“Persona e psicosi”, 1972
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“Persona e psicosi”, 1972
Breve panoramica del pensiero di Salomon Resnik sulla fenomenologia e la clinica delle psicosi, espresso nel volume “Persona e psicosi”, 1972 a cura di S. Romanelli “Persona e psicosi” è un’opera interamente centrata sul tentativo complesso di comprendere clinicamente e fenomenologicamente l’esperienza della psicosi. Le coordinate principali entro le quali Resnik organizza il suo pensiero sul mondo schizofrenico sono lo spazio, il linguaggio e il corpo vissuto. In particolare, il “senso delle espressioni corporee come un protolinguaggio dove il corpo sarebbe il vettore del pensiero”. Spazio vissuto, comunicazione e vissuto corporeo sono anche le coordinate entro le quali ciascuno di noi organizza la percezione di sé come “persona”. Di qui, la centralità in quest’opera di Resnik del concetto di “personalizzazione”, mutuato da Winnicott.1 1. Personalizzazione e dis-personalizzazione Personalizzazione: la percezione soggettiva di sé come entità oggettiva, il sentirsi una totalità integrata. O, per citare l’opera di Gaetano Benedetti, avere un Simbolo del Sé coerente e stabile, capace di mantenere una sufficiente coerenza tra i vari personaggi interni che recitano sul teatro della mente, e, come la membrana della cellula, consentire gli scambi con il mondo esterno preservando l’omeostasi nucleare interna. È, seguendo il pensiero di James riportato da Resnik stesso, l’essere-soggetto che si vede in quanto essere-oggetto. Il termine persona, non a caso, viene dal greco e significa “maschera” (di teatro): il processo di personalizzazione è dunque ciò che consente ai personaggi del mondo interno di prendere forma mantenendo una coerenza che li rende sempre un’unica persona, come un solo attore è in grado di interpretare molteplici personaggi, indossando una varietà di maschere. Questo rende il concetto di personalizzazione strettamente legato al vissuto del corpo. “Il processo di personalizzazione si struttura attraverso l’esperienza del proprio corpo"2, scrive Resnik. È il corpo infatti che, citando questa volta Merleau-Ponty, consente di essere guardati ma anche di guardarsi, rendersi visibili agli altri e a se stessi. 1 Secondo Winnicott nei primi anni di vita si compie ciò che lui definisce processo di Personalizzazione, che si struttura in 3 fasi: Integrazione (dell’Io), Personalizzazione (caratterizzata in particolare dalla consapevolezza di vivere il proprio corpo) e Realizzazione (cioè l’acquisizione del senso della realtà in termini di spazio-tempo) 2 S. Resnik, “Persona e psicosi. Il linguaggio del corpo”, Einaudi, pag. 33 Rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni – numero 10 – copyright©2005 Il processo di personalizzazione secondo Resnik è esattamente ciò che nella psicosi naufraga. Il nucleo fenomenologico dell’esperienza psicotica è la perdita di quella coerenza interna, di quel dialogo coerente tra i vari personaggi, tra le diverse parti del Sé, che invece si disgregano, frantumandosi e sparpagliandosi nel mondo. Se il corpo è, come abbiamo detto, ciò che teneva insieme, come in un involucro, questo Sé variegato e integrato, il corpo è esso stesso soggetto ad un analogo processo di disgregazione. Nel primo capitolo, Resnik scrive: “l’immagine del corpo, nella crisi psicotica, si disintegra, si frantuma. (…) l’essere perde il suo carattere di individuo e al tempo stesso di persona”.3 L’essere persona, percepirsi dall’esterno come persona, implica l’accettazione dell’esistenza dell’altro come qualcosa di separato, di altro-da-sé. Di fondamentale importanza è, per questo, la modalità con la quale madre e bambino vivranno e supereranno la fase simbiotica, e la qualità delle risposte materne in questa fase. Una madre “sufficientemente buona” deve cioè essere capace di far evolvere il rapporto con il suo bambino da un piano fusionale a un piano simbolico, nel quale è tollerata e resa possibile la separazione. Deve dunque rendere possibile la dis-illusione del proprio bambino, “in modo che (…) possa sviluppare la propria percezione della realtà e strutturare il proprio apparato psichico”.4 Di estrema importanza in questa fase sono ovviamente gli oggetti transizionali e l’area transizionale nella quale si struttura il passaggio dal pollice (auto-erotismo) all’orsacchiotto (allo-erotismo), che attraverso l’uso di oggetti-mediatori porta il bambino alla scoperta dell’alterità. Nel mondo psicotico invece non è in alcun modo possibile tollerare la distanza. Lo psicotico non sta-con l’oggetto, ma cerca di vivere dentro l’oggetto, di intruderlo, di fondersi con esso, proiettandosi in esso tramite identificazione proiettiva patologica. Gli aspetti sopra descritti prendono forma in modo evidente nelle parole di una paziente, riportate da Resnik in “Persona e psicosi”: “Io non sono una persona. Una persona è qualcosa che è da qualche parte, che la gente può vedere, dalla quale si può essere visti e che ha un corpo. E avere un corpo vuol dire guardarsi e vedersi. Vuol dire essere in piedi e sapere che si è in piedi; vuol dire parlare e essere se stessi per intero. Solo quelli che non sono persone dicono qualcosa tra sé e sé, ma rimangono all’esterno silenziosi o dicono qualcosa di differente”.5 3 S. Resnik, op. cit., pag. 29 S. Resnik, op. cit. pag. 36 5 S. Resnik, op. cit. pag. 36 4 Rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni – numero 10 – copyright©2005 I vissuti frammentari del sé e del corpo inoltre si evidenziano da un lato quando la paziente parla in terapia dei suoi vestiti come di un’armatura rigida, che la costringe, ma senza la quale, senza questo contenitore solido che sopperisce a un vissuto corporeo fragile e affatto contenitivo, si sente dispersa e frammentata come tante gocce d’acqua, suoi minuscoli frammenti che si disperdono nel mondo e si trasformano in oggetti bizzarri. Il mancato compimento del processo di separazione e la conseguente impossibilità di percepirsi come separati dall’altro, dalla madre e dunque dall’analista, prendono corpo nella tragicità del vissuto del tempo che la separa dalla seduta successiva, tempo che la paziente trascorre interamente a letto, in una sorta di “stato prolungato di indifferenziazione dalla madre”.6 In questo interessante caso clinico Resnik pone l’accento anche sul fenomeno psicotico della “allucinazione autoscopica interna”, il desiderio cioè di guardare all’interno del proprio corpo. Descritto da Sollier come sintomo di ipocondria delirante, è interpretato da Resnik come tentativo di localizzazione e di controllo dei persecutori interni in una parte del proprio corpo (un neo, per la paziente in questione), e di negazione degli stessi attraverso la distorsione megalomane di quello stesso corpo che li contiene (la paziente infatti dopo l’estirpazione del neo si sentiva enorme, come un ippopotamo). Nell’esperienza della depersonalizzazione è quindi profondamente alterato anche la percezione dei confini, mentali e corporei, e il rapporto dell’Io con i propri limiti7. Il discorso sull’Io è ulteriormente approfondito da Resnik seguendo i contributi di M. Klein, che in “Note su alcuni meccanismi schizoidi” spiega come la strutturazione dell’Io si organizzi intorno al primo oggetto buono interiorizzato. La sua integrazione dipende dalle qualità di questo oggetto e dalla capacità dell’Io di superare le angosce persecutorie. Una proiezione eccessiva infatti, come mezzo per liberarsi dei persecutori interni, svuota l’Io e ne impedisce lo sviluppo e l’integrazione. È sempre in primo piano quindi l’importanza dei primi legami oggettuali e dunque della relazione madre-bambino, cioè di quello scambio di proiezioni e reintroiezioni tra contenitore e contenuto, descritto mirabilmente da Bion, e dell’importanza della capacità della madre di tollerare e contenere le angosce persecutorie del bambino in modo da poterle restituire in una forma “pensabile”. 6 7 S. Resnik, op. cit. pag. 40 Cito qui il concetto di Federn di “limiti dell’Io”, intesi come espressione della sua integrazione. Federn Paul, Ego psychological aspects of Schizophrenia, London, Imago Pub. Co., 1959 Rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni – numero 10 – copyright©2005 2. Derive del corpo: sindrome di Cotard, dis-personalizzazione e negativismo catatonico Un ulteriore e molto interessante contributo di Resnik è il suo mettere in relazione il processo di depersonalizzazione nella psicosi con quel particolare quadro clinico presentato da Cotard nel 1880 alla Societè Medico Psychologique e noto come “Sindrome di Cotard”, caratterizzato da 6 sintomi: ansietà melanconica, demonopatia, tendenza al suicidio e alle automutilazioni, analgesia, idee ipocondriache di distruzione o di non esistenza di organi, idee di immortalità e di enormità. Il nucleo centrale di questo quadro clinico è secondo Resnik costituito dalle idee di negazione, le quali, come ha osservato Sèglas, possono riguardare la realtà fisica, la realtà psichica o il mondo esterno. L’unione delle tre negazioni costituisce quella che Sèglas chiama “negazione universale”. Secondo Freud, la negazione sarebbe il frutto del processo di espulsione di ciò che viene percepito come “cattivo”. Il bambino cioè incorpora ciò che sente come buono e nega espellendolo ciò che invece vive come cattivo. Secondo M. Klein invece la negazione rappresenta una difesa dalla posizione schizoparanoide. In questa fase cioè l’oggetto cattivo non è solo scisso ma anche negato. Più precisamente, ad essere negata è la relazione con l’oggetto cattivo e la parte dell’Io legata all’oggetto, mentre gli oggetti buoni vengono idealizzati. Riprendendo il caso precedente, Resnik illustra chiaramente come il meccanismo di negazione sia sotteso a molti aspetti clinici: come difesa maniacale e ossessiva per negare il senso di colpa; come tentativo paranoico di espellere il persecutore interno come parti folli di sé, proiettate negli altri; come negazione del mondo esterno, sempre più minaccioso perché sede di espulsione degli oggetti cattivi; come negazione del tempo per rifugiarsi nel proprio tempo onirico, illimitato; come negazione del corpo, per negare il persecutore interno e il luogo che lo contiene; come delirio di enormità legato alla perdita di controllo dei limiti corporei; come idee di immortalità per negare l’angoscia di morte. Tali “derive del corpo” sono secondo Resnik riferibili all’inabitabilità di questo corpo in quanto contenitore della catastrofe del mondo interno, i cui frantumi sono sparsi nel mondo esterno, al di là dello spazio corporeo. Negare il corpo significa dunque negare questo caos interiore, e il compito dell’analista è di ricercare i frantumi e riordinarli, “per aiutare il paziente a ritrovare il suo ordine, il suo mondo, il suo vissuto personale, il suo senso d’esistenza”8. Per farlo occorre saper tollerare questo caos e, per un certo tempo, farsene 8 S. Resnik, op. cit. pag. 82 Rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni – numero 10 – copyright©2005 contenitori, ricevendo con empatia e rielaborando nel controtransfert le proiezioni del paziente. Altro particolare quadro clinico di tipo psicotico centrato sul vissuto del corpo, oggetto di studio da parte di Resnik, è la catatonia. Descritta da Kahlbaum in un Congresso nel 1868, la catatonia si manifesta in quattro sintomi essenziali: catalessia, negativismo, ipercinesi e turbe organo-vegetative. Dunque, uno stato di immobilità fisica e mentale. I pensieri sono “pietrificati” e il corpo è vissuto come fosse una marionetta. La proiezione di questo vissuto all’esterno spiega la percezione che lo schizofrenico ha spesso del mondo, come cioè se fosse “abitato da robot di legno vaganti”9. A questi aspetti si sommano in alcuni casi anche ipertonia, come somatizzazione di una lotta tra le diverse parti del sé o tra il mondo interno e il mondo esterno, e negativismo, come espressione di una forte resistenza alle sollecitazioni di entrambi questi mondi, con rifiuto degli alimenti, ritenzione di urine e feci, inerzia motoria ma anche, nella dimensione più specifica identificata da Bleuler e denominata “negativismo interiore”, opposizione dell’Io ai sentimenti, che si manifesta clinicamente nelle contraddizioni tra ciò che il paziente agisce e ciò che invece desidera. Molto interessanti e preziosi per una comprensione psicodinamica della catatonia sono i contributi di Nunberg riportati da Resnik. Nunberg in particolare spiega la catatonia in termini di regressione, cioè come modalità di ritorno allo stadio in cui l’azione precede la parola. Le forti componenti persecutorie presenti in questo tipo di pazienti obbligano inoltre a riflettere sulle modalità del transfert, di tipo prevalentemente negativo. Interessanti dal punto di vista clinico sono le sue osservazioni circa la memoria di questi pazienti. La loro perturbante capacità di rievocare episodi lontanissimi sembra suggerire l’idea che il loro passato sia come “impresso nel corpo”.10 Ancora, Nunberg osserva nella crisi catatonica componenti di drammatizzazione e ansia, che avvicinano la catatonia alle crisi isteriche. Ma a differenza di queste, nelle crisi catatoniche mancano intenzionalità manipolative o seduttive, perché ciò che prevale è la tragedia del paziente, tragedia che investe il pensiero e il corpo stesso, che si fa rappresentante della sua angoscia di morte. 9 S. Resnik, op. cit. pag. 85 S. Resnik, op. cit. pag. 88 10 Rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni – numero 10 – copyright©2005 Accanto all’esposizione teorica, Resnik mette anche in luce anche alcuni elementi di tecnica con pazienti di questo tipo. Interessante ad esempio è la necessità, da lui sottolineata, di contribuire alla terapia con prove di realtà molto concrete, che, nei casi di particolare regressione, aiutino il paziente a distinguere i suoi fantasmi dalla realtà. Importante inoltre è la capacità di porsi in rapporto al paziente con modalità che attingono alla comunicazione preverbale, comprendendo e rivelando ciò che egli comunica attraverso il corpo. Infine, la necessità di mantenere un atteggiamento elastico con i diversi strumenti terapeutici, non contrapponendo ma anzi articolando procedimenti psichiatrici e psicoanalitici. 3. Linguaggio, simbolo e simbolizzazione Di centrale importanza nel pensiero di Resnik è la riflessione sul problema del linguaggio e della comunicazione nelle sue diverse forme, da un punto di vista evolutivo, psicodinamico ma anche clinico, come riflessione sull’uso del linguaggio, o dei linguaggi, di entrambi i membri della coppia analitica. Parlo di linguaggi, al plurale, riferendomi all’osservazione di Resnik, secondo il quale il paziente comunica sempre e in mille modi, non solo con le parole, ma anche con il corpo, con i sogni, o con la riattualizzazione nel transfert di relazioni oggettuali del passato. Nelle riflessioni di Resnik su questi temi sembrano delinearsi due requisiti fondamentali per l’instaurarsi di una efficace capacità comunicativa: la presenza di un Io integrato, capace di assolvere la sua funzione sintetica, e la capacità di accettare lo stato di separazione dalla persona con la quale si sta comunicando. È presente secondo Resnik (e secondo Max Scheler) una capacità pre-comunicativa, che precede l’instaurarsi delle competenze linguistiche, basata sulla corporeità, sul corpo come mezzo per la comunicazione di affetti e intenzioni primitive. Il corpo ha inoltre una funzione fondamentale ai fini del processo di strutturazione dell’Io. Resnik cita a proposito il pensiero di Lacan con il suo “stadio dello specchio”, durante il quale le immagini del corpo, fino ad allora parziali e scisse, si unificano fino a organizzare la struttura dell’Io. “La presa di coscienza di queste esperienze corporee permette al bambino di arrivare a conoscere il proprio corpo e quello dell’altro”.11 Secondo Bion questo “processo strutturale del Self” può prendere due possibili strade. Se da una parte gli aspetti frammentari possono tendere all’integrazione e alla costruzione di uno schema anatomico e fisiologico normale, dall’altra questo processo può invece fallire, e gli elementi, rimasti frammentari, si disperdono entrando in contatto tra loro in ordine sparso e 11 S. Resnik, op. cit. pag 105 Rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni – numero 10 – copyright©2005 dando vita ad immagini bizzarre e distorte del corpo. Il prodotto di questo fallimento caratterizza ciò che Bion chiama “Io schizofrenico”. Dunque, la possibilità di entrare in rapporto con l’altro dipende dalla percezione di sé come persona e come totalità integrata, percezione che però implica inevitabilmente la scoperta di una distanza dall’oggetto, in particolare dal primo oggetto d’amore che è la madre. Abitare il corpo e avere consapevolezza del proprio esistere sono dunque il risultato del processo di separazione dalla madre. Un Io così strutturato è la risultante del superamento delle angosce paranoidi e dei corrispondenti meccanismi dissociativi, cioè dell’elaborazione della posizione depressiva, nella quale “il bambino è capace di accettare il seno non come prolungamento della sua bocca ma piuttosto come parte di una totalità: la madre. La madre diventa un’entità in se stessa nella misura in cui il bambino scopre la propria totalità. (…) Il bambino deve imparare ad accettare il fatto che la parola mamma implica l’assenza della madre in quanto oggetto reale. La parola mamma non è la mamma, ma una manifestazione spostata o sostitutiva di questa: il simbolo è un modello di assenza”.12 Più volte è stato detto ormai che lo psicotico è incapace di tollerare questa assenza, questa distanza dall’oggetto. Come descrive bene Rosenfeld, lo psicotico si confonde con l’oggetto, non solo per identificazione con esso, ma attraverso la fantasia di entrare e perdersi in esso. Le parole pertanto perdono la loro funzione comunicativa, e restano solo una “spazializzazione sonora di frammenti vocali, attraverso i quali egli si proietta nell’analista” 13, per aggredirlo, controllarlo, dominarlo, o anche sedurlo, quando è vissuto come troppo persecutorio. Il tono monotono della voce, spesso rinvenibile nei dialoghi con gli psicotici, ha secondo Resnik questa specifica funzione. Annoiando l’analista, cioè, il paziente attacca la sua capacità di pensiero e comunicazione e in questo modo riesce a introdursi disperdendosi in lui. Interessanti sono le riflessioni sui meccanismi di transfert e controtransfert. Sono cioè da intendersi come fenomeni transferali gli episodi di ipoacusia o iperacusia nel paziente, la prima come desiderio di chiusura e distanza dall’analista, la seconda come segnale del fatto che la voce dell’analista è vissuta come un’irruzione. Viceversa, è controtransferale l’incapacità, frequente, di comprendere il messaggio del paziente, quando diventa troppo morboso e intende colonizzare lo spazio mentale dell’analista, il quale continuamente deve elaborare nel controtransfert questi oggetti incorporati. 12 13 S. Resnik, op. cit. pagg. 110-111 S. Resnik, op. cit. pag 111 Rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni – numero 10 – copyright©2005 C’è poi la questione del silenzio. Ci sono silenzi, dice Resnik, che sono permeabili alla parola, alla comunicazione, nei quali si può “entrare”. Altri invece vi si oppongono. Resnik definisce il silenzio un “vuoto pieno di cose”, che ha cioè la funzione di far tacere un mondo interno persecutorio e caotico. Resnik sollecita dunque un atteggiamento di estrema flessibilità nel rapporto con il paziente, restando sempre disposti ad esprimerci nelle diverse forme di comunicazione che di volta in volta il paziente richiederà e modulando i tempi e i contenuti delle interpretazioni, mantenendo la “distanza ottimale” dal paziente. Spesso è inoltre necessario prendersi cura anche dell’intero sistema familiare “schizofrenogenico”, osservando le ripercussioni su di esso della cura del “paziente designato”. 4. Transfert e controtransfert Poiché la relazione di cura avviene in un “campo” sul quale vivono e operano due soggetti, un intero capitolo di “Persona e psicosi” è dedicato alle dinamiche transferali e controtransferali, citando le diverse posizioni dei maggiori analisti. Racker ad esempio ha distinto le identificazioni concordanti, cioè identificazioni dell’analista a livello dell’Io e dell’Es del paziente, dalle identificazioni da lui definite complementari, nelle quali il paziente diventa il contenitore nel quale l’analista proietta i propri oggetti interni. Interessanti sono le osservazioni di Money-Kyrle sulle dinamiche del controtransfert anormale. Mentre cioè nel controtransfert normale l’analista è capace di incorporare il messaggio del paziente, introiettarlo e ri-proiettarlo al paziente in forma pensabile, nel controtransfert anormale l’analista può non essere in grado di comprendere il messaggio del paziente, oppure può introiettarlo come corpo estraneo, rispetto al quale sviluppa sintomi somatici come possibili difese di tipo ipocondriaco, o ancora riproiettarlo al paziente non come oggetto di comunicazione ma come difesa, espellendolo. Indispensabili sono poi a riguardo le osservazioni di Winnicott sull’odio nel controtransfert. Il sentimento di odio, specie con i pazienti psicotici, è secondo Winnicott attivato dalla sensazione di essere manipolati dal paziente, e dalla ferita narcisistica provocata dal sentimento di impotenza di fronte a pazienti di questo tipo. Winnicott mette inoltre in guardia gli analisti dal fascino che il mondo psicotico esercita, fascino che se colto dal paziente andrebbe inevitabilmente ad alimentare l’onnipotenza delle sue parti psicotiche. Un altro aspetto interessante dei fenomeni transferali con i pazienti psicotici discusso da Resnik è l’erotizzazione del transfert. Nel transfert erotico non c’è una relazione con un oggetto totale, ma parziale. L’analista cioè è tutto seno o tutto pene, e l’eccessiva Rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni – numero 10 – copyright©2005 sessualizzazione impedisce un normale rapporto nutritivo (come il bambino che ha difficoltà a nutrirsi se sessualizza eccessivamente il rapporto con il seno). Resnik, con Rosenfeld, osserva che è necessario interpretare il transfert erotico in termini formali, facendo riferimento ai meccanismi della dissociazione e dell’identificazione proiettiva, e non in termini di contenuto. Mancando la capacità di simbolizzazione, infatti, il paziente non è in grado di distinguere i fantasmi dalla realtà. Pertanto vivrebbe come un’effettiva castrazione un’interpretazione che fa riferimento alla sua paura di essere castrato, o come un invito una restituzione sul sentimento di attrazione nei confronti dell’analista. 5. Spazio, tempo e spazializzazione del tempo Come il linguaggio e la sua funzione simbolica, anche l’esperienza dello spazio è nel pensiero di Resnik di importanza fondamentale per la comprensione dei fenomeni psicotici, in quanto anch’essa intimamente connessa con il concetto di separazione. Il concetto di spazio è inoltre inscindibile da quello di tempo, poiché “ogni mobilitazione nel tempo implica una distanziazione nello spazio”14. Da ciò, Resnik fa derivare il suo concetto di “spazializzazione del tempo”, seguendo il pensiero di Janet, secondo il quale “a partire dal momento in cui l’individuo diventa capace di (…) spostarsi nello spazio, impara a vincere la distanza. È nella separazione, e nella sua elaborazione, che l’atto spaziale si struttura temporalmente”. La mancata elaborazione di questo passaggio dallo spazio al tempo è centrale nell’esperienza schizofrenica, e rimanda alle osservazioni di Minkowski sul fenomeno psicotico di trasformazione del tempo vissuto in uno spazio immobile e meccanico, in cui non esiste movimento né durata15. Viceversa, all’immobilità del tempo vissuto fa da contraltare un’estrema mobilità del pensiero, e del pensiero fantasmatico in particolare, che si riscontra spesso nei pazienti schizofrenici o nelle personalità schizoidi, come difesa dal pensare e come mezzo per eludere l’incontro. 14 S. Resnik, op. cit. pag. 205 L’immobilità e la meccanicità del tempo nella psicosi e l’impossibilità per lo psicotico di compiere la separazione da un oggetto e in particolare dall’oggetto materno sembrano trovare una loro raffigurazione plastica in una famosissima quanto splendida opera d’arte. Mi riferisco ad un interessante lavoro di Jerome Oremland sulle Pietà di Michelangelo, e in particolare quello sulla prima Pietà, conservata a Roma presso la Basilica di San Pietro. Oremland si sofferma su un particolare della scultura, cioè l’età di Maria, che appare infatti ancor più giovane del Figlio morto. Oremland interpreta questo dettaglio come la rappresentazione di un desiderio simbiotico di Michelangelo di riunione, di fusione con la madre dell’infanzia. Ciò che appare particolarmente interessante, inoltre, è che osservando dal vivo la Pietà presso la Basilica di San Pietro, ci si accorge della sua sorprendente mancanza di profondità. La scultura è infatti alta 174 cm ma profonda solo 69. Assenza di profondità è assenza di movimento, di tridimensionalità. Sembra, cioè, la raffigurazione plastica di quello spazio-tempo immobile e meccanico abitato da quella patologia della simbiosi che ormai conosciamo come psicosi. 15 Rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni – numero 10 – copyright©2005 Resnik racconta di un suo paziente che si sente concretamente proiettato altrove, in spazi altri, dissociato, “come se degli peudopodi si lanciassero nello spazio”.16 Non in senso simbolico, cioè immaginando di essere altrove, ma concretamente. Il paziente cioè sente realmente che una parte di sé si trova a Russell Square o sulla spiaggia di Dorset, e non lì, nella stanza d’analisi, dove si gioca un incontro con un oggetto e dove entrare in relazione con quell’oggetto è vissuto come qualcosa di estremamente pericoloso. “La tendenza a uscire nello spazio per porsi negli oggetti (identificazione proiettiva) farebbe parte del processo di spazializzazione. Intendo per spazializzazione qualsiasi meccanismo dell’Io tendente a occupare lo spazio piuttosto che vivere nello spazio”.17 Russell Square e la stanza d’analisi rappresentano rispettivamente anche uno spazio interiore, intra-corporeo, il mondo interno che il paziente sta progressivamente scoprendo ed elaborando, e uno spazio esterno, il mondo con le sue relazioni. Il confine tra i due spazi è però labile, confuso. “Talvolta è come se avessi un buco in testa e ci fosse uno spazio che va e viene. Uno spazio che può passare attraverso questo buco e ritornare attraverso lo stesso”. Il processo di personalizzazione deve passare dunque attraverso la presa di coscienza del proprio corpo e di sé stesso come abitante il proprio corpo, “spazio incarnato” nel quale abita il mondo interno, capace dunque di contenere lo sviluppo dei processi psichici e consentire l’integrazione dell’apparato mentale. 6. Ri-costruzioni in analisi Ho finora descritto tutti i processi che, secondo Resnik, portano alla dissoluzione della personalizzazione e tutte le modalità in cui le parti psicotiche del Sé attaccano la capacità di pensiero e di relazione con il mondo esterno: l’impossibilità di accedere alla posizione depressiva, i deliri di trasformazione e deformazione corporea, gli aspetti ipocondriaci, l’immobilità del tempo e dello spazio e la cosificazione del mondo, l’allucinazione, l’onnipotenza, il fondersi con l’altro per negare la relazione e tendere all’intrusione nell’altro, e nell’analista in particolare. Ma quello che mi sembra ulteriormente importante è la sua riflessione sul processo di guarigione, su cosa significa per uno psicotico “guarire”, sulle dinamiche legate al recupero delle parti scisse del Self e sulla ricostruzione di un mondo non più egocentrico e narcisista ma “sociale”. 16 17 S. Resnik, op. cit. pag. 215 S. Resnik, op. cit. pag 216 Rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni – numero 10 – copyright©2005 Se al centro dell’esperienza schizofrenica c’è, come abbiamo ripetuto più volte, la “dissociazione” della personalità e la deriva delle parti scisse, il compito dell’analista è di reintegrare i frammenti, portandoli all’incontro e ristabilendo il dialogo tra essi e tra le parti psicotiche e le parti non psicotiche. È quasi ovvio sottolineare che si tratta di un incontro perturbante, molto doloroso. La funzione della dissociazione era infatti proprio quella di proteggersi dalla dolorosa presa di coscienza del proprio caos interiore. Rappresentava cioè il rifiuto delle parti non-psicotiche di incontrare i nuclei psicotici. La loro reintegrazione comporta inevitabilmente lo sgonfiamento della concezione egocentrica e narcisista del mondo schizofrenico e la rinuncia ai meccanismi onnipotenti messi in moto dalla parte psicotica della personalità. Il processo di guarigione è perciò qualcosa di estremamente penoso. È una mutilazione, un’amputazione di una parte di sé che ha coabitato con la parte sana per molto tempo, dando vita a un mondo onirico che in qualche modo riusciva a tenere a distanza il dolore e i pericoli del mondo reale. Si tratta ora di ricostruire, faticosamente, una nuova visione del mondo, con un nuovo sistema di valori e di relazioni. Rosenfeld osserva che è possibile clinicamente osservare il processo di reintegrazione in analisi attraverso l’emergere di uno stadio intermedio rappresentato dallo stato confusionale. Rappresentando una fase di passaggio dalla dissociazione alla reintegrazione, è da considerarsi dunque un segnale di miglioramento, un’espressione del crollo di quella barriera che teneva separate le due parti del Self e dunque del fallimento della scissione difensiva. Rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni – numero 10 – copyright©2005 BIBLIOGRAFIA Bion Wilfred R., “Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico”, Roma, Armando, 1970 Cotard Jules, “Études sur les maladies cérébrales et mentales, Paris, 1888 Federn Paul, Ego psychological aspects of Schizophrenia, London, Imago Pub. 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