POSTFAZIONE di Fulvio Ferrari

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POSTFAZIONE di Fulvio Ferrari
POSTFAZIONE
di
Fulvio Ferrari
Se c’è, nell’opera letteraria di Cees Nooteboom, un
tema che possa davvero essere definito centrale, un
punto nodale su cui la sua scrittura torna costantemente, in sempre nuove variazioni, con sempre nuovi tentativi di delineazione e di interpretazione, questo è il tema
dello iato tra la realtà e l’immagine che di essa ci creiamo. Tema che quasi naturalmente si apre alla riflessione
di uno scrittore, il cui mestiere è appunto quello di edificare mondi paralleli, doppi della realtà che, in un
gioco di specchi e di illusioni, guidano tuttavia il lettore
a guardare il suo mondo, il mondo “vero” con uno
sguardo nuovo, a volte – non sempre – più acuto. E
proprio la questione della creazione letteraria o, più in
generale, artistica è tanto spesso modulata nei romanzi
di Nooteboom: nel Canto dell’essere e dell’apparire,
ad esempio, dove il processo di invenzione e di scrittura
viene sezionato ed esposto agli occhi affascinati di chi
legge. O nella prosa di Rituali, in cui la scrittura stessa,
labirintica, apparentemente disordinata, si fa rappresentazione del modo in cui il protagonista accoglie la vita
senza cercare di ordinarla, di imprimerle una direzione.
Nooteboom è un maestro nello sciorinare dinnanzi
agli occhi del suo pubblico i trucchi del mestiere e, nel
contempo, a prendersene gioco, a sorridere delle proprie
costruzioni, della propria arte. Questa giocosità, questa
ingegnosità, questa leggerezza di scrittore che parla di
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scrittura, non devono però far velo a una riflessione che è
urgente e drammatica e che sottrae senza dubbio la sua
opera al genere, forse divertente ma piuttosto superfluo,
del puro gioco intellettuale. La distanza tra realtà e
immagine della realtà, tra esperienza e memoria, tra vissuto e costruzione di sé, è problema, infatti, che va ben
oltre la letteratura, e di cui la letteratura può essere semmai un caso illuminante. Ed è problema, appunto, drammatico, perché ogni costruzione – di immagine, di
memoria, di sé – comporta sia una selezione, e dunque
una perdita, sia una disposizione in ordine gerarchico
degli elementi conservati e utilizzati. L’ossessione di dare
ordine al caos dell’esistenza, il bisogno di una rigida griglia che permetta di leggere e di sopportare la realtà sono
gli elementi che conducono infine all’autodistruzione
Arnold e a Philip Taads, in Rituali. Su un piano più
vasto, lo sgomento di fronte all’immenso dolore della storia, il bisogno di conservare il ricordo delle vittime e l’impossibilità di farlo davvero è il tema che percorre Il
Giorno dei Morti, pubblicato nel ’98 quasi a voler tentare l’impossibile impresa di chiudere i conti con il secolo
morente. Forse mai con tanta chiarezza come nel racconto lungo Mokusei, d’altro canto, Nooteboom ha esplorato l’ipotetica via di fuga da questo groviglio di bisogni,
aspirazioni e fallimenti in un altrove geografico, spaziale e
culturale, concepito come paradiso di compattezza, di
omogeneità, di essenzialità. In Mokusei questa terra promessa dell’alterità, in cui il protagonista, il fotografo
Arnold Pessers, cerca rifugio e salvezza, è il Giappone, un
Giappone artificiale, tutto fatto di monasteri Zen e di
dipinti di Hokusai, e l’impatto con la realtà difficile, contraddittoria e complessa del Giappone moderno rigetta
Pessers nello smarrimento cui cercava di sottrarsi: “Il
Giappone, pensava, gli aveva rubato il Giappone.”
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Che questo interrogarsi sul senso del vivere, anzi, sul
processo con cui incessantemente, passando di scacco in
scacco, ci sforziamo di conferire un senso al vivere, non
sia affatto estraneo a una dimensione religiosa è stato
messo in rilievo già da Enzo Siciliano nella sua introduzione all’edizione italiana di Le montagne dei
Paesi Bassi, nel 1996. È però in questo Perduto il
Paradiso, pubblicato in Olanda nel 2004, che i riferimenti alla riflessione religiosa e ai suoi simboli si fanno
espliciti e innervano la trama stessa della narrazione.
Quasi a riprendere il filo di pensieri del Giorno dei
morti, il romanzo si apre con uno dei passi più enigmatici e fecondi della filosofia novecentesca: la nona tesi
“sul concetto di storia” di Walter Benjamin, in cui il
filosofo tedesco opera tra messianesimo ebraico e marxismo rivoluzionario una sintesi dinamica in cui alla
volontà di riscatto dalla sofferenza e dall’ingiustizia
manca ogni consolatoria e retorica certezza del successo
finale. E, subito dopo il prologo, una nuova citazione,
questa volta dal Paradiso perduto di Milton, funge
quasi da “prologo in cielo” a sottolineare il significato
profondo della narrazione che sta per avere inizio, e che
del Paradiso perduto – come indica il gioco sul titolo
– in qualche misura rappresenta un commento, un’interpretazione, una discussione.
Suddiviso in due parti, all’incirca di uguale estensione, e focalizzato su due diversi, successivi protagonisti, l’uno femminile, l’altro maschile, il romanzo
potrebbe essere un po’ brutalmente riassunto come il
racconto della formazione di un angelo e dell’incontro
poi di quest’angelo con un tipico personaggio nooteboomiano, un intellettuale sulle soglie della vecchiaia e perduto nel labirinto dell’esistere. Questo riassunto minimale, però, sacrificherebbe i molti parallelismi, i riman161
di, le polarità tra le storie dell’angelo Alma e del troppo
umano Erik, entrambi alla ricerca di un paradiso ed
entrambi costretti a rimanere fuori dai suoi cancelli.
Con una violenza che non consente alcuna leggerezza
di narrazione, Alma viene cacciata fuori dal suo stato
d’innocenza: allontanatasi dal suo “giardino”, dallo spazio protetto e privilegiato del ricco quartiere di Jardins, a
São Paulo, si inoltra, attratta dal pericolo, in un altro,
ingannevole paradiso, nella favela di Paraísopolis che si
rivela essere in realtà un inferno dove viene umiliata e
violentata. Per ritrovare se stessa e la propria integrità, per
guarire, Alma parte insieme all’amica d’infanzia Almut
alla ricerca della loro terra promessa: l’Australia degli
aborigeni, dei canti, del tempo del sogno. Ma come
Arnold Pessers (personaggio che, con tecnica tipicamente
nooteboomiana fa capolino anche in questo romanzo)
aveva trovato tra sé e il suo Giappone la maschera impenetrabile di Mokusei, Alma si trova di fronte a una
maschera altrettanto impenetrabile: quella dell’amante
aborigeno da cui la separa un’incolmabile lontananza
fatta di storia, di cultura, di un diverso sguardo sul
mondo. E, tutt’intorno, la macerie di un paradiso devastato, di una civiltà spazzata via dalla storia e che sopravvive in frammenti, in ricordi. Sarà allora Alma stessa a
farsi angelo, errante rivelatrice di bellezza, di sensualità,
di armonia, e come tale la incontra Erik, il disincantato
critico letterario olandese che ne rimane colpito e sconvolto come da un’erotica teofania. Ma gli angeli, annuncia con spietata, malinconica dolcezza Alma, “non
appartengono al mondo degli uomini”, e la struggente
nostalgia di paradiso che suscita la loro apparizione è
condannata a rimanere inappagata.
Romanzo denso di pensiero, dunque, e costruito su
domande che investono il senso stesso dell’esistenza
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umana e della storia. E tuttavia... tuttavia il narratore
non rinuncia nemmeno qui a fare un ultimo sgambetto
al lettore, a spezzare l’illusione narrativa, a capovolgere
con una mossa inattesa e un sorriso enigmatico quanto
fin qui costruito: E se il paradiso non fosse in realtà
affatto desiderabile? E se tutto – il dolore dell’uomo, i
disastri della storia – fosse solo dovuto a una serie di
equivoci, di fraintendimenti? Come sempre, richiudendo un libro di Cees Nooteboom, anche questa volta il
lettore sarà stato costretto a porsi tante domande e a non
ricevere nessuna risposta. È proprio questa la cifra di
questo scrittore intelligente, stimolante, mai banale.
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