Il mondo visto senza gli occhi Marta Tofani

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Il mondo visto senza gli occhi Marta Tofani
Il mondo visto senza gli occhi
Marta Tofani
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Un uccellino senza le sue ali, il cielo senza il suo sole, un sacerdote senza
Dio.
Davide si sentiva così, smarrito, fragile come mai prima di allora,
incatenato dall’ingiustizia cieca della vita e se ne stava seduto davanti al
davanzale della sua finestra, tenendo in mano l’ultimo libro che aveva
scritto. Sentiva profondo l’odore della carta nuova e dell’inchiostro,
toccava lentamente con le dita le pagine ruvide assaporandone la
consistenza.
Ricordò il successo alla conferenza stampa, l’approvazione della critica,
l’orgoglio per se stesso che sentì come una fitta al cuore. Il suo terzo libro
chiamato nei giornali opera d’arte giovanile, era stato una rivoluzione di
parole che aveva incendiato gli animi dei suoi lettori. E il suo.
Era stata una protesta avvincente e decisa, trascinante e appassionata
contro tutte le banalità, le cose futili che sommergono la vita della gente
fino a renderla nauseante. Era stata una ricerca sottile di valori semplici e
nascosti, una disintegrazione rabbiosa dei simulacri senza sostanza. Era
una lotta contro le apparenze, era così che Davide aveva concepito il suo
libro. E la gente lo aveva capito. Nessuna ricompensa più felice del fatto
che la gente lo avesse capito.
Lui riteneva che le parole, pronunciate e scritte, servissero veramente solo
quando erano capaci di incidere nella mente e nel cuore di chi le ascoltava.
Dovevano essere assorbite altrimenti sarebbero cadute nel nulla, leggere e
vacue, come inconsistenti. Adesso lui non ne aveva più, aveva solo
pensieri che gli si accavallavano l’uno sull’altro con prepotenza, vischiosi
e incapaci di tradursi in parole.
Era da due giorni che restava chiuso nella sua stanza e non voleva
parlare con nessuno. I medici dicevano che era ancora stordito e sotto
shock per l’incidente tragico che aveva avuto in moto due settimane prima
ed in cui aveva perso la vista.
Era uscito dall’ospedale da appena tre giorni e le ferite che aveva negli
occhi non gli bruciavano più, aveva una morbida benda che glieli
accarezzava, ma non esistevano bende, né medicine per il bruciore della
sua anima.
Davide sapeva che quello non si sarebbe sopito mai.
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Entrò in casa sua madre, con in mano le buste della spesa, silenziosa e
discreta come sempre e si diresse in cucina. Aprì il frigo e la dispensa e vi
ripose ordinatamente i suoi acquisti. Poi andò verso la stanza di suo figlio,
bussò alla porta e bussò ancora. Davide non rispose, lei entrò.
Lo vide seduto, illuminato dal sole e si avvicinò a lui timidamente,
senza dire nulla e spinta da una forte commozione, lo accarezzò
lentamente sul capo, sentì i suoi riccioli, morbide spirali spettinate, e poi il
suo viso caldo.
Lo risentì bambino e gli occhi le si imperlarono di lacrime, la invase un
forte senso di protezione ma non riuscì a dire niente, quella piccola donna
dal cuore grande.
E dopo poco tornò in cucina, voleva preparare una cena squisita per suo
marito che sarebbe tornato tardi dal lavoro e soprattutto per suo figlio.
La madre di Davide era così, dimostrava il suo amore con semplicità e
quell’amore si sentiva così forte che qualche volta faceva tremare.
Davide sentì la porta chiudersi e si alzò, arrivò con passi incerti fino al
suo letto, si sedette, compose il numero e disse “Sabrina ho bisogno di te”.
Riattaccò.
Intanto lei aveva già preso la macchina. Era dal momento in cui Davide, in
quella tiepida stanza di ospedale che sapeva di farmaci, le aveva detto
“Voglio stare da solo” che Sabrina aspettava quella telefonata.
Cercò di fare più in fretta che poteva svincolandosi nel traffico con la sua
auto rosso fiammante. La parcheggiò sotto casa di Davide e suonò il
campanello.
Salì le scale lentamente, come se quella frenesia che si era impossessata
di lei al suono della sua voce fosse stata soffocata d’improvviso dal morso
stringente della propria inspiegabile paura.
Si soffermò per un attimo sul ciglio della porta e sospirando si disse che
doveva essere forte, doveva inghiottire la rabbia, la disperazione e tirare
fuori tutta la dolcezza di cui era capace. Ma chissà se ne sarebbe stata
capace.
I suoi piedi si erano impuntati al suolo e sembravano non volersi muovere.
C’era Davide nell’altra stanza, ad un passo da lei. Davide il poeta ribelle e
un po’ maledetto che lei amava da un anno, lo stesso che il primo giorno
d’amore l’aveva rapita e l’aveva portata al mare a vedere le stelle, quello
che la faceva impazzire trascinandola nel baratro travolgente della sua
incostanza.
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Si decise, salutò la madre di Davide ed entrò nella sua stanza.
Lo vide fragile e indifeso, per la prima volta vittima e non aggressore,
dotato di un fascino più tenero anche se più cupo.
Corse da lui e lo abbracciò forte, sentì il suo odore, lo riconobbe e lo baciò
sulla bocca morbida e ben disegnata.
Davide le accarezzò i capelli lunghi e lisci e poi cominciò a toccarle con
mano leggera il viso soffermandosi sugli occhi e poi sulla bocca profumata
di rossetto. Disse che gli sembrava di diventare matto, che si sentiva come
intrappolato in una monade d’avorio senza finestre sul mondo, che certe
volte era come travolto da un girotondo all’impazzata su se stesso che
continuava senza mai arrestarsi, senza mai dargli il tempo di trovare uno
sbocco da cui potesse uscire almeno uno spiraglio di luce.
Sabrina tentò di confortarlo dicendogli che l’incidente avrebbe potuto
comportargli conseguenze ancora più gravi e che niente era perduto finche
c’era la vita ma sebbene credesse nelle sue stesse parole, queste le
apparvero così inadeguate da farle arrossire il viso. Si sentì smarrita nel
suo tentativo rozzo di alleviare quel dolore ma in effetti non c’erano
parole che potessero arrestarlo. Non c’era niente.
Tutto si era colorato di cieca inutilità.
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Sabrina e Davide continuarono a parlare per molto tempo, furono parti di
un dialogo fatto di piccole frasi e di silenzi lunghi. Silenzi non voluti e
incolmabili che arrestavano la voce con la loro impellente necessità.
Parlarono del tempo, degli ultimi pomeriggi di Sabrina a mezzo tra i
tentativi di studio e le lacrime, parlarono dei mass media che non avevano
avuto alcun rispetto per il loro dolore presi dalla ricerca frenetica di una
qualche briciola di notizia sul loro scrittore emergente.
Sabrina disse poi che Enrico e Mirco non avrebbero aspettato un giorno di
più e che al massimo l’indomani sarebbero andati a trovarlo e sarebbero
entrati in quella casa a costo di forzare la serratura.
Si misero a ridere.
Davide sapeva che non sarebbe riuscito a fermare quelle due teste matte,
loro erano come lui, e sebbene provasse una grande paura nel pensare di
affrontarli, ne fu enormemente felice. Pensò alle loro facce buffe e
scazzate, ai pomeriggi passati a girare per le strade fumando una sigaretta
dopo l’altra, ai loro discorsi seri nella notte, a quelli scemi, terribilmente
scemi dopo avere bevuto, pensò alle discussioni nello scegliere gli itinerari
dei viaggi, pensò alle corse in moto. Fu colpito da un pungente male di
testa, il blocco doloroso che gli impedì di andare avanti nei suoi pensieri.
Si portò le mani nei capelli e le strinse forte alle tempie. La sua
espressione si mutò in una contrazione di dolore nel volto, cominciò a
mordersi freneticamente le labbra e gridò no e lo gridò ancora scuotendo
con violenza la testa.
Sabrina lo vide cambiare nel tempo di un pensiero, cercò di calmarlo
afferrandolo per le spalle ma Davide la spinse via con irruenza scattosa e
brusca. Poi rimase immobile, esterrefatto di se stesso, perduto più che mai
in quel buio che lo avvolgeva.
Dove era Sabrina, dove era?
Non poteva più guardarla. I suoi occhi azzurri e grandi, le sue mani
bianche, le sue gambe lunghe e il suo seno liscio e generoso, mai più, mai
più, mai più.
E l’aveva gettata via con forza, proprio quando lei gli stava offrendo il suo
amore. Era stato preso da un attacco di panico che lo aveva trascinato in un
incubo fulmineo il cui eco insostenibile ripeteva mai più. Mai più. Mai più.
Respirò forte, senza dire niente, respirò ancora. Il battito cardiaco riprese
piano, piano la sua andatura regolare e si asciugò il sudore del viso con le
mani.
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Sabrina era caduta in ginocchio davanti a lui e non si era rialzata,
consumava senza recare disturbo le sue lacrime silenziose.
Davide la cercò con le mani, sentì i suoi capelli lucidi e leggeri e le spinse
la testa sulle sue gambe. Gliela strinse forte con le braccia avvolgenti e
disse “Scusami”.
Sabrina alzò gli occhi rossi e con voce tremante rispose “Ti amo”.
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Anche quella notte passò difficile, incubi dimenticati al mattino
travagliarono il sonno di Davide.
Ma quando, dopo essersi alzato, raggiunse a passi incerti la finestra di
camera sua e la aprì, sentì che la natura quel giorno gli aveva riservato una
sorpresa.
Affacciato verso il suo piccolo giardino senza vederlo, avvertì un forte
odore di erba bagnata, scaldata dal tepore del sole e sentì l’essenza di
umido che impregnava le strade, la stessa che aveva sempre amato fin da
bambino.
Capì che quella notte era caduta la pioggia, una pioggia che se ci pensava
lo riempiva di gioia senza un motivo. Se la immaginava fitta e incessante,
trasparente nelle sue gocce purificatrici, una pioggia che nelle strade di
città si era accanita contro i rifiuti che la inquinavano cercando di
degradarli.
Una sorta di pioggia liberatrice, pensò. E mentre la sua mente pronunciava
tacita quelle parole, avvertì il dischiudersi lento della sua anima, come un
senso di apertura, ormai dimenticato da tempo, verso il mondo e ne rimase
meravigliato.
Decise che sarebbe uscito dalla sua stanza, che avrebbe abbandonato il
perimetro prevedibile e semplice dentro al quale era rimasto rinchiuso fino
a quel giorno.
Aprì la porta e procedette aiutandosi con le mani, da allora capì quanto
sarebbero state importanti le forme per lui, l’orientamento dato non più
dagli occhi ma dalle mani che riconoscevano gli oggetti, le loro dimensioni
e le loro consistenze.
Non fu troppo difficile per lui arrivare in cucina, conosceva ogni angolo
nascosto della sua casa, attraversò con movimenti cauti il lungo ingresso e
poi la sala fermandosi qualche volta, negli attimi di maggiore incertezza.
Sentì la madre trafficare ai fornelli e disse “Buongiorno mamma”.
Lei si voltò di scatto e vide suo figlio in mutande che se ne stava
appoggiato al muro di cucina, spettinato non più del solito, con l’aria
stralunata di chi si era svegliato da poco.
Concitata cercò di aiutarlo a sedersi e poi prese le brioche dal forno e
accese i fornelli e mise a scaldare il caffè e il latte e prese il succo d’ananas
dal frigo ma forse Davide avrebbe preferito qualche toast con la
marmellata, oppure lo yogurt con il miele, o soltanto qualche frutto.
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Si fermò un attimo, si guardò intorno e vide una confusione terribile, le
erano bastati due minuti per svuotare la dispensa senza nemmeno sapere
che cosa stesse cercando.
“Davide che cosa vuoi per colazione?”
“Un caffè mamma, lo sai che non prendo altro appena mi alzo.”
È vero. Davide non aveva mai fatto abbondanti colazioni, neppure da
bambino, è che sua madre dal giorno dell’incidente aveva cominciato a
coprirlo di attenzioni, avrebbe voluto sommergerlo di cibi deliziosi, di
buone notizie, di giornate tiepide di sole e di sorrisi. Avrebbe voluto
coprirlo interamente con il plaid del suo amore per ripararlo dai freddi
della vita, avrebbe voluto porre rimedio ad ogni dolore ed era buffo il
modo timido e un po’ impacciato con cui tentava di immettersi nel suo
mondo.
Di certo per lei, da sempre consapevole di quanto fosse importante il
rispetto degli spazi altrui, non era facile cercare di diventare il fulcro della
vita di suo figlio dal momento che lui era sempre stato il fulcro di se
stesso. E ancora più difficile era cominciare ad esserlo da allora.
Davide aveva già ventitre anni e fin da piccolo aveva manifestato il suo
irrinunciabile spirito di indipendenza, la sua smania di fare le cose da solo,
anche male non importava pur che da solo.
È nato combattente, sua madre lo aveva sempre detto non senza un pizzico
di orgoglio. Ed in effetti era vero, Davide si era sempre distinto per la sua
tenacia nel desiderare le cose e poi prendersele, era un po’ un rincorritore
di sogni che teneva il fiato pur sudando fino a quando non li raggiungeva.
Da adolescente si era conquistato la sua autonomia sia in casa che a scuola
dove aveva imparato a lottare per difendere le sue idee. Nonostante questo
non amava mettersi in mostra, né dare prova di se stesso e la sua solitudine
la maggior parte delle volte era considerata affascinante o repellente
stravaganza.
Sua madre era rimasta sempre un po’ ai confini delle sue scelte ma di
tanto in tanto compariva, inspiegabilmente quando ce ne era bisogno lei
era lì, la sua forza buona, che lo incoraggiava con piccole parole o con
grandi silenzi.
Con suo padre era diverso. Erano entrambi due animi che si scaldavano e
si accendevano, tutti e due passionali e ombrosi, si attraevano e si
respingevano con uguale violenza come i poli di una calamita.
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Nel pomeriggio arrivarono Enrico e Mirco, così come avevano promesso.
Trovarono Davide seduto sul letto che tentava di accordare la sua chitarra
stonata.
Quando lo videro dissero solamente “Siamo noi”.
Davide capì e si alzò immediatamente, loro gli andarono incontro e lo
strinsero insieme in un forte abbraccio.
Mai erano stati così vicini e così solidali, mai così commossi.
“Dai ragazzi, mettetevi a sedere.” Disse Davide dopo essersi sciolto da
quella stretta.
Allora Mirco prese la sedia della scrivania ed Enrico si sedette per terra
con le spalle appoggiate al muro e automaticamente si ricreò
quell’atmosfera scanzonata e facile propria di quelle giornate trascorse in
casa a parlare e parlare senza mai concludere niente.
E fu così anche quel giorno.
Non ci fu imbarazzo nelle loro parole, i discorsi uscirono fluidi e
spontanei. Mirco ed Enrico riuscirono a vivere quel pomeriggio come uno
dei tanti, senza considerarlo per forza il giorno dopo la tragedia e fu con
loro che Davide dopo tanto tempo riuscì a sentirsi di nuovo se stesso.
I suoi occhi ancora fasciati non avrebbero visto mai più di qualche
ombra e questo lo sapevano bene tutti e tre. E faceva male.
Ma parlarono ugualmente dell’incidente e lo fecero con desolazione e
rabbia e con quel tanto di naturalezza che era propria di ognuno di loro e
che rendeva il discorso meno difficile di quanto non lo fosse in realtà.
Il bello della loro amicizia è che erano veri l’uno con l’altro, senza
apparenti costruzioni, senza paura del giudizio, ed era facilissimo quando
erano insieme manifestare i loro pensieri e le loro reazioni come se fossero
stati da soli, da soli con se stessi davanti a uno specchio.
Mirco, da sempre più esplosivo aggredì l’ingiustizia con parole taglienti
mentre Enrico, dal temperamento più tranquillo, manifestò il suo dolore
non senza qualche parola di conforto.
E Davide li ascoltava e dentro di sé pensava che se avesse dovuto
immaginarsi questa scena, di certo l’avrebbe immaginata così. Non poteva
essere altrimenti, e pur non vedendo l’immagine gli si colorò in testa
nitida.
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Era un quadretto fraterno che ricreava uno sprazzo di vita che Davide
conosceva bene. Ed era proprio questa familiarità che lo rendeva
tranquillo.
“Comunque non eravamo venuti per intristirti.” Disse Enrico
interrompendo ad alta voce il monologo concitato di Mirco.
“Hai ragione.” Rispose lui assumendo un tono leggermente più pacato.
“Tiriamo fuori le birre dallo zaino che saranno già calde.”
Così fecero. Ce ne era una a testa e continuarono a parlare sorseggiando
una birra che, strano a dirsi, si era mantenuta anche abbastanza fresca.
Saltarono da un argomento all’altro senza connessione, raccontando a
Davide gli episodi più singolari e buffi della vita di quei giorni.
E lui apprendeva e faceva propri i particolari delle piccole storie che i suoi
due amici gli raccontavano e cercava di rappresentarseli nella mente,
costruendosi quegli episodi così come irrinunciabilmente non potevano
che essere stati.
E gli veniva da sorridere e poi da ridere e da riflettere istantaneamente,
poggiando l’attenzione su una qualche sfumatura che riusciva a catturare
con spasmodica curiosità. E si sentiva come davanti ad uno schermo che
trasmetteva cortometraggi ritagliati dal quotidiano, e fu proprio in quel
pomeriggio che intuì con consapevolezza che l’incidente gli aveva portato
via gli occhi ma non avrebbe mai potuto portargli via l’immaginazione,
che nasceva solo dalla sua mente e con la quale avrebbe sempre potuto
vedere al di là degli spazi realmente esistenti. La sua immaginazione
costruttiva capace di inventare figure senza dimensioni e capace di creare
territori senza confini, quella non avrebbe mai potuto perderla perché
nasceva e si rigenerava da sempre e per sempre dentro di lui.
Ad un certo punto Mirco prese lo zaino, aprì la tasca esterna e disse
prendendo in mano un ritaglio di giornale stropicciato “Devo leggerti una
cosa, Davide.”
Cominciò.
“È una perla rara nel mare mosso della letteratura giovanile e saprà
riemergere a galla. È il minimo che ci possiamo attendere dalla sua
tenacia.
Sappiamo già che dall’incidente rifiorirà di un colore nuovo, che
profumerà di rinnovata sensibilità.”
“Visto? Ti danno fiducia.” Disse Enrico con tono sereno.
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“Non lo so .” Rispose lui. “È tutto così difficile e sinceramente ancora non
ho pensato di rimettermi a scrivere. Mi manca l’ispirazione, i miei pensieri
sono troppo confusi. Mai come adesso.”
“Fai bene.” Disse Mirco. “Ancora non ti sei nemmeno goduto a pieno il
successo di Groenlandia!”
Questo era il titolo che Davide aveva dato al suo ultimo libro.
Aveva usato il nome dell’isola più grande del mondo semplicemente
perché gli sembrava un buon contenitore di tutti i suoi pensieri.
Ma non era vero che Davide non aveva neanche pensato di rimettersi a
scrivere, anzi a dire la verità una delle prime cose che aveva fatto era stata
proprio quella di informarsi su un centro riabilitativo di cui aveva sentito
parlare ed in cui si diceva che personale qualificato insegnava ai non
vedenti ad utilizzare gli strumenti tecnici idonei all’apprendimento della
scrittura e della lettura Braille.
Ma ancora non era in grado di prendere decisioni, c’erano troppi se in ogni
suo pensiero e il dubbio più grosso era quello di capire se volere inseguire
la passione più grande della sua vita e continuare a scrivere oppure cercare
di fare finta di niente e abbandonare tutto.
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Le giornate passarono lente e difficili. Davide stava cominciando a
detestare le quattro pareti opprimenti della sua stanza all’interno delle
quali svolgeva la sua esistenza senza fare niente.
Si sentiva completamente inutile, aveva perso il filo conduttore che dava
senso ad ogni sua azione. Si sentiva costretto in una dimensione che non
gli era propria perché troppo statica e troppo rigida.
Aveva perso il suo istinto per le cose, o almeno così gli sembrava, non
aveva più impulsi che lo facevano scattare, che lo mettevano in moto. Gli
sembrava di essere diventato come una pianta, dotata unicamente delle sue
funzioni elementari, un organismo che vegetava senza vivere.
I suoi appigli con il mondo esterno erano davvero pochi. Era uscito due o
tre volte con la madre e poi con Mirco ed Enrico per andare all’ospedale a
farsi dei controlli. Aveva sempre rifiutato di andare insieme ai due suoi
amici al caffè dietro l’angolo che era il punto di ritrovo della compagnia,
aveva detto un po’ scherzando e un po’ sul serio che non era pronto per
l’invadenza della gente. Mirco ed Enrico l’avevano capito e sapevano che
con Davide era inutile insistere ma erano seriamente preoccupati per lui
perché percepivano la barriera invisibile ma solida che lui stava innalzando
fra se stesso e il mondo che lo circondava.
Era una sorta di rifiuto, un fuggire e non sapere da cosa, una ritrosia
avversa ad ogni novità che potesse scuotere quella calma apparente e
subdola che con fluido vischioso lo stava incollando staticamente a sé e in
sé.
Sentiva Sabrina e la vedeva ma senza un significativo interesse, pensava
spesso a lei ma ancora di più ne sentiva il lento distacco e lo subiva
passivo senza fare niente come se fosse qualcosa di irrimediabile.
Sabrina, da parte sua, presa dalla frenetica quotidianità viveva il suo
rapporto con Davide senza pensarci troppo, valutando come in ogni cosa il
quadro di insieme con elementare superficialità, senza badare alle mille
sfaccettature che le situazioni possono sempre presentare. In questo
periodo poi era davvero molto impegnata, infatti lavorava come modella
presso un’agenzia di moda e nei mesi di primavera era sempre molto
richiesta.
C’erano sfilate all’aperto, sotto il cielo stellato delle piazze più belle di
Italia durante le quali le ragazze muovendosi leggere quasi eteree in
passerella, mostravano vestitini colorati e succinti, costumi da bagno che
confondendosi con il corpo ne mettevano in luce le curve più belle ed
armoniose.
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Sabrina sfilava dinamica e sciolta, con lo sguardo fisso in avanti che
sembrava volere afferrare un punto sempre più lontano. Riusciva ad
animare gli abiti che indossava e lo faceva in modo inspiegabile e naturale,
come se i tessuti fossero attratti dalla sua pelle, dalla sua muscolatura
affusolata e da tutta lei.
Amava essere guardata pur non ammettendolo e negli sguardi compiaciuti
della gente trovava le conferme che la rendevano più sicura di sé.
Davide non aveva mai condiviso l’interesse di Sabrina per la moda e non
aveva mai vissuto con lei i suoi piccoli successi, non per cattiveria o
gelosia ma unicamente perché era un settore che non trovava posto nella
sua scala di valori. Non ne aveva mai capito il senso.
Lui concepiva diversamente la bellezza femminile e la adorava in tutte le
sue forme, sarebbe stato capace di contemplare per ore ed ore l’imponenza
statuaria di una Venere nuda e ugualmente la fragilità romantica di una
ragazzina ancora acerba che, vestita di stracci, chiedeva l’elemosina per la
strada. Amava in una donna le morbide rotondità e in uguale modo le
ossute spigolosità che richiamavano istintivamente protezione e cure.
Era capace di appassionarsi di un viso sbarazzino e intelligente veduto per
caso, di un naso alla francese o di un profilo duro, si poteva innamorare di
un sedere o semplicemente del modo di camminare o del modo di parlare
di una donna. Riusciva in modo sorprendente a captare i potenti segnali di
comunicazione che un corpo, reso vivo da una mente vivace, sa
trasmettere in modo diretto e allo stesso tempo velato.
Dell’universo femminile lo attraevano la gracile dolcezza e l’inaspettata
forza che le donne sapevano tirare fuori quando ce n’era bisogno, gli
piaceva il loro modo di atteggiarsi in situazioni importanti e il loro ingenuo
tornare bambine al momento degli abbracci.
Davide si sarebbe potuto innamorare continuamente di donne diverse per
motivi diversi ma mai per i loro vestiti. Quelli per lui c’erano e non
c’erano, essi avevano solo il valore di un accessorio che spesso caricava
talmente tanto il corpo fino a nascondere la vera essenza di una persona.
Davide non conosceva mode o tendenze, omologazioni o vestiti di massa,
un giorno poteva divertirsi a fare a suo modo l’eccentrico, ma il più delle
volte si nascondeva nei suoi abiti anonimi che facevano di lui unicamente
ciò che era.
Sabrina, dal canto suo, amava tutto ciò che la facesse sentire al passo con
i tempi, curava molto il suo aspetto fisico, e la sua bellezza anche se non
artefatta non era mai casuale. Lei faceva sport per tenersi in forma e
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sognava il suo futuro sfogliando i giornali di moda, parlava con lo
specchio di camera sua e ci ballava dentro, camminava con accattivante
eleganza e rapiva con il suo sguardo azzurro intrigante e indifeso.
Davide sorrideva nel vederla minuziosamente costruita in pubblico.
Sorrideva perché la conosceva nuda.
Amava Sabrina perché era la sua lumaca senza guscio, perché con
pazienza l’aveva scoperta diversa da ciò che voleva sembrare e la sua
ostentata sicurezza verso gli altri Davide l’aveva percepita come mal celata
timidezza.
Sabrina era un esserino fragile accanto a lui, oscillava come una foglia al
vento caldo della sua forte personalità. Lui era totalmente coinvolgente, ed
era così per la sua irrefrenabile natura che portava le persone che gli
stavano accanto a sognare nelle sue parole, che faceva loro spegnere il
cervello e smettere di ragionare per abbandonarsi ai suoi racconti, per
sentirsi vivi nelle sue pagine, per conoscere da vicino i suoi personaggi, a
volte per entrargli dentro.
Sabrina era pazza di lui. Lui invece l’amava con coscienza, con forza e con
quel po’ di egoismo che gli consentiva di gestire facilmente ogni
situazione.
Davide l’aveva lasciata sempre molto libera e lo faceva perché non
avrebbe mai potuto amare fino in fondo un uccellino che non era capace
di volare con le proprie ali. Ma Sabrina non aveva mai spiccato il suo volo
se non accanto a lui e se aveva avuto il coraggio di lasciare il suo nido,
questo era perché lo aveva già fatto Davide. Con lui si sentiva sicura, solo
con lui poteva volare.
Davide qualche volta se ne andava senza motivo e lei lo aspettava perché
sapeva che sarebbe tornato ma Sabrina non se ne era mai andata, nemmeno
vicino. La sua parte ormai, si colorava dell’impazienza dell’attesa,
un’impazienza che dopo un anno e tanti piccoli abbandoni non era più
impazienza ma routine e con essa tranquillità. Era certezza del riabbraccio.
E anche questa volta Sabrina non moriva di dolore perché come sempre il
nido abbandonato si sarebbe di nuovo riempito. Era un amore ciclico fatto
di abbandoni e di ritorni e lei si era ormai abituata alla lontananza e ogni
volta le faceva meno male. Sapeva che la corda si tirava ma mai si sarebbe
spezzata e rispettava le volute solitudini di Davide solo perché sapeva che
non l’avrebbero tratta fuori dalla sua vita per sempre.
Il loro legame era come un elastico che si deformava senza mai rompersi.
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Ma questa volta l’apparente normalità sapeva della calma più pericolosa,
odorava di valanga che travolge, di frana che distrugge, di fiume che
straripa da un momento all’altro senza preavviso, senza che nessuno lo
sappia.
E neanche Davide e Sabrina lo sapevano.
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Un’altra giornata passò, anche quella se la era divorata il tempo.
Il sole moriva nel risorgere chiaro della luna e Davide era andato a letto
dopo il vuoto del pomeriggio. Era andato a letto senza avere sonno, con il
cuore che ribellandosi gli galoppava in petto e con la mente in
fibrillazione.
A cena aveva mangiato poco, non aveva fame. Era sazio di tutto pur non
cibandosi di niente.
Era sazio delle ore che passavano, dei minuti che viaggiavano
incalcolabili, era sazio della vita che non aveva più e della notte che non
cessava di esistere.
Quella notte non fu calda ma la sua fu una lotta inconscia e sudata fra le
lenzuola, una lotta che rapiva la mente nell’incubo e che coinvolgeva il
corpo trascinandolo nelle danze acrobatiche di un buio senza fine.
Davide si girava e rigirava nel suo letto senza riuscire a trovare una
posizione che gli conciliasse il sonno.
Si alzò in piedi di scatto dopo avere litigato con le lenzuola, con un gesto
istintivo e deciso allungò il braccio e con le mani affilate toccò le copertine
dei suoi libri. Tremava di sudore e di intrepida confusione mentre le sue
dita riconoscevano i titoli e i loro autori e vi si soffermavano con gelosa
avidità e con appassionato zelo.
Le sue mani tirarono fuori un libro dopo l’altro e ne palpeggiarono le
pagine interne, ruvide o lisce, vecchie o nuove, ingiallite o bianche.
Sentiva l’inchiostro farsi arte poetica e sublime che racchiudeva un anima
grande che, facendosi scudo con le parole, voleva raccontarsi.
Prese con sé Groenlandia e l’aprì. Contò le pagine lentamente dalla
prima fino ad arrivare alla trentatreesima e mormorò “ E Nantes disse:
l’eredità che porterò con me sono i particolari che ho raccolto dal mondo
e le passioni che ho coltivato in vita. Ciò che porto con me è la mia anima
e ciò di cui è composta. I colori e le luci, i suoni e gli echi.
Ho morso un pezzo di vita quando sono riuscito a volare con il solo aiuto
di un pallone aerostatico, l’ho morsa quando ho amato per una notte
intera l’unica donna che importasse, ho morso la vita quando ho liberato
una coccinella dalla ragnatela di un ragno e l’ho restituita al cielo, l’ho
morsa quando ho baciato in fronte mio nipote che veniva alla luce.
Ora sono giunto al traguardo e non mi dispiace. Il filo di Arianna si è
arrotolato e non c è più strada da fare.
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Ho seguito il filo conduttore del mio istinto, ci sono inciampato ma l’ho
seguito. Mi sono rialzato. Sono caduto e ricaduto e sono state più le volte
che ero in terra che quelle in cui camminavo a testa alta.
La vita mi ha piegato ma anch’io ho piegato la vita. L’ho amata fino a
farle male, l’ho sorseggiata fino all’ultima goccia, mi sono lasciato
trascinare e l’ho domata così come si doma un cavallo selvaggio.
Non ho perso un giorno. No, non l’ho perso.
Ho perso con la vita, questo sì, lei gioca delle battaglie in cui vince
sempre, ma i suoi giorni sono tutti qui nella mia testa, scissi e uniti uno
dopo l’altro, corti e lunghi, folli e normali, detestati e adorati, impossibili
e facili. Sono pillole ingerite e mai versate fuori, eredità inestimabile e
segreta, scrigno di passioni consumate e mai raccontate, irrinunciabile
tesoro dissotterrato in me.”
Recitò a memoria le stesse parole che aveva fatto pronunciare a Nantes
nel suo libro e mai le sentì così sue come allora.
Dai suoi occhi verdi socchiusi nacquero lacrime calde che percorsero il
suo viso lente e inesorabili. Calde, brucianti.
Era la vita che si voleva riprendere la sua perla, era la perla che voleva
tornare alla sua vita.
Gli occhi di Davide piangevano mentre tremando sussurrava la pagina che
aveva scritto. Da essi sgorgava il dolore cristallizzato dentro un corpo che
non poteva più contenerne senza manifestare una qualche reazione.
Reazione che proveniva immancabilmente dai suoi organi malati, che si
risvegliavano pur non guarendo e che parevano urlare con la sola voce di
quelle gocce di cristallo salato.
Gli occhi di Davide si erano mossi e anche dentro di lui qualcosa era stato
scosso. E se quella notte essi avevano pianto forse ci sarebbe stato un
giorno in cui avrebbero anche potuto ridere.
Intanto nasceva l’alba.
17
Nel teatrino della vita era di scena un nuovo giorno, dipinto di sole e di
nuvole bianche.
Davide era disteso nel suo letto, un combattente esausto e vittorioso che si
pregusta qualche attimo di riposo prima di iniziare la sua giornaliera
battaglia.
I tratti del suo viso erano rilassati, la tensione accumulata quella notte era
esplosa in lacrime, lacrime che avevano segnato la fine di un capitolo di
vita e che ne avevano aperto uno nuovo.
Davide rifletteva e i suoi pensieri si rincorrevano armoniosi, si sentiva
carico di emozioni meravigliosamente febbrili che voleva concretizzare
riversandole al di fuori di sé.
Voleva cominciare a ricostruire. Ma ricostruire che cosa, questo ancora
non lo sapeva. Ma lo avrebbe fatto, giurava che lo avrebbe fatto.
Alcuni dei suoi libri giacevano disordinati per terra, altri erano
lievemente inclinati in avanti pur mantenendo il loro posto nella libreria di
legno antico.
Groenlandia era aperto alla pagina trentatre, sul letto, accanto al capo di
Davide. Nantes quella notte gli aveva raccontato con la sua fine il suo
percorso irrinunciabile, gli aveva restituito la forza creduta persa per
sempre.
Davide quando aveva scritto quelle parole le aveva sentite, ci aveva
creduto e niente gli aveva dato di più che quella figura nascosta tra le
pagine di un romanzo che raccontava un’altra storia. Nulla più di Nantes,
che era stato il personaggio meno ovvio che aveva creato, il meno parlato e
il più sentito. Un’apparizione inconsueta e rara che con la sua voce aveva
stretto tutte le parti del libro, il filo conduttore, l’anima che spiegava il
significato di tutto.
Di tutto.
E il vecchio personaggio gli era apparso quella notte, con la stessa irruenza
con cui si era sempre imposto mentre Davide raccontava una storia di cui
Nantes non faceva parte. Era il personaggio che da solo entrava nei
racconti unicamente per dire la sua e ci entrava, non c’era verso, anche
senza la volontà del narratore.
Rispondeva se niente gli veniva chiesto e interrompeva d’improvviso le
sequenze e il loro flusso naturale. Voleva una parte e la voleva con
insistenza.
18
Esisteva nella mente di Davide ma non gli bastava, voleva esistere nella
carta anche se gli era impossibile entrare in comunicazione con gli altri
personaggi del racconto.
Nantes sicuramente, era fuggito da una storia lontana oppure si era perso
da tanto tempo ed era forse normale che volesse entrare dentro un’altra
storia anche se in realtà non gli apparteneva. E fu così che egli entrò in un
mondo che non era il suo.
Davide gli aprì le porte d’ingresso, lo fece entrare nelle sue pagine senza
cambiarlo.
Nantes era un barcaiolo canuto, dalla barba folta e lunga e dagli occhi
furbi. Aveva trasportato da una riva all’altra un’infinità di persone e da
sempre viveva le storie che udiva raccontare.
E fu così che volle vivere anche quella dei personaggi che Davide aveva
creato. Cominciò a viverla in solitudine appartata fra le righe, martellante
anche con la sua presenza nascosta e improbabile.
Ma rimase inevitabilmente il personaggio ottocentesco che era, anche se
Groenlandia rappresentava il mondo odierno, fatto di calcoli coincisi e di
meccanismi robotici, frenetico e incalzante, ossessionante, che non
avrebbe mai potuto dare posto ad un uomo che per tutta la vita aveva
viaggiato lo stesso tratto di fiume, andando avanti e tornando indietro,
remando e remando con movimenti sempre uguali a se stessi, lasciandosi
alle spalle identiche scie che si ricalcavano nell’acqua.
Eppure Nantes ci era entrato dentro. Ma mai aveva comunicato con i
personaggi di quel mondo, aveva solo raccontato a tratti la sua novella e
dalle sue parole antiche appariva necessariamente il senso di ogni cosa.
Veniva fuori all’improvviso e la sua esistenza durava il più delle volte
nemmeno una pagina, ma il suo essere era così vivo che il ricordo di lui
non si smarriva mai.
E quella notte Nantes si ripresentò, come sovente aveva fatto, ma questa
volta non per essere immortalato nero su bianco dentro una storia da
inventare, entrò nella mente del suo creatore per non uscirvi e gli gridò in
faccia la parabola che già aveva raccontato.
E per Davide fu una presa di coscienza, una riscoperta di valori sepolti, un
non riconoscersi più e per questo odiarsi. Fu una resurrezione imposta,
sentita, dovuta, incazzata.
Un bagliore inaspettato, un’esplosione che infrange uno specchio, un
rapimento nascosto e Nantes e le sue passioni, e la sua barba saggia.
E Davide e le sue passioni e i suoi occhi ciechi.
19
E Davide che voleva ribellarsi e Davide che voleva scrivere e Davide che
voleva inventare e Davide che voleva uscire da lì.
20
Dolce aria di aprile nel parco di Firenze, aria rosa e azzurra cinguettante di
uccellini che intonavano melodie. Aria tiepida e mite, facile da respirare,
nascosta dalle auto e dagli scarichi, avvolgeva i giochi dei bambini, le loro
corse in bicicletta, i loro calci a un pallone.
Risate, risate di bambini, voci stridule e infantili che si sovrapponevano,
corse nel prato per cercare un nascondiglio, dietro un albero, dietro un
cespuglio, dietro la mamma.
E poi, quarantotto, quarantanove e cinquanta, vi vengo a cercare! E ancora,
Marco stai attento altrimenti ti fai male! Ho fatto tana, ho fatto tana!
Erano colorati, quel pomeriggio, i giardini di Boboli, rivestiti di allegria
di bimbi in magliette a mezze maniche.
Davide ci camminava dentro lentamente gustandosi un passo dopo l’altro,
con l’aiuto di un bastone lungo e leggero che riconosceva e delimitava gli
spazi.
Riusciva a fare la conoscenza del suolo in cui camminava grazie a
quell’indispensabile prolungamento artificiale del suo corpo, che ad ogni
piccolo spostamento andava indirizzato prima al centro e poi ai lati, o
prima ai lati e poi al centro, dritto davanti a lui per non sbagliare.
È stupido, stupido e necessario, pensava Davide.
Con lui c’era Mirco. La mattina stessa Davide l’aveva chiamato e gli
aveva detto “Ti va di portarmi in un posto?” e lui senza neanche chiedergli
dove aveva accettato entusiasta. Inizialmente, dentro di sé, aveva pensato
che la meta sarebbe stata l’ospedale e rimase meravigliato quando Davide
disse “Ho voglia di primavera, andiamo a Boboli?”
Era bello per Mirco camminare al fianco di Davide, era bello vederlo
sorridere quando incerto e barcollante sbagliava direzione. Non importa,
diceva lui, si appigliava al braccio dell’amico e si lasciava guidare per
qualche metro appena, giusto per rimettersi nella rotta esatta.
Inizialmente non parlarono molto, Mirco e Davide. La complicità stava
in quei silenzi discreti e in quella comprensione muta, consapevole e rara.
Girovagarono un po’ per il parco e poi si misero a sedere sotto un pioppo
dai rami cilindrici e dalla chioma folta che lasciava filtrare appena, deboli,
i raggi del sole.
Davide cominciò a parlare di getto e d’improvviso. Raccontò a Mirco
quella notte surreale ma le parole non gli bastarono per descrivere ciò che
aveva provato e Mirco riuscì a capire solo in modo generale e un po’
confuso ciò che Davide stava dicendo.
21
Lui parlava di emozioni grandi, di una molla che ti scatta dentro per caso e
ti spinge avanti, di una forza che non avresti mai creduto di possedere, che
esplode all’improvviso come un fuoco d’artificio. Un lampo di genio e lui
che aveva deciso che quel pomeriggio si sarebbe recato all’Istituto per non
vedenti.
Si sarebbe rimesso a scrivere.
Mirco udiva Davide scandire bene ogni lettera, lo guardava in viso e ad
ogni parola che usciva dalle sue labbra sgranava sempre di più gli occhi in
una smorfia di stupore felice che lo fece gridare “Lo sapevo, lo sapevo! Sì,
certo ti accompagnerò io all’Istituto, oggi stesso, naturale. Dopo pranzo.”
Il tempo era trascorso in fretta e i due nemmeno si sarebbero accorti che
era arrivata l’ora di pranzo se non fosse stato per i brontolii sempre più
frequenti e rumorosi che provenivano dallo stomaco di Mirco.
“Già l’una e trenta, giusto l’ora per una pizza,” disse lui guardando
l’orologio.
Aiutò Davide ad alzarsi, si scrollò i fili d’erba che gli erano rimasti
attaccati al maglione di cotone che aveva legato in vita e rimase fermo,
impassibile, con lo sguardo fisso davanti a lui, incantato da due occhietti
da cerbiatto che, dipinti di verde e di castano, ingenui, assistevano alla
scena.
Incuriositi e dolci, adombrati da una frangia leggera di capelli castano
chiaro, quegli occhi si erano divorati gli attimi di due estranei, di un
ragazzo che filtrava il suo fascino naturale dal paravento scuro di un paio
di occhiali da sole e che teneva in mano un lungo bastone, ed un altro
ragazzo dall’aria irresistibilmente simpatica che lo aveva aiutato ad alzarsi
e che poi era rimasto come di pietra di fronte al riflesso sottile di quello
sguardo insistente.
“E allora andiamo?” chiese Davide a voce alta mentre allungava il suo
bastone alla ricerca di un punto d’appoggio.
Interruppe non sapendolo quell’inseguimento fugace di sguardi.
“Sì, sì. Andiamo.” Mirco scrollò il capo e abbassò gli occhi.
Anche la ragazza del parco li abbassò in fretta. Peccato, pensò Mirco,
erano così belli.
Ma lei se ne andò via correndo, imbarazzata come una bambina sorpresa a
rubare caramelle. Correva e correva e il cuore le batteva forte ma non
resistette a lungo e prima di giungere in un punto troppo lontano in cui la
vista si perdeva, soffermandosi si voltò indietro.
22
Rubò ancora con gli occhi i passi incerti di quel ragazzo ricciolo e
spettinato dalla bocca ben disegnata, rubò il brusio indecifrabile di quelle
voci, rubò la dolcezza.
Non c’è poesia più bella, pensò lei.
23
Ore quattordici e trenta, apertura dell’Istituto. Davide e Mirco per le strade
di Firenze.
Con calma arrivarono. Il numero civico era esatto e non fu difficile per
Mirco trovare il palazzo grigio in un contesto di tanti palazzi bianchi, tutti
enormi, tutti imponenti.
Il palazzo grigio in fondo alla strada era il più semplice, scarno nelle sue
linee essenziali, quasi spoglio rispetto agli altri.
Aveva grandi finestre che si affacciavano sulla via poco trafficata e dalle
quali si intravedevano dall’esterno le stanze grandi e luminose, ed un
portone pesante, di quelli di legno fatti ad arco con le maniglie di ferro
battuto, ora arrugginito.
Accanto alla targhetta dorata che recava il nome dell’Istituto, Mirco scorse
un campanello, anch’esso dorato e lo suonò. Due volte.
La molla saltò e il portone si aprì automaticamente. I due ragazzi
entrarono.
A riceverli, una donna sulla quarantina vestita di scuro che disse
buongiorno e benvenuti.
Non sorrise, non si scompose, pronunciò le sue parole quasi senza
muovere le labbra. I suoi occhi, nascosti dalle lenti di pesanti occhiali da
vista, non tradirono alcuna significativa espressione.
“Se volete delle informazioni sull’Istituto, allora prego, vogliate seguirmi.
Altrimenti non so, ditemi voi.”
“La seguiremo volentieri,” disse Davide.
“Perfetto.” Si girò nei tacchi come un soldato e poi si voltò con la testa
verso Davide e disse “Due metri avanti e poi a destra. È la mia stanza”
Percorsero un corridoio stretto e buio, decorato di quadri appesi alle
pareti che ritraevano nature morte: un cesto di frutta autunnale sopra un
tavolo, una foglia gialla presumibilmente secca, e un insieme disordinato e
sparso di utensili moderni.
Entrarono nella stanza, ambiente che si intonava perfettamente con il
personaggio.
Una precisione esasperata allineava volumi della stessa altezza nell’ampia
libreria di mogano, una pulizia impeccabile faceva risplendere il marmo
grigio per terra. Non una fotografia, non una pianta che desse vita,
sembrava tutto immobile, persino la donna, dalla pelle eburnea, una volta
entrata nella stanzetta, aveva assunto le sembianze di un soprammobile.
Sconcertante, ambiente davvero sconcertante.
24
Anche Davide se ne rendeva conto, respirava quell’immobilità fredda,
come sospeso in quella stanza senza odori e ascoltava le parole robotiche
di quella donna. “Il nostro programma rieducativo è strettamente
personale. Ognuno ha le sue esigenze e noi ne teniamo conto, mettiamo a
disposizione le apparecchiature necessarie ed il nostro personale indirizza
e segue le persone non vedenti conformandosi perfettamente a ciò che è
richiesto e…”
Davide si era perso, stava odiando i formalismi di quella donna formale.
La interruppe, “Io ho poco da chiedere, signora. Adoro scrivere e voglio
farlo anche se non ci vedo più.” Abbozzò un sorriso, una bonaria presa di
giro.
La donna dilatò le pupille aprendo leggermente gli occhi. Che
maleducazione, pensò.
E assumendo ancora il solito tono di voce, forse l’unico che conosceva,
disse “Se è così potrà iniziare domani pomeriggio stesso. Venga verso
quest’ora. Le nostre insegnanti educheranno la sua percezione tattile e lei
imparerà presto a scrivere e leggere in Braille.”
“D’accordo.”
La donna si alzò dalla sua sedia rigida e anche Mirco e anche Davide.
“Signora,” ancora lui.
“Sì?” ancora lei.
“Potrei vedere la stanza in cui lavorerò?” un altro sorriso, questa volta non
abbozzato. Una risata.
Di nuovo gli occhi di lei, statici, che si aprivano. Non leggermente.
“Va bene. Usciti dalla stanza a destra poi sempre dritto. Non ci sono
porte.”
Uno, due, tre quattro, cinque o sei metri, corridoio lunghissimo e stretto.
Davide nel camminare batteva il suo bastone in entrambi i lati.
Arrivati. Una grande luce proveniva da quelle grandi stanze, tre per
l’esattezza, tutte collegate come una scacchiera, divisi da nessuna porta,
comunicanti.
Al lato sinistro un’immensa vetrata che permetteva al sole di colorare le
stanze di oro e di blu e che permetteva l’accesso al chiostro.
Il chiostro era splendido e profumato. Accoglieva fiori colorati, aiuole di
rose e biancospini e un laghetto artificiale chiuso ai lati da un muretto
circolare in pietra. Vi nuotavano allegramente oche e cigni bianchi e forse
qualche rana.
25
Il chiostro era dipinto di erba verde e macchiato di piccoli petali bianchi di
margherite, adombrato ai quattro suoi lati da alberi antichi, al centro
invece un vortice di sole.
Un quadro, sembrava un quadro.
Davide esplorò l’ambiente soffermandosi a tratti per respirare gli odori e
per udire le voci. Sentiva un brusio di sottofondo e qualche voce più chiara
e scandita dare insegnamenti gentili.
“Non capisco,” disse preoccupato, “quale sarà il mio posto?”
“Le stanze sono molto spaziose, è all’interno di queste che si terranno le
lezioni. Le lezioni sono individuali o collettive, sta a lei decidere quale
preferisce frequentare. Dovrà, comunque, farmelo sapere al più presto. L’
organizzazione non è cosa da poco.”
“Bene, bene. Tornerò domani.”
La cantilena irritante era finita.
Di nuovo lo stesso percorso, questa volta all’inverso e uscirono in strada.
“Davide, vuoi che ti descriva la signora?”
“No, te la voglio descrivere io. È alta. Magra ma con i fianchi larghi. E ha i
capelli lunghi, sì lunghi e neri e raccolti sulla nuca. Un volto pallido e gli
occhi miopi. La bocca stretta, filiforme direi. E il naso aquilino.”
“Pazzesco, Davide! Pazzesco da non crederci. Tu la conoscevi, l’hai
descritta perfettamente, dimmi la verità, l’avevi già vista.”
“No, l’ho conosciuta oggi. Con te.”
“Pazzesco. Ah, l’unica cosa, il naso. Non ce l’ha aquilino, ce l’ha piccolo e
dritto.”
“No ce l’ha aquilino. La mia signora ce l’ha aquilino.”
Silenzio.
26
Caro diario,
anche questa mattina la mamma mi ha chiamata da Barcellona.
Ha detto che le manco e che le farebbe piacere che la raggiungessi, per
sempre. Si è già informata sull’Università e ha detto che il trasferimento
non darebbe luogo ad alcun problema, che gli esami che ho dato li
convaliderebbero tutti.
Non lo so. È difficile lasciare tutto, che poi tutto non è.
È difficile lasciare la nonna e Bonni.
E poi non è vero che sta morendo di nostalgia, che la nostalgia è un male
di cui non si muore, con il tempo si impara a conviverci. E se sul serio
avesse voluto vedermi, a Natale sarebbe venuta da me e non sarebbe
andata alle Maldive a godersi il sole con il suo galletto ruspante!
Mi ha detto “Dai Anita, che se vieni recupereremo il tempo e ci
divertiremo da matte e ti farai tanti nuovi amici e li inviterai a fare il
bagno in piscina e a giocare a tennis tutte le volte che vorrai. Lo so che ti
piace giocare a tennis.”
Sì, mi piace ma cosa c’entra? Mi piacciono tante altre cose e poi non mi
importa se quel cretino di Josè è un conte ed ha la villa. Io non me ne
faccio niente della sua villa, io rivoglio solo la mia mamma.
(Strappo i petali di una margherita, desiderio irrealizzabile?)
La nonna ha detto che dovrei andare, che tanto a tornare uno fa sempre in
tempo, che lei è in grado di farcela anche da sola e che la mamma è
lontana da troppi mesi.
Fare un altro tentativo, dice lei, non costa niente, quello tra madre e figlia
è il legame più forte, il più difficile da spezzare e il più semplice da
ricostruire.
È che sono confusa, ci sono troppe forze che tirano in direzioni
contrapposte dentro di me ed ogni volta mi sembra di arrivare ad un punto
di rottura, quasi un punto di non ritorno che per disgrazia o per fortuna
alla fine non si rompe mai, alla fine ritorna sempre.
C’è il rancore verso di lei e lei lo chiama capriccio e io lo chiamo
delusione di felicità interrotte, lo chiamo rabbia di insicurezze, egoismo
indotto da lei che mancava, malinconia sotterrata da macerie di orgoglio
e distacco.
E c’è il desiderio delle sue braccia avvolgenti e lei lo chiama ancora
capriccio e io lo chiamo calore di ricordi infantili, di gambe in movimento
come due cavalli a dondolo, lo chiamo necessità di protezione, certezza
luminosa di lampione che traccia la strada.
27
Sono già le undici, la mamma richiamerà questa sera per avere la mia
risposta.
Ho un intero pomeriggio ritagliato a spicchi di cose da fare, per prendere
una decisione. Magari tra uno spicchio e l’altro ci scappa qualche
pensiero, e se fosse quello giusto?
Anita.
28
In cucina Sabrina aspettava il rientro di Davide. Era seduta su uno sgabello
laccato di bianco che tremava in sintonia con i piccoli movimenti frenetici
delle sue gambe.
In mano aveva un bicchiere e gli faceva fare acrobazie. Lo faceva rotolare
sulla tavola e poi lo afferrava prima che cadesse dalla sponda, lo metteva a
testa in giù e poi lo prendeva in mano. Ripetutamente, meccanicamente.
Nella stessa stanza, la madre di Davide che cercava inutilmente di
portare avanti un discorso, anche banale, tanto per compagnia.
Sabrina non era recettiva, si perdeva interrompendo le parole di risposta,
nei pensieri invadenti che non la lasciavano stare.
Perché Davide non mi ha detto che andava all’Istituto per non vedenti?
Avrei potuto accompagnarlo o per lo meno stargli vicino. Ha chiamato
Mirco, si è dimenticato di me. Da giorni ormai.
No, non ce la faccio. Inutile impegnarsi la vita con mille opportunità che
servono solo da placebo, questa volta non serve. Lui sta male anche se
non lo grida e nemmeno lo dice. Dovrebbe sentire il bisogno di me, io di
lui lo sento forte.
La mia vicinanza non la vuole, non la vuole. Non mi vuole.
“Sabrina, vuoi ancora qualcosa da bere?”
Sguardo perso nel vuoto, fisso in un punto inesistente, occhi stregati dal
rosso delle lacrime che non riescono a uscire, bocca semiaperta come nel
tentativo di chiedere aiuto, come se non avesse voce per dire amore aiuto.
Come se non avesse più niente.
La voce della madre di Davide, un impulso al cervello, il ritorno alla
realtà.
“Scusi signora?”, scrollando la testa e muovendo gli occhi.
“Dicevo se volevi ancora un po’ da bere.”
“No, grazie.”
Pausa.
“Io… io forse è meglio che vada, la ringrazio di tutto, arrivederci.”
In quel momento la porta di ingresso si chiuse sonora, come sbattuta da
una raffica di vento. E una voce forte si espanse calda nell’aria.
“Sono io.” Era Davide.
Un attimo di titubanza, di smarrimento, di panico e di batticuore e Sabrina
che non sapeva più dove guardare, dove andare, cosa dire.
Ci pensò la madre di Davide, pacata e serena in volto raggiunse il figlio
nel corridoio e lo avvertì che c’erano visite per lui, che c’era Sabrina.
29
Una scossa di elettricità lungo la schiena, non se lo aspettava. Disse di
farla entrare in camera sua.
Nei passi che distanziavano la cucina dalla camera di Davide, Sabrina fu
intrappolata da un vortice intrecciato di pensieri e proponimenti.
La annunciò il tacchettio deciso e lento delle sue scarpe e quando arrivò da
lui un sospiro si inghiottì tutte le frasi che le erano balenate in testa come
fugaci disegni mentali, le compresse strette, strette dentro di sé mascherate
dall’irragionevole vergogna dei sentimenti forti, che da sempre scalpitano
dentro ma che difficilmente irrompono fuori.
“Davide scusami se sono venuta senza avvisarti. Lo so che quando non mi
chiami devo starmene fuori, è che volevo sapere come stavi.
Me l’ha già detto tua madre che sei andato a quel centro riabilitativo. Sono
contenta della tua decisione, davvero.
Ora però vado, altrimenti farò tardi, alle otto ho una sfilata. Lo sai Davide
che ho una sfilata?”
“No.” Non lo sapeva, non sapeva più niente di lei.
“Allora, ciao.” Un bacio sulla guancia, morbido, lento. Da donna che ama
e che non sa amare, da donna che se ne va per non piangere, che se ne va
per non avere più paura.
E Davide, a sedere sul suo letto, si sentiva stordito.
Stordito e arrabbiato perché aveva capito tutto e non ne aveva capito il
perché . Perché Sabrina non gli si era gettata al collo urlandogli contro o
abbracciandolo, perché non aveva pianto, perché non aveva detto che
aveva bisogno di lui. Perché non aveva preso in mano un oggetto e
gettandolo a terra con forza l’aveva rotto, perché non gli aveva gridato in
faccia sei un bastardo.
Perché Sabrina non era mai stata capace di ammettere, mai di ribellarsi,
mai di lottare, perché aveva sempre accettato senza lamentarsi, perché
chiedeva scusa, perché rinunciava senza tentare, perché?
Davide stava odiando con dolore la tacita rassegnazione di lei, quel suo
fare finta di niente quando era successo tutto, quel suo conformarsi
inevitabile e triste ad ogni situazione.
Odiava con profondo dolore il colore di Sabrina che non era né bianco né
nero, era grigio. E il grigio stonava.
30
Attimi.
Attimi di Davide.
Attimi di sconforto irrefrenabile, attimi lenti in cui uno cade sempre più
giù, attimi di cosa ho fatto con la testa fra le mani.
Attimi di Sabrina perdonami ripetuto all’infinità.
Attimi di disperato rancore, attimi di mi odio e ti odio. Attimi. E domani
cosa faremo?
Attimi di ti voglio e ti respingo via, attimi di preghiere. Di voglio ancora
rivedere il tuo viso.
Attimi di non voglio perdere tutto, attimi di cazzo Davide potevi anche
fare qualcosa.
Attimi di amore ti voglio per almeno ancora una notte. No, una notte non
basta. Voglio ancora mille notti per amarti e per lenire le ferite.
Attimi e sentire che non è giusto. Attimi e desidero una donna forte perché
io forte non sono più.
Attimi che ho bisogno di una direzione. Attimi di confusione, tutto questo
è ancora amore?
Attimi di la mia vita non è più normale. Attimi di è meglio che stia da solo.
Attimi e non capire.
Attimi di ora sono io ad avere bisogno di lei. Attimi di necessità viscerale
e attimi di è ora che lei cambi.
Attimi di perché non mi hai trattato male, attimi di perché non mi hai
spogliato e non abbiamo fatto l’amore.
Attimi di incomunicabilità senza scampo. Attimi di ti sto perdendo.
Attimi e giorni che passano fra le dita e attimi di è inutile, ora non è più
come prima.
Attimi di Sabrina devi gridare e attimi di devo sentire che lo fai.
Attimi di me senza te .
Attimi di vorrei andarmene lontano. Attimi da dimenticare.
Attimi che se ne vanno mentre Sabrina se ne va. Attimi che non è possibile
spiegare e desideri che chissà quale stella avvererà.
31
Caro diario,
sono appena le sei del mattino ed io ti sto scrivendo in silenzio, alla luce
fioca della lampada ad olio che ho qui sopra la scrivania.
Devo stare attenta a non fare rumore altrimenti sveglierò la mamma.
Sì, la mamma. Sembra impossibile ma si vede che ogni tanto i sogni si
avverano.
Ieri sera mentre la nonna stava cucinando ed io ero in camera mia seduta
sul letto ad ascoltare la musica, è suonato il campanello.
Non aspettavamo nessuno, noi.
Forse Bonni, ho pensato. E così senza badarci troppo sono andata ad
aprire e sul pianerottolo c’era lei elegantissima, con una valigia in mano e
con il sorriso più naturale del mondo, la mamma.
Non so che faccia devo avere fatto ma sicuramente una molto simile a
quelle dei personaggi dei cartoni animati quando gli stampano in fronte
diecimila punti interrogativi, tanto che lei mi ha chiesto “Che fai Enni non
mi abbracci?”
Mi sentivo strana, come se i piedi mi si fossero incollati per terra. Non
riuscivo a muovermi, ero come gelata, forse dalla sorpresa che mi aveva
lasciato senza fiato.
Allora lei, posando con grazia per terra la sua valigia è venuta verso di
me e mi ha abbracciata soffocandomi di profumo al cocco, sempre il
solito.
In quel momento è venuta la nonna, credo per vedere chi fosse, e quando
si è accorta della mamma non le ha neanche detto ciao, si è portata le
mani al viso ed ha cominciato a piangere. Povera nonna, questi colpi alla
sua età iniziano ad essere pericolosi!
C’è voluta un’oretta per farla riprendere, e quando finalmente ce l’ha
fatta è andata a finire di preparare la cena.
Io e la mamma siamo rimaste sedute sul divano da sole e mentre la
televisione continuava a parlare, io le ho chiesto perché aveva deciso di
venire.
“Per convincerti a partire, Enni.”
E l’ha detto nel modo più ovvio possibile, con quel suo sorriso esatto e la
bocca rossa e i denti perfettamente bianchi, con quel suo tono da prima
donna sicura di non fallire mai, con quei suoi ricci neri mai scomposti.
Mi aveva fatto salire una puntura acuta di rabbia sorda in tutto il corpo e
sono stata per dirle che non poteva arrivare e riprendermi come, quando e
32
perché lo voleva lei, come se fossi stata un involucro di carne, pelle ed
ossa senza niente dentro. Ma poi l’ho guardata.
Aveva cambiato in modo sorprendente e veloce espressione, non sembrava
più una statua di cera colorata di trucco e mi è apparsa molto dolce,
proprio come è adesso mentre dorme.
Mi ha preso le mani nelle sue e con la testa inclinata in avanti mi ha detto
“Ti rivoglio con me perché mi sei mancata, anche se non sono mai riuscita
a dimostrartelo. Vorrei una possibilità.”
Probabilmente si aspettava una risposta, io invece le ho chiesto fra quanto
sarebbe partita.
“Tra due giorni.” Ha risposto lei.
“Allora parliamone domani.” Le ho detto io.
Poco dopo la nonna ci ha chiamate a tavola.
Abbiamo cenato tutte e tre insieme e abbiamo parlato tantissimo,
specialmente la mamma che quando inizia a raccontare tutto quello che le
capita non la finisce più.
La nonna aveva gli occhi che le ridevano e la mamma era disinvolta e a
suo agio e aveva l’aria veramente felice.
Io ero ancora sconcertata, la mamma che ritorna a casa e nei miei attimi,
la decisione che pressa tra le mie pareti, la felicità bloccata di colpo dal
rancore di giorni.
Ero confusa, la mia mente si perdeva di continuo fuori dai discorsi di lei,
che se qualcuno mi avesse chiesto il riassunto di tutte le sue parole io non
sarei stata capace di ripeterne neanche una.
Vedevo la mamma, la nonna e me come se io non fossi stata me, non so se
riesco a spiegarmi, come quando vedi le scene di un film senza guardarle.
La pellicola cattura le sequenze, le impasta e te le fa scorrere davanti
come una vita, ma le vedi e basta, non le senti, non entrano a fare parte
del tuo bagaglio.
Mi sono sentita in decomposizione per tutta la sera, meno male che poi
siamo andate a letto presto.
Prima di dormire la mamma mi ha voluto rincalzare le coperte e poi mi ha
baciata sulla fronte. Io ho spento subito la luce, per non farmi vedere
piangere.
Anita.
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Decisione presa.
Davide era all’Istituto per non vedenti, seduto di fronte ad un massiccio
tavolo di legno. Accanto a lui l’insegnante, una signorina magra
dall’apparenza fragile e dal volto pulito.
Davide, tutto preso nel momento, non si preoccupò di percepire, né di
immaginare la persona che gli stava vicino. Sentiva, però le inflessioni
naturali e ritmiche della sua voce rimbalzargli a intervalli lenti sulla mente,
e le stringeva e le catturava mentre allontanava, incastrandoli in un
meccanismo inconsapevole, i contorni fisici di quella donna che gli
impartiva chiare e semplici le prime istruzioni.
Capì in fretta il significato di quell’educare alla percezione tattile che
nei discorsi della Direttrice gli era sembrato così vuoto, banale e
ridondante, capì l’importanza di quella nuova percezione, atipica e
immancabilmente fondata su processi logici di adattamento e
assimilazione.
Sentì che piano, piano quel braccio di ferro di se stesso contro se stesso
stava perdendo forza, stava scivolando via lasciando posto ad
un’accettazione ancora debole ma viva della sua difficile condizione.
E mentre le parole gli percorrevano il polpastrello del dito indice, il suo
pensiero catturò istantaneo il sogno premonitore del giorno in cui si
sarebbe rimesso a scrivere. Gli si dipinsero davanti i momenti di
composizione libera, dei giochi senza regole del fare e del disfare, il
momento del parto tormentato e gioioso di una storia.
E gli impulsi del cervello lo avrebbero riportato alle parole che, calate e
perse nel buio, non riusciva più a trovare e le avrebbe afferrate una ad una
e avrebbe fatto di loro materiale indispensabile da costruzione, con le sue
mani agili da scultore di favole.
E avrebbe ritrovato tutti i demoni che gli danzavano dentro: l’autenticità,
lo spirito, l’istinto e l’irrazionale genialità. E li avrebbe combinati e sciolti,
inventati e sentiti, custoditi e cresciuti come una pianta o un bambino o
un’idea.
Davide fu strappato alla sua amalgama di pensieri e apprendimenti,
quando nell’orologio a pendolo scoccò la fine dell’ora e della sua lezione.
Si alzò in piedi e sorrise. Disse grazie.
La signorina rispose “E’ semplice con te, impari in fretta. Ora ci sono i
bambini, con loro è già più complicato, hanno sempre voglia di giocare.”
Risero appena. Si salutarono.
Davide uscì dalla stanza, percorse il corridoio, uscì dall’Istituto.
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Entrò in macchina di suo padre che lo stava aspettando, cominciarono a
parlare in un dialogo fluido, senza resistenze, intonato di buon umore.
Intanto, il tramonto del sole lento e arancione rinchiudeva nella sua nube
calda il ricordo di quel pomeriggio di prova e di sottile autoironia. E nel
tepore avvolgente di una sensazione che saliva dritta al cuore, avvertì i
passi vacillanti e ubriachi del cambiamento.
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Il tempo volava ma quel giorno davvero non voleva finire, era lo slancio
immotivato, la voglia di scaricare fuori un po’ di sé a tenere ancora aperto
il sipario.
La notte era calata, era di scena il secondo atto.
La casa vuota, i genitori di Davide a cena da amici.
Un tremolio irritante e giocoso alle mani, alle gambe, un solletico di
euforia intrepida alla testa. Il cuore che con i suoi battiti suonava il
tamburo e voglia di creare, non di scrivere, di creare. Creare un rapporto,
un ponte con il mondo, un arcobaleno per l’infinito, creare Dio. Dio dentro
e fuori di sé – ma c’era Dio?- .
Quella forza dal nulla, quell’entusiasmo bambino, davvero non li riusciva
a spiegare.
Era disteso sul divano, la radio accesa e accanto a lui un bicchiere e una
bottiglia di vino alla prugna, dolce nettare.
Pensò a quel pomeriggio bagnato, l’incidente che scoppia, le lievi ferite
addosso, la morte agli occhi. Pensò alle mille volte che si era detto non
voglio vivere più e pensò a quel senso di resurrezione che lo stava
prendendo, a quella palingenesi rivoluzionaria che stava creando il caos
felice dentro di sé.
E Davide non capiva. Ma sentiva, sentiva molto di più.
Era come se il fato, la sorte o Dio si fossero voluti riprendere un dono,
concedendogliene al suo posto un altro, un dono che non aveva un nome
ed era difficile da spiegare. Una sorta di attitudine alle cose, un senso
nuovo, estraneo alla maggior parte, che portava ogni giorno un po’ di più a
odorare più forte, a palpeggiare più a fondo, a udire il minimo e ancora
oltre, sensazione su sensazione fluttuazioni amplificate.
Davide stava imparando un nuovo gioco le cui regole consistevano nel
dare importanza a tutto per discernere, dividendo le differenze e
accomunando le uguaglianze.
Anche un passo istintivo ed ovvio seguiva una sua logica. Timido e
ammortizzato nelle pantofole di sua madre, disinvolto e preciso sui tacchi
di Sabrina, strascicato nell’andare lento di Enrico, scandito e piccolo nelle
scarpe di vernice della Direttrice dell’Istituto, disordinato e molleggiato
nelle scarpe da ginnastica di Mirco, sordo e piatto nel correre veloce di suo
padre per andare in ufficio.
Ed erano soltanto passi; di forme un’infinità. Da scoprire tutte nelle mani.
Era questo un mondo nuovo, brutto o bello ancora non lo sapeva, ma
quella sera Davide, nel divano, a casa da solo, mentre i suoi erano da
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amici, con la radio accesa e con in mano un bicchiere di vino alla prugna,
lo voleva rappresentare.
Si alzò e andò in camera sua, aprì un’anta dell’armadio, la più stretta.
Lì dentro c’era la sua chitarra, uno stereo senza più antenna e senza pile,
un quadretto rotto in un angolo, pacchetti di sigarette vuote, fogli scritti da
penne diverse distesi e accartocciati, felpe raggomitolate, una candela
azzurra e un portaincenso, una, due, tre fotografie di Davide bambino e un
pigiama sfuggito.
Ecco, prese quello, dopo avere riconosciuto ogni cosa dalla forma, dalla
consistenza e dall’odore. Prese quello perché era blu e perché era morbido.
Richiuse l’anta e si accovacciò a terra, allungò il braccio ed estrasse fuori
una tavoletta di sughero che si trovava a metà tra il muro e la scrivania.
Si procurò un paio di forbici, la colla, una scatola di riso, dei batuffoli di
cotone e una camicia gialla vecchissima che suo padre indossava per fare i
lavori di casa.
E poi fu solo fantasia.
Mettersi a sedere per terra con le gambe incrociate davanti alla finestra
aperta e odorare il cielo. Sentire il profumo di notte umida e rassicurante e
ritagliarne uno squarcio dal pigiama blu. Incollarla sulla tavoletta di
sughero e adornarla di stelle, tanti piccoli chicchi di riso. Fabbricare tre
quarti di luna da una camicia gialla, premerla sul cielo accanto ad una
nuvola di cotone soffice.
Aspettare che la colla si asciughi e non fare nient’altro.
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In casa di Sabrina il telefono squillava, nessuno che rispondeva.
L’atmosfera fasulla di magia e lei bellissima, avvolta in un abito nero,
seduta al tavolino di un ristorante.
Di fronte a lei, uno sconosciuto, o quasi.
Una cena a lume di candela mentre la fiammella della cera grigia
abbronzava i loro visi.
Mangiavano lentamente pietanze di nouvelle cousine raffinatamente
elaborate.
Sabrina guardava di fronte a lei e i suoi occhi chiari si chiedevano perché .
Perché adesso si trovava con lui, perché quel profondo niente se con lei
non c’era Davide.
Aveva accettato quell’invito per istinto di autoprotezione, l’aveva accettato
come cura sperimentale contro la solitudine, contro l’incolmabilità dei
vuoti. E ora che era lì si sentiva fuori posto, consumata da un disagio di
sentimenti troppo forti per essere lasciati a casa chiusi in un cassetto,
anche a chiave.
Il suo interlocutore, alto, elegante e di bell’aspetto era pieno di
attenzioni. Le versava champagne nel bicchiere e le teneva la mano, le
ripeteva sussurrando piano come fosse bianca e delicata la sua pelle, come
quel vestito le donasse seguendo perfettamente l’armonia del suo corpo.
Sabrina si sentiva attorniata da cose e parole che le giravano intorno senza
entrarle dentro, risposte dovute a domande di circostanza.
Dentro di lei il tumulto, e al di fuori una donna raffinata e compiacente. In
lei una bambina che piangeva senza farsi sentire e alla luce della candela
una persona dal viso aperto di espressioni pensate di nascosto, che lasciava
immergere le sensazioni dentro al chiaroscuro del suo circuito emozionale.
Erano le undici e l’orchestra cominciò a suonare musiche d’amore.
Pierfrancesco si alzò dalla sedia e andò verso quella di Sabrina, le prese
delicatamente la mano e come un gentiluomo di altri tempi, sorridendo le
chiese “Mi concede questo ballo, mia splendida signorina?”
Sabrina addolcì lo sguardo stringendo appena i contorni degli occhi e
divertita disse “Volentieri.”
Ballarono note che correvano sulle corde di un violino e sui tasti di un
pianoforte, ballarono note che urlavano la loro melodia nel suono deciso e
appassionato di una tromba, ballarono il sibilo sensuale di un flauto
traverso.
Sabrina si lasciò avvolgere dalle braccia sicure di quel ragazzo conosciuto
da appena una settimana, rigettava la paura e il disagio che fino ad allora
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gli erano saliti fino alla gola, rigettava i pensieri, con la mente respingeva
il viso di Davide, respingeva il suo calore.
E volteggiava lieve come una farfalla, contagiata dal profumo estraneo di
quell’uomo che non era suo, si lasciava corteggiare e tentava di farsi
coinvolgere da quel tutto che le stava attorno senza rubarle niente.
Ballarono per molto tempo, tenendosi stretti fianchi contro fianchi,
ascoltandosi i respiri, sorridendosi ad ogni nuova canzone e quando poi, fu
mezzanotte Sabrina, come Cenerentola, disse che era giunta l’ora di
tornare a casa. Disse che doveva alzarsi presto per studiare la mattina
dopo, anche se non era vero.
È che se ne voleva andare, voleva porre fine a quella serata, voleva
chiuderla, dormirci sopra, ed alzarsi la mattina per cominciare da capo. Per
pensare e poi vivere un giorno nuovo, per capirsi un po’ di più.
Pierfrancesco le piaceva ma le piaceva e basta. Nessun batticuore, nessuna
paura che agguanta e che divora lo stomaco, nessun tremolio emozionato
della voce, nessun brivido che caldo come il fuoco e freddo come il
ghiaccio scuote l’anima.
Era solo un non amore di un giorno, un pezzo come tanti che riempie il
puzzle senza finirlo, era il non amore che indolore sapeva scivolare via
piano, che per la sua leggerezza metteva allegria.
Era il non amore che Sabrina avvicinò alle sue labbra solo per continuare il
gioco, così senza pensare, senza dare retta al cuore.
Un bacio non vissuto che non lasciava il tepore sul viso, che l’indomani
sarebbe stato facile dimenticare.
Sotto casa di Sabrina lei e Pierfrancesco, senza un perché.
Le mani nelle mani che non si riconoscevano, e intanto in casa di Sabrina
il telefono squillava, nessuno che rispondeva, e Davide che in un altro
angolo di città aspettava.
Sì, aspettava.
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“Ti voglio raccontare una storia.” Disse Anita.
“Sì, Sì!” Esultò Bonni agitandosi tutta.
“Bene, allora vieni a sederti sulle mie gambe come facevi quando eri più
piccola.”
Bonni rideva e tese la sua manina, Anita l’afferrò e la portò verso di sé, la
fece salire in braccio. E cominciò.
“C’era una volta,”
“Anita, perché le favole iniziano sempre con c’era una volta?”
“Perché, perché… come perché? Perché è una regola, non esiste una fiaba
vera che non cominci così.
Un giorno un menestrello del re raccontò la sua storia e la iniziò proprio
con queste parole e dalla sua bocca venne fuori una favola così bella, che il
re e la regina e l’intera corte rimasero per tutto il tempo in silenzio ad
ascoltare parola per parola quella storia incantevole, senza neanche battere
ciglio e con gli occhi lucidi dalla commozione. È da quel giorno che il re
decise che non potevano esservi fiabe che non iniziassero con c’era una
volta. Perché sperava sempre che quelle parole riaprissero alla mente le
stesse immagini meravigliose che erano state evocate da quel menestrello,
capisci ora?”
“Sì, adesso sì.”
“Bene, allora. C’era una volta una Stella molto piccola che ogni notte
saliva in cielo per seguire la sua mamma, la Luna. La Luna era chiara,
forte e quando il cielo si imbruniva lei prendeva il posto del Sole. Saliva
alta nel cielo e si faceva vedere dagli uomini che dalla terra l’ammiravano.
Qualche volta appariva come una pallida sfera, altre volte come una falce e
nascondeva un po’ di sé fra le nuvole, altre volte ancora non si faceva
vedere perché correva a rifugiarsi in chissà quale angolo di blu. Ma c’era.
Tutti gli uomini sapevano che prima di addormentarsi avrebbero potuto
rivolgere il loro ultimo saluto alla Luna.
E con lei la sua inseparabile figlia, la Stellina più piccola di tutte, che
riusciva a brillare come nessun’altra. Brillava di luce propria e di luce
riflessa dalla Luna e risplendeva di un bianco che luccicava e che faceva
vibrare il cielo con il suo bagliore.
Riusciva a trasmettere tanta forza e tanto amore che spesso chi si sentiva
triste non doveva fare altro che sedersi in un prato, lontano dai lampioni e
dai rumori della città per godersi quel calore silenzioso e buono e per
confidare a se stesso e alla sua Stellina amica i suoi più reconditi desideri.”
“Anita, e la Stellina buona rispondeva?”
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“Non proprio Bonni, lei non sapeva parlare altro che con il suo calore
lucente e con esso spezzava l’oscurità, la fulminava d’argento e
trasmetteva speranza e fiducia in chi credeva in lei. Era come una guida,
una scia di gocce cristalline che non risplendevano solo nel cielo ma anche
dentro le anime di chi la sentiva vicina. Riesci ad immaginarla, Bonni?”
“Sì, la immagino morbida e calda.”
“Certo piccolina mia, lei era proprio così. Morbida e calda.”
Bonni appoggiò la testolina bruna sul petto di Anita e abbracciandola
disse “Continua, ti prego. Non faccio fatica ad immaginare, lo so che la
luce è calda e che è morbida.”
“D’accordo.
La Stellina voleva molto bene alla sua mamma ed era anche grazie a
questo amore che riusciva a rischiarare i cuori delle persone. Ma un brutto
giorno arrivò nel cielo un tiranno prepotente che si impossessò della sfera
celeste. Se la prese violentemente spargendo il terrore con tuoni e fulmini
e con gocce di pioggia tanto fredde e grandi da fare male. Il tiranno
Temporale fece rapire dalle sue nubi grigie la Luna e non le permise più di
colorare di bianco il cielo.
Bonni, ti ricordi che colore è il bianco?”
“Sì è la pacatezza, è la purezza, è il gattino di angora che abbiamo trovato
la scorsa settimana ai giardini.”
“Sei bravissima, tesoro mio, allora posso continuare.
La Stellina aveva perso la sua mamma. La cercò e la ricercò ma invano. Il
Temporale l’aveva rinchiusa in chissà quale meandro del cielo e non
voleva liberarla, perché voleva tenere per sé il suo calore e la sua luce.
La Stellina divenne molto triste, il dolore piano, piano la stava spegnendo.
Lei se ne stava sempre sola, seduta nel suo angolino ad aspettare.
Aspettava ed aspettava che la Luna tornasse da lei, ma la Luna non
tornava. E c’era chi diceva che si era innamorata del Temporale,
dimenticandosi di chi in precedenza l’aveva amata. La Stellina sentiva
queste parole e nel suo cuore bruciavano come fuoco. Lei non voleva
crederci ma più i giorni passavano, più non poteva fare a meno di sentirsi
abbandonata e tradita e si rinchiuse in se stessa perdendo a poco a poco le
forze.
Passò del tempo e un bel giorno accadde una cosa veramente straordinaria.
Accadde che due Stelle trovarono la Stellina da sola tutta piangente e fece
loro così tenerezza che non vollero lasciarla più.
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Una di esse era una Stella anziana e con la sua saggezza dette alla Stellina
la forza per resuscitare e le fece capire il vero senso delle cose e
dell’amore, le insegnò a lottare e a non disperarsi mai.
L’altra era piccola, piccola, una Stella appena nata, bisognosa d’affetto e di
tante cure. Lei era sorprendentemente amorevole, era dolce e aveva tanta
voglia di vivere e riuscì a trasmettere il suo entusiasmo travolgente alla
Stellina. Era un cucciolo di Stella che con i suoi disarmanti perché voleva
andare oltre l’apparenza, fino a cogliere l’anima più profonda delle cose.
Fra le tre Stelle fu subito amore e fu proprio grazie a questo che il cielo
tornò a ridere e la Stellina a risplendere. Lei sapeva che doveva la vita alle
due amiche, ma sapeva anche che gli amori che arrivano trovano sempre
un posto nel cuore ma che mai possono mandare via un amore che c’è
stato e che c’è ancora.
I giorni passarono e le cose si stabilizzarono, fino a quando una notte la
Luna tornò nel suo vecchio abitacolo di cielo. Senza una ragione tornò,
all’improvviso. Pensa che sobbalzo fece la Stellina quando rivide la Luna,
bella più che mai, così perfettamente sferica da sembrare quasi infinita.
Attorno a lei ruotarono veloci tanti ricordi dei giorni passati e ciascuno di
loro aveva un suo profumo, diverso dall’altro ma tutti sapevano di
mamma.
La Stellina cominciò a girare su se stessa come se fosse impazzita e
nessuno seppe mai se lo fece per una spasmodica felicità, incontenibile,
del tutto allarmante, oppure per un’emozione che aveva in sé insieme alla
gioia anche il dolore di un vuoto che non si poteva colmare.”
“Aveva fatto come la tua mamma.
Ma perché la Luna era tornata?”
Anita sussultò impercettibile e poi rispose. “La Luna era tornata per
riprendersi la sua bambina. Dopo mesi ne sentiva la mancanza e le chiese
perdono di non essere tornata prima e poi le chiese di seguirla in quello
spazio di cielo, lontano, in cui si era costruita la sua dimora.”
“Ma la Stellina ormai aveva delle amiche…”
“Già, per questo fu un difficile dilemma.
La Stellina si sentì come catturata da un vortice che la divideva a metà tra
il desiderio di restare e quello di volare via con la sua mamma. Erano
amori diversi, quello per le due Stelle e quello per la Luna, entrambi così
profondi, entrambi così necessariamente vitali che mai la scelta dell’uno
avrebbe potuto escludere l’altro.
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La Stellina pensò e ripensò ma non riuscì a prendere una decisione e alla
fine chiese consiglio alla Stella anziana ed ella disse :fare un tentativo non
costa niente, piccola mia. Quello tra madre e figlia è il legame più forte, il
più difficile da spezzare e il più semplice da ricostruire. Si abbracciarono a
lungo, e prima di partire la Stellina baciò sulla fronte la Stella piccola,
piccola mentre stava dormendo, così da non farle troppo male e spiccò il
volo per andare lontano insieme alla sua mamma.
Mentre volava nella notte, la Stellina che teneva per mano la Luna,
luccicava d’amore. D’amore per la sua mamma e d’amore per la due Stelle
che le avevano insegnato la vita e dentro di sé, con parole solenni, promise
che mai le avrebbe abbandonate e che sarebbe tornata da loro ogni volta.”
“Ogni volta, quando?” Chiese Bonni.
“Ogni volta che la lontananza era troppa, ogni volta che il cuore chiamava,
ogni volta che senza di loro si sentiva sola. E sarebbe tornata, sul serio
Bonni, sarebbe tornata.”
Si strinsero forte, e il viso di Bonni affondò nel golf morbido di Anita e
ne respirò il profumo conosciuto di pelle e detersivo. Poi si alzarono in
piedi e si presero per mano.
“Anita, mi porti in camera mia e mi metti a letto tu stanotte?”
“Certo, andiamo.”
“E poi prometti che resterai con me fino a quando non mi sono
addormentata?”
“Sì, te lo prometto principessa.”
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Il chiostro verde di fili d’erba morbida, bianco di petali di margherita,
profumato di sole e di aria che sapeva di miele.
Primavera.
Davide se ne stava seduto al riparo di un grande tiglio che partoriva i suoi
primi, timidi, germogli. Era da solo.
La lezione di Braille era finita da appena dieci minuti, chiara, precisa, a
suo modo rassicurante. Pensò che presto si sarebbe potuto rimettere a
scrivere e respirò di contentezza. Pensò alle parole che gli correvano per la
testa, ai loro significati contraddittori, alle ispirazioni che non sapeva se al
momento erano vere ispirazioni o soltanto idee confuse, si disse che erano
soltanto idee confuse.
Alzò le spalle in segno di pazienza, si disse aspetterò il momento.
E quella mattina, che sapeva solo di altalenante ozio, non era il momento,
l’ispirazione si era prosciugata, riversata tutta la sera prima in un mosaico
di colori invisibili, il pazzesco patchwork della sua anima.
Ad un tratto sentì una vocina, una vibrazione sottile e acuta nell’aria.
“Voglio fare il gioco dei colori difficili!”
“Dai, ora non fare i capricci che la maestra ha detto che devi esercitarti a
leggere e a scrivere.”
“ No, no e no. Ora non mi va, mi esercito solo se giochi con me ai colori
difficili.”
“Non farmi arrabbiare Bonni, altrimenti quando torniamo a casa lo dico
alla tua mamma.”
Canticchiando con voce stridula, “Il bordò è il mosto per fare il vino ma
sono anche le budella!”
Sonora risata di bambina.
Una risata di Davide e Anita che gridava Bonni smettila, e Davide che
rideva di più e Bonni che sentendo l’attenzione rivolgersi su di sé,
continuava saltando come un pagliaccio “Le budella, bordò come le
budella!”
Anita si voltò per vedere chi, con le sue risate, stava fomentando le energie
ribelli di quel piccolo diavolo scatenato ma non riuscì nemmeno a girarsi
del tutto. Rimase immobile come pietrificata, con il viso girato di tre quarti
in direzione del grande tiglio.
I suoi occhi da cerbiatto si spalancarono di sorpresa, le sue pupille si
ingrandirono. E un colpo sordo le andò dritto al cuore, insieme a un
flashback che si accendeva e si spegneva ad intermittenza, trasmettendo in
diretta il ricordo vicino del giardino di Boboli.
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Gli stessi capelli spettinati, lo stesso bastone lucido lasciato cadere sul
prato, la stessa bocca carnosa ed un sorriso contagioso che quella mattina
non era riuscita a scrutare.
Passò solo qualche attimo e ad Anita sembrarono secoli. Secoli di
confusioni e stordimenti, secoli di coriandoli di ricordo, secoli di dolce
nausea allo stomaco, mentre adesso la cantilena assordante di Bonni
rimbombava solo al di fuori di lei.
“Bambina, vieni da me se ce la fai e insegnami i colori, che li ho
dimenticati!” disse Davide alzando la voce e in tono scherzoso.
Lungo la schiena di Anita un altro brivido, era la stessa voce calda.
Bonni interruppe le sue danze giocose e la sua canzone ripetuta e poi
rimase ferma, un po’ disorientata ed intimidita, che aveva ballato troppo ed
aveva immancabilmente perso quel minimo senso dell’orientamento che
possedeva.
“Anita, Anita…Anita, dove sei?”
Anita andò da lei e l’abbracciò per farle sentire che c’era e poi le disse
“C’è un ragazzo sotto il grande albero e hai sentito, vorrebbe che tu gli
insegnassi i colori, ci vuoi andare?”
Bonni si ritrasse in se stessa, la sua spavalderia in pochi attimi era
diventata vergogna.
“Sì,” disse con un filo di voce. “Però non me li ricordo tutti.”
“Va bene lo stesso, andiamo.”
Anita prese la mano di Bonni ed insieme si avviarono verso l’albero. Lei
era molto emozionata perché non gli era mai capitato di insegnare ad uno
sconosciuto il suo gioco preferito, ma la mano di Anita tremava molto di
più.
Si trovarono l’uno di fronte alle altre e il buio dell’ignoto che non aveva
forma si trasformava in idea e solo dagli occhi di Anita usciva fuori la
realtà, i particolari, minuscoli corpi, e le dimensioni grandi.
Per Davide e Bonni quell’incontro era una costruzione che ancora doveva
ergersi in piedi, doveva trovare ancora un proprio spazio, un suo spessore,
una sua profondità. L’armonia e il ritmo.
Anita si accovacciò di fronte a Davide e disse “Siamo qui, puoi sentirci se
vuoi.”
E gli prese la mano e lentamente la condusse al suo viso.
Era la prima volta che Davide faceva la conoscenza di qualcuno in quel
modo, aveva sentito fino ad allora solo volti conosciuti, aveva scoperto i
cambiamenti delle persone, ma mai le assolute novità.
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E ora che con la sua mano rigida toccava il viso di quella persona ancora
senza età e senza tratti, si sentiva come per necessità attratto e un po’
spaventato da quel corpo che stava lentamente prendendo forma.
La pelle era liscia, velluto, quasi difficile staccarsene; il viso leggermente
tondo disegnava una forma armonica. Gli occhi erano grandi e avevano
ciglia folte, il naso piccolo e smussato in cima.
La bocca. Davide non aveva mai sentito una bocca così, una bocca tenera
da struggersi, liscia come seta, che ogni uomo avrebbe baciato con la
stessa passione per una, dieci, cento, mille e più vite, senza mai riposarsi le
labbra.
Dopo avere esitato qualche momento accarezzando lievemente il collo,
scese sulle spalle e le sentì piccole e indifese, ma calde di cotone morbido
di una maglia che si appoggiava appena.
Ogni minimo dettaglio sulle dita, il capire e l’immaginarsi che insieme
creavano, la paura del distacco dalla realtà e la fantasia, che correva sui
lineamenti armoniosi di un viso per poi dipingerli di colore.
Nel buio una figura di donna che saliva alla mente, ma non era proprio una
donna. Più indifesa, più gracile, immensamente più dolce di una donna.
Sembrava un angelo, una figura eterea, ma allo stesso tempo nello sfuggire
dei suoi contorni era consistente e vera e attuale e così tremendamente
presente da far sentire in ogni parte quel profumo di rosa che le consumava
la pelle.
Davide ritrasse la mano e si toccò il palmo con l’altra, come se volesse
sentire le particelle impercettibili di lei che gli erano rimaste addosso.
Anita aspettò una sua reazione senza parlare, aveva sentito il suo tocco
leggero quasi trattenendo il respiro.
“Tu sei la zia o la baby-sitter della bambina?”
“No io e Bonni siamo amiche, da sempre. Lei abita nell’appartamento di
fronte al mio, nello stesso palazzo. Io mi chiamo Anita.” Sorrise.
“Anita.” Sussurrò lui come se volesse pensarci sopra. “È un nome
particolare, credo che si debba saperlo portare. Io sono Davide.”
“Guarda che il mio nome non ha niente di speciale, senti come suona
facile: Anita.” E lo pronunciò in un modo tutto suo, con la a appena
accennata, la enne dolce e l’accento che si posava sulla i.
Risuonò in lui Anita. E poi l’eco, infinitamente Anita.
Si misero a ridere e lei continuò “Adesso però devi conoscere anche
Bonni, lei è il pezzo più importante, è lei che ti deve insegnare il gioco.”
Davide allungò istintivamente il braccio e le chiese “Dove è?”
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Anita lo condusse nella direzione giusta accompagnandolo con la sua
mano e lui, con qualche esitazione in meno di prima, iniziò a fare amicizia
con i riccioli della piccola Bonni, con i suoi lineamenti minuscoli, sentì la
morbidezza infantile della sua pelle e la montatura sottile degli occhiali.
Provò una forte tenerezza mentre Bonni rideva per il solletico leggero sul
viso.
Ci fu subito familiarità, un inspiegabile abbattimento di barriere, una
corrispondenza naturale di codici non detti.
Anche Bonni fece la conoscenza di Davide con la sua manina ormai agile
e abituata ad entrare in contatto così con persone e oggetti. Prese subito
confidenza e cominciò con il suo gioco. Le parole venivano da sole come
se quei tre si fossero da sempre conosciuti, come se fosse stato del tutto
ovvio quell’incontro così improbabile.
I colori difficili strappavano risate mentre il cielo si imbruniva e l’aria si
faceva più fresca, il gioco continuava, non si accorsero neanche da lontano
del passare scalpitante del tempo.
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Mi chiedo se.
Se è difficile e facile come sembra.
Alle volte invento. Mi invento la realtà e i suoi abitanti, mi invento la vita
e gioco con le figure nascoste della mia mente.
Le dispongo ognuna al proprio posto come in una scacchiera che non
finisce mai, che con il suo maniacale ordine ti fa impazzire.
Li posiziono i miei personaggi, e poi ad un tratto li faccio volare. E poi
anch’io volo, aggrappandomi a loro, e poi li amo. Li amo nella loro
quotidianità monotona e li adoro. Li adoro nei loro colpi di testa e nei
loro voli pindarici.
È una strada parallela che mi lascia evadere.
I libri, hanno anima i libri. Ce l’hanno, e quando dormono è chiusa,
appiattita nelle pagine, poi li apri e l’anima si stende, assume rilievo e ti
avvolge senza che neanche te ne accorgi. Ti porta con sé, si lascia
esplorare, e quando richiudi il libro un po’ della sua anima rimane con te,
eh no, non ti vuole proprio abbandonare.
Ti entra dentro. E se ci pensi bene, è un miracolo folle. Le parole che
attecchiscono, che rimbombano dentro, le parole sognate di notte, e la
poesia.
Non si vive senza poesia, e se la poesia esala c’è solo il niente.
Mangi ma niente, dormi ma niente, parli ma niente. Vivi e sei niente. Un
po’ come mi sento io adesso, alle volte.
Ci sono momenti in cui mi aggrappo e con fatica torno su.
Momenti euforici senza senso.
Momenti in cui calo a picco, e non c’è verso. Non c’è strada che mi riporti
a galla.
Il sole che non c’è più e non c’è più neanche il cielo. Sembra banale
quando ce l’hai, è quando non ce l’hai che ti manca.
Non ho più la direzione, ho dovuto dire addio alle stelle. Morirò senza
stelle, morirò senza sole e senza cielo.
Oggi pomeriggio ho toccato un angelo, i suoi lineamenti ce li ho scolpiti
su una mano. È stato facile, con lei lì, che sapeva di rosa.
Ma adesso è impossibile. Da solo è impossibile.
Entro nel labirinto dei miei pensieri e non riesco ad uscirne.
Il ricordo è complicato, l’immaginazione guidata dalle mani può
ingannare.
Alle volte la mente dipinge sprazzi di colore ma lo sfondo è buio, e ciò che
rimane è solo il ricordo. E cazzo, non posso farci niente se resta buio.
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E la vita che ti rimane sono il mare, gli alberi, una penna, un giornale,
una commedia, una mostra di quadri, una chiesa, la luna, un fiore, un
pulcino infreddolito, il corpo di una donna, un sorriso, gli occhi, le
giostre, il mercato, le partite di calcio, gli artisti da strada, una città vista
dall’alto, la televisione che neanche mi piace, e i mille volti che non potrò
più vedere.
E allora, cosa faccio? Mi alzo da questo schifo di sedia e sbatto la testa
finche non me la rompo in quello schifo di muro? Oppure non mi alzo
proprio e rimango qui con la testa fra le mani a cercare di raggiungere
quella donna, che poi non è una donna e sa di rosa ed io l’ho toccata,
senza vederla l’ho toccata. Mio Dio.
Si chiama Anita.
Pensieri naufraghi.
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Davide dormì sopra a quei pensieri, un cuscino di aghi su cui appoggiare la
testa.
Al mattino ebbe in bocca il sapore di un sogno che non voleva smettere di
scorrergli addosso, uno di quelli che si imprime con la sua sensazione e si
stampa sulla pelle come un tatuaggio.
Non gli rimasero le sequenze, né qualche scena ritagliata a caso, gli
rimasero le emozioni. La paura e non sapeva di cosa, la confusione del
ricordo che non c’era, e il senso dell’amore.
Il senso dell’amore che era qualcosa di diverso dall’amore. Non era come
questo sensazione immediata e irrimediabile, era piuttosto un sentirsi
predisposto al bene, quasi come essere un cellofan che avvolge, quasi
come essere in cerca di qualcuno, qualcosa, o come essere caldo di tepore
che pervade e sentire la necessità di riscaldare anche un po’ l’esterno.
Provava una sensazione diffusa e pregnante, che più che provenire dal
cuore se ne stava lì ad invadere ogni suo arto, che scorreva a filo di pelle
come una sottile scossa elettrica.
Entrò sua madre con in mano una tazza di caffè fumante, gli disse che
sarebbe tornata all’ora di pranzo.
Davide non rispose, fece solo un cenno di approvazione con il capo.
Sentì sbattere la porta di ingresso, si raddrizzò nel letto e si portò alla
bocca il caffè caldo e poi senza neanche pensarci, prese il telefono che
aveva accanto e compose un numero.
Tempo un’ora, Sabrina era lì e si abbracciarono in silenzio.
Si avvolsero con le braccia piano. E poi un po’ più forte e più forte, e più
forte ancora, fino a sentire che i confini cadevano insieme ai vestiti per
terra.
Non una parola che scendeva dalle labbra, solo baci che rubavano altri
baci, che si divoravano senza darsi tregua. Labbra umide che chiedevano
aiuto.
Tutto sembrava costruito sul filo in bilico dell’irrealtà, il precipitarsi senza
fine l’uno incontro all’altra, la violenza dei gesti che cancellava il tempo
per i pensieri, la disperazione come moto propulsore di ogni cambiamento
e di ogni stasi, la stratificazione disordinata del sentimento.
Le mani sentivano il corpo e il corpo si muoveva bagnato di tremore
caldo, gli odori della pelle si mescolavano, i respiri tormentati e interrotti
sapevano di un amore che non conosceva direzioni.
Era un’onda che rincorreva un’onda per entrarle dentro, per infrangersi
insieme anche violentemente ma insieme, sulla roccia dura dello scoglio.
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Facevano l’amore per fuggire lontano, là dove nessuno poteva
raggiungerli, dove la ragione non bastava, dove l’emozione esplodeva,
dove la realtà si sgretolava solo perché volevano inventarsene un’altra.
E il mondo si ribaltava girando più veloce, non consentendo di capire altro
se non il linguaggio immediato dei sensi e dei brividi, che scorrevano
intrepidi come una lama sottile su ogni cellula della loro pelle.
Il sesso, come un tuffo nel vuoto, come una scivolo segreto per l’eternità,
come un martello che con i suoi colpi acchetava la mente, il sesso come
una medicina somministrata nello stesso momento in cui il dialogo finiva.
Si distesero esausti l’uno vicino all’altra.
I capelli di Sabrina sparsi e confusi sul cuscino, regalavano al suo viso
bianco, un segno quasi inafferrabile di verità scossa. Le pupille più fonde,
aumentavano l’intensità dello sguardo, i suoi occhi tradivano paura.
Rimase immobile, tutti e due respiravano appena.
Il mondo si era d’un tratto fermato, e l’aria era perfettamente statica
mentre il sogno era già crollato.
Davide la cercò fra le lenzuola in subbuglio, trovò la sua gamba liscia e
calda e piegata verso di lui, vi posò la mano per ristabilire un contatto.
Sabrina sentì il tocco di Davide, lieve.
“Che cosa ci è successo?” Chiese piano.
“Non lo so. So solo che qualcosa è successo.
E puoi dargli tanti nomi a questo schifo che si è messo tra di noi e forse
non sbaglieresti mai.”
“E tu come lo chiameresti?” Ancora più piano, un sussurro quasi.
“Lontananza. Oppure
stanchezza o sfiducia, punto di rottura, o
semplicemente incomunicabilità.
Lo vedi, non riusciamo più a parlare lo stesso linguaggio, è come se le
parole non bastassero più. Ma magari tra noi non sono mai bastate.”
“Ma stamattina tu mi hai chiamata, hai detto vieni da me. Era bisogno
Davide, necessità di me, e io di te.”
“Sì, era necessità. Di incontrarti e di ritrovarti, anche.
Ma quando sei arrivata non sono riuscito a dirti niente, neanche una parola
di quelle che ti avrei voluto sputare addosso. Ero bloccato, come se ogni
tentativo fosse inutile, come se fosse passato il momento, fra noi. Come se
parlarti per tentare di ricucire i brandelli fosse un tradimento ad ogni
spontaneità. Sono riuscito ad oltrepassare il muro saltandoti addosso ma
ora ce l’ho ancora davanti e non mi permette di raggiungerti.”
Sabrina respirava corto, faceva fatica.
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Davide continuò.
“E’ che abbiamo perso la naturalezza.
Con tutto il casino di questo fottutissimo incidente…io mi sento cambiato.
E forse tu no, oppure sì, magari siamo cambiati tutti e due ma in modi
diversi e così lontani che non riusciamo ad incontrarci più.
E non è colpa di nessuno. Né mia né tua, è che non abbiamo resistito. Il
colpo è stato troppo forte e noi troppo soli.”
Davide si accorse che era la prima volta dopo tanto tempo che riusciva a
raccontare a Sabrina i suoi pensieri, la prima volta che non selezionava,
non contava, non catalogava le parole in quel modo così sterile e
innaturale che ogni volta gli si imponeva alla mente come un blocco
necessario.
“Mi stai dicendo che non si può più tornare indietro?”
“Per te è possibile?”
Sabrina rimase in silenzio e poi mettendo quella poca forza che le era
rimasta tutta sulla voce per non farla tremare disse “Non si risponde ad una
domanda con un’altra domanda.”
Tentò lo scherzo in un sorriso amaro, si strinse forte al corpo nudo di
Davide, e poi lo baciò sulla fronte.
Esitò per qualche attimo, i più lunghi della sua vita forse.
E infine si decise. Si alzò dal letto, si rivestì, si sistemò i capelli ed aprì la
porta.
Poi si soffermò, si voltò indietro e lo guardò con uno sguardo forte e
disperato insieme che le riempiva gli occhi fino a farglieli brillare, e che se
Davide l’avesse visto forse l’avrebbe afferrata per un braccio e gli avrebbe
impedito di andarsene e se. Ma non era più il momento dei se.
Sabrina se ne andò ma prima di andarsene, con l’ultimo filo di voce disse
“Eh no, Davide, non possiamo farci niente. Non possiamo più nulla dove
l’amore diventa impossibile.”
Di nuovo un sorriso amaro, e poi scomparve.
Poche parole rinchiuse in un barattolo di vetro, una storia durata giorni
finita nel tempo di un amore, nel bagliore di un mattino.
La realtà che diveniva ricordo quanto più le lancette scandivano le ore che
se ne andavano.
La solitudine che aggrediva prima lo stomaco e poi il cervello.
Sabrina guidava la sua auto rossa senza conoscere la direzione.
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Davide ancora nudo nel suo letto cercava qualche pensiero da pensare.
Ma non potevano più nulla, nulla dove l’amore diventava impossibile.
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Passarono i giorni, inerti, solitari, tutti quanti composti dalla ripetizione
delle loro ventiquattro monotone ore.
Niente avveniva all’esterno, tutto nell’anima.
Sembrava che uno stregone con il suo incantesimo avesse raggelato il
contorno e il dentro delle cose, un fluire di minuti e di ore inzuppati di
indifferenza.
Avevano il cuore anestetizzato contro ogni nuovo urto, Davide e Sabrina,
ancora scosso dall’addio, ancora troppo affogato nel ricordo.
Non che il loro amore non si stesse spegnendo già da tempo, ma da quando
se lo erano proprio detto, avevano calpestato anche l’ultima speranza,
avevano mollato la presa del loro salvifico autoinganno.
Ed era come un cerchio che si chiudeva senza lasciare loro il tempo per
entrarci dentro, un cerchio che tagliava ogni via di comunicazione e poi
rimaneva come alle spalle di personaggi di videogame pilotati solo per
andare avanti.
Sabrina sentiva un senso pieno di smarrimento vuoto, una necessità
difficile e senza scampo di riorganizzarsi la vita senza sapere neanche da
dove cominciare. Camminava per le strade con passo svelto come se fosse
sempre troppo tardi per stare in un posto, sempre troppo doloroso.
Si rendeva conto che questa volta era diversa da tutte le altre, aveva sentito
la frattura, e la presa di coscienza di questa, e il dolore del distacco, e la
fermezza di Davide che non l’aveva trattenuta, e le poche parole dette, e il
punto di fine che avevano raggiunto, e la forza istintiva dell’accettazione.
A momenti le fitte del ricordo, ed erano crolli. I profumi e i sapori sparsi
che filtravano dalle maglie della vita, le lasciavano addosso quella
sensazione di pelle che solo con gli anni se ne sarebbe andata.
Ed erano sospiri, annebbiamenti, vestiti per sentirsi bella, feste, inviti,
stanchezza, cose e persone che passavano oltre senza rimanere, sogni di
notte che facevano piangere, biglietti e lettere e pagine e foto e oggetti che
dovevano essere sotterrati.
Oscillava tra necessità di solitudine e compagnia, fuggiva e poi tornava.
Pierfrancesco era entrato dentro al gioco dei suoi sì e dei suoi
ripensamenti, un meccanismo di tristezze e speranze che la muoveva
sempre secondo una certa logica, e lui come una pedina attenta la seguiva
senza pressarla, commutava le sue paure in desiderio di non rimanere sola.
Si stava lentamente ritagliando uno spazio dentro la quotidianità di
Sabrina, scolpiva la sua presenza in modo calcolato, la ascoltava e la
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capiva, la avvolgeva di sicurezze e di io ci sono, alle volte la lasciava
andare.
Lei sentiva l’ordine dei sentimenti di lui e la sua confusione si restringeva
agli argini, le dimensioni divenivano più piccole e più facili da percorrere,
i sentimenti più prevedibili e contenuti.
Con Pierfrancesco non c’erano scossoni, colpi d’amore e odio a mezzo
tra il cuore e il cervello, non c’era l’ansia che faceva respirare corto, non
c’era l’ossessione del domani ci sei o te ne vai, non c’era l’incomprensione
taciuta e portata dentro come una bomba ad orologeria.
Con lui Sabrina viveva una tranquillità banale ma felice, una vita percorsa
sul filo sicuro di un diagramma piatto.
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Era sabato sera e Davide se ne stava seduto sul divano a parlare di calcio
con suo padre. Il loro dialogo era animato, si arrabbiavano e si prendevano
in giro, alle volte ridevano.
Il suono del campanello interruppe i loro discorsi, vado io disse Davide.
Si alzò, e con la rapidità dettata dalla ormai profonda conoscenza degli
spazi raggiunse la porta di ingresso.
“Chi è?” La sua voce trapassò il citofono amplificata.
“Siamo l’anonima sequestri, siamo venuti a rapirti e non vogliamo il
riscatto!”
Fragore di risate, erano Mirco ed Enrico.
Salirono per le scale di corsa, senza attendere l’ascensore in un chiasso di
passi e grida che trasmetteva una disordinata allegria.
“Non vogliamo sentire scuse, ora tu vieni con noi, è un obbligo.” Disse
Enrico, una volta entrati in casa, con il tono di chi sa di avere una sola
possibilità e vuole giocarsela tutta.
“Allora aspettate un secondo che vado a prendermi il maglione.”
Davide rispose con semplicità inaspettata e disarmante. Enrico e Mirco si
guardarono con gli occhi che accennavano un incredulità felice.
Poi lanciarono ad alta voce un saluto, e si lasciarono la porta sbattuta alle
spalle.
Salirono nell’automobile di Enrico, la prima tappa fu il Dundy, il bar di
sempre.
“Com’è la situazione?” Chiese Davide soffermandosi davanti alla vetrata
di ingresso.
“Il solito. Sembra una cartolina questo posto, cambiano giusto i colori
perché la gente si cambia i vestiti.” Rispose Mirco.
Entrarono, e fra la folla che si ripeteva ogni fine settimana, i profumi di
uomo e di donna si mescolavano all’odore di sandwich, paste avanzate e
tramezzini che proveniva da dietro il bancone e al puzzo di fumo intriso
nell’aria.
E poi parole che si confondevano a parole. E tu come stai, sai che ti stanno
bene i capelli raccolti, allora ragazzi stasera andiamo o no a ballare, non
diresti mai chi si è lasciato, complimenti per l’esame ho saputo che è
andato bene, ma guarda come si è vestita stasera quella non è mica
carnevale, Gino per favore un altro chiacchierino.
“Un chiacchierino anche per noi.” Disse Davide.
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“Non ci posso credere, c’è lo scrittore!” Esclamò il barista che faceva il
chiacchierino più buono del mondo. “Non muoverti che ti vengo ad
abbracciare.”
Anche gli altri ragazzi si accorsero di lui e fu un po’ come tornare alla
normalità dopo avere vissuto uno spaccato di vita lontano da raccontare,
come se la gente si attendesse delle conferme o delle smentite, come se
volesse dare contorni chiari alla storia sussurrata e romanzata dello
scrittore e dell’incidente che lo aveva reso cieco.
Davide sviò con destrezza e naturalità le domande più personali, non
amava approfondire le sue cose con dei conoscenti, gli ci voleva
l’atmosfera, e le persone che amava a pelle, e l’attimo di apertura in cui
sentirsi dentro.
Così dopo una mezz’oretta di bentornato affettuoso e incalzante da parte
dei ragazzi del bar Dundy, i tre pazzi decisero di andarsene. Risalirono in
macchina e cominciarono a girare.
Arrivarono a Fiesole, in alto.
Scesero di macchina e Mirco ed Enrico aiutarono Davide a non sbagliare
direzione, camminarono. Raggiunsero un punto bellissimo, un fazzoletto
di terra che come una terrazza si sporgeva invadente su Firenze illuminata.
Si misero a sedere su una panchina fatta di pietra e respirarono forte l’aria
quieta e carica. Tirarono fuori le pizze dai cartoni e stapparono le bottiglie
di vino novello che avevano comprato durante il tragitto, dai loro volti
distesi filtravano sensazioni di libertà e buon umore.
Davide conosceva bene quel posto, quel silenzio senza luce artificiale che
molte volte aveva fatto da cornice ai baci con Sabrina e ai pensieri solitari,
gridati solo con la mente.
La sua immaginazione intrecciata al ricordo lo calava in un quadro dalle
tinte decise, il verde delle piante, dell’erba e delle siepi, e il grigio sporco
dei sassolini e della pietra, e il marrone brullo della terra e quello scolorito
della corteccia degli olivi gli si riversarono addosso come barattoli di
vernice che cade e si espande.
Cominciarono a parlare fitto fra un sorso di vino e un boccone di pizza,
sotto quell’immenso ombrello di stelle che era quella notte, il cielo.
L’aria fresca e insieme pregnante cadeva sulla pelle aderendovi come un
vestito, Davide se la sentiva dentro inebriata di primavera che era alle
porte. Avrebbe voluto morderla tanto era densa di amicizia, illuminata di
chiarore naturale, e mossa com’era dalle vibrazioni altalenanti della voce.
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Parlavano della gente, quella rinchiusa nello spazio limitato e triste della
propria scatolina di plastica, quella che come fuochi d’artificio si infervora
di luce e colore per pochi attimi e poi precipita non lasciando di sé neanche
una scia, persone come bolle di sapone che se ci si danza sopra spariscono
in un pluff, legate solo all’esteriorità della loro perfetta forma sferica.
E ce ne erano tante, che desolazione.
Il fermarsi alle apparenze, l’essere venduto a basso prezzo in cambio del
sembrare, la compassione avvilente di chi si lascia plagiare senza tentare di
cambiare, la sterilità di certi parametri di giudizio che sbatte contro la
relatività di ogni situazione, che tanto ogni uomo fa storia a sé e potrebbe,
se gli viene permesso e se lo vuole, arricchire di sé un altro uomo, e
invece.
Un peccato, e se ci pensavano bene quei tre filosofi improvvisati, ci
soffrivano anche.
“Un mondo di piedistalli, ognuno inchiodato al suo, impercettibili le
eccezioni di quelli che si buttano giù. E magari cadono. Oppure, che ne
sai, magari volano.
E noi che facciamo eh, ragazzi?” Disse Davide accarezzando l’aria con la
voce.
Silenzio di notte.
Tre bottiglie scolate e i cartoni delle pizze vuoti.
Tre anime che si guardavano dentro, e una confusione di interrogativi
senza risposte che si agitavano nell’entropia delle verità.
Miliardi di piedistalli inscatolati che sbarravano con le loro pareti gli spazi
esigui della vita.
Ma c’era chi voleva saltare giù.
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“Il problema è che quando sei in moto non vedi il limite, la velocità ti
schizza addosso ed è come se tu gareggiassi con lei, sei un pazzo che
rincorre qualcosa, e non sai nemmeno tu cosa.
Ed io sentivo il vento, come una lama di coltello. E la pioggia.
Quel fottutissimo giorno c’era la pioggia.
E io andavo sopra di lei, avevo voglia di fuggire, l’ho avuta tante volte in
vita mia. Mi sentivo invulnerabile, come se stessi per toccare con tutto il
corpo la libertà.
Ero solo in quella strada.
E poi, e poi non so come, perdo il controllo e la ruota scivola.
Succede tutto in un attimo, ma è un attimo strano quello. Ti vedi la morte
davanti che ti viene a prendere, e neanche provi a combatterci contro, che
tanto lo sai già che vincerà lei e che devi morire. Una rassegnazione
insolita.
Sarà qualcuno che te la manda, ma ti lasci andare.
E poi un botto, un esplosione pirotecnica, e da lì niente. Non ricordo
niente, se non quel rumore, quel sobbalzo al cuore, quell’improvviso
cortocircuito che scoppia.
E non sai se ti scoppia dentro oppure fuori, non lo sai.
Poi qualcuno spegne l’interruttore e. E non lo riaccende più.”
Le mani di Davide tremavano di sudore freddo mentre Anita si mordeva
le labbra.
“Mi dispiace. Non volevo riportarti alla mente cattivi pensieri.”
“No, non preoccuparti. Avevo voglia di parlarne con te, altrimenti non lo
avrei fatto.”
“Mi dispiace lo stesso, faccio sempre troppe domande. È che pensavo che
fosse un episodio più lontano nel tempo, Bonni non ci vede dalla nascita
e… ti prego di dirmelo quando sono inopportuna.”
“Non mancherò” Disse ridendo Davide.
Rise anche Anita e poi pensò che doveva cercare di essere meno
invadente, ma pensò anche che alla fine non ci sarebbe riuscita, pensò a
Davide come una sfera sottile di cristallo che non si può stringere troppo,
che altrimenti rischia di infrangersi fra le dita. Pensò che doveva riuscirci.
Situazione imprevedibile, quel giorno.
Davide e Anita sotto il grande tiglio, aspettando Bonni che doveva uscire
dalla lezione.
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Lei lo aveva visto da lontano, con una piccola corsa attraverso il chiostro
lo aveva raggiunto, si era seduta vicino a lui, sull’erba. Nella mente aveva
rimandato a tempo indeterminato le commissioni che avrebbe dovuto fare
nell’ora in cui Bonni era all’Istituto, aveva deciso di stare con lui.
E all’istante fu come se un fluido incomprensibile di continuità si fosse
riversato su di loro. Continuità come filo telepatico che lega due menti, che
tesse l’intreccio di due vite, continuità come armonia di spiriti che si
confondono, come corrispondenza naturale di azioni e di reazioni.
E non c’erano spiegazioni perché l’istinto non ne dà.
Si erano ritrovati insieme, avrebbero potuto dire per caso.
E si erano riconosciuti, e si erano salutati, e si erano messi a ridere, e Anita
aveva fatto volare una coccinella e aveva espresso un desiderio, e si erano
mangiati le fragole con il limone e lo zucchero che lei si era portata nello
zainetto per ovviare agli eventuali fastidi della fame, e avevano parlato
dell’Università e delle loro materie preferite, e poi del buio e
dell’incidente.
Davide non aveva evitato la sua domanda, non aveva sentito alcuna
intrusione invadente raggiungerlo nei suoi pensieri, aveva risposto con
naturalezza, con le parole che gli venivano.
E si era agitato nello scorrere del ricordo e la mente gli aveva fatto male, e
poi alla fine si era dispiaciuto ma non per se stesso, si era dispiaciuto per
lei. Aveva sentito il respiro di Anita fermarsi e poi riprendere in un solo
colpo, affannoso, e il rumore delle sue mani che frugavano l’erba, aveva
intuito i battiti accelerati del suo cuore, immaginava il suo viso immobile e
le labbra contratte, troppo silenzio, silenzio rigido, si sentiva che stava
soffrendo con lui.
Una barriera a quelle parole che pungevano e lei aveva detto “Mi dispiace.
Non volevo riportarti alla mente cattivi pensieri.”
E lui aveva detto “No, non preoccuparti. Avevo voglia di parlarne con te,
altrimenti non lo avrei fatto.”
E lei aveva detto ancora “Mi dispiace lo stesso, faccio sempre troppe
domande. È che pensavo che fosse un episodio più lontano nel tempo,
Bonni non ci vede dalla nascita e …ti prego di dirmelo quando sono
inopportuna.”
“Non mancherò.” Aveva detto ridendo Davide.
Bastò una risata sottile di Anita, e Davide allungò il braccio verso di lei,
cercò la sua mano fra i fili d’erba, la trovò, magra, fredda.
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La prese avvolgendola nella sua, più grande. E poi le disse “Mi dai ancora
fragole?”
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Anita correva per le strade del centro, mentre la città si stava appena
svegliando. Firenze ancora vergine dai rumori e dal vortice di persone e di
automobili che la travolgevano ogni giorno.
Immersa nell’aria fredda del mattino, cullata dal sole che timido stava
nascendo, era il quadro in cui Anita si era infilata, dopo essersi vestita in
fretta.
Firenze che pigra iniziava la sua giornata, che si lavava la faccia con l’
acqua tiepida per avvertire meno l’impatto, che rispondeva alle prime
saracinesche che si stavano alzando, indossando un manto di luce tenue.
Anita amava la sua città, e mai la sentiva così sua come nelle prime ore
del mattino, quando ancora era un’isola deserta da conquistare, una terra
dimenticata da tutti in cui il naufrago trovava il suo rifugio, in cui un uomo
poteva ridere o piangere forte.
Voleva mettersela da parte quell’immagine nitida, che profumava
timidamente di nuovo, che assomigliava tanto al risveglio lento di una
donna quando scopre il suo corpo avvolto nelle lenzuola, e si fa baciare
dall’uomo che ama, oppure dal sole che le bussa alla finestra.
E lei, figurina stilizzata e veloce, fotografava nel cartoncino bristol del
ricordo le sagome, le sequenze di materiali e sfondi, la desolazione bella
che di giorno non c’era, e poi le ritagliava per farci un puzzle mentale da
portare con sé al momento della partenza.
Ed erano i gerani inzuppati di colore che sgorgavano dalle finestre, e i
muri delle case fatte in pietra, gli uomini silenziosi che pulivano gli angoli
delle strade, i gatti che drizzavano il pelo e scrollavano la testa, era il
profumo di pane e pasta dolce che usciva fumante dal forno, erano le
dimensioni aperte e l’imponenza da vertigini di Piazza della Signoria.
Ed era Ponte Vecchio chiuso ai lati da negozi di legno, che si spalancava
ad un tratto e gli occhi si perdevano, era lì quell’abitacolo in cui la gente
confluiva e rifluiva, e Anita lo trovò da solo quella mattina, macchiato di
colori indescrivibili, riposante e taciturno, profumante di aria pungente e di
fiume.
Si fermò, ancora ansimante per la corsa, a contemplare quel corso di
acqua immobile e tutte le cose che comparivano e si nascondevano dietro,
sospirò un attimo di felicità e raccolse dentro di sé tuta la calma
emozionante che proveniva dall’essere parte armoniosa e integrante di un
tutto che le faceva da sfondo.
Prese in mano un pezzetto di legno che teneva in tasca dei pantaloni
militari e poi un trincetto ed incominciò a intagliare, con meticolosa
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precisione, con passione. Era sorprendente l’abilità con la quale riusciva a
trasformare un informe pezzo di legno in un fiore o in un bocciolo di
forma strana, sorprendente il modo con cui scavava le punteggiature e
disegnava le curve, levigava i piccoli bassorilievi e appuntiva le cime.
I fiori di Anita erano pochi, una decina forse. Ma ognuno apparteneva al
suo momento, esplodeva di felicità oppure di disperazione, era lo specchio
di un’anima o di un amore, di una perdita o di un cambiamento.
Quando il cerchio si chiudeva o si apriva d’improvviso, nasceva un fiore
che era impossibile trovare altrove se non in quel giardino, che costruito
per aria e appoggiato ai soli pilastri della sua mente, tracciava come un
labirinto i percorsi di una vita ancora in sospeso.
Anita era convinta che l’animo umano fosse un laboratorio nel quale si
sperimentavano i cambiamenti, che la vita fosse una metamorfosi lenta e
graduale scandita da fasi cicliche che si aprivano e poi si richiudevano.
E all’interno di ciascuna fase, le briciole di vita si ammassavano fino a
compattarsi in un continuo inscindibile che riusciva a trovare una sua fine
soltanto in un altro inizio.
Erano i momenti importanti che secondo Anita scandivano quegli inizi e
quelle fini, e per ognuno di essi c’era un fiore inventato che nasceva
unicamente dall’attimo e dalla fantasia.
Mancavano venti giorni alla partenza.
Il cerchio si chiudeva, una fine e un altro inizio. E un altro fiore.
Avrebbe avuto petali sferici e piccoli, verniciati di bianco e lucidati in
modo da creare una luce forte ma discreta, avrebbe avuto un cuore
imbevuto di nettare giallo ed un gambo ondulato e liscio.
Sarebbe stato l’emblema più importante, il fiore dell’addio.
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Davide era seduto in macchina vicino a suo padre.
Non parlava, troppo assorto, troppo annegato inspiegabilmente nel passato,
troppo il profumo del ricordo, troppo lontana la vita.
Suo padre neppure, esiliato in terra lontana da quella profonda, infinita
solitudine che lo relegava- e non poteva farci niente- ai confini sperduti del
mondo di suo figlio.
Lo guardava con la coda dell’occhio, a tratti distoglieva l’attenzione dalla
strada, lo guardava come era, assente, con le labbra dischiuse, con le mani
e le gambe quasi lasciate cadere, con il volto pallido e con gli occhi
nascosti dalle lenti scure. Provò una fitta stringente all’altezza del torace,
deglutì a fatica.
Quando arrivarono davanti all’Istituto, Davide scese e lo salutò
distrattamente.
Ciao, rispose suo padre, ma la portiera della macchina si era già chiusa.
Davide entrò dentro l’istituto e mentre trascinava i passi muovendosi per
automatismi naturali lungo il corridoio, sentì una sentimento di
contrazione ostile verso l’esterno.
Fulminei sentiva i momenti passati, era come se gli viaggiassero dentro
senza fermarsi mai, come il percorso di un treno senza capolinea.
Il profumo salino del mare, la carta appena stampata, l’umido dei vestiti
distesi sui campi piovuti, il sapore dolce di Sabrina.
Rivedeva le sequenze e gli stacchi della sua vita, gli sembrava quasi
un’altra vita. Quando rideva e si annoiava anche, e scriveva libri e baciava
lei e correva, attorno al campo da calcio correva, e si intestardiva e viveva
i luoghi, e le storie, e amava, aveva amato tante cose ed altre le aveva
odiate, e se ne e fregava a volte, e rimaneva da solo, e ritornava, e suonava
la chitarra, e peccava in eccessi di reazione, e usciva con gli amici, usciva
spesso, e non tornava a casa, e guidava la moto per andarsene lontano, e
studiava l’arte con gli occhi, e alle volte, come adesso, moriva dentro per
poi rinascere.
Venne catturato dal ricordo sotterrato da macerie di paura, fu steso dalla
forza di quel ricordo che si rimescolava dentro e che sembrava mettere in
forse il certo.
Entrò nella sala, salutò l’insegnante. Si mise al suo posto e seguì
distrattamente la lezione. Fece diversi errori nello scrivere, l’insegnante
capì che c’era qualcosa che non andava ma non disse niente, Davide le
chiese se potevano finire prima quel giorno, lei rispose come vuoi tu.
64
Davide si incamminò verso l’uscita, ma prima di arrivare lo raggiunse una
voce “Signor Davide Stein, mi scusi si fermi per favore.”
Riconobbe in quel tono poco flessuoso la Direttrice, pensò che non poteva
essere che lei, nessuno lo aveva mai chiamato signore.
Il rumore dei tacchi si fece sempre più vicino e quando lei lo raggiunse gli
chiese se per favore voleva seguirla nel suo ufficio.
“No, ho fretta, se vuole mi parli qui.”
Abbassò la voce la signora Direttrice, dopo averla schiarita in un colpo di
tosse, e disse “Ho ricevuto una telefonata stamattina, era la stampa. Mai si
era interessata al nostro Istituto e per dire la verità neanche stamani l’ha
fatto. Era per lei Davide Stein, scrittore di successo, mi hanno detto.”
Le scappò un ghigno di soddisfazione, ma si ricompose subito.
“Io non leggo molto, non ho tempo, e non sapevo che… ma veniamo al
punto. Mi hanno chiesto se sarebbe d’accordo nel concedere un intervista
ad un giornale, al settimanale Cose dal mondo, se sarebbe d’accordo nel
concedergliela qui, nel chiostro per esempio.”
“No, mi faccia il favore di dire loro che non ne ho voglia.”
Davide allungò il suo bastone in cerca della direzione e si avviò verso il
portone.
La Direttrice rimase come pietrificata, i modi schivi e un po’ maleducati di
quel ragazzo la disorientavano e la indignavano insieme. Se fosse stata
un’altra circostanza sicuramente l’avrebbe lasciato andare ma la questione
le premeva troppo, così dimenticò per qualche attimo la sua fredda alterità
e presa da un moto di emozione disse “Aspetti la prego!”
La sua voce era cambiata, le sue parole sembravano chiedere aiuto come in
una preghiera.
Davide allora si fermò, catturato da quella scheggia di umanità uscita a
tradimento e chiese che cosa ci fosse ancora.
“È una cosa importante signor Davide. I mass-media hanno un forte potere
e io ho sempre cercato di mettermi in contatto con giornali, radio,
televisioni. Non hanno mai accolto le mie richieste, non hanno mai scritto
neanche due righe su questo Istituto. Non gli hanno mai dato un minimo di
importanza.
L’Istituto ha bisogno di altri finanziamenti perché quelli che provengono
dal comune e dalla regione non bastano più. È necessario che la gente
sappia, che conosca i nostri metodi di insegnamento, che ci aiuti a
rinnovare gli strumenti con un po’ di beneficenza. Le macchine da scrivere
per esempio, sono troppo vecchie. Ma così non ce la facciamo, e non le
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parlerei così se non mi sentissi costretta, gli insegnanti devono essere
pagati e anche i costi per il mantenimento dei locali sono cari, è per questo
che occorre mobilitare l’opinione pubblica, sensibilizzarla al problema,
non è per me che le chiedo di accettare. È solo perché vorrei che questa
struttura riuscisse a rinnovarsi, ad adeguarsi ai tempi.”
“Va bene, va bene. Le prometto che ci penserò, di più non posso fare, non
vado molto d’accordo con i giornalisti. Adesso però mi lasci andare che
sono in ritardo. A presto.”
“Grazie.” Disse sommessamente la signora, e non lo guardò nemmeno. Si
vergognava di essersi lasciata così prendere dal sentimento, non
sopportava rendere pubbliche le sue fragilità.
Davide aveva quelle parole ancora in testa, gli rimbalzavano dentro una
dopo l’altra, bagnate appena da quella disperazione discreta che le rendeva
così vere. Pensò alla Direttrice, a come gli era sembrata cinica e fredda,
pensò che forse era semplicemente una donna razionalmente costruita,
pensò che forse anche lei poteva avere le sue passioni, anche se nascoste
ben bene.
Promise a se stesso che ci avrebbe riflettuto, però l’indomani, che
quell’oggi così in bilico tra passato e presente voleva cancellarlo dalla sua
memoria.
Così arrivato a casa si mise a letto senza dire buonanotte, e cacciò i ricordi
nel sonno e nell’oblio.
66
Camminava Davide, all’ombra fresca dei viali alberati. I suoi piedi, più
agili, calpestavano scandendo i passi il largo marciapiede.
C’era maggiore certezza nei suoi movimenti ed ogni giorno che passava
era naturale per lui prendere più familiarità con la propria condizione. Gli
arti inferiori e quelli superiori si stavano abituando a poco a poco a
superare gli ostacoli causati dalla perdita della cognizione dello spazio.
Automaticamente il bastone setacciava il suolo, avvertiva gli impedimenti,
gridava l’alt e il via libera.
Davide seguiva i segnali che percepiva, ascoltava le voci, i clacson delle
automobili, i passi della gente e il tintinnio musicale dei semafori quando
diventavano verdi. E intanto scambiava qualche parola con Enrico e
Mirco.
Odorava forte i profumi delle donne che di fretta gli passavano accanto, e
avrebbe voluto prenderle per un braccio e fermarle, chiedere loro di
descriversi. Voleva conoscere chi gli camminava vicino, nello stesso tratto
di strada sfiorandolo, voleva sapere di quale colore erano gli occhi di
quelle donne che forse lo stavano guardando mentre lui non guardava.
Ripensò a Sabrina e si sentì addosso l’irrazionale conforto dettato dalla
certezza che un’altra di lei non c’era.
Nessuna con la sua bellezza armoniosa, nessuna con la sua perfezione di
forme, una Madonna immacolata su tela bianca e lui l’aveva potuta vedere.
Si sentì pervaso da un’ondata di felicità privilegiata, ma fu soltanto un
attimo e se ne andò non appena fu raggiunto da quella consapevolezza
amara e voluta di non averla più.
“Siamo arrivati.” Disse Enrico con voce alta per strappare Davide dai
pensieri che lo portavano lontano.
“Va bene. Allora grazie ragazzi, adesso posso andare da solo.”
Davide alzò la mano in cenno di saluto e intanto proseguì verso il portone
dell’Istituto, lo trovò aperto. Entrò, poi ebbe qualche momento di
esitazione, di vado o non vado, di non ho voglia però.
“Davide, Davide!” Un sorriso brioso le traspariva dalla voce.
“Anita.” Disse lui girandosi piano ed inseguendo l’eco del suo nome.
“Sono qui.” Gli prese la mano per farsi sentire. “Cosa fai non entri?”
“No.” Istintivamente fece la scelta che lo aveva tenuto in bilico.
“Ah. E perché?” Chiese lei un po’ sorpresa.
“Non senti l’aria?”
“È tiepida.” Rispose lei non capendo.
“Invita.”
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“Invita?”
“Sì, invita a respirare. Fuori da queste quattro mura, però.”
Anita sorrise silenziosa, e Davide continuò.
“Potessi oggi mi guarderei il mondo. Ma guardarlo è troppo riduttivo, lo
sezionerei prima, in tanti piccoli frammenti, e poi li prenderei in mano quei
frammenti e me li infilerei dentro agli occhi, uno a uno.”
Voce chiara, limpida e ferma, calda, distesa. Inquietante.
“ Puoi farlo, se vuoi. Non è solo con la vista che si guardano e si vivono le
cose.”
Pausa.
“ Se ti va ti porto in posto.” Anita lo disse con entusiasmo, poi ebbe un
brivido di paura nell’attendere la risposta.
“Mi va.” E l’entusiasmo travolse anche lui.
Aspettarono per qualche minuto che Bonni uscisse dalla lezione, parlarono
di cose poco importanti.
Poi tutti e tre insieme si avviarono verso la fermata dell’autobus, presero il
primo che passò.
Il viaggio durò appena dieci minuti, Davide giocherellava con Bonni e non
chiese neanche dove stavano andando, aveva deciso che si sarebbe fidato
di Anita, per istinto o per abbandono.
Quando scesero, una donna bruna dalla bellezza stanca, allungò le braccia
verso la sua piccola, Bonni gridò felice mamma sei venuta a prendermi, e
poi le salì in braccio. La donna bruna baciò Anita sulla guancia, le disse
grazie ci vediamo dopo se vieni a trovarci.
“Bonni è andata casa con la sua mamma.” Disse Anita un po’ desolata
rivolgendosi a Davide.
“Volevo che venisse con noi, ma…pazienza. Tu sei pronto?” Chiese
risorgendo in un sorriso.
(PITTORE PARIGINO,
AD UN ANGOLO DI MONTMARTRE,
DIPINGE LA FAVOLA
DI UN POMERIGGIO D’APRILE.)
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Avrebbero potuto chiamarlo sogno.
O realtà folle.
O alchimia antica.
Oppure sospensione dell’anima nel vuoto, chiudendo gli occhi.
Avrebbero potuto chiamarlo in mille modi. Avrebbero potuto inventarsi
parole infinite per un pomeriggio d’aprile.
Ma solo una mano bianca che affonda su un’altra stringendola, il cigolio
del cancello che apre il tunnel per un mondo nascosto e i passi lenti, quasi
per non consumare il tempo.
Passarono da un cancello attraverso il cortile sul quale si affacciava il
palazzo colore vinaccio in cui abitava Anita.
Ma proseguirono fino a trovare un altro cancello, questo più piccolo, più
arrugginito, più cigolante di quello precedente.
“Vieni.” Sussurrò Anita come in un segreto. “Siamo arrivati.”
Lo oltrepassarono quel minuscolo varco, e la terra distesa sotto i loro piedi
si macchiò di rosso. Papaveri intorno, rivolti con i petali verso il sole alto.
“Dove siamo Anita?” Chiese Davide che sentiva una magia
imparagonabile tutto intorno.
“È un piccolo pezzo di terra recintato. È fiorito di papaveri rossi che
tendono al cielo.”
Si chinò Anita, e colse un fiore.
“Senti come sono morbidi i suoi petali. È come avere un tappeto di velluto
sotto di noi.” Glielo porse.
Davide se lo fece scivolare sui polpastrelli, sentì quel velluto sulle mani
come una sostanza impalpabile che scioglieva fra le dita la sua
consistenza.
Pensò al rosso/ Brivido caldo/ Un po’ la sua vita.
E strinse più forte il fiore.
“Non ci sono solo i papaveri qui.
C’è anche uno scrigno che rinchiude tra le sue pareti di legno ciò che è un
po’ il riassunto di me.”
La mano piccola riprese la mano grande e in mezzo il papavero, e
proseguirono a brevi passi.
Davide si lasciava trasportare dalla poesia di Anita, e le domande che gli
nascevano dentro trovavano risposte non nelle parole ma in quella
sensazione di fiducia calda e rassicurante, che sentiva viva ed immediata
come il prodotto di una reazione di pelle.
69
Pochi metri e si trovarono di fronte a quello scrigno, come lo aveva
chiamato Anita, e Davide vi pose le mani. Sentì che il legno ruvido e
seccato dal sole disegnava la sagoma di una casetta poco più alta di lui.
Si punse un dito con una scheggia di legno rialzata ma non disse niente e
continuò a toccare quelle pareti irregolari, e poi quel piccolo tetto
spiovente, anche esso di legno, ricoperto di pezzi di ceramica che
dovevano avere la stessa funzione delle tegole.
Entrarono dentro, da una porticina, stando attenti ad abbassarsi per non
battere la testa. Di colpo un odore soave e diffuso di rosa.
Era lo stesso odore della pelle di Anita, che si confondeva a quello del
legno. Era l’odore del gioco dei colori.
Davide sentì lo spazio restringersi e pensò a sé come a un ometto d’un
tratto rimpicciolito e poi rinchiuso in una scatola. Ma non gli mancò il
respiro come in una stretta claustrofobica che imprigionava la gola, e
rilassò l’anima perché lì dentro si sentiva al sicuro dagli scossoni
incontrollabili del mondo.
Vibrò un suono e la voce di Anita come un sibilo cominciò a raccontare
che. Quella casetta gliela aveva costruita suo nonno quando era più piccola
perché troppa era la voglia di vivere di storie inventate lì con le sue
bambole e lui lo sapeva e avrebbe fatto salti acrobatici per accontentarla. E
così le costruì una dimensione parallela, la casetta dell’orto, fatta apposta
per giocare. E poi piano, piano era diventata grande, le bambole le aveva
riposte nello scaffale della sua camera, e ora doveva piegarsi per passare
dalla porta. E il nonno non c’era più e le mancava tanto, che era lui l’unico
uomo che fin da piccola avrebbe voluto sposare, come una figlia con suo
padre, solo che lei suo padre non l’aveva mai conosciuto.
Quello spazio suo le aveva permesso di trovare la confidenza necessaria
per stare sola con se stessa, per piangere e per rimproverarsi, per dirsi
Anita provaci ancora.
E nell’aria solitaria che respirava in quelle pareti c’era sempre quel
vecchio uomo dalle spalle larghe, che nei pomeriggi di primavera e di
giochi bussava alla porta e chiedeva alla signorina se era disposta a farlo
entrare e ad offrirgli una tazza di tè calda, che fuori c’era la bufera.
Adesso che aveva ventidue anni, tante cose erano cambiate e tante ne
dovevano cambiare. La mamma a Barcellona e il suo prossimo viaggio per
raggiungerla, la nonna da sola e un amore finito da quasi un anno.
Davide ascoltava, quasi incantato dall’innocenza del suo parlare, dalla
facilità assorbente con cui faceva uscire dalle labbra le parole.
70
Disse “Questo posto è musicale, tutto ciò che hai detto è musicale.”
“……”
“Nostalgico e leggero come una canzone.”
Anita arrossì.
Davide muoveva le mani fra le mensole instabili piene di oggetti, le fermò
appoggiandole su un vaso di creta. Sentì i fiori di legno che erano dentro,
ne afferrò uno con il gambo grosso e con il polline e i petali cubici e
pesanti.
Anita disse che rappresentava un inizio dopo la perdita di una persona
importante. Non specificò chi era e Davide provò come una sensazione
fastidiosa di possesso violato ma non le fece domande.
Anita sorrise vedendo la faccia di lui crucciarsi appena, disse che nella
casa dell’orto non aveva portato mai nessuno perché le persone che aveva
incontrato, e magari amato anche, non erano mai riuscite a raggiungerla
dentro, oppure era lei che non si faceva mai raggiungere, questo non lo
sapeva.
Pensò che Davide invece l’aveva sentito vicino fin dal primo attimo, pensò
alla capacità che lui aveva di focalizzare l’anima delle cose e delle persone
e della vita, e di entrarci dentro a quell’anima e poi spiegarla o percepirla e
basta in un modo tutto suo, pensò che quel suo essere a volte ristretto, a
volte così privo di confini esercitava su di lei un potente meccanismo
d’attrazione, e un po’ ne aveva paura ma di più le piaceva.
“Ci sono dei libri, qui in terra.” Davide si accovacciò dopo averli urtati con
un piede.
“Sì sono molto vecchi, classici per la maggior parte.”
Davide cominciò a toccarli, li prese e li aprì, sentì nelle pagine una patina
leggera di polvere, a tratti fogli strappati in cima.
Anita notò il contatto morboso, quasi visibile delle mani di lui con quelle
pagine, era come se uscissero filamenti di confidenza e apprensione dalle
sue dita.
“È bello sentire come ogni libro ha una storia a sé, pensare che è stato di
qualcuno, sapere che è tuo. E immaginarsi come l’hai letto, se ti è
scivolato via o se ti si è incastrato fra le maglie della pelle, o se ti ha fatto
arrabbiare, o piangere, o sognare, se te lo ricordi ancora, se ti ha
cambiata.”
Lei sorrise, si piegò nelle ginocchia, prese in mano una scatola di cartone.
“Voglio leggerti una cosa.” Disse.
Aprì la scatola, tirò fuori dei cd, e poi un libro, cercò una pagina e iniziò.
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“L’eredità che porterò con me sono i particolari che ho raccolto dal
mondo e le passioni che ho coltivato in vita. Ciò che porto con me è la mia
anima e ciò di cui è composta. I colori e le luci, i suoni e gli echi.
Ho morso un pezzo di vita quando sono riuscito a volare con il solo aiuto
di un pallone aerostatico, l’ho morsa quando ho amato per una notte
intera l’unica donna che importasse, ho morso la vita quando ho liberato
una coccinella dalla ragnatela di un ragno e l’ho restituita al cielo, l’ho
morsa quando ho baciato in fronte mio nipote che veniva alla luce.
Ora sono giunto al traguardo e non mi dispiace. Il filo di Arianna si è
arrotolato e non c’è più strada da fare.
Ho seguito il filo conduttore del mio istinto, ci sono inciampato ma l’ho
seguito. Mi sono rialzato. Sono caduto e ricaduto e sono state più le volte
che ero in terra che quelle in cui camminavo a testa alta.
La vita mi ha piegato ma anch’io ho piegato la vita. L’ho amata fino a
farle male, l’ho sorseggiata fino all’ultima goccia, mi sono lasciato
trascinare e l’ho domata così come si doma un cavallo selvaggio.
Non ho perso un giorno. No, non l’ho perso.
Ho perso con la vita, questo sì, lei gioca delle battaglie in cui vince
sempre, ma i suoi giorni sono tutti qui nella mia testa, scissi e uniti uno
dopo l’altro, corti e lunghi, folli e normali, detestati e adorati, impossibili
e facili. Sono pillole ingerite e mai versate fuori, eredità inestimabile e
segreta, scrigno di passioni consumate e mai raccontate, irrinunciabile
tesoro dissotterrato in me.”
Uscivano dalle bocca di Anita quelle parole come favole già conosciute, e
vivevano di vita propria, raccogliendo l’anima in quella voce così
umanamente dissolta in commozione.
Davide rimase in silenzio, catturato e stupito si era trovato a fare da
spettatore di fronte a una storia che era la sua.
“È Nantes che parla.” Disse Anita. “È un personaggio strano che si svela a
momenti e a momenti tace. È come un gioco di ombre e luci, da
illusionista, e fino all’ultima pagina del libro non sai se esiste veramente
oppure se è stata solo un’allucinazione tua o di chi l’ha scritto.
E alla fine vai a ricercarne i pezzi, perché lui è come un puzzle da
ricomporre, e rileggi attentamente ogni parola che ha pronunciato o che ha
solo pensato e allora scopri che quelle parole ti danno forza e non ti
importa più niente di sapere da dove viene, o chi è veramente, che cosa
rappresenta questo vecchio uomo. Ti rendi conto che sei davanti ad un
72
personaggio in sospeso, e se non ne riempi i contorni rimani a metà anche
tu, così ci metti dentro un po’ di te, gli dai una ragione che è tua.”
“Lo so. Questo libro è un opera incompiuta, sarebbero rimasti fogli di carta
macchiati di inchiostro senza significato, se non ci fossero state persone
che come te l’hanno scavato dentro, che gli hanno dato un senso.
Le parole che sono state scritte hanno bisogno di un’interazione forte, puoi
amare questo libro solo se ti trascini via i significati, li inglobi dentro di te
e quando una pagina finisce non la dimentichi, semplicemente perché non
puoi. E Nantes è un po’ l’anima di questo gioco, l’accessorio
indispensabile, il personaggio strano come lo hai chiamato tu.”
Sorrise Davide, aprendo il volto e le labbra e l’espressione e il cuore.
“Lo conosci anche tu, questo libro.”
“Sì.” Annuì lui d’istinto, sorrise ancora.
Non smise di sorridere Davide, e non smisero di parlare quei due.
Si sciolsero a poco a poco ancora di più, confondendosi quasi,
sublimandosi in discorsi che divenivano racconti, scoprendosi piano, pelle
su pelle, simili e diversi, tutti e due inesorabilmente pazzi di poesia e di
storie di uomini.
Davide sentiva scanditi i gesti chiassosi di Anita, la voce tremula nelle
confidenze sussurrate, il filo di gioia elettrica che le scorreva addosso fino
a trasparirle dai vestiti, la sua capacità naturale di entrare in contatto e
coglierlo nel cuore. Si sentì travolto dal dinamismo senza freni di lei, dal
suo sano nervosismo febbrile, da quella sua continua ricerca di cose
esterne e di cose dentro se stessa che la rendeva l’essere più vivo che lui
avesse mai incontrato.
Il momento di andarsene fu un abbraccio che sigillò parole svelate e
pensieri non detti ma raggiunti, un senso pieno di libertà calzante in un
ritaglio di spazio dai muri di legno, una scintilla che tesseva una fitta
trama, intricata come un’antica ragnatela, simbiotica e reciproca come la
necessità di pelle di gemelli omozigoti.
73
L’orologio delle ore, come sempre non perdeva tempo, scandiva con le sue
lancette ogni attimo che trascorreva, come una clessidra mangiavita
gridava la fine di ogni loro giorno insieme.
Davide ed Anita non parlarono mai apertamente della partenza di lei.
L’argomento cadeva sui loro discorsi come un dato di fatto, come una
causa o una conseguenza ineliminabile che però veniva sempre sorvolata,
sfiorata, mai toccata.
Era per sentire meno male, che il tempo come diceva Davide va vissuto e
non contato, altrimenti si perde.
E loro li consumavano fino all’ultimo i loro attimi, come un fiammifero
che per fare luce brucia anche se stesso.
Si chiudevano nello scrigno di legno e Anita gli leggeva le storie che il
mare si portava dentro, la storia di un treno di umane fragilità, la storia di
un mercante di seta, quella di un musicista capace di inventarsi le note. Si
sdraiavano sui prati e si lasciavano baciare dal sole mentre Bonni giocava
con i fiori, si raccontavano l’infanzia e ci scherzavano sopra, si
telefonavano di notte prima di addormentarsi, si scambiavano i pensieri
nudi e si pensavano, si ripetevano dentro le cose che avevano imparato, la
vita che di giorno si erano insegnati.
Davide si divertiva a sentire Anita come una trottola che senza fermarla
continuava a girare su se stessa, amava le sue ondate d’istinto e
sentimento, quel suo andare verso e quel suo andare contro, amava il suo
stancarsi di sera e il suo abbassare il tono di voce raggomitolandosi dentro
le sue braccia.
Era insolito guardare le cose attraverso gli occhi di lei, filtro emozionale e
amplificato. Era come vedere un mondo attraverso un altro mondo, come
sentire il sentito.
Davide si aggrappava alla percezione visiva di Anita, ci cadeva dentro
intingendosi come un pennello dentro la vernice, rielaborava i dati e dava
un’esistenza al contorno che lei gli raccontava.
Ed era un uomo che passa barcollando, e una mamma che spinge
un’altalena, e una vetrina di vestiti primaverili, e uno schiaffo dato in piena
faccia, e un pallone che rotola veloce, e la trasparenza della pioggia che
cade, e la piazza ghermita che esplode, e il prato troppo verde, e un bacio
all’infinito con gli zaini sulle spalle.
E questo tramonto che non se ne vuole andare.
E un rumore, qualunque.
74
E per ogni rumore una vita.
E per ogni vita una storia.
E per ogni storia, qualunque, un po’ d’amore.
75
Caro diario,
ieri era una giornata splendida così io e Davide abbiamo deciso di
esplorare le campagne fiorentine. Sono passata a prenderlo in macchina
subito dopo pranzo e abbiamo proceduto senza una direzione precisa, lui
ha detto che mi potevo fermare non appena avessi visto un posto che mi
piaceva. Ho guidato per strade sconosciute e alla fine sono riuscita a
scovare un posto bellissimo nascosto dalle siepi e dall’erba alta.
Ho descritto a Davide che cosa c’era intorno ma ho avuto l’impressione
che lui, non so come, lo sapesse già.
Ci siamo messi a sedere sopra due grandi pietre, davanti a noi scorreva
un rigagnolo d’acqua. L’aria era umida e fresca perché il sole riusciva a
filtrare appena dalla chiome fitte degli alberi, Davide ha sentito che
tremavo e mi ha dato il suo maglione.
Abbiamo cominciato a parlare degli elementi naturali come la terra e il
fuoco e del loro significato, poi abbiamo parlato di Dio ma solo per poco
che l’argomento ci sembrava troppo impegnativo, Davide allora mi ha
raccontato ciò che aveva letto sulle filosofie orientali e l’ho trovato molto
interessante. Trovo tutto ciò che dice molto interessante.
È mentre parlava, ieri, che mi è capitato di soffermarmi con lo sguardo su
i suoi capelli. I suoi riccioli sono come tentacoli che si intrecciano con
l’aria e lo fanno sembrare sempre una figura sfuggente, come se ti
costringessero a rincorrerlo se non vuoi perderlo.
Davide sembra sempre in bilico, anche quando senti che c’è è troppo
facile sentire che se ne può andare.
Alle volte ride e la sua risata è contagiosa, alle volte ti racconta una storia
e solo alla fine capisci che è inventata o non lo capisci mai e lui non te lo
dice. Alle volte si arrabbia e aggrotta le sopracciglia in maniera violenta,
altre ti prende in giro o ti folgora con un’idea che non avresti mai
pensato. Ma può anche dirti che è triste e te lo dice piano quasi per non
farsi sentire, e se gli chiedi di ripeterti cosa ha detto lui risponde niente
ora vado a casa.
Spesso mi domanda che cosa c’è intorno a lui, in quale spaccato di
quotidianità si è immerso. Io gli rispondo, gli racconto i colori e le forme
che vedo, e le dinamiche veloci dei fatti che si connettono secondo un
ordine di consequenzialità necessaria. Scopro nel mio parlare che vorrei
raccontargli il mondo come lo vedo io e non come è realmente caricando
le immagini di piccolissime bugie che raddolciscono il quadro, ma poi mi
fermo e blocco il pensiero. Credo che Davide abbia il diritto di conoscere
76
il mio oggettivo guardare e cerco di attenermi quanto più possibile alla
realtà, anche se alla fine il mio distacco non è mai totale essendo io
drammaticamente incapace di mantenere qualsiasi distanza dalle cose.
E allora è bellissimo perché è come se gli prestassi le lenti sottili con cui
io vedo fuori, il filtro che non riesco a togliere, e lui forma la sua
percezione sulla mia, ma ciò che lui sente mi sembra sempre mille volte
più grandioso di ciò che sento io.
Davide ci costruisce un frammento di vita sopra un suono, una voce, o una
consistenza, è completamente libero da ogni confine, e anche se lui mi dice
che si sente stretto in quella dimensione buia tutta sua, io sono certa che
non tarderà a capire che lui può essere libero ovunque, basta che lo
voglia.
Anita.
77
Appena uscito dalla lezione Davide fu fermato dalla Direttrice, con voce
bassa, quasi in confidenza gli chiese se aveva pensato alla sua proposta e
lo informò che quelli di Cose dal mondo avevano richiamato un’altra volta
e che avrebbero voluto fissare un appuntamento per lunedì.
“Una risposta, signor Stein. È solo questo che le chiedo.” Disse
irrigidendosi nel corpo e nella voce.
Davide fu colto un po’ di sorpresa. Fra le tante cose che aveva riscoperto
in quei giorni, la faccenda dell’intervista l’aveva relegata nel dimenticatoio
della sua mente.
Ma ne prese atto all’istante e capì di dovere prendere una decisione.
Disse di sì Davide, che odiava scoprire se stesso e raccontarsi a persone
che uscivano fuori dal cerchio essenziale della sua vita, disse di sì e il
perché non lo seppe mai ma probabilmente nemmeno se lo domandò.
L’intervista fu fissata per il primo giorno della settimana successiva, alle
quattro.
“Che sia breve.” Fu l’unica cosa che precisò.
La Direttrice lo ringraziò con grande riconoscenza, poi salutandolo si
diresse nel suo ufficio.
Davide invece andò verso il grande tiglio e cominciò ad aspettare.
Aspettò i secondi che piovevano incessanti, aspettò i minuti e li calpestò
con piccoli passi girando su se stesso senza direzione.
Aspettò lei. Lei che doveva arrivare senza appuntamento, lei che gli aveva
insegnato che dopo ogni sua lezione ci sarebbe stata, lei che era diventata e Davide non se ne era mai accorto prima – un’abitudine sottile e
inevitabile, lei che gli aveva scritto addosso l’abc della loro convivenza
strana, lei.
Lei che non ci fu in quel giorno così maledettamente normale in cui le
nuvole minacciavano acqua su questa terra.
Davide giocò con il tempo per ingannarlo un po’ con gesti minimi e
inconcludenti, e con la sensazione di Anita che si perdeva tutto intorno
divorando piano i sedimenti di quella attesa senza promesse, riservata e
fedele.
E quella speranza, piccolo focolare acceso dentro, era la stessa di chi
cercava tra la folla una persona sola, di chi si addormentava pensando al
domani, di chi sperava che quel treno non fosse già partito.
Ed ogni attimo un pretesto per non andare, una scusa senza fede che
moriva poco dopo soppiantata da un’altra scusa che si intrecciava nelle
siepi della mente.
78
Davide non si rese conto di quanto tempo precisamente era passato ma il
suo orologio biologico annunciò l’allarme che si misurava a battiti di
cuore.
Sentì non lontano lo scalpitio energico dei passi della Direttrice, andò
verso di lei concentrandosi sulla scia che si lasciava dietro quel rumore, le
chiese di Bonni.
“Non c’è.” Rispose. E vide lui che non se ne andava, immobile, come se
non fosse riuscito a metabolizzare la notizia, come se non avesse sentito.
“Non è venuta.” Ribadì ad alta voce.
“Va bene, grazie.”
Davide si scrollò di dosso l’attesa, disegnò un sorriso ammiccato e decise
di andarsene.
Nel tragitto per arrivare in casa pensò che tutto quello era veramente
insolito. Insolito che Anita non fosse venuta , ma forse ancora più insolito
era stato quel bruciore nell’aspettarla.
La conosceva nemmeno da un mese e già l’aveva calata dentro quello
spettacolo ristretto che era diventato il suo mondo.
Pensò a lei solamente allora.
Pensò a lei come la sua immaginazione tattile l’aveva fotografata, pensò a
chi fosse lei. Che gli aveva permesso di entrare nella sua intimità, che
l’aveva coinvolto e stravolto, che l’aveva abbagliato e fatto sorridere con
le sue osservazioni inquietanti, che aveva deciso di dividere con lui le
nostalgie e le passioni. Ma soprattutto che era stata se stessa.
E gli aveva insegnato che il cielo, i posti verdi nascosti dagli alberi,
l’asfalto caldo, le persone che vivono, le storie che si imparano, le mani
che si inseguono, e un tramonto che scotta, c’erano ancora anche se lui non
li poteva più vedere. Che se gli indispensabili, infinitesimi bagliori di vita
gli erano stati rubati, lui se li poteva riprendere, bastava cercarli, scovarli
negli angoli neri di dolore e poi afferrarli e tenerli stretti e non lasciarli
andare più.
L’aveva fatto Davide, lui sapeva tenere duro nei momenti di disperazione,
anche se qualcuno questa volta giura di averlo visto barcollare. E se non ci
fosse stata lei.
Quando arrivò a casa, si tolse il giubbotto appena bagnato, entrò in
camera sua e spalancò le finestre. Si mise ad odorare quell’atmosfera folle
e surreale inumidita da gocce di pioggia che cadevano rade, e nella sua
tristezza si sentì felice, perché stava soffrendo per un qualcosa che era
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diverso dal suo buio, ed era un qualcosa che lo trascinava oltre e lo faceva
sentire tremendamente vivo.
Soffriva per la sua luce e forse al mondo non c’era cosa più bella.
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Lo svegliò Anita di mattina presto, entrò in camera sua aprendo piano la
porta e disse permesso con un filo di voce come per smuovere l’aria senza
fare troppo rumore.
Si mise a sedere sul letto di Davide.
Lo vide girarsi e rigirarsi ancora, stordito e preso in trappola da quelle
lenzuola bianche di lino che gli lasciavano nude le spalle ampie.
Anita si incantò sulla sua pelle liscia e sul suo petto glabro, seguì con gli
occhi il profilo deciso delle sue labbra, e la geometria confusa dei suoi
riccioli sparsi sul cuscino.
“Davide.” Gli sussurrò all’orecchio.
“Davide.” Ancora, piano.
Mugolii incomprensibili.
“Davide, sono io.”
“…Anita…”
“Sì.”
“No. No…”
“Sì, sono io. Tua madre mi ha detto che potevo entrare.”
Anime al confine di un non ritorno.
Davide allungò la mano. La cercò.
Lei si fece trovare. Si fece esplorare.
Quella era la sua bocca che si struggeva morbida sotto le dita.
“Vieni più vicino. Voglio sentire il tuo profumo, che ancora non ci credo
che sei tu.”
Andarono l’uno incontro all’altra con il viso e con il corpo, fino a quando
non si incrociarono i respiri, fino a quando non si sfiorarono le labbra, fino
a quando non si sentirono gli umidi dolci delle bocche e si fermarono.
Assaporandosi piano, cercandosi, cospargendosi di tenerezza lenta e
infinita, mordendosi agli angoli, affondando l’uno sulle labbra soffici
dell’altra.
Si presero il tempo che non c’era stato e che forse non ci sarebbe stato mai,
con un bacio. Breve e incerto, tremulo di brividi lungo il corpo, impellente
di desiderio d’appartenenza e così intensamente mentale da annebbiare i
confini di pelle.
Ci furono minuti che passarono immersi fino all’orlo in quel silenzio
rumoroso di cellule impazzite, ma loro non se ne resero conto, catturati i
cervelli da un deflusso di sensazioni confuse e partecipate.
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Poi, di colpo, un sussulto che infrange il vetro di poesia. E un brusco
distacco insieme al campanello che suona, insieme alla mamma che
chiama e al travaglio del cuore che scalpita.
Mirco ed Enrico aprirono la porta chiassosi.
Ma li bloccò alla soglia la penombra muta che avvolgeva la stanza dalle
finestre ancora socchiuse, li bloccò il viso di lei percorso da uno schizzo
veloce di luce indecifrabile, li bloccò il letto disfatto e quella quiete
bugiarda di parole non dette.
“Davide scusa, noi non sapevamo…”
“E dai entrate.
Credo che sia giunta l’ora del risveglio.” Rise.
“Apro la finestra.” Disse Anita.
Una luce pallida di cielo che fa le bizze invase la stanza.
Gli occhi di Mirco si spostarono su di lei, con insistenza scrutarono quel
viso familiare alla memoria.
Si riconobbero ma non vollero.
Anita sfuggiva a quelle intrusioni guardando altrove, Mirco non riusciva a
staccarsi da lei, si chiedeva che cosa ci facesse a casa di Davide, quale
storia l’aveva condotta fino a lì.
Davide presentò Anita ai suoi amici in modo informale, quasi distratto, lei
li salutò con un sorriso.
Si formò all’istante una situazione di complicità attorno a quel nucleo
irresistibile che era Davide, i discorsi di tutti lo circondavano come i
satelliti la terra.
Anita si tolse le scarpe e si mise a gambe incrociate a sedere sul letto,
Enrico salì sulla scrivania, Mirco piegò le gambe e scese fino a terra.
Mentre parlavano lei li guardava con curiosità vorace, in loro
riconosceva Davide, qualche scintilla inspiegabile li univa negli
atteggiamenti; gesti impercettibili di familiare coesistenza, piccole
movenze, intercalari mescolati nello shaker di una frase accomunavano
quelle tre teste matte.
E Anita ebbe l’impressione forte di un legame di fratellanza di una vita, si
sentiva al centro del loro campo magnetico triangolare in cui gli scambi
erano diretti, reciproci e immediati.
Si recepivano emozioni dentro a quella stanza, rimbalzavano come palloni
lanciati per terra e poi subito afferrati.
Davide le aveva da sempre parlato di loro. Di Mirco, che si muoveva per le
strade della vita viaggiando d’istinto, lui casinista irrefrenabile che cadeva
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a terra come un bambino dopo qualche bicchiere di troppo. E di Enrico,
razionale e riflessivo, capace di ascoltarti per ore senza dire una parola,
capace di esserci sempre quando chiedi aiuto.
Anita li scrutava dentro la sua mente e scrutandoli li scopriva a poco a
poco sorprendentemente diversi e sorprendentemente uguali, oggetti
differenti tutti partecipanti allo stesso insieme.
Anche Mirco ed Enrico la guardavano. La spontaneità dei suoi occhi
tradiva tutto ciò che era in lei, come due finestrelle che si affacciavano
direttamente sull’anima.
Entrambi notarono la sua continua ricerca di Davide. La sua mano che
sfiorava quella di lui, che la prendeva e giocava con le sue dita, e poi
l’accarezzava lievemente, quasi sopra pensiero, e poi la ritraeva di scatto
quando il pensiero si infrangeva, per ritrovarla subito dopo.
Davide parlava con la sua naturalezza di sempre, aveva catalizzato
l’attenzione su di sé nonostante quel cercare e nascondersi di sguardi
attorno.
Il discorso cadde sui giardini d’infanzia, sulle corse intrepide e sudate di
tre bambini che cadevano e si graffiavano le ginocchia, e poi si rialzavano
per rincorrere un pallone che schizzava via.
Enrico ricordò Davide, un bimbetto dall’ossatura fragile che indossava
sempre gli stessi pantaloncini corti perché era convinto che con quelli
fosse più facile fare goal. Che si infuriava quando perdeva, e si asciugava
con rabbia il sudore della fronte cospargendosi di nero l’intero viso e
gridando al cielo parolacce.
Cortili assolati davanti a casa, dove era facile prendersi a botte per una
parola in più, e dove era ancora più facile abbracciarsi e fare finta di niente
e ricominciare a giocare, cortili dove la mamma si affacciava per la
merenda e tutti correvano da lei, cortili di corse in bicicletta che sembrava
di andare veloce come il vento, cortili di libertà che non sarebbero tornati.
E c’era Pippo che si infilava sempre le dita nel naso e Marco, timido, che
non voleva mai giocare, Simone che faceva lo sbruffone e la sua vita era
un’intera bugia, Stella che piangeva perché i bambini le alzavano la gonna,
Sandro che era il più forte di tutti al pallone, e Giacomo che andava a
rubare l’uva nel campo del signor Bruno e si faceva cronometrare.
E c’era Mirco che andava in bicicletta con una ruota sola e spesso cadeva,
ed Enrico che conosceva sempre i giochi più belli, e Davide. Che sognava
di essere come i guerrieri vincitori dei suoi libri di favole, che voleva
arrivare sempre più in là e non sapeva dove, non gli importava neanche, lui
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vedeva la strada da precorrere, non la meta, e il suo desiderio era
proseguire. Proprio come adesso.
Risero molto. Era passato tanto tempo eppure bastava rispolverare il baule
mansardato dei flashback e diveniva semplice tornare indietro, riscoprire
ricordi che loro stessi pensavano dimenticati.
Anita ascoltava con le orecchie tese, quasi senza battere ciglio.
Anche lei era entrata in quei cortili macchiati di asfalto e di verde e un po’,
a dire il vero, si era emozionata.
“E tu Anita che cosa facevi da piccola? Eri una pazza scatenata come
noi?” Chiese con voce alta Mirco interrompendo quel viaggio a ritroso.
Nella testa di Anita lo schermo cambiò violentemente immagine.
Una bimba terrorizzata dall’ossessivo pensiero che la strega invisibile
venisse a prendersi sua madre, così come aveva fatto con suo padre prima
che lei nascesse, che piangeva per i ritardi di lei, che avrebbe voluto
passare il suo tempo fuori insieme alle amichette, eppure non ce la faceva
perché troppa era l’esigenza, insolita alla sua età, di controllare che in casa
fosse tutto al proprio posto.
Ci fu una pausa e un senso pieno di smarrimento le catturò lo sguardo.
“Adoravo i nonni, la mia infanzia è stata con loro. Sono stata viziata di
favole e di bambole, di passeggiate in campagna e di dolci fatti in casa.
Però mi sarebbe piaciuto conoscervi.” Sorrise.
“Dici? Guarda che ti avremmo alzato la gonna e ti avremmo fatto
piangere!”
Risero, fragorosamente, chiassosamente.
E poi si persero in discorsi scemi.
84
Drin, drin.
Drin, drin.
“Pronto?”
“Ciao.”
“Ciao.”
“Ti pensavo, tu cosa stai facendo?”
“Sto preparando le cose, devo riordinare un po’ la vita prima di partire.”
“E da quale cassetto si inizia a per riordinare la vita?”
“Da uno, qualunque.
Io ho iniziato da quelli più semplici, il cassetto dei dove, quello dei come e
dei quando. Ora mi sono fermata a quello dei perché, non riesco più ad
andare avanti.”
“È buffo, tu che sai sempre tutto, adesso non riesci a trovare le risposte.”
Pausa.
“Davide, perché ho deciso di partire?”
“Non te lo chiedere Anita, se analizzi smonti tutto. Me l’hai detto tu che
non avresti potuto fare altrimenti, che la scelta che hai fatto è quella che è
sempre stata più vicina ai tuoi desideri. Decidendo di partire hai compiuto
un atto di fedeltà verso te stessa, è questo che è importante.”
“Mi mancherà ogni cosa.”
“Ne scoprirai altre, ce ne sono miliardi e tu sei una ricercatrice bravissima,
troverai le più belle. Alla fine quando si è lontani non è poi così difficile
colmare i vuoti.”
“Davide, sei sincero?”
“So che andrà così, se sono sincero non lo so.”
Tutti e due pensarono al bacio del giorno prima, ma non se lo dissero.
“Ho sentito la mamma poco fa, lei non sta più nella pelle, ha detto che sta
contando i minuti che ci separano. Mi ha parlato di luoghi da vedere, delle
infinite cose che potremo fare insieme, di Barcellona.”
“È una città che ride e che non sta mai ferma, Barcellona. È una fonte
inesauribile di creatività e di sorprese, ti ci perdi dentro e non ti stanchi
mai di guardarti attorno. Ti piaceranno i palazzi perché sono geniali, e le
Ramblas che esplodono di vita, quando ci cammini senti le musiche degli
artisti che si intrecciano insieme, compongono senza volerlo una sinfonia.
E poi c’è la parte vecchia, e le strade più nascoste sono quelle della vita
appartata, di quella che scorre anonima fra le pareti della propria casa,
dove la gente c’è ma si sente appena perché sa muoversi con discrezione.”
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Sentì Anita, quelle parole di passione e vide balenarsi davanti
l’immagine nitida di una città mai vista prima.
Sentì l’intensità istintiva con cui Davide pronunciò quelle parole e sentì un
forte bruciore allo stomaco per le parole che lui non disse, Anita resta.
Rimase in silenzio.
“Ci sei ancora?”
“Sì, sì. È che stavo pensando, ti deve essere piaciuta molto.”
“Barcellona è uno dei ricordi più belli che ho. A proposito, come sta
Bonni?”
“Ha ancora un po’ di febbre, il dottore ha detto che è meglio che non esca
di casa per tutta la prossima settimana.”
“Ho capito. Verrò a trovarla uno di questi giorni.”
“Ne sarà felicissima, parla sempre di te, delle storie che le racconti. Lei
pensa che siano tutte vere!”
“Infatti, certo che sono vere.”
“Ah sì, e io dovrei credere alla storia del pipistrello con i capelli biondi o a
quella dell’ubriaco che chiese al genio di potersi trasformare in un fiasco
di vino e poi rimase deluso perché non riuscì a bere se stesso?” Scoppiò in
una risata.
Scoppiò a ridere anche Davide.
“Mi hai portato di esempio le uniche storie stupide che io abbia mai
raccontato.”
“Le uniche? E quelle dell’elefante che.. ”
“Va bene, va bene. Mi lascio un po’ trasportare, ammetto che qualche
volta ho esagerato ma non dirmi che non vi ho fatto divertire. Tu e Bonni
ridevate a crepapelle!”
Anita rilassò i muscoli del viso tornando seria. Ricordò in un inciso del
pensiero i nonsensi di quelle giornate allegre e ne avvertì la nostalgia.
“È vero.”
Li ricordò anche lui.
“È vero.”
Attimi di non dire.
“Allora, buonanotte Davide.”
“Buoni sogni, Anita.”
Davide attaccò la cornetta del telefono, pensò ad Anita che si stava
riordinando la vita prima di partire. E pensò alla sua di vita, pensò che in
ordine forse non sarebbe stata mai.
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Le margherite del chiostro piegavano la testa al vento lieve, oscillando
un po’.
I giornalisti, muniti dei loro blocchi in disordine, delle loro macchine
fotografiche appese al collo e dei loro microregistratori nonperdiparola,
aspettavano seduti nei pressi del laghetto artificiale.
La Direttrice aveva predisposto due enormi sedie di vimini per loro, che ne
fronteggiavano un’altra, più piccola e più leggera.
Arrivò Davide con il suo minimo ritardo, trascinandosi dietro passi
svogliati.
“Buongiorno.” Disse.
“Bene arrivato.” Lo accolsero loro.
Cercò a tastoni la sua sedia, la Direttrice vedendolo in difficoltà gli andò
in aiuto porgendogliela.
Si sedette e si accorse che i due giornalisti erano posizionati in fila
orizzontale di fronte a lui.
Si sentì un esaminando messo a confronto con dei libri che non aveva
studiato. Doveva rendere conto di sé, cominciò a picchiettare
nervosamente con le dita i braccioli della sua sedia.
“Orbene, il nostro scrittore.” Esordì un vocione che Davide attribuì ad un
uomo molto grasso. “Come va?” Continuò.
“Bene, grazie.”
“Ah, bene.” Un po’ sconcertato. “Volevo dire, dopo l’incidente si è ripreso
bene?”
“Sono cieco, mi riprendo da cieco.”
“Che cosa vuole dire esattamente Davide, che sta cominciando a prendere
familiarità con la sua nuova situazione?”
“Mi adatto. L’uomo è questo che fa di solito, si adatta, no?”
“ Ma.. presumo di sì, presumo di sì.”
“Questa Istituzione è stata molto importante. Lo è stata per me, ma ancora
di più lo è per i bambini. Molti di loro sono nati senza il dono della vista,
eppure come gli altri sono curiosi di sapere cosa gli corre attorno, quali
sono i meccanismi conoscibili che muovono gli eventi, hanno sete di
imparare, e ce l’hanno più degli altri perché i loro spazi oscuri sono più
grandi. Vogliono imparare a leggere, e a scrivere anche, non hanno voglia
di
fermarsi
e
il
loro
limite
non
gli
fa
paura.
“E lei che cosa ha imparato qui?”
“Sto imparando a leggere e scrivere in Braille, le insegnanti sono molto
pazienti, e non è poi così difficile. L’unico problema è che i macchinari
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sono un po’ obsoleti, ha presente le macchine da scrivere che si inceppano,
i cigolii delle viti che..”
“Sì, sì ho presente. Ma il fatto che lei stia imparando questo metodo di
scrittura alternativo è l’annuncio dell’arrivo di un prossimo romanzo?”
“Per ora non ho in mente niente.”
“Ma come, la sua passione per la narrativa è andata perduta?”
“Io non ho detto questo. Conosce la scintilla che schiocca dentro come il
sonoro rumore di due dita che si premono e poi si sfuggono o come quello
di uno schiaffo dato in piene faccia?”
“Sì, credo di sì.”
“Ecco io non ce l’ho dentro. Se la cerco non la trovo e se non la cerco non
la sento ugualmente.”
“Non ha mai pensato di attingere alla fonte della sua vicenda personale?
Sarebbe interessante, sa?”
“Non ci avevo mai pensato, ma ho visto che l’ha fatto lei per me. La
ringrazio dell’idea ma non mi piace mettere in piazza la mia vita.”
“Un’autobiografia particolareggiata, la dinamica reale dell’incidente, e la
vita sentimentale, un cocktail esplosivo. Ho sentito dire che glielo
volevano proporre.”
“Proposta bocciata.”
“E a me vuole raccontare come è andata?”
“Come è andata che?”
“L’incidente in motocicletta. La dinamica è stata più o meno ricostruita, lo
so, ma lei non ne ha mai parlato in prima persona.”
“E non ho alcuna intenzione di farlo ora, mi è difficile ricordare. Credo
piuttosto che le interesserà di più sapere come si svolgono le cose qua
dentro, c’è anche un piccolo centro di ricerca qui e..”
“Sì, sì certo.” Lo interruppe frettolosamente il giornalista. “E la vita
sentimentale come va? Ha una persona accanto oppure non ce l’ha più?
“…….”
“Era Sabrina Davanzati, la modella?”
Davide strinse i pugni e pensò sono cazzi miei, stronzo.
E poi disse “Sono fatti miei.”
“L’abbiamo scovata in dolce compagnia, di Pierfrancesco Corsi il nobile
antiquario fiorentino, l’abbiamo fermata e abbiamo tentato di farle qualche
domanda ma non ci ha voluto rispondere. Di lei proprio non vuole
parlare.”
“Lasciatela in pace.”
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“Ne è ancora innamorato, allora?”
Davide si alzò di scatto dalla sua sedia e lo slancio fu così forte e
repentino che la fece cadere sull’erba.
Si avventò contro il giornalista che aveva di fronte afferrandolo per la
camicia, dal suo braccio partì un pugno che sferzò l’aria.
La macchina fotografica dell’altro giornalista lo immobilizzò in
movimento, fermò dentro la pellicola il suo slancio di rabbia e dolore.
Clic, clic, clic, la cantilena metallica non si arrestava.
Clic, clic, clic, la cantilena non la smetteva di rubare gli attimi e poi di
imprigionarli, non la smetteva di costruire sequenze.
Il pugno mancato che sfiorò appena la guancia paffuta.
L’uomo grasso che si divincolava gridando questo è pazzo.
I due uomini presenti che bloccarono Davide.
La Direttrice con le mani sul volto e gli occhi sgranati dietro le lenti.
I curiosi che si parlavano sotto voce.
Le mamme che portavano via i bambini.
L’obiettivo dell’apparecchio fotografico si chiuse, i giornalisti raccolsero
velocemente le loro cose imprecando, e se ne andarono via, lasciandosi il
chiostro alle spalle.
Davide respirò profondamente, cercò di mandare via quel fulmine di
rabbia che gli aveva bruciato la mente, fino a fargli perdere completamente
il controllo del suo corpo.
“Mi dispiace. Forse non ero pronto.” Disse rivolgendosi alla Direttrice e se
ne andò.
I suoi passi verso l’uscita erano veloci e decisi, quasi calci contro il niente,
ma ad un tratto vacillò quasi, la sua andatura divenne titubante e incerta.
Sentì un odore, che non era neanche un odore ma era una percezione più
alta, difficile da spiegare. Sentì il sapore delicato della rosa aleggiare
nell’aria, lo sentì mescolarsi a quello salato delle lacrime.
Avvertì Anita, in un angolo, chiusa dalla parete e da se stessa, che dal suo
corpo sarebbe voluta scappare ma proprio non ci sapeva uscire, che
avrebbe voluto non esserci, non farsi vedere ma quel viso, quelle spalle,
quelle braccia, quelle gambe di carne pallida, quella sagoma tutta riversata
dentro se stessa, era lì e non si muoveva.
Lei strinse gli occhi, lui le passò vicino. Sapevano di esserci nello stesso
decimetrico tratto di spazio, nella stessa infinitesima scansione di tempo,
ma non si dissero niente perché sapevano di non esserci insieme, sapevano
anche che nessuna parola sarebbe bastata per raggiungersi.
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Lo sentì diverso, intruso invasore della sua troppa innocenza, dispensatore
generoso di favole bugiarde.
Chi era quella certezza su cui si poteva riporre la vita?
Chi sei? Gli urlò contro piangendo.
Il suo rifugio, il suo tempio crollato d’improvviso, senza neanche aspettare
che le mura si crettassero.
Quella fiducia che era verità che si imponeva al cuore, tu mi hai
ingannata, perché ti sei inventato? Con me è stato facile dimenticare,
essere qualcuno che non sei, Davide Stein. E come potevo pensarci?
E abbiamo parlato del tuo libro, e io non sapevo neanche che era tuo, Dio
mio come mi sento ridicola.
Ossessione di parole come valanga di neve che si scioglie.
Al di là di un vetro e il vetro si frantuma e i pezzi le cadono addosso
graffiando la pelle di rivoli di sangue.
Il non capire perché, era questo che la tormentava. Era questo che gridava
in lacrime davanti al suo portone, contro di lui.
Mi sono chiesta migliaia di volte se quello che stavo vivendo era tutto
vero, mi sembrava tutto troppo facile, tutto troppo spontaneo. Avevo
pensato che non fosse amore, non fosse amicizia, non fosse nessuna di
quelle maledettissime parole che si trovano nel vocabolario. Avevo
pensato che stessimo creando qualcosa dal nulla io e te.
Come se insieme avessero coniato un neologismo, brevettato
un’invenzione, creato un’opera d’arte che mai nessun artista avrebbe
potuto immaginare esistente.
E poi arrivo in un bel giorno di sole e ti trovo seduto su una sedia. Hai
davanti due giornalisti ma è tutto normale perché tu sei famoso e hai
scritto “Groenlandia” e quegli altri due libri che io non ho letto e non
ricordo neanche come cavolo si intitolano.
Sbatto la faccia contro una realtà, ma all’inizio neanche la vedo la realtà
e sorrido perché ti sento parlare dei bambini che non ci vedono e che
seguono le lezioni perché vogliono imparare a leggere e a scrivere.
Sorrido e mi chiedo “Chissà perché hanno scelto proprio lui che è così
restio a parlare.” Poi lo capisco, che i giornalisti non si sono mossi per
l’Istituto per non vedenti ma si sono mossi per te.
E ti hanno scavato bene dentro, tanto bene che quasi non gli spaccavi il
naso. Che non resisti Davide, al confronto con te stesso, perché non ci
riesci a sopportarti come sei adesso se pensi a come eri prima.
90
Aveva lacrime che le correvano sul collo e le inzuppavano la maglia
bianca, aveva lacrime sulle mani, lacrime dappertutto. E una voce che
gridava forte la sua rabbia e spesso si rompeva in un singhiozzo o in un
sospiro troppo lungo, e poi ritornava a farsi sentire con veemenza ostile e
disperata insieme.
E Davide era lì, duro e bello in volto di una solitudine amara, rinchiuso
in quel corpo teso che fremeva dentro e che all’esterno sembrava di
marmo.
Vinto da una sensazione che avrebbe voluto rimuovere dalla memoria,
vinto da quel soffocamento che ostruiva ogni via d’uscita, vinto
dall’incapacità di non spiegare i sentimenti, disse soltanto abbiamo
passato dei giorni insieme, io sono così.
Lo disse allungando la mano in cerca di lei che non si lasciò trovare.
Abbiamo passato dei giorni insieme, io sono così.
Abbiamo passato, che non era solo un passare, lì dentro c’era rinchiuso,
come in un vecchio baule, un passare la vita, un passare la vita e vivere gli
attimi, un vivere gli attimi e sentirne ancora l’odore - rosa -, un sentirne
ancora l’odore ed averne impregnati i vestiti, di quell’odore. Per sempre.
Solo che lei non sentiva, lei proprio non capiva.
Non riusciva più a correre sul filo della stessa lunghezza d’onda che li
aveva fatti appartenere, come se delle mani pesanti l’avessero spezzata
nell’intimità più fragile che possedeva, come se le schegge di lei cadute a
terra fossero state troppo piccole per essere rimesse insieme.
Si muoveva tutta e il corpo le si protendeva in avanti e poi le ricadeva
indietro senza alcun dominio di controllo. Si sentiva sbattere da una parte
all’altra da una feroce sensazione di perdita che da dentro la prendeva a
calci, inesorabile, definitiva, profondamente irrazionale e per questo più
disperata.
E quando una donna come Anita si sente tradita recide d’impeto ogni
legame, se ne esce fuori sbattendo la porta, perde volutamente il percorso,
la geografia insidiosa che la tormenta, e getta via la cartina, scheletro di
un’anima in cui non vuole più tornare.
Così andò via, correndo anche se stremata e Davide non la chiamò.
Gli eventi gli erano piovuti addosso, senza concedergli il tempo di rendersi
conto, di valutare le conseguenze. Lui che le conseguenze, alla fine, non le
valutava mai, anche se poi ce l’aveva il tempo.
Sentì il vuoto dell’aria, quello della strada, delle mura e dell’intonaco
della sua casa, il vuoto del suo giardino abbandonato sul retro, quello delle
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persone che non passavano di lì e quello di chi se ne andava subito, sentì il
vuoto delle cose perse, e quello più triste delle cose dimenticate.
Entrò nell’atrio, salì le scale lentamente, come se le sensazioni frenassero
i suoi movimenti, come se fossero un peso corporale da portare sulle
spalle.
Entrò in casa, disse che non aveva fame.
Si chiuse in camera, mise sul piatto del giradischi un vecchio
quarantacinque giri, Every Breath You Take, dei Police.
Tirò fuori un foglio, prese in mano una penna. Cominciò a scrivere.
Le sue lettere andavano in salita.
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Tornò a casa camminando fra la gente, fra il traffico e fra nessuno.
Oramai si era fatto buio, Anita aveva avvertito l’accendersi dei lampioni
come una luce riflessa lontano. O forse era lei che si sentiva lontana dalle
metamorfosi naturali del mondo e dalle sue stasi e da tutto ciò che era
accaduto e da quanto altro le poteva accadere.
Arrivata, tolse dalla tasca dei pantaloni la chiave di casa, la infilò nella
serratura, la fece girare dentro. L’ingresso era buio, lei non accese la luce,
salutò soltanto a voce alta la nonna per farle sentire che era tornata e poi
corse subito in bagno.
Si guardò allo specchio e vide un volto pallido, arrossato sulla punta del
naso, sugli occhi e ai bordi della bocca.
Si soffiò il naso con un pezzo di carta igienica e poi si guardò di nuovo.
Le sue palpebre erano gonfie, anche le labbra.
Sono un mostro, pensò. E mentre lo pensava una lacrima le rigò una
guancia, provò una sorta di compassione strana per se stessa.
Aprì il rubinetto e si lasciò scorrere sulla testa il getto di acqua fredda che
scendeva. Voleva annacquare la memoria, lasciare affogare i ricordi,
svegliarsi da quel torpore estenuante, e sorridersi.
Ci provò a sorridersi, nello specchio una smorfia.
Si asciugò i capelli con un asciugamano e scappò da Bonni. La trovò a
letto, coperta fino al collo e con il viso nascosto sul cuscino.
Anita l’abbracciò, si abbracciarono.
“Perché Davide non è venuto? Ti sei dimenticata di andarlo a prendere?”
“No, ci sono andata all’Istituto solo che.. non poteva.”
“E perché non poteva?”
“Non lo so Bonni. Non lo so.”
“Sei arrabbiata?”
“No, perché dovrei scusa?”
“Perché hai la voce di quando sei arrabbiata.”
Anita si alzò dal letto in cui si era seduta, chiese a Bonni se aveva voglia
di ascoltare una fiaba dei fratelli Grimm.
“Lo so che parti, me l’ha detto la mia mamma.”
Anita chiuse il libro di fiabe e corse da lei.
“Sì, però torno.”
“Vai dalla tua mamma.”
“Sì.”
“Dormi con me in questo lettino, stanotte?”
“Sì.” Le accarezzò i riccioli.
93
Poi si spogliò e rimase con la maglia soltanto. “Allora entro sotto le
coperte, fammi spazio.”
Parlarono molto quella notte, fecero un’infinità di programmi, un’infinità
di sogni, promesse.
Ogni tanto ridevano e dovevano nascondere il viso sotto al guanciale per
non fare rumore.
Anita cercò di trasmettere a Bonni tutto il suo affetto, aveva deciso che
prima della partenza non si sarebbe risparmiata, e si sarebbe buttata nei
rapporti che davvero contavano, per non avere i rimpianti delle cose non
fatte e di quelle non dette.
Bonni cadde presto nel sonno, Anita la guardava dormire e respirare forte.
Lei non riusciva a dormire, Morfeo proprio non voleva scendere a rapirla.
Vide d’un tratto la luna pallida, silenziosa guardiana della casa dell’orto,
la vide vegliare su di lui che suonava la chitarra. Dio mio, Anita come sei
stonata! La risata di lui. Non è vero, cioè, insomma in altre cose sono più
brava. Ma dico la senti la musica? Basta, guarda che mi fai arrabbiare!
Il gioco dei colori difficili nel chiostro, per la strada, con Bonni che si
divertiva da pazzi.
Quella sera in cui Davide volle andare a teatro, che tanto “Aspettando
Godot” lui lo conosceva a memoria, e diceva che gli attori se sono bravi si
capisce anche solo dall’inclinazione della voce. Uscirono che pioveva a
dirotto, si bagnarono tutti.
Pensò alle pagine, alle parole in quelle pagine, tutte consumate con gli
occhi mentre lei leggeva ad alta voce. Capì che quello che lei aveva inteso
come una passione forte, era per lui un bisogno vitale. Leggere come
mangiare, come bere, lei gli prestava gli occhi.
Un suo abbraccio. E lui l’abbracciava spesso, con quelle braccia così forti
che era facile addormentarcisi dentro.
Le loro chiacchierate, le sue parole. Non è possibile che fossero tutte
bugie.
Anita, fra le lenzuola, sentì un bruciore salirgli dallo stomaco alla gola.
L’aveva anche baciata, sì perché quello era stato proprio un bacio, e i baci,
quelli veri, si sentono tutti addosso e non sanno mentire.
Quella penombra dolce, come era piena di lui camera sua. Quel patchwork
lasciato cadere in un angolo, quella scrivania piena di fogli sparsi e di
quaderni, c’erano anche un pennino e un calamaio, forse glieli aveva
regalati lei, come si chiama.
94
Quella libreria di libri di ogni genere e di ogni autore, di libri chiesti in
prestito e mai restituiti, di libri letti e riletti, stropicciati, a volte.
Anche questa era nostalgia.
Anita chiuse gli occhi spalancati al soffitto.
Si addormentò verso l’alba, con Davide che faceva delle smorfie. E poi
rideva.
95
Sfogliava come ogni mattina disattentamente il settimanale a cui era
abbonata, più per abitudine acquisita che per reale interesse.
Stava facendo colazione, cereali e latte e una mezza tazza di caffè.
Smise di mangiare e poi sgranò gli occhi vedendo una foto. Di lato, un
piccolo articolo.
GIOVANE TALENTO CHE SI OSCURA
NELLA LETTERATURA EMERGENTE.
Abbiamo incontrato Davide Stein ieri mattina,
all’Istituto Fiorentino Per Non Vedenti, abbiamo
parlato con lui.
Giovane ventiquattrenne ha già all’attivo tre libri
di successo: il primo “Collegamenti” pubblicato
nel 1995, il secondo “L’ora prima” pubblicato
nel 1996 e da ultimo “Groenlandia” pubblicato
agli inizi di questo anno sempre a cura della casa
editrice Erodia.
“Groenlandia” l’ha definitivamente condotto sul
podio della più alta letteratura giovanile, conosciuto
su scala nazionale è stato invitato a partecipare a
conferenze e dibattiti presso i più importanti
circoli culturali Toscani e non.
Ammirato da nomi quali Giovanni Mentacchi e
Salvatore Spilli, ha ottenuto recensioni che non
è esagerato definire appassionate.
Sempre schivo nei confronti di giornalisti e
telecamere, abbiamo potuto constatare che
non ha migliorato il suo carattere dopo l’incidente
che ha avuto in motocicletta il trenta gennaio
di questo anno e che gli ha causato lesioni profonde
alla cornea di entrambi gli occhi, i cui danni, i
dottori hanno dichiarato irreversibili.
Davide Stein, che adesso non vede altro che
ombre quasi impercettibili, sembra avere
perso anche la voglia di scrivere. “Non ho
niente in mente” ci ha risposto quando gli
abbiamo chiesto se aveva intenzione di dare
vita ad un altro libro, magari in primis
96
pubblicato in Braille. Magari scritto in
base alla sua stessa esperienza personale.
L’abbiamo perso? Ai posteri l’ardua sentenza.
Di certo noi non possiamo fare altro che
comprendere il suo disorientamento e il suo
dolore non solo per la perdita della vista, ma
anche per la perdita dell’amore.
L’amore di Davide Stein si chiama Sabrina
Davanzati, studentessa all’Università di Lingue
e modella avvenente presso la Fashion Due,
nota agenzia di moda che ha sedi dislocate in
tutto il paese.
Poco tempo dopo l’incidente dello scrittore, è
stata vista in dolce compagnia di Pierfrancesco
Corsi, nobile antiquario fiorentino.
Forse è proprio il caso di dire che l’amore forte
e solido nella fortuna, svanisce come per sortilegio
nelle avversità.
Come ha reagito il nostro giovane scrittore? Male
direi, data la violenza che ha riversato contro di noi.
Non ci resta che sperare che da ora in poi Davide Stein
decida di utilizzare le sue mani sulla macchina da
scrivere e non su di noi.
M. Gambassini.
Finì di leggere, lesse ancora.
Sentì un forte senso di oppressione prenderla da dentro, quasi un
soffocamento, una pressione forte che bloccava le vie respiratorie.
Si alzò dalla sedia, corse a fare una telefonata. Disse che aveva fatto tardi.
Poi si mise il rossetto e si sistemò i capelli.
Uscì di casa quasi sbattendo la porta, fece le scale di corsa.
Arrivata in strada accese il motore della sua automobile rossa e si immise
prepotentemente nel traffico cittadino. Guidò senza pensare, il getto di
istinto che la muoveva non le lasciò il tempo di domandarsi né di
obbiettare.
97
Impiegò meno di quindici minuti ad arrivare.
Arrivò.
Il campanello suonò sotto la pressione del suo dito.
Un po’ di tempo - minuti – prima di ricevere una risposta. Il citofono non
parlò, il portone si aprì.
Salì le scale, ogni gradino un incertezza. Pensò che poteva ancora
andarsene, ma non lo fece.
Davide, intanto, dalla soglia di casa sentiva il rumore lontano poi sempre
più vicino, di un tocco che disegnava sulla dura pietra delle scale, un passo
disinvolto e preciso.
Non è possibile, è questo che si disse. Poi aspettò e non si disse più niente.
Quando Sabrina lo vide, appoggiato sulla porta, rapito e immerso in
quell’aria solitaria e scanzonata di sempre, che si lasciava filtrare e
raggiungere mai, ribelle e confuso di riccioli in lotta fra loro, non riuscì a
dire niente, il silenzio le aveva rubato la voce. E non è che non la cercasse
la sua voce, solo che proprio non la trovava più.
Davide sentì il profumo di lei, la sua consistenza. Allungò il braccio e la
cercò con la mano “Sabrina.”
Lei gli si gettò al collo con uno slancio istintivo, lo circondò con le
braccia, lo strinse più forte che poteva.
Momenti di appartenenza familiare, poi di nuovo silenzio lasciandosi
sfuggire piano, tornando l’uno di fronte all’altra.
“A dire la verità sono un po’ nervosa.” Ammise Sabrina con gli occhi
bassi.
“Ah. E sei venuta per dirmi questo?” Davide si mise a ridere, poi le mise
una mano sulla testa e l’avvicinò a sé.
Le sussurrò all’orecchio “Ti va se andiamo in giardino, che parliamo un
po’ all’aria aperta?”
Ci andarono.
Si misero a sedere sul dondolo, era una giornata calda.
“Davide, io stamattina ho letto un articolo su di te e un po’ anche su di me,
vorrei spiegarti.”
“No, non ce n’è bisogno. Io non so cosa c’è scritto, ma non lo voglio
nemmeno sapere.”
“Davide per me non è stato facile. Voglio dire, non è stato facile guarire da
te, Pierfrancesco mi ha aiutata.”
Sabrina parlava con un filo di voce, Davide la sentiva appena.
98
“Fammi sentire.” Disse come inseguendo un istinto. Le sfiorò il viso, la
piega degli occhi, il confine delle labbra, la rotondità del naso. “Sei sempre
bella.”
Lei sorrise.
“Ora lo sei di più.” Le soffiò contro con la voce, sentendo gli angoli della
bocca che le si dilatavano spontanei.
Parlarono, sciolsero ogni nodo di quell’intricato labirinto che era stata la
loro strada. Ma non ricordarono, quello faceva troppo male.
Dissero tante volte mi dispiace e poi finirono con il raccontarsi come due
vecchi amici, o come due vecchi amanti.
Capirono di essersi persi interi archi di vita l’uno dell’altra, e ciò che prima
era stata una condivisione quotidiana era divenuta pura estraneità.
Ma tutto quello che era successo forse era inevitabile, necessario
prolungamento di un combinarsi di fatti che conduceva ad una sola uscita.
Il difficile era stato accettarlo perché l’anima di solito si ribella e proprio
non ci sta alle condizioni sporche della vita. Bisogna addomesticarla
l’anima che urla, che scalpita e non si dà pace, e loro ci avevano provato.
E Davide aveva incontrato Anita, e nel conoscerla aveva pensato di avere
trovato la parte mancante di se stesso, e Sabrina si era lasciata avvolgere
dalle braccia grandi di Pierfrancesco, quasi fosse stato un balsamo
catartico per lenire il bruciore delle ferite.
E ognuno di loro aveva capito che tormentarsi non avrebbe restituito il
tempo, che struggersi nelle improbabilità dei sarebbe stato avrebbe lasciato
loro addosso la dolorosa incompiutezza di un cerchio che non si chiude, di
un libro che non ha la fine, e di una vita che non muore.
Sarebbero riaffiorati i momenti, questo sì. Alle volte bastava un profumo
che non sapevano nemmeno da dove arrivava e che non sapevano dove
sarebbe andato a finire ma che si espandeva tutto nella testa e concepiva
un dilatarsi di sensazioni che prendeva con forza la loro mente. E la
portava indietro e poi la trascinava in avanti, e poi la tratteneva ancora un
po’ indietro facendola danzare in un passato che ritornava, però solo a
metà.
(CI SONO DEI MOMENTI IN CUI LA VITA E’ COME UN GRANDE
DEJA VU. COSE CHE CAPITANO, BASTA NON PERDERCISI
DENTRO.)
99
Quando si salutarono si abbracciarono a lungo.
Dissero che si sarebbero rivisti ancora perché parlare insieme era stato
bello.
Salendo in macchina Sabrina guardò l’orologio, ormai il suo colloquio di
lavoro era saltato.
Rimase per qualche attimo disorientata e poi scoppiò a ridere. Non sapeva
perché, ma in realtà non le importava affatto.
100
Due valigie aperte, un’intera vita da infilarci dentro. Angoli da smussare,
cotone da piegare, oggetti da incastrare e fogli da rilegare.
Fiori di legno chiusi in una scatola, diari l’uno sull’altro come una torre
che sta per crollare, fotografie per tornare un po’, vecchi jeans che anche
loro hanno una storia, libri da leggere e studiare, alcuni anche da
dimenticare, il vestito nero che non era mai riuscita ad indossare, e poi
pensieri. Pensieri che cercavano una risposta, pensieri che facevano
diventare gli occhi lucidi, pensieri che si inorgoglivano e davano la forza.
Un’occhiata alla propria camera, era perfettamente in ordine, l’armadio
desolatamente vuoto, l’interno dei cassetti conteneva la geometria minima
e perfetta delle poche cose.
Avvertì l’inesorabile contrasto, la contraddizione di se stessa con il fuori.
Sentì per la prima volta il desiderio di fuggire, nella consapevole illusione
che un altro luogo l’avrebbe potuta aiutare ad allontanarsi dagli eventi che
l'avevano travolta.
Si stava costruendo la partenza con rapida meticolosità, un finale per
uscire al più presto di scena.
Indossò un cappellino verde che la nonna le aveva fatto all’uncinetto e si
sentì carina.
Contò sulle dita le cose da portare con sé e le persone da salutare. Aveva
fatto tutto.
Guardò il telefono, lo guardò a lungo. Si chiese che senso aveva fare tutto
ciò che aveva fatto, anticipare il volo, riempire di preparativi quelle due
giornate tanto da soffocare ogni perché, che senso aveva se quel
maledettissimo telefono lucido e immobile, la faceva sentire così male.
Moto di rabbia e di dolcezza inutile, tristezza desolata e perché doveva
finire così, frasi e facce balenate in testa in frazioni di secondo che durano
una vita.
1,2,3,4,5,6,7,8,9, numeri da combinare per sentire una voce, per accorciare
una lontananza con un metro di strega che non esiste.
E poi il crollo di un proposito – non l’avrebbe chiamato- come un muro
che si sgretola e si risucchia l’intonaco.
Alzò le spalle Anita, così diversa da tutti i giorni nel suo vestito di lino che
metteva allegria. Alzò le spalle e si affrettò ad uscire da quella stanza
spoglia, cercando di mantenere un assedio serrato a quei soldatini
vacillanti e ribelli che erano le sue emozioni.
Riabbracciò la nonna, le disse di non toccare niente di quello che c’era
nella casa dell’orto. Rabbrividiva al solo pensiero che qualcuno potesse
101
smontare quella confusione di oggetti sovrapposti e nascosti che
assomigliava da lontano alla costruzione geniale di un architetto
avanguardista.
Promise che sarebbe tornata presto, disse sorridendo a metà che non le
avrebbe dato nemmeno il tempo di sentire la nostalgia.
“Fai la brava.” Ammonì la nonna come si fa con una nipote ancora
piccola.
Anita avrebbe voluto dire ancora un’infinità di altre cose, ma la catena di
montaggio che combinava le lettere e costruiva le parole si era inceppata,
il meccanismo era saltato, lasciando a metà un processo che sarebbe
rimasto inesorabilmente interno.
Spinse con forza le due valigie dentro l’ascensore e ci entrò anche lei. La
porta si chiuse mentre stava ancora salutando, scese in strada ad aspettare
il taxi.
L’aria asciutta di un freddo mattina che entrava nelle ossa, le arrossì la
punta del naso. Il sole, timido faceva capolino da dietro le nuvole.
Si sentì ritemprata, come se qualcuno le avesse aspirato via tutta la
confusione che le inquinava la mente, anche se poi non era vero.
Guardò la strada, comune e anonima, grigio scura come tutte. Pensò che
non aveva davvero niente di bello quella strada, anche se lei si era sempre
impegnata a cercarlo.
Eppure quella mattina, quel piccolo scarto di paesaggio che non era
campagna e non era città, transitato da tutti e conosciuto da nessuno, le
trasmetteva qualcosa. Un qualcosa a metà fra il senso di appartenenza e
l’abitudine tranquilla, un qualcosa che annoia ma che alla fine non vuoi
lasciare.
Anita si ascoltava senza fretta in un dialogo muto che la riproduceva dal
vivo.
Ma d’improvviso fu interrotta travolta da un ragazzo che correva sul
marciapiede, quasi cadde e si graffiò un ginocchio strisciandolo
sull’asfalto.
“Almeno chiedi scusa!” Gridò infuriata.
Il ragazzo, allora, si fermò e tornò indietro. La aiutò ad alzarsi in piedi, e
mentre si tiravano su, si guardarono dritti, intensi, solo negli occhi.
“Anita.”
“Mirco.”
Ancora le loro mani si toccavano, se ne accorsero solo allora, e si
allontanarono facendo finta di niente.
102
“Mi dispiace, scusa, andavo di fretta e.” Pausa. Lo sguardo di Mirco si
perse in quelle due valigie grandi. Strinse e allargò gli occhi, come per
mettere a fuoco l’immagine e prenderne atto.
“Stai partendo.” Disse con una desolazione lieve che gli trasparì dalla
voce.”
“Sì, devo andare. Vado a Barcellona, da mia madre.” Disse cercando un
tono da sbrigativa giustificazione.
Poi distolse lo sguardo dallo sguardo fisso di Mirco.
“Ah, sta arrivando il taxi, ora devo andare.”
“Anita ti ho fatto male?”
“Come?” Chiese lei mentre stava sollevando una valigia.
“Ti ho fatto male? Ti sei graffiata un ginocchio.”
“No, no. Non preoccuparti.” Sforzandosi di raggiungere un sorriso e
raggiungendolo triste.
Il tassista le caricò i bagagli, lei aprì lo sportello.
“Ciao, Mirco.” Disse salendo a bordo.
Il taxi si mise in moto, Anita avrebbe voluto piangere di getto ma poi si
aggrappò alla forza che le era rimasta dentro, si schiarì la voce,
all’aeroporto per favore.
Mirco dalla soglia del marciapiede la seguì mentre si allontanava. Poi si
rimise a correre, dall’altra parte però.
103
A metà strada un autobus passò accanto a Mirco. Lui lo vide con la coda
dell’occhio e accelerò i movimenti delle gambe più che poteva, agitò in
aria un braccio gridando aspetta, ma quando arrivò alla fermata – giusto lo
scarto di venti o trenta secondi- l’autobus era già partito e aveva lasciato di
sé soltanto una nuvoletta di fumo nero che già si stava sciogliendo
nell’aria.
Merda, pensò Mirco.
Riprese fiato, appoggiato con le mani sulle ginocchia, busto lievemente
inclinato. Due o tre respiri forti, l’aria penetrò nelle sue narici infreddolite.
Partì di nuovo, di scatto. I suoi piedi, rinchiusi nelle scarpette da
ginnastica, scalpitavano sul marciapiede a ritmi rapidi e confusi.
Si fermò solo quando fu arrivato e la milza accusava fastidiosi dolori, e le
gambe tremavano per lo sforzo, e la fronte grondava di goccioline di
sudore freddo.
Pensò che forse era giunta l’ora di ricominciare ad allenarsi a calcetto, ma
fu solo una frazione di pensiero e se ne andò via non lasciando indietro
niente.
Si appoggiò al muro, premette il campanello lasciandosi sfuggire tutto il
peso del corpo sul dito indice. Suono prolungato.
Minuti di attesa, nessuna risposta.
Dai rispondi, lo so che ci sei, dai, dai.
Minuti ancora. Premette di nuovo, trillo intermittente e ripetitivo.
E dai, vieni a rispondere, ma dove ti sei cacciato? Ma in questa casa non
c’è proprio nessuno…
“Chi è?” Voce strisciante e assonnata.
“Mirco. Apri.”
“Passa più tardi, sto dormendo.”
“E dai, non fare lo stronzo, aprimi che devo dirti cose importanti.”
“Dell’articolo dell’altro giorno lo so già. Non ti preoccupare, sto bene.”
“Davide, ma allora non capisci proprio un cazzo, Anita è all’aeroporto,
STA PARTENDO, lo sapevi questo?”
I passanti delle otto e trenta, guardavano Mirco urlare contro quel muro
citofonato, seguivano con sguardo fugace i suoi movimenti di scattante
nervosismo.
“Che dici?”
Il portone si aprì.
Mirco salì in fretta le scale.
104
Davide era rimasto immobile, un input pungente gli aveva svegliato il
cervello.
Non aveva mai pensato a questa possibilità, ne aveva vagliate altre mille,
ma non questa.
Si rese conto di essere rimasto ancora una volta, intrappolato in
quell’orgoglio testardo ed alienante che molte volte l’aveva tratto fuori, ma
anche questa volta non se ne pentì.
Pensò piuttosto al sorriso crudele e beffardo di quella sicurezza schietta e
pulita che da sempre l’aveva reso vincente, e che questa volta invece
l’aveva fregato.
“Non lo sapevi, allora.” Disse Mirco con la voce che non gli si stendeva a
causa del respiro affannoso.
“No.” Rispose gelidamente Davide, sempre senza muoversi.
“Che vuoi fare?”
Davide sentì un moto di rabbia salirgli da dentro, lo sentì forte che
premeva perché i sui piedi non si staccassero dal pavimento in cotto di
casa sua.
Sentì la ragione che gli ordinava di non muoversi, si sentì ancora
prigioniero dell’orgoglio che diveniva sempre più caldo, quanto più il
vuoto di dolore cresceva.
“Che cazzo.” Si mise una mano nei capelli.
La vide riflessa nel lago della sua immaginazione, gli parve di sentire ad
intermittenza veloce il suo odore e il velluto della sua pelle. La bocca.
Pensò a quell’esserino fragile e leggero, si chiese dove l’aveva trovata tutta
quella forza. Neanche un saluto, una spiegazione disperata sì però, e
invece lui.
“Mirco in garage c’è la mia macchina. Le chiavi sono dentro, io scendo fra
un attimo.”
“Va bene. Speriamo di farcela.”
La chiave girava fra le dita di Mirco, il fuoristrada emetteva colpi di
tosse fioca dal motore, insufficienti a farlo partire.
Mirco si sentiva agitato e pensò in che razza di casino si era infilato, anche
Davide era agitato e tolse di mano le chiavi a Mirco e disse di lasciarlo
provare a metterla in moto.
“No, no, adesso parte, è solamente un po’ fredda.” Si riprese la chiave e la
rinfilò nel cruscotto, il quadrante si illuminò, ancora quei sottili colpi di
tosse, il piede destro pigiò forte il gas, l’auto fece un improvviso sobbalzo
in avanti ma restò accesa.
105
“Bene, andiamo.”
Nelle grandi ruote scatti ammortizzati e violenti, accelerazioni per vincere
la partita contro il tempo e decelerazioni lente, frenate brusche e
necessarie.
Partenze sincronizzate con il verde dei semafori, clacson che urlavano e si
soffocavano l’uno con l’altro, sorpassi azzardati e premeditati da rapide
intuizioni.
Solo qualche parola, come di sfuggita, come per non rompere una
concentrazione irrinunciabile.
Andavano veloce, lottavano per farlo anche con la forza del pensiero.
Tensione concentrata nella guida e tensione che percorreva il corpo di
Davide, come fili di corrente elettrica che scorrono dentro i muscoli e
fanno vibrare ogni singolo arto.
Sotto il cielo che si apriva risucchiandosi il freddo delle ore preste, una
città che si dispiegava sciogliendo le sue strade, e dentro la città un auto
fra tante auto, seguiva il suo percorso a tratti spasmodici spinta con
irruenza da un carburante di passione.
“A che ora parte l’aereo?”
“Non lo so.” Curva a sinistra. “Merda.”
“Che c’è?”
“Un incolonnamento, lavori in corso.”
“Cerca di passare lo stesso. Trova uno svicolo.”
“Non c’è, Davide. Neanche lo spazio per un motorino.”
“Merda.”
Trascorsero più di venti minuti di trepidazione silenziosa e angosciante,
percorsa in prima e a tratti.
Alternanza di accettazione e panico, desiderio folle di ultimo abbraccio.
Non si dissero più niente, in un dialogo fatto di pensieri a labbra serrate.
Sentivano che il tempo era loro scivolato sulle spalle noncurante e
beffardo, e così tenevano il fiato sospeso, la mente compressa, come se
quel blocco interiore che li attanagliava fosse l’unico rimedio per
immobilizzare quel fluire incalzante di minuti.
Arrivarono, scesero in fretta.
Mirco prese Davide per un braccio, Davide gli disse guidami e corriamo.
Mirco preannunciava con rapida precisione gli ostacoli da aggirare, Davide
era agile nei suoi movimenti coordinati, riuscì con destrezza a farsi largo
fra le persone.
106
“Mi scusi, l’aereo per Barcellona.” Disse Mirco fermando una signorina
che stava uscendo dallo sportello Informazioni.
“È partito dieci minuti fa. Il prossimo c’è comunque nel tardo
pomeriggio.”
“Ah.”
La signorina se ne andò.
“Mi dispiace.” Disse Mirco.
“Non preoccuparti, tu hai fatto anche troppo.” Davide gli appoggiò
amichevolmente la mano sulla spalla.
I loro meccanismi interni contratti, si allentarono, sciolti dalla dolorosa
irrimediabilità di una situazione che non si può cambiare.
Si misero a sedere su una panchina, un po’ arresi e un po’ stanchi.
Mirco disse a Davide come aveva fatto a sapere che Anita sarebbe partita,
Davide gli raccontò come e perché non lo aveva saputo.
“Ho immaginato che c’era qualcosa. Anita è stata sfuggente, diversa.
Si vedeva che era senza di te.”
Davide non cambiò l’espressione seria del volto. Sospirò appena.
“Ti va se vado a prendere qualcosa da mangiare? Io non ho fatto
colazione.”
“Sì grazie, Mirco.”
Tornò poco dopo e agitandosi tutto con entusiasmo disse che i bomboloni
erano caldi.
Ne morse un pezzo e si mise a sedere. Con la bocca piena chiese a Davide
“Secondo te doveva finire così?”
Davide deglutì il suo boccone, pensò a tutta la sua teoria delle cose che
accadono perché devono accadere, al filo invisibile che le lega e dà loro
una razionalità incomprensibile, stronzate. E poi rispose con voce lenta e
calda “Secondo me neanche doveva finire.”
107
Passarono giorni. Mesi, anche.
Di silenzi che parlavano e poi tacevano, di vite che si toccavano soltanto
con il pensiero.
Davide, catturato come in un vortice dalle parole che tramutava in Braille,
aveva la mente in fibrillazione, come una pentola di acqua che bolle e
bolle senza evaporare mai.
Se ne stava seduto di fronte alla sua scrivania inguaiata, a volte seduto a
terra sotto la cornice della finestra aperta a sentire il vento e gli odori di
tempo che si rinnova, a volte con le spalle appoggiate al letto.
Accendeva spesso bastoncini di incenso al muschio e la stanza se ne
inzuppava dolcemente. Il profumo tiepido e aromatico accompagnava le
parti d’amore, le trascinava facendole ondeggiare tra la collera e la
passione, tra le sorprese e le normalità necessarie che nascono dentro ogni
storia.
E poi spegneva il bastoncino soffocandolo nel portaincenso e l’aria piano,
piano si diradava, la realtà lo riportava bruscamente sulla battigia.
Iniziavano descrizioni che conducevano senza fermate e come
simultaneamente in luoghi non luoghi, appesi alla fantasia di Davide da
chissà quanto tempo e sempre rimasti lì, nel limbo nascosto della sua
mente.
I personaggi, le loro manie, il loro essere ancora incerto che prendeva
forma sulla carta, bussavano alla sua porta anche di notte, lo svegliavano,
gli rubavano il sonno.
Visse senza distinguere le fasi che dividono le giornate, lasciando al riposo
qualche ora concentrata e sparsa quando non riusciva più a dare l’avvio a
quel processo automatico che converte le energie in idee.
Non rispondeva al telefono, tagliò i ponti con il mondo. Sua madre
raccoglieva i messaggi che le lasciavano, li appuntava su un quaderno che
non si sa mai, ma non glieli riferiva. Lui non voleva.
Solamente una volta accadde che lei entrò in camera senza bussare e
travolta dall’entusiasmo disse che aveva chiamato la Direttrice
dell’Istituto, e aveva chiamato tante volte in quei giorni, ripetutamente, e
che alla fine si era arresa e si era accontentata di parlare con lei. Aveva
detto che quell’articoletto su Cose dal mondo era bastato per fare confluire
all’Istituto molti e cospicui aiuti in denaro, che molte persone, avutone
conoscenza, l’avevano contattata. Che già avevano ordinato nuovi
strumenti, anche computer, i più nuovi, e stavano pensando di costruire un
108
angolo giochi per i bambini, tutto pieno di quei giochi che sviluppano la
creatività ed insegnano a divertirsi insieme.
Davide sentì le parole emozionate della madre, rigettate perché non
contenibili.
“Ti avevo detto che non volevo sapere niente.” Disse.
“Scusa.” Disse lei senza perdere il buon umore. “Me ne vado subito.”
Fece piccoli passi in pantofole verso la porta.
“Davide.”
“Sì?”
“Ha detto che non sa come ringraziarti.”
E la porta si chiuse senza fare troppo rumore.
Davide ammiccò un sorriso, e lo prese da dentro una gioia insperata, un
senso disteso di benessere e fiducia. E ricominciò a scrivere.
Quella fu l’unica informazione che ricevette dall’esterno, in quei mesi.
Anche suo padre pur vivendo con lui, lo vedeva solamente di sfuggita,
spesso brontolava che era pazzo, gli urlava di uscirsene fuori da quella
tana che si era costruito e in cui si era rinchiuso.
Davide non gli rispondeva nemmeno, come se quelle parole non lo
riguardassero, come se avesse scoperto e si fosse perduto in un mondo
dentro se stesso, impermeabile agli urti che provenivano da fuori,
ipersensibile ad ogni oscillazione che gli si muoveva dentro, ad ogni
vibrazione che gli suonava dentro.
Gli amici capivano i suoi vuoti, lo riconoscevano in quei silenzi che
parlavano di lui più di ogni infinito discorso, sapevano che quel tenersi in
sospeso, quel nascondersi senza volerlo fare, era come la tappa necessaria
di un’evoluzione. L’inevitabile fermata che antecedeva ad un preludio.
A settembre fu pubblicato il suo primo libro in Braille. I segni in
altorilievo furono tradotti anche nei caratteri ordinari e riportati su carta
stampata.
Migliaia di copie vendute in pochi giorni, i massmedia che ne parlavano
come di un evento straordinario, presentazioni e conferenze in tutti i circoli
letterari più importanti, giornalisti e fotografi che si azzuffavano per
un’intervista.
Davide rimase volutamente ai confini del suo successo, schivò le ondate
violente che sembravano volerlo travolgere, percepiva gli accadimenti che
lo riguardavano con divertito distacco.
In realtà non si spiegava il perché di tanto clamore, e tanto più continuava
a non spiegarselo quanto più pensava a come era nato il suo libro. Alle
109
pagine che avevano preso vita dai dispiegamenti irrequieti della sua anima,
dal continuo saliscendi di passioni che lo tormentavano, da quel
risvegliarsi e assopirsi di vitalità e nostalgie.
Troppo personale, aveva pensato.
Ma quello che di personale c’era, si mescolò all’intreccio della storia che
si sviluppava in un crescendo di forza propria, lasciando rivoli di libertà
all’immaginazione del lettore.
È vero non tutti lo capirono, c’è chi lo mise da parte prima della fine, c’è
chi lo lesse e non trattenne niente, ma chi si riconobbe in quelle parole
amò quella storia come se fosse la propria storia, dagli albori fino al
tramonto.
Anita riprese in mano la sua vita con forza, le dette nuove direzioni.
Imparò in fretta la cantilena dolce che la lingua spagnola intonava, imparò
a vivere le giornate scandite da orari diversi, camminò per le strade del
centro e respirò aria nuova.
Si innamorò di Gaudì, le sue costruzioni le davano una sensazione strana e
prepotente, come un cocktail di inquietudine e grandezza, meraviglia e
mistero.
Passò l’estate insieme alla nonna e a Bonni che andarono a trovarla. La
casa di sua madre e Josè era sempre piena di gente, l’ambiente era festoso,
difficile non divertirsi.
La notte Anita, andava a letto stanca e si addormentava quasi subito, non
voleva lasciarsi il tempo di chiedersi in quale mediocre superficialità stava
vivendo, se veramente era questa la vita che voleva, se era riuscita a
recuperare fino in fondo il rapporto con sua madre, oppure se
semplicemente ritrovava se stessa solo quando era sola, e quando parlava
per ore con la nonna, e quando portava Bonni a divertirsi. In quei momenti
si sentiva malinconica, di quella malinconia leggera e bella e vera, che non
portava alla tristezza ma che regalava il senso pieno di ogni cosa e di sé.
Una mattina di metà settembre, arrivò a casa un pacco proveniente
dall’Italia.
Anita lo trovò in sala da pranzo, appoggiato sul tavolo, coperto di un
involucro a strati di carta riciclata.
Gli dette appena un’occhiata, noncurante e distratta delle molte cose che
c’erano in quella casa.
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Non vide che era per lei.
Se ne accorse soltanto verso sera, quando rientrò e vide che il pacco era
ancora sul tavolo.
Lo prese in mano, non era molto pesante.
“Non è niente di importante.” Mormorò da sola, ma il cuore le si
immergeva in lente apnee e le risorgeva a sbalzi rapidi e incessanti.
Le sue mani strapparono il filo che legava, lo scotch che chiudeva, la carta
che avvolgeva.
Un libro. Nella copertina c’era scritto a lettere grandi Il viaggio, di Davide
Stein.
Prese una breve pausa con la vita, dimenticò per un attimo di respirare.
Si sentì tremare. Le gambe, le braccia, e i palmi delle mani le tremavano,
le tremava anche il cuore e il cervello, e tremava tutta, ricoperta di brividi
in tutto il corpo e in tutta l’anima.
Aveva gli occhi sbarrati, rossi e lucidi che non piangevano.
La bocca semiaperta, la pelle del viso pallida e sudata.
Aprì il libro.
All’inizio due pagine vuote e poi una terza, bianca anche essa, ma non del
tutto.
Inchiostro di penna blu, debole sulla carta, di parole che si rincorrevano
senza essere allineate.
Spero che ti piaccia.
Che in ogni vocale e in ogni sillaba, in ogni punto e in ogni virgola, in
tutte le parole che costruiscono questo mio viaggio, in ogni mio dove ci sei
tu.
Anita richiuse la copertina d’istinto, si portò quel libro sul petto, cominciò
a singhiozzare.
Immobile, piangeva forte, senza ritegno e senza voglia di trattenersi, e
sentì che tutto quello che aveva tenuto compresso, si dilatava senza confini
precisati, liscio e fluido come una macchia d’olio.
Era in piedi Anita, che ansimava senza vergogna, facendo rumore.
A passi incerti andò verso camera sua, senza smettere di piangere.
Poi lì, chiuse a chiave la porta, si mise a sedere, decise di calmarsi.
Doveva farlo per potere leggere.
Aprì il libro, ne annusò le pagine per sentire se sapeva di lui, le entrò
dentro le narici l’odore rassicurante della carta nuova. Cominciò a
leggerlo.
Per tutta la notte gli occhi non la portarono altrove.
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Vi ritrovò tutto ciò che erano stati loro due insieme, tutto ciò che non si
erano mai detti, tutto ciò che non avevano mai saputo con certezza l’uno
dell’altra.
Vi ritrovò il buio di Davide e la sua invalicabile solitudine, capì solo allora
come era stato semplice e insieme complicato riuscire a raggiungerlo,
scavargli così in profondità, fermarlo in quel suo continuo muoversi verso
qualcosa che lo attraeva con forza nascosta e brutale, e a cui lei non era
mai riuscita a dare un nome, e forse neanche lui.
Ebbe l’impressione quasi tattile di percepire se stessa dentro a quella
storia, fra i suoi tracolli improvvisi e gli improvvisi voli.
Si accorse che nessuno prima di allora, era mai riuscito a decifrarla così
bene. Sembrava che lui le avesse camminato dentro.
Alle cinque del mattino, con il cuore che le esplodeva, Anita telefonò a
Davide.
“Stavi dormendo?” Chiese lei con un filo di voce.
“No, ti aspettavo.”
Si videro il giorno dopo, alla casa dell’orto.
Passarono tutto il pomeriggio insieme, e anche la notte.
E poi all’alba, Anita riprese l’aereo e volò attraverso e sopra le nuvole.
Il suo sguardo si perdeva nell’azzurro freddo dentro al quale navigava.
E tenendo stretto in mano il libro che Davide le aveva regalato, pensò a
come era bello partire per non fuggire, partire per poi ritornare.
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