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LE MACCHIE
Le macchie le guardava sulla pelle, riflesse sullo specchio. Le macchie, dallo specchio, la guardavano. Alle
spalle, lui la pettinava con cura e amore e lei tollerava le
sue attenzioni perché sapeva che, in quel preciso momento, le erano indispensabili.
Lui la guardava riflessa nello specchio e quasi non credeva di averla davvero. Ora era tutta sua. Amava anche le
macchie, complici e amiche: l’avevano resa meno bella,
più raggiungibile. L’imperfezione necessaria alla sicurezza. La debolezza che fa chiedere aiuto. Il salvatore che
risponde all’appello. Era svanita nel nulla la donna arrogante e imprevedibile, persa nelle piaghe di uno splendore offuscato.
Lo assaliva ancora l’angoscia al ricordo di un anno
prima: un’armonia folgorante, eccessiva, accompagnata
da uno scintillio luciferino negli occhi; un’anormalità
latente che fiaccava ogni ardore. Era d’incanto scesa una
patina di opacità su quello sguardo maledetto, quasi una
sabbiatura che la rendeva più umana, più donnicciola qualunque. Finalmente poteva esserle necessario.
Le era necessario: questo si ripeteva lei, durante gli
interminabili silenzi che accompagnavano quelle giornate tetre. Un infermiere devoto, disponibile a ogni ora.
Non aveva sensi di colpa, perché in ballo c’era la
sopravvivenza. E poi, nel guardarlo, perdeva ogni rimorso. Come appariva fiero della sua conquista: una vera e
propria iniezione di virilità. Si aggirava per le stanze con
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i muscoli in tensione da indurire a ogni specchio: un
riflesso condizionato, un tributo che doveva alla sua
mascolinità. Erano molti i particolari che la disgustavano: il pelo arricciato sotto al naso, la pronuncia impropria di alcune parole, i gusti musicali, l’inesistenza di
gusti letterari.
– Vuoi un caffè?
– Sí, grazie.
– Lo vuoi con il latte?
– Sí, grazie.
– Ecco qui, bevilo caldo che ti fa bene. È buono, ti piace?
– Molto.
Questi sprazzi di conversazione interrompevano l’adorazione di lui e la malinconia di lei. Brandelli di parole
pesanti come macigni buttati da una torre. Sputi nella
nebbia. Commenti disanimati di fronte agli spettacoli
televisivi.
Lei non usciva quasi più di casa, timorosa della diminuita bellezza, mentre lui avrebbe desiderato esibire il suo
trofeo. Ogni tanto varcavano l’uscio insieme per fare la
spesa. Sguardi furtivi da sotto i capelli lunghi a coprire il
volto le segnalavano che nessuna persona conosciuta era
in arrivo. Si vergognava del suo aspetto ingrigito e di
quella che considerava la sua “momentanea” sistemazione. Lui la portava in giro come si accompagna un convalescente dopo una lunga malattia: con fare protettivo e
mille attenzioni.
Il quartiere della grande città era un paese e tutti li conoscevano fin da bambini. Il vederli insieme faceva parlottare di bocca in orecchio fino a creare un’infinita catena di
parole.
– Hai visto? Quei due stanno insieme.
– E dire che faceva tanto la sostenuta!
– Ma gli anni passano per tutti. Hai visto come è
ridotta, poverina?
– Forse ha qualche brutta malattia.
– Non sarà mica l’Aids? È tutta macchiata.
– E beh, di uomini ne ha avuti tanti.
– Mica come noi! Quella sí che si è divertita!
– Ma prima o poi i nodi, cara mia, vengono al pettine.
– Sí! L’onestà ripaga sempre. Pensa che io, in tutta la
mia vita, ho fatto l’amore solo con mio marito. E non ho
mai desiderato di tradirlo.
– Donne come me c’erano una volta e non ne esistono
più. Dovrebbero clonarle!
Quel chiacchiericcio sommesso le rimbombava nella
testa. Udiva tutto con chiarezza, perché la sofferenza la
rendeva ipersensibile. Due grandi occhi, due grandi orecchie e una bocca cucita con un urlo interno. Avrebbe voluto avventarsi come una baccante sulle pie donne e dilaniarle a morsi. Ora le riconosceva: erano assidue frequentatrici della parrocchia, due brave donne che non smettevano di guardarla.
– Che occhi strani! Per me si droga.
– Forse ha un esaurimento nervoso.
– Lui però è tanto bravo. Sempre studioso.
– Eh sí! Ne ha date di soddisfazioni alla mamma!
– Che cosa penserà la povera donna con una cosí?
– Se succedesse a me sarebbe una disgrazia. Come
sposare una negra o un’extracomunitaria!
Le parole erano tarli che ronzavano nelle sue orecchie,
facendola impazzire.
Quando rincasavano lui la possedeva. L’attenzione
degli altri lo faceva eccitare. Senza una parola la prendeva e lei remissiva ci stava, come un malato che prende
una medicina cattiva e necessaria. Assisteva all’atto dall’esterno, come una platea di fronte al proscenio. Era
distante, lontana nei suoi pensieri di speranza. Con gli
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occhi fissi al soffitto, sconfiggeva con immagini a colori,
fotografie rubate alla memoria, lo sbattere della carne
senza vita.
– Ti è piaciuto, amore?
– Sí!
Una saracinesca sul cuore per andare avanti, priva di
pentimento, assente di coscienza. – E perché averla? – si
domandava. – Su un’isola deserta mangi di tutto, non cerchi certo piatti prelibati!
Anestesia del palato e dei sensi. Anestesia della pelle alle
sue dita tozze che la toccavano dopo l’amore. Malinconia
dei sensi, afasia nelle parole: in quel mondo senza sorprese
non c’era spazio per i suoni, neanche per un sospiro.
Ma un giorno come tanti, dopo quel sesso assonnato e
passivo, fatto in penombra, lui spezzò il silenzio di ghiaccio:
– Sei bellissima, mi piacciono anche le tue macchie!
– Vorrei ben vedere! – rispose lei.
– Che cosa intendi dire? Vuoi forse rimproverarmi?
Volevo solo dirti che ti amo interamente – si rivoltò, come
punto sul vivo.
– Queste macchie ti hanno aiutato. Senza di loro non
mi avresti mai avuto. Tu lo sai bene e per questo ne sei
turbato. Hai paura. Di’ la verità: hai paura che scompaiano, che una mattina ti svegli e non le trovi più, le tue adorate macchie. – Mentre pronunciava queste parole, rideva
nervosamente.
– Tu sei pazza! – le rispose con sdegno. – Ciò che
voglio di più è la tua felicità, la tua guarigione. Credi che
io non mi accorga che tu stai soffrendo. Credi che io goda
del tuo volontario isolamento, quando vorrei vederti felice
e spensierata.
Aumentava il tono a ogni parola, quasi a volersi rendere persuasivo.
– Io ti parlo e tu non mi rispondi. Cerco di compren-
derti, sai! Mi rendo conto che hai alle spalle qualcosa di
molto triste di cui non vuoi parlare. Ma non voglio indagare e sapere finché non sarai tu a decidere di rivelarmelo.
Lei lo guardò con occhi nuovi. Dalla foschia della lontananza rimise a fuoco l’obiettivo: era pronta a parlargli.
Raccontò per ore, durante quella notte, i particolari di ciò
che lui già sapeva, ma per sentito dire. La interrogò, le
chiese spiegazioni; infine, la provocò fino a sbeffeggiarla. Le parole seguivano un ritmo veloce, intermittente,
non c’erano pause gravose. Il tempo passò velocemente
anche se gli attimi erano dilatati, rarefatti, senza spazio.
Dopo averle sottratto quel peso che giaceva nel profondo, l’abbracciò forte, assorbendo con delicatezza la
sopraggiunta commozione. Lei si sciolse in quel calore.
– E questa sarebbe l’ecatombe? Io credevo peggio –
disse lui, trafiggendola con uno sguardo di passione.
Lei rise come una bambina, d’improvviso buttando
all’aria irresponsabilmente tutte le macerie antiche
depositate dai pensieri tortuosi, riproposti ogni giorno
per dilaniare fino all’ultimo brandello la vita. In quel
momento ebbe la percezione di essere pronta a rimettersi in gioco, a riverniciare di bianco quelle pareti
consunte.
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– Però! Che bella bocca aveva: carnosa e rossa. Con
tutti i denti bianchi-bianchi al loro posto – pensò, mentre
lui continuava a parlare.
Non lo guardava quasi mai e ora, per la prima volta,
scorgeva l’uomo.
– Che bocca! – si disse.
Quella notte fu diverso. In lei era accaduto qualcosa: c’era una piccola scintilla di felicità che ardeva,
una luce trapassava la foschia. Fu difficile dormire:
era piacevole sentire il cambiamento. Anche per lui
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era difficile dormire, ma diverse erano le ragioni.
L’angoscia lo attanagliava, perché una luce illuminava
la sua ipocrisia.
Veramente voleva la sua felicità? Ne era sicuro? Per
non parlare dell’isolamento forzoso! Forse soffriva nel
vederla cosí? Oppure in realtà se ne compiaceva? Temeva
– ora lo ammetteva – la sua possibile rinascita, la temeva
più di ogni altra cosa.
Passò la notte insonne e vide il giorno farsi sul volto
di lei. Quando il chiarore fu deciso, osservò con sgomento il volto rischiarato. Con terrore constatò che le
macchie si erano fatte leggermente più chiare. Di una
tonalità appena percettibile, ma sicuramente più chiara.
Si girò e rigirò cercando la giusta angolazione prospettica, ma alla fine il verdetto fu implacabile: le macchie,
ora, erano di un rosso pallido. Forse stavano addirittura
scomparendo. Un morso alla bocca della stomaco lo ridestò di colpo dal torpore. Uno scatto di reni e via, fuori dal
letto, fino in bagno. Dall’alto osservava l’acqua del water
come un pozzo, mentre i conati gli torturavano la gola.
Poi fu l’oblio, l’estasi della liberazione. Evacuò cosí
l’angoscia dell’abbandono, la paura del lutto.
Intanto la mano di lei si allungava sul letto per cercarlo.
Ma lui non c’era. Per la prima volta la sua assenza le pesava. Per la prima volta non le fu di sollievo. Quando lui rientrò dal bagno, non poté non notare il rossore degli occhi.
– Che cosa hai fatto? – gli domandò preoccupata.
– Niente, soltanto un po’ di mal di stomaco. Forse ieri
ho mangiato troppo – le rispose agitato.
– Ma hai rigettato?
– Sí! Ma adesso sto molto meglio.
– Vieni qui sul letto – disse lei con voce flautata.
La guardò smarrito. Era bellissima, molto più bella di
prima. Fu facile perdersi tra le sue braccia, tra le sue
gambe, nel suo corpo. Ascoltò per la prima volta il suo
piacere: come una voce di sirena gli frantumò il cuore.
Rimase poi cosí a guardarla per ore.
Un raggio di luce filtrò dalle tapparelle semiaperte,
facendo entrare quell’annuncio di primavera: ricordi di
adolescenza, odori pungenti e un leggero tepore sulla
pelle. Respirò la pienezza del suo corpo appagato e gonfio del piacere dell’amore. Lui le era accanto, come un
animale stanco.
Un piacevole senso di appartenenza la inondò
come sperma caldo, fecondo. Approfittò di quell’intimità rubata come una lucertola ai primi soli, ladra
di sensazioni che aveva smarrito. Quei momenti di
equilibrio, di felicità li avrebbe sospesi, cristallizzati
come fiocchi di neve, ibernati in eterno nell’aria.
Una visione egoistica, parziale, che s’infranse quando lui aprí gli occhi: il peccato di dover continuare a
vivere.
– Buongiorno! – e le si strinse addosso voglioso di
contatto. Alla vista di quel corpo morbido e vellutato, reso
accogliente dall’amore, aveva d’improvviso dimenticato
le paure della notte precedente.
Stettero alcune ore con la luce a strisce sul corpo a prolungare quella felicità; poi dovettero arrendersi alla fame.
Il tavolo fu apparecchiato come a festa, con la tovaglia a quadretti e un mazzetto di fiori di campo al centro. Ai lati c’erano loro due che non smettevano di
guardarsi mentre divoravano a grandi morsi tutto il
cibo preparato.
L’atmosfera si caricava di elettricità nelle mani che
gesticolavano nervose per poi posarsi sul tavolo, nelle
ginocchia che si sfioravano alla ricerca di un contatto,
negli occhi che lanciavano promesse: una sorta di
eucarestia profana, preludio alla sacralità del letto. E
lí finirono animati dagli stomaci sazi e dal sangue
della digestione in circolo. Uniti lo erano da quel desi-
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derio che ne rimarcava le essenziali differenze: lui
accecato nel penetrare, nel possedere; lei nell’essere
riempita, posseduta. Non più vicini, fratelli, compagni, ora erano distanti più che mai: agli estremi dei
due sessi, sospettosi di un nonnulla, animali ipersensibili agli istinti, smarriti nella gelosia. Trascorsero
molti giorni cosí, dalla cucina al letto, sempre più
intrecciati, sempre più lontani. Di notte si svegliavano
a turno, contemplandosi smarriti, increduli di quella
schiavitù.
Quando poi uscivano, il sole li inebetiva: camminavano come zombie felici sotto gli sguardi di tutti.
Nel torpore generale dei sentimenti, quell’anomalia,
quel fuoco si notava, colpiva gli occhi come gli specchietti con cui giocano i ragazzi. Poche cose erano più
scandalose, forse soltanto l’innocenza.
Mano nella mano si appagavano del nulla, della luce
riflessa di primavera dentro di loro, della sensazione
vaga di calore che si faceva strada nei corpi che si risvegliavano dal letargo dei sentimenti. Insieme a tutto questo c’era la paura della fine, grande e vorticosa come un
abisso. Perché niente era banale, scontato, anche il non
detto e per questo destinato a finire, come tutte le cose
belle, al culmine. L’aura che li circondava non poteva
non essere notata. Le stesse signore del quartiere impallidirono quando li videro cosí presi. La rinnovata bellezza di lei, araba fenice del sentimento, contrastava
con le occhiaie nere rese indelebili dalla meschinità
cronica, da quell’ipocrisia costituzionale di cui non si
ha più sentore.
Lei camminava come una regina, incurante degli
sguardi, soffusa su una nuvola, più in alto di tutti. Il
mondo le pareva assai più bello da quando si era rein-
namorata e anche quelle beghine le sembravano accettabili. Soprattutto non se ne curava, perché era consapevole che la sua bellezza era già un insulto manifesto. Con l’angoscia nel cuore, quelle maschere disumane avevano del carnevalesco, un incubo senza
possibilità di risveglio, una volgarità dell’anima che
feriva; ora era preparata a respingere quell’energia
distruttiva, anche se sapeva che non sarebbe stato per
sempre.
Un giorno, forse anche domani, quelle facce da incubo, sempre più numerose con il passare del tempo,
sarebbero tornate a ferirla, e sulla metropolitana la luce
al neon avrebbe illuminato, come in una sala da obitorio,
quelle carcasse in decomposizione. Ma ora più che mai
voleva agguantare quell’istante, stritolarlo e poi buttarlo
all’indietro per farlo sedimentare nel passato, nel cestino di ciò che non esiste più. Cosí pensava, pur sapendo
che dimenticare non era semplice. Ma si poteva in ogni
caso tentare.
– Ehi! Guarda quei due! Stanno ancora insieme! –
diceva una bocca sdentata.
– Non credevo potesse durare – rispondeva una voce
uterina.
– Ma lei è guarita, non ti sembra?
– Hai ragione, non ha più quelle terribili macchie
sulla pelle.
– Ma cosa avrà avuto?
– Sicuramente non era AIDS, ma qualcosa di grave.
– Una dermatite psicosomatica?
– No, quelle sono malattie da intellettuali, non attaccano le menti semplici.
– Forse una varicella, una rosolia, una febbre perniciosa.
– Queste ipotesi sono più probabili.
– Forse una processionaria e finanche uno sfogo di
Sant’Antonio.
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– No! Non rientrerebbe nella sintomatologia.
– Ma allora cosa è stato? – disse con tono afflitto la
prima voce.
– Cara mia, è probabile che questo caso sia uno dei
misteri del quartiere che non saranno mai svelati.
misto a gelosia. Si era fatta assai più bella da un po’ di
tempo a quella parte: la differenza balzava agli occhi. Di
quel cambiamento lui era l’artefice, di questo era certo,
ma quel miracolo gli lasciava l’amaro in bocca. Un retrogusto che lo riempiva di angoscia. Come quando, durante
la riparazione di un tetto si porta in salvo un uccellino,
altrimenti destinato alla morte. Dopo la protezione, le
cure, il nutrimento, alla fine gli insegni a volare. E poi un
bel giorno quel battito di ali ti spezza il cuore.
Ormai camminavano su quel filo di felicità teso a duemila metri d’altezza e da lí sopra contemplavano il precipizio: ai due lati c’era il vuoto. Una striscia di presente,
senza passato e futuro e tante promesse silenziose, patti
misteriosi, stretti nel profondo.
Ogni volta che uno accennava a progetti, fatti più
concreti, l’altro lo tacitava con garbo, facendo cadere
nel nulla le parole. Un clima scaramantico aleggiava
nell’aria, quasi si attendesse da un momento all’altro
una terribile eruzione.
In quell’equilibrio perfetto di paure, di forti sensazioni, che sempre accompagnano la passione, passarono
alcuni mesi, fino alla torrida estate.
Lei, rinvigorita nell’animo e nel corpo, si nutriva estasiata di quel tripudio della natura, parallelo ai sentimenti.
Una mattina, guardandosi allo specchio con compiacimento, comprese che era tornata ad amarsi. Si accettava per
intero, senza necessità di cavillare sull’inezia; aveva finalmente riacquistato il senso delle proporzioni. La vita, ora,
le pareva un pacchetto regalo da prendere senza togliere la
carta e soprattutto senza cercare di indovinarne a tutti i
costi il contenuto. Cosí pensando, si guardava allo specchio
e le immagini-sogno, che si susseguivano come fotogrammi nelle sue retine, l’allontanavano a tratti dalla realtà.
Quando ci ritornava, c’era lei allo specchio, di nuovo bella,
di nuovo felice. Un’intermittenza estatica, un alternarsi di
ragione e incoscienza che le dava un grande piacere.
Dall’angolo della porta lui la spiava con orgoglio
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Ora lei usciva da sola di frequente, con suoi vestiti a
fiori, leggeri, sollevati a ogni movimento, a ogni colpo di
vento. Le gambe, abbronzate, erano rese lucide dall’aria
calda e dal sole; il seno era pieno di natura e di vita.
– Dove sei stata? – ripeteva lui ogni volta.
– Ho fatto un giro bellissimo e poi mi sono seduta in
un bar a leggere il giornale e prendere una birra.
– E non hai incontrato nessuno?
– Beh! Le solite persone che si incontrano nel quartiere
– rispondeva ogni volta lei con la leggera innocenza che la
caratterizzava.
– E chi, in particolare? I soliti rompipalle! Forza, di’
che non è vero!
– Per te sono tutti rompipalle, ma non è cosí. Ho semplicemente fatto due chiacchiere in allegria – continuava
lei, quasi per giustificarsi.
– In allegria! Con quel vestito che lascia immaginare
tutto! – incalzava lui, ormai preso dal turbinio delle parole.
– Adesso basta! Cosa vuoi insinuare, che vado in giro
a cercar rogna? A rimorchiare? Di’ un po’, ti sembro forse
il tipo? – concludeva ogni volta lei, andandosi a rintanare
da qualche parte della casa, lontana da quella presenza
ingombrante, minacciosa.
Quella mancanza di fiducia le pesava. Non credeva di
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meritarsi quell’interrogatorio di terzo grado, perché era
certa di amarlo. Dopo mesi di claustrofobia esistenziale,
non le sembrava vero di poter tornare a osservare la vita
a colori. Ma non avrebbe permesso a nessuno di imbrattare la sua tela.
Lui se ne stava da una parte, già pentito della requisitoria. Era consapevole di aver esagerato con quell’incontinenza di parole offensive, ma le immagini di lei da sola,
che volteggiava leggiadra per la città, erano come pugni
in faccia. In un attimo, la vedeva attraversare la strada con
quel suo bel vestitino cosí poco consistente. Vedeva gli
sguardi degli uomini ai semafori; gli pareva di leggere nei
pensieri e ascoltare le loro parole volgari.
Quei pensieri e quelle parole gli ronzavano nella
testa, perché appartenevano anche a lui. Quante volte,
al bar con gli amici, aveva sghignazzato trivialmente
per un seno prosperoso in bella vista o per due cosce
sode, mostrate senza vergogna? Il solo pensiero, che al
centro di quei balbettamenti bestiali potesse esserci lei,
gli faceva stringere lo stomaco.
Se solo ci fossero state le macchie, compagne e
alleate, ad aiutarlo! Ma le maledette erano scomparse,
anzi, si erano sbiadite piano piano, con il sopraggiungere della felicità. Invano, aveva sperato nell’irreversibilità del cambiamento, ma non c’era stato niente da
fare, perché l’amore, da quel grande taumaturgo che
era, le aveva donato una pelle liscia e compatta da
adolescente.
Con il caldo rovente di agosto crebbero i sospetti. Lui
al lavoro e lei a casa a godersi l’estate, ormai presente a
se stessa, ma leggera come una brezza. Cosí lui la percepiva, e quel pensiero gli affaticava le ore, ancor più dell’afa catramosa che trasudava dagli asfalti.
– Dove sarà a quest’ora? Con chi starà parlando? Avrà
incontrato qualcuno che le piace più di me?
Erano questi oramai i pensieri ricorrenti. Quando a
sera l’incontrava, cercava di interpretarne ogni più piccolo gesto, ingigantendo anche la minima disattenzione.
Da parte sua, lei lo aspettava con ansia, impegnando il conto alla rovescia del tardo pomeriggio prima del
suo arrivo facendosi bella. Voleva apparire sempre
desiderabile.
A lui appariva sempre più bella e desiderabile. Quella
eccessiva cura gli pareva sospetta.
– Per chi lo fa? – si chiedeva, smarrito, mentre osservava le sue curve morbide sul letto.
– Mi sta ingannando! – Quel tarlo lo stava logorando,
impedendogli di vivere. Cercava di ricostruire tutta la
trama della relazione, come un’equazione matematica.
– L’amore – pensava – le aveva fatto scomparire
le macchie e ora, da quando lui si assentava per lavoro, la sua bellezza si era fatta ancora più piena. Da
che cosa dipendeva quel valore aggiunto? Ci doveva
essere per forza un terzo elemento: una variabile
aggiunta!
Dal campo in cui era esperto, l’economia, traeva le
chiavi di lettura per aprire uno spiraglio di luce in quel
torbido sentimento. Ma per quanto si sforzasse c’era sempre qualche calcolo che non tornava. E allora si rodeva
l’animo cercando di ripercorrere tutte le strade della consequenzialità.
Lei, domande non se ne poneva più. Inspirava la
vita a pieni polmoni e ne godeva. Era irradiata da una
nuova energia, che, partendo dal suo intimo, si trasferiva all’ambiente circostante e come un boomerang
tutto le sorrideva. Forse era la luce dell’estate, forse
della sua anima, ma le pareva che ogni cosa, anche i
muri, le parlassero.
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C’era dell’estremismo in queste sensazioni forti,
tanto lontane dai tempi bui, ma era certa, ormai calata
nell’atmosfera della contemporaneità, di non voler perdere neanche un attimo di quelle gioie. Il presente la
lasciava senza fiato.
va all’infinito, arricchendoli di particolari. La fantasia
diventava vita e la sostituiva.
Trascorse giorni interi a lavorare di cesello sull’immagine del tradimento, quasi fosse una scultura da ultimare.
Ma la conclusione dell’opera era sempre lontana perché,
come in un terribile incubo, i colpi sul marmo erano sempre gli stessi e incidevano i medesimi punti: la circolarità
perfetta che si manifesta sull’orlo dell’abisso.
Ma c’era una parte di lui che rimaneva cosciente e,
inorridita, assisteva all’aumentare della ciclicità del pensiero: sempre più alterato, sempre più frequente.
I cerchi si facevano man mano più piccoli e in fondo al
cono c’era il buio. In questo buio illimitato, l’unico sprazzo
di colore era il ricordo delle macchie: un periodo bello e
remoto. La luce che irradiava la sua pelle ormai lo atterriva.
La sua serenità, il suo distacco lo offendevano ogni
giorno di più, perché la vedeva volteggiare in aria, mentre lui sprofondava nella palude dei rancori e dei sospetti.
Bieco, intimidito e catturato da quella sessualità eterea
e carnale al contempo, godeva all’idea di poterla smascherare. Quello era ormai il pensiero dominante, quasi
un motore immobile a cui tutto si riconduceva: il tradimento. Se l’avesse colta sul fatto finalmente ne sarebbe
stato appagato.
Nel buio, dopo l’amore, contemplava il tradimento
come una bella donna, oggetto di desiderio; lo agognava
come un frutto, la cui maturità è stata attesa a lungo.
Voleva a tutti i costi la prova alle sue supposizioni, la giustificazione ai suoi deliri. Ma tracce non ne scorgeva e
questa ricerca vana lo rendeva esausto. Ma avrebbe atteso... come un cacciatore esperto si appostava per corteggiare la sua preda e iniziare la danza della morte. Sí!
Avrebbe atteso, perché soltanto la distruzione dell’amore
l’avrebbe salvato.
Un uomo, come era lui, razionale a detta di tutti, non
avrebbe mai immaginato di finire a quel modo.
Sprofondato nella paranoia più asfissiante, quella che ti
toglie persino il pensiero. Con il cervello paralizzato camminava per le strade, tra la gente che non esisteva.
Niente più esisteva per lui: solo lei e il tradimento. Un
"tam-tam" continuo che si imprimeva nelle ossa, che gli
disgregava la mente. Come un disco incantato, si ripeteva
ogni giorno le medesime cose e su questi pensieri lavora-
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Un giorno, mentre tornava dal lavoro, la vide da lontano camminare immemore di se stessa. In quell’attimo
non poté non amare con tutto il suo cuore quella dimenticanza. Gli apparve come una donna millenaria, la prima
donna apparsa sulla terra. I fianchi morbidi fluttuavano
con naturalezza: erano onde su di un mare appena agitato. La luce del sole si rifletteva sui capelli lucidi, inseguendola tra gli sguardi increduli che lei non vedeva.
– Oppure fingeva di non vederli? Non poteva non
essere consapevole dell’incanto che possedeva! – pensò
indignato, cercando conferma negli sguardi altrui.
Era incredulo perché capiva proprio in quel momento
che avrebbe potuto trascorrere una vita accanto a quella
donna senza comprendere per intero il suo mistero: ci
sarebbe stata sempre una parte, per lui, senza accesso.
Quella parte che lui aveva tentato di espugnare nei
tempi passati, ora si ripresentava sotto forme assai più
insidiose. Dopo aver avuto la meglio sul malessere, l’an-
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goscia, l’odio, nulla poteva contro quella leggerezza che
appariva, ai suoi occhi, inafferrabile.
Dopo la completa visibilità delle macchie c’era stato il
nulla: la rarefazione. Non esisteva più alcuna possibilità
di possesso perché mancava la comprensione, quella totale, data dalla intelligibilità.
– No! – si diceva, mentre con la macchina sfrecciava
tra il traffico per raggiungere casa il più veloce possibile. –
Quella donna non era priva di chiarezza! Dava piuttosto
l’impressione di essere ora il chiarore stesso! E quella luce
lo stava accecando! Quella luce gli impediva di vedere i
contorni.
– E poi c’era anche qualcosa – continuò, pigiando sui
suoi pensieri e sull’acceleratore – che non si poteva spiegare a parole. – Lui, perlomeno, non ci riusciva. Era leggera, ma profonda, e le sue parole non risultavano mai
pesanti, mai minacciose, mai ricattatorie. La sua presenza
lo rendeva libero, ma era proprio quella libertà ad atterrirlo. Le macchie, con il loro potere recriminatorio, lo tranquillizzavano. Le macchie erano un punto di riferimento.
La libertà era il vuoto. Il vuoto che lo inglobava e lui
lottava per non esserne risucchiato. Quel vuoto era più
potente di qualsiasi pensiero, proprio perché non poteva
essere pensato.
E con la mente riandava a quel corpo lascivo, che lo
calamitava al suo interno. Scivolava perdendosi. Perché
mai avrebbe dovuto opporsi? Eppure, ancora si dibatteva,
per non cadere. Era un pesce che continuava a guizzare.
Pochi colpi e tutto sarebbe finito.
Ora aveva parcheggiato la macchina e stava salendo di
corsa le scale di casa.
Spalancò la porta senza avere la più pallida idea di cosa
fare. Molte volte, per molti giorni, aveva aperto quella
porta di scatto, sperando di coglierla con un altro.
Desiderava la stessa scena che, invece, era sempre diversa.
Quando lo accoglieva, buttandogli le braccia al collo
come una bambina festosa, e quando doveva urlare per
rintracciarla in fondo alla casa, accovacciata con un libro
in mano. Se era all’erta, percepiva qualsiasi rumore dall’esterno, ma se sprofondava in se stessa, non c’era modo
di scuoterla. In poche parole, non era mai la stessa.
Se si convinceva di aver capito qualcosa, lei puntualmente la contraddiceva, facendo il contrario. Era una
donna entropica. Se avesse dovuto fissare un’immagine
per definirla, avrebbe detto le macchie, che non c’erano.
– Non possedendo lei, non riuscirò mai più a capire me
stesso! Mi sto perdendo – pensò, entrando in salotto e
guardandosi intorno.
Anche l’appartamento era in continua mutazione. Era
rimasto immobile durante gli anni da scapolo e ora ribolliva di colori e stoffe. Turbolenze estetiche che non lo rassicuravano.
Si sdraiò sul divano, febbricitante. Il divano, per fortuna, era rimasto lo stesso. Lo aveva comprato col suo
primo stipendio.
– Non poteva crederci! – pensò. Lui, il positivista, non
aveva più la certezza di niente e aveva mandato a quel
paese anche la vantata capacità di tenere in pugno il
mondo.
Si sentiva come un chirurgo cui avessero tolto il
bisturi. O peggio, come un chirurgo che aprendo un
corpo si trovasse di fronte a due cuori o a dei polmoni
fosforescenti.
– Un bravo figlio di casa, – rievocava nella sua mente,
– di quelli che danno sempre delle soddisfazioni ai genitori. Mai un rimprovero, mai un neo in una condotta irreprensibile. Voleva il meglio da stesso e in gran parte l’aveva ottenuto: borse di studio, università a pieni voti e un
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BRUNELLA MARCELLI
LE MACCHIE
lavoro ben retribuito. E aveva continuato la sua strada a
testa alta, con poche salde convinzioni, tra cui quella di
avere una profonda comprensione della psiche umana. Di
continuo, vivisezionava le altrui coscienze, sondava, dava
consigli non richiesti e si divertiva anche a psicanalizzare. Degli altri capiva tutto. Ma di se stesso?
– Perché tu sei cosí! – questa frase era ricorrente nella
sue conversazioni. – Dovresti fare cosí! Tu hai questo
problema! Risolvilo in questo modo!
Strategie. Strategie. Era anche un campione di Risiko. E
gli altri lo ascoltavano, perché parlava più forte, perché
rispetto a loro aveva avuto successo e anche perché, nell’instabilità generale, ci si attacca a tutto, persino all’oroscopo.
Sprofondato sul divano, ricordava i suoi virtuosismi
verbali, i suoi colpi di fioretto, ma ora stentava a riconoscersi in quel giovane uomo di successo che gli altri credevano. Si sentiva staccato da se stesso. L’anima e il suo
corpo non combaciavano. La sua energia, che si strappava dalla carne, gli procurava una fitta al cuore. Le ferite
dell’anima sono di certo le più dolorose.
Ma era stata l’ultima battaglia, quella persa. Quella
che aveva mandato all’aria le sorti dell’intera guerra. La
sua dannazione era stata decidere di conquistare quella
donna. Ci sono gesti, atti, che non andrebbero mai fatti. Ci
sono cibi che ci sono indigesti, per alcuni possiamo addirittura morire. Lei era il suo veleno.
Quando aveva deciso di avere lei, la donna desiderata
da tutti, la più bella e inaccessibile, aveva firmato la sua
condanna a morte. Credeva, però, di avere un asso nella
manica: le macchie. Quegli sprazzi rossi erano chiaro
segno d’indebolimento e resa. Ma, oggi, li vedeva come il
sangue che aveva perso sul campo. Sotto il crollo del
muro, cinto d’assedio, c’erano le sue macerie.
La donna era fuggita. Oppure, era morta e risorta con
forza. E ora quella forza lo annientava. Era come se aves-
se visto nascere una gigantessa dal deserto, in un turbinio
di sabbia, forte e inconsistente. Pronta a sfaldarsi e a
ricomporsi in ogni istante e in ogni luogo. Cangiante nelle
forme e nella luce, dispersa e compatta allo stesso tempo.
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L’immagine, il delirio e l’incubo si materializzavano
davanti a lui. La gigantessa lo stava abbracciando in una
stretta mortale, da lasciarlo senza respiro. Lui tentava di
toccarla, di sentirla, ma sotto le sue mani c’era soltanto
della sabbia, fine e vellutata.
Era un mucchietto di cenere, quando l’aveva incontrata; un mucchietto di polvere grigia, chiusa in un’urna
cineraria. Lui aveva operato il miracolo, togliendo il
tappo al contenitore. Ma quale forza della natura si era
mai liberata! Un vaso di Pandora.
Da allora sempre e solo sabbia, negli occhi, nelle
membra, nell’aria. Sabbia e angoscia. Sabbia e paura.
– Sabbia tra le mani o polvere negli occhi? – si chiedeva, in preda al panico, mentre si andava rigirando sul
divano, in cerca di una posizione più comoda. – Segatura
nel cervello, quella sí che la sento! Se muovo la testa la
sento. Sento i click, i click dentro. Sono i neuroni che si
stanno spegnendo? Sono in cortocircuito? E il pulviscolo
che respiro? Lo mando giù, come se non esistesse, ma in
controluce lo posso vedere! E l’aria, vista da vicino, è
popolata di tutto! È una giungla che respira! Ho paura! Mi
potrei anche contaminare.
Si accasciò per terra, con la testa tra mani che stropicciavano prima gli occhi e comprimevano poi il cranio al
galoppo. Era un animale ferito. Rannicchiato. Un feto.
– Non sono più nessuno – urlò verso il vuoto.
Sentiva di essere lui la polvere, sparsa e trasportata dal
vento. Percepiva il suo essere, frantumato in mille tessere. Ma la figura centrale nel mosaico non c’era! Forse non
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c’era mai stata.
– No! Non è possibile! – gridò. Eppure lui viveva, esisteva, parlava, mangiava e poi esistevano gli altri, con le
loro precise opinioni su di lui che, a dire il vero, erano
sempre state buone. Voleva che gli altri pensassero sempre bene di lui. Su questo aveva lavorato una vita intera.
L’opinione altrui era stata al centro della sua esistenza.
Per un attimo si rasserenò. Aveva trovato la soluzione
al dilemma. Ma la pace durò poco. Anche gli altri erano
tessere di un mosaico. Detenevano ognuno una piccola
porzione di realtà. È vero. Potevano contribuire a ricomporre il tutto, ma soltanto se lui lo avesse voluto.
sulla sua persona. Amava contemplarsi allo specchio: si
piaceva enormemente. Dosava ogni piccolo atto, ma
anche la sua spontaneità era calcolata. Era consapevole
del suo fascino e fatale voleva risultare. Pur non tradendolo carnalmente, le apparve chiaro che ogni atto di voluta seduzione era in fondo un gesto di tradimento.
– Sí! – pensò. Lo teneva stretto tra le braccia e quello
spirito di potenza le infondeva energia. Un vigore che la
ritemprava dall’interno, come nuova linfa. Ora lo sentiva
farsi sempre più piccolo, come se si stesse liquefacendo.
Contrasse a forza una risata tagliente, come un sibilo.
Godeva della forza ritrovata.
Sciolto in un grande mare bollente, lui si tuffò nel
sogno. Impressioni di colori, di odori, lo coinvolsero all’istante. Attore in prima persona, ora poteva finalmente
vivere nel mondo onirico, l’unica realtà che al momento
la sua mente gli concedeva.
Rossi, colmi di pianti, erano i suoi occhi al risveglio. Si
ritrovava di nuovo nella vita e questo lo turbava. Ma qualcosa di nuovo era sorto; lo percepiva nella fisicità mutata.
C’era qualcosa di rassicurante in quella sensazione.
Si alzò di scatto al buio e andò allo specchio. Spostò la
tendina per far entrare la luce della luna. In verità, non riuscí
a vedere molto. Nell’immagine riflessa si evidenziavano solo
due occhi di follia. Quasi non si riconobbe, ma persisteva la
speranza di un avvenuto cambiamento, di uno scatto interno.
All’improvviso si decise ad andare in bagno, anche se l’idea
del neon, cosí forte, sbattuto in faccia, lo intimoriva.
Entrò nella toilette e chiuse gli occhi mentre tastava
sull’interruttore. Ora era cieco tra le maioliche. Dischiuse
le palpebre e percepí il livido della luce. Ma c’era una
nota in più di colore e l’occhio veloce si spostò sulla
pelle. E, finalmente, le vide: le macchie.
Si addormentò sul tappeto, vestito, e con la testa scomodamente appoggiata sul divano. Fu un sonno quieto; la
realtà era già un incubo.
Si svegliò al suo rientro e, in uno stato di incoscienza,
quasi non la riconobbe. Lei si stupí di vederlo cosí malconcio e lo attribuí alla stanchezza per il troppo lavoro.
Dopo averlo aiutato a svestirsi, lo accompagnò a letto.
Nel letto si sentiva stretto a un corpo incandescente.
Anche la respirazione gli riusciva faticosa. Cercava di inspirare l’aria, seguendo un ritmo, ma il ragionato controllo di un
atto cosí naturale gli riusciva difficile. A tratti si sentiva boccheggiare e una strana elettricità si espandeva sull’intero
corpo. Era quasi un ostaggio tra le sue membra.
Cosí lei lo percepiva: piccolo, come uno scricciolo tra le
sue braccia. Lo fagocitava tra le sue gambe, lo possedeva,
beandosi del senso di maternità che l’atto stesso le inspirava.
Si rese conto che quel dominio alimentava la ritrovata
fiducia.
Fu spaventata da quel pensiero che sminuiva la sua
presunta bontà. Si rese conto, all’improvviso, che da un
po’ di tempo a quella parte stava erigendo un simulacro
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