (premio Nobel), membro di quella chiesa riformata
(calvinista) che era stata la spina dorsale del regime di apartheid.
Così l’11 febbraio del 1990 (venti anni fa) Mandela viene liberato e nel 1994 vince le elezioni e diventa presidente della Repubblica; mentre giura al suo fianco ci sono sua figlia e il suo
carceriere, quello da cui aveva imparato la lingua dei nemici.
Per prima cosa Mandela invita a pranzo quel pubblico ministero che aveva chiesto per lui la pena di morte. Come seconda
cosa, con l’aiuto di Desmond Tutu (vescovo anglicano, premio
Nobel) crea quella Commissione per la verità e la riconciliazione che è forse il suo capolavoro.
Giorgio Bouchard
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“Il giorno della mia liberazione mi svegliai alle quattro e mezzo del
mattino, dopo poche ore di sonno. L’11 febbraio era una limpida giornata di fine estate a Città del Capo. Dopo aver rapidamente eseguito
alcuni dei miei soliti esercizi ginnici, mi lavai e feci colazione.
Il medico del carcere venne da me per una breve visita di controllo.
Non ebbi il tempo di indugiare sul pensiero che tra poco sarei stato
libero, tante erano le cose da fare. Accade spesso nella vita di non
riuscire ad assaporare l’importanza di un particolare momento perché si è distolti dall’affastellarsi di tanti piccoli dettagli … Il tempo
era pochissimo e i problemi da risolvere erano molti …
Avevo posseduto poche cose nei primi vent’anni di carcere, ma negli ultimi anni per compensar il periodo precedente ne avevo accumulate abbastanza, in particolare molti libri e giornali. In tutto riempii almeno una dozzina di casse …
A una cinquantina di metri dal cancello iniziarono a scattare gli
obiettivi, con un rumore di mandibole metalliche, e i giornalisti iniziarono a gridare domande, gli operatori televisivi facevano ressa tutt’intorno, mentre i compagni dell’Anc esplodevano in urla di acclamazione e di gioia. Quando un operatore televisivo mi mise in mano un oggetto lungo e scuro che non riuscii ad identificare, mi ritrassi lievemente pensando che fosse qualche arma inventata mentre ero
in carcere. Winnie (la moglie di Mandela) mi spiegò che era un microfono.
Quando fui circondato dalla folla levai il pugno destro nel nostro saluto. Il gesto fu seguito da una lunga ovazione. Da ventisette anni
non facevo una simile esperienza, e ne trassi una grande sensazione
di forza e di esultanza … ebbi la sensazione che, nonostante i settantun anni, la mi vita stesse per ricominciare. Mi lasciavo alle spalle diecimila giorni di carcere.
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Arrivato alla periferia della città, vedemmo una fiumana di persone
che si avviava verso il centro. Il Comitato di accoglienza aveva organizzato un grande raduno nella Grand Parade di Città del Capo,
una grande piazza che si estendeva davanti al vecchio municipio: lì
mi sarei rivolto alla folla da un balcone …
Era quasi il crepuscolo quando fui condotto all’ultimo piano di quel
maestoso edificio, le cui sale di solito fervevano dell’attività di indaffarati funzionari bianchi. Quando mi affacciai al balcone mi colpì lo spettacolo di un immenso mare di gente acclamante e plaudente, che agitava stendardi e bandiere al colmo dell’entusiasmo.
Alzai il pugno chiuso e la folle esplose in un’assordante ovazione
che fece divampare nel mio intimo lo spirito della lotta. “Amandla!”
gridai, “Ngawethu!” risposero, “iAfrika!” urlai di nuovo, “Mayibuye!” tuonarono di rimando …
“Amici, compagni, fratelli sudafricani, vi saluto tutti in nome della
pace, della democrazia e della libertà! Sono qui davanti a voi non
come profeta, ma come vostro umile servitore. E’ per i vostri instancabili, eroici sacrifici che oggi posso essere qui, e quindi pongo nelle vostre mani gli anni che mi restano da vivere.”
... Parlai dal profondo del cuore; innanzi tutto volli dire al popolo
che non ero un messia, ma un uomo come tutti, diventato capo per
una serie di circostanze straordinarie... Dichiarai in termini categorici che l’apartheid avrebbe avuto vita breve in Sudafrica... Chiamai
il popolo a ritornare sulle barricate e a intesificare la lotta, promettendo che avremmo percorso insieme l’ultimo tratto di strada.
da Nelson Mandela
Lungo cammino verso la libertà. Autobiografia
Feltrinelli editore
Mai dire mai
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- LIBRI PUBBLICAZIONI SITI BLOG - LIBRI PUBBLICAZIONI SITI BLOG
La poesia: Nei ghetti d’Italia
questo non è un Uomo
Di nuovo, considerate di nuovo
Se questo è un uomo,
Come un rospo a gennaio,
Che si avvia quando è buio e nebbia
E torna quando è nebbia e buio,
Che stramazza a un ciglio di strada,
Odora di kiwi e arance di Natale,
Conosce tre lingue e non ne parla nessuna,
Che contende ai topi la sua cena,
Che ha due ciabatte di scorta,
Una domanda d´asilo,
Una laurea in ingegneria, una fotografia,
E le nasconde sotto i cartoni,
E dorme sui cartoni della Rognetta,
Sotto un tetto d´amianto,
O senza tetto,
Fa il fuoco con la monnezza,
Che se ne sta al posto suo,
In nessun posto,
E se ne sbuca, dopo il tiro a segno,
“Ha sbagliato!”,
Certo che ha sbagliato,
L´Uomo Nero
Della miseria nera,
Del lavoro nero, e da Milano,
Per l´elemosina di un´attenuante
Scrivono grande: NEGRO,
Scartato da un caporale,
Sputato da un povero cristo locale,
Picchiato dai suoi padroni,
di Adriano Sofri
Braccato dai loro cani,
Che invidia i vostri cani,
Che invidia la galera
(Un buon posto per impiccarsi)
Che piscia coi cani,
Che azzanna i cani senza padrone,
Che vive tra un No e un No,
Tra un Comune commissariato per mafia
E un Centro di Ultima Accoglienza,
E quando muore, una colletta
Dei suoi fratelli a un euro all´ora
Lo rimanda oltre il mare, oltre il deserto
Alla sua terra - “A quel paese!”
Meditate che questo è stato,
Che questo è ora,
Che Stato è questo,
Rileggete i vostri saggetti sul Problema
Voi che adottate a distanza
Di sicurezza, in Congo, in Guatemala,
E scrivete al calduccio, né di qua né di là,
Né bontà, roba da Caritas, né
Brutalità, roba da affari interni,
Tiepidi, come una berretta da notte,
E distogliete gli occhi da questa
Che non è una donna
Da questo che non è un uomo
Che non ha una donna
E i figli, se ha figli, sono distanti,
E pregate di nuovo che i vostri nati
Non torcano il viso da voi.
Negli ultimi mesi sono usciti tre interessanti libri che hanno come tema centrale quello
dell’ergastolo.
Di due abbiamo ampiamente parlato nel numero precedente di Mai dire Mai e di questi
pubblichiamo qui sotto un breve richiamo:
Nicola Valentino, L’ergastolo dall’inizio alla fine, Sensibili alle foglie, 2009, euro 16,00.
Il libro può essere richiesto a [email protected][email protected] –
0173742417 – www.sensibiliallefoglie.it, ma può essere anche chiesto alla nostra associazione Liberarsi, via
Tavanti, 20 – 50134 Firenze (le detenute e i detenuti potranno riceverlo inviandoci 10 euro, anche in francobolli).
Carmelo Musumeci, L’assassino dei sogni, La Biblioteca dell’evasione, autunno 2009,
pagine 191, euro 8 che potranno essere inviati dai detenuti anche in francobolli all’Associazione Liberarsi o scrivendo direttamente agli editori : [email protected].
Di una terza pubblicazione parliamo in questo numero. Si tratta di Stefano Anastasia e Franco Corleone (a cura di), Contro l’ergastolo, Edizioni Ediesse, 2009, pagine 141. Si tratta
di una raccolta di saggi curati da Maria Luisa Boccia, Guido Calvi, Francesco Saverio Fortuna, Patrizio Gonnella,Alessandro Margara, Mino Martinazzoli, Giuseppe Mosconi, Salvatore Senese, Adriano Sofri e, ovviamente, dei due curatori. L’ergastolo è visto sotto varie angolature: storica, giuridica, sociologica. È particolarmente importante la ristampa di
una lezione tenuta nel 1976 presso l’Università degli studi di Roma da Aldo Moro, intitolata “La funzione della pena”, in cui Moro si dichiara in maniera precisa contro la pena dell’ergastolo. Il libro costa 8 euro e può essere richiesto anche alla nostra associazione.
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- DENUNCE E APPELLI - DENUNCE E APPELLI - DENUNCE
Un appello per MAI DIRE MAI
Care amiche e cari amici,
vi chiediamo di leggere con attenzione questo appello. La nostra è una piccola associazione che è nata recentemente (poco
più di due anni) e può andare avanti solo se viene appoggiata
da un certo numero di soggetti individuali e collettivi. Nel nostro caso specifico i soggetti individuali sono: i detenuti e le
detenute (non è pensabile che un’associazione che si occupa di
carcere non abbia fra i principali attori e promotori chi il carcere lo subisce e lo soffre; sarebbe come se il sindacato dei metalmeccanici non avesse come soggetti fondamentali gli operai e gli impiegati delle fabbriche di quel settore), i volontari
che si interessano di carcere, i familiari dei detenuti, le persone che ritengono che i diritti devono essere rispettati anche nelle carceri, che pensano che l’ergastolo sia una pena che non dovrebbe esistere, che la tortura debba essere bandita, che la costituzione nel suo art. 27 e nei suoi principi generali debba essere attuata, tutti coloro che per le loro idee sono contrari al togliere la vita degli individui rinchiudendoli nelle celle di una
prigione, o per la loro fede religiosa credono nell’uomo e nella donna create a somiglianza di Dio, ecc. ecc... Un numero potenziale enorme. Come tantissimi possono essere i soggetti collettivi da coinvolgere in un campagna per l’abolizione dell’er-
IL NOSTRO RICORSO A STRASBURGO
PROSEGUE LA SUA STRADA . . .
gastolo, contro la tortura nelle carceri, per l’applicazione dell’art.27 della Costituzione e così via. Per esempio? A chi chiederemo qui a Firenze e in Toscana l’adesione al Comitato “Mai
dire mai” ? Ai partiti politici, ai sindacati, alle chiese cristiane
(cattoliche, protestanti, ortodosse), alle varie religioni (ebrea,
mussulmana, induista), ai movimenti spirituali (il buddismo,
ecc), alle associazioni che si occupano di diritti umani (Amnesty International, Il Cerchio, ), a quelle che svolgono un impegno culturale sia sul carcere (la Fondazione Michelucci, l’Altro Diritto, Antigone Toscana ... ), sia su altri settori (la Fondazione Testimonianze...), le Camere penali, l’ARCI, le ACLI, il
MCL, l’UISP, i gruppi di volontariato che operano nelle carceri e nel sociale, l’ANPI, i centri sociali, i collettivi anarchici, i
vari collettivi studenteschi ecc... Tenendo conto che l’ARCI ha
una sua segreteria regionale, provinciale, ma ha anche numerose Case del popolo e noi dovremmo riuscire a chiedere l’adesione a tutte questi soggetti collettivi, così la chiesa cattolica
esiste come Diocesi, con il cardinale, le varie strutture diocesane, ma esiste anche come tante parrocchie e movimenti, anche in questo caso dobbiamo chiedere all’istituzione centrale,
ma allo stesso tempo a tutte le strutture decentrate sul territorio, un lavoro enorme che sarà svolto nei prossimi mesi.
Noi facciamo appello (e faremo appello) a questi numerosissimi soggetti individuali e collettivi. Ricordiamo che i detenuti
sono oltre 65.000, gli ergastolani sono oltre 1500, ma provate
ad immaginare che numeri potrebbero essere messi accanto all’elenco che abbiamo scritto sopra! Quali sono le spese della
nostra associazione? Le spese del giornale, quelle tipografiche
di alcuni libri e opuscoli, le spese dei viaggi per compiere una
seria indagine sulle varie sezioni di 41 bis e di quelle carceri
dove è alta la presenza degli ergastolani, le spese postali piuttosto elevate e poco altro.
Nessuno dei volontari vuole essere pagato. All’incirca è una
somma di 20.000 euro (ma siamo disponibili a mandar a chi ce
le richiede notizie più dettagliate) e quindi sono necessari 2000
soggetti che ci facciano avere ogni anno 10 euro. È un appello
possibile? Ce la facciamo? Ce la faremo? Noi lo speriamo, ma
intanto siamo indietro a pagare il giornale, dobbiamo rinunciare ad alcuni viaggi nelle carceri perché non abbiamo i soldi per
pagare il treno o la benzina e tutto procede con maggiore fatica.
Grazie per quello che farete!
Ricordiamo che questi aiuti economici possono esserci mandati tramite vaglia postale o attraverso il nostro contocorrente
postale n. 92826684 intestati ad Associazione Liberarsi, via Tavanti, 20 - 50134 Firenze.
Il nostro telefono è 055.473070, il fax è uguale al telefono, la
mail è: [email protected]. Il sito è: www.informacarcere.it.
IL NOSTRO AMICO NINO
Nell’altro numero avevamo dedicato l’ultima pagina a
Nino Marano, 43 anni di carcere. Finalmente aveva ottenuto un primo permesso premio per andare in famiglia. Le ultime notizie non sono buone. È stato trasferito da Palermo (era all’Ucciardone) a Biella. Per quale motivo? Come potrà realizzare il prossimo permesso quando i suoi familiari vivono in Sicilia? Vogliamo
confermare a Nino la nostra amicizia e la nostra attenzione verso il suo caso. Attendiamo di ricevere presto
sue notizie.
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