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Una serie di nuove iniziative partite dagli Stati Uniti sembrano confermare una tesi apocalittica
Ma il giornalismo è morto davvero?
Anche le start up che avrebbero dovuto costituire una nuova opportunità stanno facendo fatica
di Sebastiano Zeri
Le startup sono una delle ragioni del successo che
internet ha avuto negli ultimi venti anni. Piccole
società diventate colossi,
come Google, Facebook o
Twitter, sono alla base della profonda trasformazione che il web ha portato in
quasi ogni attività umana,
nelle foto, da sinistra a destra, nate
silver, glenn greenwald e ezra klein
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con un meccanismo di rottura degli schemi che gli
americani chiamano “disruption”. Ma c’è un ambito che per il momento sembra offrire alle startup solo
fallimenti: il giornalismo.
Tre nuove iniziative partite dagli Usa sembrano confermare la tesi. Sono giorni complicati, infatti, per
tre personaggi impegnati
in attività sulla rete, Nate
Silver, Glenn Greenwald e
Ezra Klein, e per le imprese
in cui si sono lanciati negli
ultimi tempi. Silver è il giovane prodigio dei numeri e delle statistiche che nel
2012 aveva stupito tutti,
dal suo blog sul quotidiano The New York Times,
azzeccando ogni previsione sull’esito delle elezioni
presidenziali che hanno visto la riconferma di Barack
Obama alla Casa Bianca. Dopo il trionfo, Silver
ha rotto con il quotidiano
di New York, accusandolo di essere troppo radicato nelle pratiche del “vecchio” giornalismo e di non
capire la portata dell’innovazione introdotta dall’uso
massiccio dei dati per fare
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informazione. Grandi attese hanno accompagnato la sua nuova impresa, il
sito FiveThirtyEight.com
(538, il numero dei “voti
elettorali” in ballo nella corsa alla Casa Bianca),
interamente dedicato a informare attraverso l’analisi
di dati e statistiche. Ma un
altro quotidiano, UsaToday, ha rivelato che i vertici
di Espn - il network sportivo che ha sostenuto la nascita della creatura di Silver - considerano ormai
l’avventura “un disastro”
per mancanza di traffico,
pubblicità e interesse dei
lettori. Le prime teste stanno cadendo e il sito potrebbe avere poco futuro. Fatica, invece, a decollare The
Intercept, l’iniziativa editoriale che Greenwald ha
deciso di lanciare dopo
aver lasciato il quotidiano britannico The Guardian sulla scia della fama
conquistata grazie alle rivelazioni dell’ex agente della
Nsa, Edward Snowden, di
cui il giornalista e blogger
è stato l’interfaccia mediatica. Greenwald ha ricevuto l’appoggio e il finanziamento del miliardiario
Pierre Omidyar, il fonda-
tore di eBay, che intorno a
lui ha costruito una vasta
startup giornalistica, First
Look Media, con l’obiettivo dichiarato di portare
una profonda “disruption”
nel mondo dell’informazione. Dopo dieci mesi di
progetti e annunci, però,
Omidyar adesso sta rallentando e ridimensionando
le aspettative su cosa sarà
First Look Media, mentre Greenwald stenta a trovare un proprio percorso che lo traghetti oltre il
grande scoop su Snowden.
Non decolla neppure Vox.
com, la testata creata da
Klein, ex stella nascente
Washington Post, che aveva lasciato il quotidiano
della capitale promettendo
di rivoluzionare il modo in
cui viene narrata la politica. Anche in questo caso,
non ci sono tracce di “disruption” in corso. A Washington, in piena febbre
elettorale per le imminenti
elezioni di Midterm, la politica e il giornalismo politico non sembrano molto diversi da quelli di venti
o trent’anni fa. Quando si
tratta di media, insomma,
le startup faticano a diventare grandi. Le eccezioni
in questo senso sono rare.
Ha funzionato The Politico,
ormai diventato una solida
organizzazione giornalistica che si appresta anche a
sbarcare in Europa alleandosi con gli “old media” del
gruppo tedesco Axel Springer. Funziona Buzzfeed,
che però si vanta di essere
in primo luogo una società
tecnologica avanzata che si
occupa di giornalismo e sta
effettivamente provocando
una qualche “disruption”
nelle altre redazioni. E poi
funzionano realtà come la
francese Mediapart: giornalismo “vecchia scuola”,
caccia alle notizie, niente
pubblicità e contenuti tutti
a pagamento sul web. Una
ricetta che assomiglia più
al Financial Times o alle
testate del gruppo News
Corp. di Rupert Murdoch
(dal Times al Sun, tutti
protetti da rigidi paywall)
che non all’idea di una web
company basata su traffico e social media. Anche in
Italia, le startup giornaANNO V | #110| VENERDI’ 3 OTTOBRE 2014
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listiche come Linkiesta, Il Post o
Lettera 43 stanno avendo buoni risultati, ma difficilmente
si possono considerare dei disruptors che dettano l’agenda
del Paese e cambiano l’ecosistema dell’informazione. Una realtà giovane e innovativa come
Good Morning Italia, una startup in crescita, basa il proprio
successo sull’essere un luogo di
analisi e sintesi di contenuti realizzati dagli “old media”. Nello stesso tempo, i colossi della
rete vanno ora a caccia di contenuti e finiscono per lanciarsi in
campagne-acquisti di giornalisti della vecchia scuola da portare nella Silicon Valley, come
nel caso di Yahoo! che ha assunto Katie Couric dalla Cbs e David Pogue dal New York Times.
Non stupisce, in questo scenario, che i protagonisti della politica e dell’economia vadano in
pellegrinaggio proprio nella Silicon Valley a visitare le società più innovative; ma poi, quando si tratta di media, finiscano
per recarsi sempre nelle redazioni del New York Times, del
Wall Street Journal, di Bloomberg o del settimanale The Economist, percependoli ancora
come i luoghi davvero capaci di
influenzare l’agenda e il dibattito internazionale, incluso quello che avviene sulla rete e sui social media. Un effetto positivo,
però, le startup del giornalismo
sembra lo stiano ottenendo, anche quando non riescono a decollare definitivamente: sono,
in effetti, diventate laboratori
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idee e stimoli che molto spessoxxxxxxx
vengono raccolti e sviluppa-
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il giornalismo è l’ambito in cui al momento pressochè ogni nuova iniziativa sembra destinata a fallire
ti nelle redazioni “tradizionali”,
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capaci,
dunque, di portare una
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potente
ventata di innovazione
in un settore che non è riuscitoxxxx
a cambiare molto dai tempi
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