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Salvatore Altiero e Marica Di Pierri
Sviluppo, giustizia sociale e crisi ambientale *
Il Club di Roma, nel 1972, supportando lo studio di Donella Meadows, Limits to Growth,
affermava che la finitezza del pianeta e la limitatezza delle risorse, in connessione con la crescita
demografica, avrebbe portato all’arresto della crescita economica e della popolazione stessa,
determinato dal progressivo esaurimento delle risorse, carbone prima e petrolio poi e mettendo a
rischio la sopravvivenza dell’umanità. Queste previsioni, pur individuando correttamente i rischi
connessi all’incremento della pressione sulle risorse naturali, sono stati smentiti tanto per quanto
riguarda l’arresto della crescita demografica che quello dello sviluppo economico, quest’ultimo
spinto oltre ogni limite dall’applicazione del progresso tecnologico e dalla disponibilità di energia.
Così, raggiunto il primo miliardo intorno al 1800, dal 1960 al 2015 la popolazione mondale è
passata da 3 a 7 miliardi di persone (1). Ugualmente in costante crescita il PIL mondiale. Dagli anni
’90 ad oggi, ad esempio, l’incremento è stato sempre compreso tra il 2 ed il 5%, escluso il periodo
a cavallo tra 2008 e 2009, in piena crisi economica.
Nel 2004, la stessa Donella Meadows e altri autori, in Limits to Growth: The 30-Year Update,
hanno meglio individuato nell’insostenibilità dell’impatto ambientale il vero limite alla
sopravvivenza della specie umana e non solo allo sviluppo economico.
All’incremento demografico e alla crescita del PIL corrisponde, a livello globale, il manifestarsi
di emergenze ambientali devastanti; su tutte il cambiamento climatico. Per completare il quadro,
va messo in luce come, nel rapporto tra diversi Continenti, oltre che tra gruppi di individui o Stati,
la crescita demografica e del PIL sia stata accompagnata dall’incremento della sperequazione
nell’accesso alle risorse naturali oltre che nella distribuzione della ricchezza economica. I dati
pubblicati da Oxfam nel gennaio 2015 affermano che, nel 2014, “l’1% più ricco della popolazione
mondiale possedeva il 48% della ricchezza globale, lasciando appena il 52% da spartire tra il
restante 99% di individui sul pianeta”. Di questo restante 52%, solo il 5,5% è riservato ad una
quota pari all’80% della popolazione mondiale, mentre il resto è distribuito tra il 20% più ricco (2).
Tornando all’insostenibilità dell’impatto ambientale, dall’era pre-industriale, l’aumento della
concentrazione di anidride carbonica è pari al 40%; cause primarie, le emissioni legate all'uso dei
combustibili fossili e quelle dovute al cambio di uso del suolo. Più del 75% delle 10 gigatonnellate
di incremento annuo delle emissioni di gas serra tra il 2000 e il 2010 è stato dovuto alla fornitura
di energia (47%) e all'industria (30%) (3).
Si ricava da questi dati che, da un lato, il modello produttivo si alimenta distruggendo
l’ambiente, dall’altro si acuisce sempre più la divaricazione tra chi di ciò beneficia
economicamente e chi ne subisce gli effetti devastanti in termini di rischio ambientale e sanitario
legato all’inquinamento. In più, l’ambiente non è sacrificato in nome di un modello in grado di
produrre benessere diffuso e distribuito bensì artefice di grandi diseguaglianze.
1
Historical Estimates of World Population - US Census Bureau; The World at Six Billion, World Population, Year
0 to near stabilization [Pdf file] - United Nations Population Division
2
Oxfam, Grandi diseguaglianze crescono, rapporto gennaio 2015, passim.
3
IPCC – International Panel on Climate Change.
1
Per l’Italia, i risultati dello Studio SENTIERI - Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e
degli Insediamenti Esposti a Rischio da Inquinamento (2011), nel periodo 1995-2002, per i 44 Siti
di interesse nazionale per le bonifiche oggetto di studio, affermano che riguardo allo stato
socioeconomico come determinante di salute e malattia, il 60% della popolazione dei SIN
appartiene alle fasce più svantaggiati. Confermando così la sperequazione nella distribuzione per
classe sociale dei rischi ambientali connessi al modello produttivo.
Rispetto all’esposizione sistematica di determinate popolazioni ai rischi ambientali e sanitari
connessi all’impatto del modello produttivo sui territori, le mobilitazioni campane contro lo
smaltimento legale e illegale di rifiuti urbani e industriali, hanno elaborato un nuovo linguaggio
dell’insostenibilità sistematizzato nella categoria ecologico-politica del “biocidio”.
Il modello energetico implica, in quanto ancora incentrato sulla produzione industriale di
energia e sullo sviluppo di attività energivore, la concentrazione dei profitti connessi al consumo di
risorse, contribuendo ad ingiustizia e diseguaglianze sociali, oltre che al radicalizzarsi dei conflitti
legati alla corsa all’accaparramento. Si pone in antitesi rispetto all’implementazione della
produzione diffusa, oggi tecnologicamente possibile, in grado di garantire, per una buona quota
dei consumi, la possibilità di unire la figura del consumatore e del produttore in un ottica non di
mercato, più adatta ad una risorsa essenziale quale l’energia. Infine, non solo alimenta un modello
estrattivo che aggancia la crescita del PIL al depauperamento dell’ambiente ma è certamente un
fattore generativo di rischio sanitario e ambientale, su scala locale e globale. In buona sostanza,
l’attuale sistema energetico racchiude in sé gli ostacoli alla giustizia ambientale, sociale ed
economica più generalmente riconducibili all’attuale modello di sviluppo.
Modello energetico e biocidio
Il necessario abbattimento delle emissioni di gas climalteranti alimenta un dibattito la cui coerenza
si infrange puntualmente contro interventi che con più elevata incisività supportano produzione e
consumo di energia da fonti fossili. Nel 2011, il Fondo monetario internazionale, ha stimato i
sussidi economici alla combustione di petrolio, gas e carbone in 1.900 miliardi di dollari a livello
mondiale (600 miliardi secondo la Global Commission on the Economy and Climate). In Italia, pur
in assenza di una contabilità ufficiale, le analisi di Legambiente hanno individuato 17,5 miliardi di
euro tra sussidi diretti e indiretti nel 2014 (4), solo questi ultimi ammontano, dal 2001 al 2013, ad
oltre 42,3 miliardi per gli impianti di produzione di energia da fonti fossili.
Secondo lo stesso rapporto, a fronte di un picco massimo dei consumi di 56.822 MWh richiesti alla
rete italiana, dal 2002 ad oggi, nuove centrali a gas e riconversione a carbone di centrali ad olio,
hanno portato al raggiungimento delle 78mila MW di energia prodotta da centrali termoelettriche,
a cui si aggiungono almeno 45mila MW da fonti rinnovabili. Ciò basta a negare giustificazione alla
politica di sussidi alle fonti fossili quanto alla costruzione di nuove centrali termoelettriche. Al
contrario si contano 6 centrali in fase di realizzazione e 38 in corso di autorizzazione alimentate a
gas, metano e carbone. In particolare, per le più impattanti dal punto di vista ambientale, quelle a
carbone, vi sarebbero in discussione 5.000 MW tra nuovi progetti e riconversioni.
4
Dossier "STOP sussidi alle fonti fossili" 2014
2
Il 42% dell’energia elettrica mondiale e il 33% di quella europea è prodotta da carbone (dati
assocarboni.it). Mentre in Europa mediamente il 60-70% di energia è prodotto da un mix variabile
di carbone e nucleare, in Italia, abbandonata la strada del nucleare, secondo i dati del 2013 il mix
energetico è composto per il 50% da gas naturale, per l’8% da olio combustibile, per il 12% dal
carbone, per il 30% da rinnovabili. Al dato positivo di un investimento sul carbone inferiore alla
media europea, si accompagna la dipendenza per più del 50% nella produzione di elettricità parliamo di energia prodotta e non del fabbisogno - da gas, fonte il cui approvvigionamento è
legato ad equilibri politici precari. Questo spinge l’Europa a prevedere di mantenere almeno il 4550% del proprio mix energetico a nucleare e carbone, diffuso in paesi più stabili dal punto di vista
geopolitico, nonostante nelle strategie contro il cambiamento climatico si affermi la necessaria
decarbonizzazione del modello energetico. Si spiega così anche in Italia un risvegliato interesse da
parte dei produttori. Sul sito di assocarboni si legge chiaramente che “oltre a occupare una quota
di mercato modesta, in Italia il carbone risente anche degli effetti di una lunga disinformazione”
riguardo alla mitigazione degli impatti ambientali. Ugualmente, sul sito di ENEL: “è significativo che
il successo internazionale del carbone sia andato crescendo proprio negli ultimi anni (…) il
vantaggio maggiormente apprezzato è quello economico, legato ai bassi costi dell’energia
generata con il carbone (…) le uniche fonti che riescono a eguagliare il carbone, ma solo in
particolari situazioni e aree geografiche, sono l’idroelettrico e il nucleare”.
Tra tutti i combustibili fossili, il carbone è certo il più inquinante a parità di energia prodotta: la sua
combustione genera il 30% di CO2 in più rispetto al petrolio e il 70% rispetto al gas naturale. Lo
studio dell’ Heal - Healt and Enviroment Alliance, “The unpaid health bill. How coal power plants
make us sick”, afferma che l’impatto della combustione di carbone in Europa è di 18.200 morti
premature, 2.100.000 giorni di cure ospedaliere, 4.100.000 giorni di lavoro persi, 28.600.000 casi
di malattie respiratorie e un costo sanitario compreso tra i 15,5 e i 42,8 miliardi di euro annui.
Questi dati sembrerebbero dare un quadro abbastanza realistico per l’Europa se rapportati a quelli
di un Paese in cui il carbone è ben più diffuso. In Cina, l’inquinamento dell’aria è classificato come
prima causa di disagio sociale mentre, secondo uno studio della rivista Proceedings of the National
Academy of Science si conterebbero 257.000 morti premature all’anno: un’aspettativa di vita
ridotta di 5 anni e mezzo per cause legate a problemi cardio-respiratori, cioè la principale
conseguenza dell’inquinamento atmosferico. Pur non volendo affermare un rapporto di causaeffetto tra questi dati e le circa 2.300 centrali a carbone attive - dato che pone anche bene in luce
il ruolo di questo Paese nelle emissioni climalteranti - e le morti premature, nemmeno è possibile
escludere che gli agenti chimici e i residui della combustione del carbone abbiano un impatto
grave sulla salute. In Italia sono ancora attive 13 centrali a carbone, segno che si ritiene ancora
possibile sacrificare determinate popolazioni a questo devastante impatto sanitario del modello
energetico.
3
Fonte: http://www.assocarboni.it/
Nel marzo 2014, la Centrale a carbone Tirreno Power di Vado Ligure è stata posta sotto sequestro,
l’ordinanza del Gip parla esplicitamente di nesso di causalità tra le emissioni e le 442 smorti che
secondo la Procura sarebbero riconducibili alle emissioni della centrale tra il 2000 e il 2007. Nel
Decreto di Sequestro Preventivo si afferma che la chiusura dei gruppi a carbone «Eviterebbe ogni
anno mediamente: 86 ricoveri complessivi di bambini per patologie respiratorie e asma, 235
ricoveri complessivi di adulti (malattie cardiache più respiratorie) 48 morti tra gli adulti (malattie
cardiache più respiratorie)». Rispetto a quanto previsto nell’Autorizzazione integrata ambientale,
si registra lo sforamento di oltre 1,7 volte del valore limite di emissione consentito per il diossido
di zolfo e di 5 volte quello previsto per il monossido di carbonio, in applicazione delle migliori
tecniche disponibili. A Civitavecchia, la Centrale a carbone di Torrevaldaliga Nord, frutto della
conversione di una centrale a olio combustibile completata nel 2010, non desta meno
preoccupazioni. Qui, a giugno 2013, è stata deliberata l’istituzione del Registro Tumori
dell’Azienda USL RM/F del distretto F1, comprendente i 78.000 abitanti dei comuni di
Civitavecchia, Allumiere, Santa Marinella, Tolfa. Ancora, a Brindisi, due sono le centrali
termoelettriche attive, una Enel e l’altra di Edipower, in un’area in cui coesistono: il Polo
petrolchimico ENI, il deposito di GPL più grande d’Italia, una centrale Termoelettrica a turbo-gas,
un Termovalorizzatore da combustione di “rifiuti speciali e sanitari”, oltre alla discarica Micorosa,
44 ettari in cui sono stati stoccati i veleni del polo petrolchimico. Un quadro dell’impatto sanitario
sulla popolazione di Brindisi è dato dalle conclusioni dello studio SENTIERI: “Per quanto riguarda le
cause di morte per le quali vi è a priori evidenza Sufficiente o Limitata di associazione con le
esposizioni ambientali presenti in questo SIN (tabelle 2 e 3), in entrambi i generi si osserva un
eccesso per il tumore della pleura …. Negli uomini si osserva, prima della correzione per ID, un
difetto di mortalità per il tumore dello stomaco. È presente un eccesso di mortalità per le
malformazioni congenite”. La mortalità nell’area di Brindisi è stata analizzata per il periodo 19901994 nel rapporto Martuzzi et al. che evidenzia, negli uomini, “eccessi di mortalità per tutte le
cause e per la totalità dei tumori, in particolare per il tumore polmonare, pleurico e per i linfomi
non-Hodgkin (LNH), cause compatibili con le esposizioni ambientali e occupazionali dell’area”.
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Si tratta di una gravissima emergenza ambientale e sanitaria che ben può essere ascritta alla
categoria del Biocidio: la presa di coscienza che l’attuale modello di sviluppo non solo ha preteso
devastazione ambientale e compressione dei diritti del lavoro come contropartita di un benessere
economico comunque fondato sulla contrapposizione tra enormi ricchezze e diffuse povertà, ma
sta mettendo a repentaglio la vita stessa di migliaia di persone o deteriorandone la qualità.
People over the market
Le forme di sussidio diretto e indiretto testimoniano il perseverare di un’opzione fondata sul
trasferimento di risorse verso forme di produzione industriale di energia capaci di garantire grandi
profitti a scapito dell’implementazione di una produzione diffusa in linea con l’attuazione di
politiche redistributive. Il tutto fondato anche sulla possibilità concessa a gruppi di interesse
limitatissimi di imporre alla collettività il costo ambientale e sanitario della propria attività
economica. I dati citati sui costi sanitari a livello europeo indicano appunto questo. E se pensiamo
allo smantellamento del sistema sanitario nazionale in Italia, il fenomeno assume caratteri ancora
più preoccupanti: da un lato ci si ammala di inquinamento dovuto ad attività produttive, dall’altro i
costi di screening e cure vengono scaricati sul cittadino. Da un altro punto di vista, è possibile dire
che l’attuale funzionamento del mercato energetico pur improntato alle teorie economiche
liberiste dà luogo per assurdo ad uno stravolgimento stesso delle regole del mercato, da qui è
possibile derivare l’esigenza di un’“economia sociale dell’energia”. In Italia, ad esempio, il
sopravanzo della capacità energetica degli impianti produttivi rispetto al picco dei consumi
determina una situazione per cui la sostenibilità degli investimenti per la costruzione e il
mantenimento delle centrali termoelettriche è garantita non dalla domanda di energia ma dai
sussidi e dal controllo al rialzo dei prezzi. L’assurdo è in sostanza il verificarsi di una situazione per
cui il prezzo dell’energia aumenta al crescere dell’offerta. Se infatti si lasciano i produttori liberi di
investire nella costruzione di impianti capaci di dotare il Paese di un potenziale energetico
superiore al proprio fabbisogno, sarà poi necessario che quegli impianti lavorino al di sotto delle
proprie capacità a meno che non collochino l’energia prodotta sul mercato estero. In caso
contrario, l’unico modo per garantire il rientro degli investimenti è produrre meno energia rispetto
alla capacità degli impianti ma farla pagare di più o sovvenzionarla. Un “mercato sociale”
dell’energia è ciò che eviterebbe che ai profitti dei colossi energetici faccia da contraltare la
socializzazione dei costi.
La Sen del 2013
Nel nostro paese, dopo 24 anni di assenza, con decreto interministeriale datato marzo 2013, il
governo Monti, attraverso i suoi ministri Clini (Ambiente) e Passera (Sviluppo economico), ha
varato una nuova Sen – Strategia Energetica Nazionale.
Si guardava anzitutto alla riforma del Titolo V della Costituzione, peraltro attualmente in
discussione, nel senso di un riaccentramento della gestione delle risorse, depotenziando i poteri di
Regioni ed enti locali. Proposta da un Governo tecnico, sei mesi prima del proprio termine, e
quindi debole dal punto di vista della responsabilità politica, la strategia appare guidata da quattro
obbiettivi principali: diventare competitivi sul mercato energetico, raggiungere la qualità Europea
e gli standard ambientali, ridurre la dipendenza energetica da fornitori esterni e usare lo sviluppo
energetico per raggiungere un paradigma di sviluppo sostenibile. I combustibili fossili rimangono la
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pietra miliare del piano energetico, che prevede un considerevole sviluppo della produzione
nazionale di petrolio e l’obiettivo di fare dell’Italia il centro europeo del gas.
Questo comporta un grosso lavoro di rinnovamento delle strutture petrolifere già esistenti e di
estensione di campi di coltivazione petrolifera e gasdotti. Dubbi i vantaggi per i consumatori in
termini di prezzo: sia il petrolio sia il gas prodotto in Italia dovrebbero essere venduti a prezzo di
mercato, lo stesso di quelli provenienti da altri Paesi. Dal momento che l’attuale rete di
distribuzione non ha le strutture adatte al trasporto di gas liquefatti, lo stoccaggio e lo scambio
non potrebbero realizzarsi senza contratti di fornitura e senza la costruzione di nuovi gasdotti, il
cui costo verrebbe comunque trasferito in bolletta.
In definitiva, nonostante l’impegno preso al G20 di Pittsburgh di ridurre l’approvvigionamento da
fonti fossili, la Strategia Energetica Nazionale del 2013 ignora la Road Map europea per il 2050,
indicando le risorse rinnovabili solamente come misure integrative all’interno di un sistema ancora
basato su fonti fossili.
Deregolamentazione ambientale: dallo “Sblocca Centrali” allo “Sblocca Italia”
In Italia, a più di dieci anni dalla legge 9 aprile 2002, n. 55, di conversione del decreto 7 febbraio
2002, n. 7, recante “misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale”, c.d.
“Sblocca Centrali”, appaiono chiari i risultati prodotti da una regolamentazione del settore
energetico tutta incentrata su concorrenza e costruzione di megaimpianti. Il fine dichiarato di quel
decreto era “evitare l'imminente pericolo di interruzione di fornitura di energia elettrica su tutto
il territorio nazionale” e “garantire la necessaria copertura del fabbisogno nazionale”. Il decreto
interveniva dopo la riforma del Titolo V della Costituzione con cui la politica energetica era stata
fatta oggetto della potestà legislativa concorrente, di cui all’art. 117, comma 3, Cost., ove si
prevede che riguardo la “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” lo Stato
stabilisce i principi fondamentali e le Regioni la normativa di dettaglio. Si potenziava quindi il ruolo
delle Regioni rispetto alla possibilità di autorizzare o meno la costruzione di impianti a seconda del
proprio fabbisogno e degli impatti sul territorio. Ovvio che, tenendo conto di questi criteri,
diveniva più difficoltosa l’autorizzazione di grossi impianti e favorita la produzione diffusa meno
impattante e più adattabile ai fabbisogni regionali. La legge 9 aprile 2002, n. 55, interveniva
dunque per riportare allo Stato centrale la competenza per la costruzione e l'esercizio degli
impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW termici e le opere ad essi
connesse, dichiarati di pubblica utilità e soggetti ad una autorizzazione unica, rilasciata dal
Ministero delle attività produttive e sostitutiva di tutte le autorizzazioni, concessioni ed atti di
assenso comunque denominati. Esautorate le Regioni, in un’ottica chiaramente volta alla
produzione, si spacciava per semplificazione normativa una deregolamentazione ambientale
spinta.
Le leggi approvate negli anni successivi, testimoniano in maniera diffusa l’attestarsi dell’Italia su
una “sottile linea fossile”. La legge 21 febbraio 2014, n. 9, ha convertito il decreto-legge 23
dicembre 2013, n. 145, recante interventi urgenti di avvio del piano «Destinazione Italia», per il
contenimento delle tariffe elettriche e del gas. Voluto da Letta e portato avanti dal governo Renzi,
il decreto ha introdotto incentivi per i prossimi 20 anni per una centrale a carbone da costruire nel
Sulcis. Altro impulso al consumo e quindi alla produzione di energia, nel decreto del 5 aprile 2013,
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che introduce una definizione di azienda “energivora” che tiene in considerazione non solo il
consumo assoluto ma l’incidenza del costo dell’energia consumata sul volume d’affari, stabilendo
quindi agevolazioni sulle accise per le aziende con un costo totale dell’energia superiore al 3%
nonché sgravi sulla bolletta per le aziende il cui indice di intensità elettrica superi il 2%; si tratta del
rapporto tra costo dell’energia e fatturato. Più alto sarà questo rapporto, maggiori saranno le
agevolazioni. Secondo il sito di Assoelettrica, grazie a questi provvedimenti, alle aziende
energivore sono andati, nel I trimestre del 2014, 820 milioni di euro.
Dulcis in fundo, con il c.d. “Decreto Sviluppo” 2012 recante “misure per lo sviluppo e il
rafforzamento del settore energetico”, art. 38-bis, si stabilisce la possibilità di individuare gli
“impianti di produzione di energia elettrica con potenza termica nominale superiore a 300 MW,
anche tra quelli” fermi per motivi legati alle prescrizioni contenute nelle autorizzazioni, da
chiamare in esercizio con urgenza per superare l’emergenza gas nel periodo compreso tra il 1°
gennaio e il 31 marzo. In questo modo si intende destinare al riscaldamento domestico il gas
risparmiato dalla produzione di energia elettrica. L’emergenza e la necessità di garantire la
sostenibilità economica di un aumento di produzione a singhiozzo giustificano così l’applicazione a
tali impianti di soglie “in deroga a più restrittivi limiti di emissioni nell’atmosfera o alla qualità dei
combustibili, eventualmente prescritti dalle specifiche autorizzazioni di esercizio, ivi incluse le
autorizzazioni integrate ambientali”. Ancora, i gestori vengono esentati “dall’attuazione degli
autocontrolli previsti nei piani di monitoraggio e controllo”.
Tra i sussidi indiretti, possono essere invece certamente inclusi gli investimenti in opere stradali e
autostradali che nel biennio 2013-2014 - stima del Ministero delle Infrastrutture - è stato pari a 8,3
miliardi di euro (Stop ai sussidi alle fonti fossili, Legambiente). Al modello energetico fossile si
legano dunque produzione e consumo di energia e cementificazione, esattamente le due principali
cause di mutamento climatico. Ma ancora, le fonti fossili sono agevolate in Italia dalle royalties
fissate al 10% per il petrolio estratto, al 7% per quello in mare. Altrettanto bassi i canoni per
prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggio fissati rispettivamente a 3,40, 6,82 e 55 euro a kmq.
Se pensiamo che la Strategia energetica nazionale varata dal Governo Monti nel 2013 proponeva
di incrementare dal 7 al 14% il contributo degli idrocarburi al fabbisogno energetico, non
sorprende che l’approdo ultimo di questa corsa alla deregolamentazione ambientale sia stata la
legge n. 133 del 12 settembre 2014 c.d. ''Sblocca Italia'', convertito in legge 11 novembre 2014, n.
164.
Agli art. 36-38, si stabilisce un ulteriore incoraggiamento delle attività estrattive in aree
densamente popolate o soggette a rischio sismico, come l’Emilia Romagna e l’Irpinia, a rischio
tutta la costa Adriatica, le regioni del centro-sud e la Sicilia. La Basilicata è attualmente interessata
da titoli minerari per il 77% del proprio territorio, da questa Regione si estrae la quasi totalità di
gas e petrolio; persino qui, con il nuovo decreto, si rischia un incremento delle estrazioni. La logica
è la stessa dei provvedimenti già menzionati: si attribuisce carattere strategico alle concessioni di
ricerca e sfruttamento di idrocarburi e, per questo, si semplificano le autorizzazioni, si sottraggono
poteri agli organi regionali, si prolunga il tempo delle concessioni con proroghe fino a 50 anni.
Ugualmente, viene incentivata la produzione di energia da incenerimento attraverso la creazione
di una rete nazionale degli inceneritori e, quindi, di un mercato nazionale del combustibile da
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rifiuti, superando il vincolo di autosufficienza regionale nella gestione dei rifiuti. Il principio alla
base della corsa alle trivellazioni, alla costruzione e al sostegno economico di centrali
termoelettriche e alla realizzazione di inceneritori è lo stesso: “risolvere” il problema energetico
curando l’aspetto dell’offerta in un’ottica di mercato, rinunciando ad una politica strategica volta a
regolare la domanda e ad adeguare ad essa la produzione.
L’impatto ambientale di tali scelte è facilmente immaginabile, l’errore strategico ben descritto da
alcuni dati: le riserve certe di petrolio italiane presenti nei fondali marini ammonterebbero,
secondo le stime del ministero dello Sviluppo economico, a 10,3 milioni di tonnellate, utili a
coprire il fabbisogno nazionale di appena 7 settimane. Non più di 13 mesi il fabbisogno
eventualmente coperto attingendo al petrolio presente nel sottosuolo, concentrato soprattutto in
Basilicata (5).
Buona parte dei 57 Siti di interesse nazionale per le bonifiche sono costituiti esattamente da poli di
estrazione e raffinazione di petrolio, nonché da aggregati industriali del settore della
petrolchimica, dismessi e ormai testimonianza emblematica di un modello di sviluppo che, a fronte
di un incremento occupazionale limitato nel tempo, provoca disastri ambientali perenni. Se
consideriamo questo, il modello proposto dalla SEN prima e confermato dallo Sblocca Italia non
può che apparire un ritorno alle fonti fossili anacronistico e incosciente oltre che inutile.
Diritti umani ed energia
Il 2014 è stato l’anno del vertice sul clima delle Nazioni Unite a New York, della dichiarazione sugli
impegni USA-Cina per il clima, della rituale e ignorata Cop20 di Lima e dei più di 10 miliardi
stanziati in impegni per il Green Climate Fund. A febbraio 2015, si sono tenuti a Ginevra i negoziati
internazionali verso la COP21 di Parigi che dovrà stabilire gli accordi vincolanti sostitutivi del
protocollo di Kyoto. Oggetto di discussione a Ginevra è stato il testo uscito dalla COP20 di Lima.
Avendo parlato delle connessioni tra modello energetico, impatti ambientali e sanitari,
diseguaglianze sociali ed economiche, a noi sembra qui importante sottolineare l’ormai
imprescindibile necessità di un approccio fondato sulla tutela dei diritti umani che faccia da
controparte agli interessi economici connessi alla produzione di energia con conseguenze
devastanti per l’ambiente.
La storia dello sviluppo industriale è caratterizzata dalla costante sconfitta delle prerogative di
tutela ambientale a fronte delle esigenze dello sviluppo economico. Porre la centralità del legame
tra ambiente e tutela dell’individuo nel suo diritto alla salute, al cibo, alla buona qualità della vita,
alle risorse naturali essenziali, significa porre un limite giuridico invalicabile allo sfruttamento e
depauperamento delle risorse ambientali.
In occasione del vertice di Lima è stata diffusa da alcune delegazioni, tra cui Bolivia e Filippine, una
proposta di testo che si riconosce in questo approccio. Pur limitato da alcuni punti di vista,
essendo necessario che tale proposta venga inclusa tra le parti “operative” del testo che sostituirà
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Come sostiene lo stesso ministero dello Sviluppo economico nel Rapporto annuale 2012 della sua Direzione
generale
per le risorse minerarie ed energetiche: «Il rapporto fra le sole riserve certe e la produzione annuale media
degli ultimi
cinque anni, indica uno scenario di sviluppo articolato in 7,2 anni per il gas e 14 per l’olio».
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Kyoto, è importante l’aver individuato nei cambiamenti climatici una fonte di violazione di diritti
umani, sociali e ambientali.
Emergenza climatica: scienza, governance, politiche energetiche
Il 2015 sarà un anno cruciale per la lotta ai cambiamenti climatici. A fine anno è prevista infatti a
Parigi la 21° Conferenza delle Parti dell'Onu, incaricata di trovare la quadra per un accordo globale
sulla riduzione di emissioni che prenda il posto del protocollo di Kyoto entrando in vigore nel 2020.
Era dal fallimentare vertice di Copenaghen del 2009 che il clima non faceva la sua comparsa tra le
priorità dell'agenda politica internazionale.
Le premesse non prospettano una situazione facile da cambiare. Nel settembre 2014 la WMO –
Organizzazione Metereologica Mondiale dell'Onu ha registrato, nel suo bollettino annuale, che nel
2013 i livelli di emissioni di gas serra sono stati i più alti dell'ultimo trentennio e che la
concentrazione attuale di Co2 è più alta del 142% rispetto ai livelli pre-industriali.
Due mesi dopo, nel novembre 2014, l'Ipcc – International Panel on Climate Change delle Nazioni
Unite ha presentato il suo V Rapporto, secondo cui la temperatura è aumentata di 0,85 °C nella
bassa atmosfera terrestre dalla fine del XIX secolo e il livello degli oceani è salito di 19 cm. Per
ottenere un risultato concreto contro l'aumento delle temperature, afferma l'Ipcc, le emissioni
dovranno ridursi tra il 40 e il 70% entro il 2050, e scomparire entro il 2100.
Nell'ottica della quantificazione economica degli impatti lavora la Global Commission on the
Economy and Climate, presieduta da Sir Nicholas Stern, economista britannico già capo
economista della Banca Mondiale, autore del famoso Rapporto Stern che nel 2006 calcolò gli
impatti economici del cambiamento climatico affermando che i danni prodotti dal clima
all'economia globale equivarranno a una perdita complessiva del 20% del Pil. Lo studio
recentemente diffuso dalla Global Commission afferma che per una azione efficace occorrerebbe
anzitutto azzerare i sussidi alle fonti fossili, pari a circa 600 miliardi di dollari l'anno, contro i 100
miliardi destinato allo sviluppo delle rinnovabili. Allo stesso tempo, occorrerebbe ripensare le
infrastrutture previste nei prossimi 15 anni, per un totale stimato di 90.000 miliardi di dollari di
investimenti, in un ottica low carbon. Questo comporterebbe una spesa di circa 270 miliardi di
dollari in più l'anno, che sarebbe compensata dalla minor dipendenza dai fossili oltre che dal
risparmio in sanità pubblica. La percentuale di Pil che i 15 paesi che emettono più Co2 spendono
per i danni sanitari causati all'inquinamento atmosferico è infatti pari al 4%.
Mettere in atto una inversione di queste proporzioni presuppone il ripensamento integrale del
modello produttivo e del modello energetico in primis. Se il quadro complessivo è questo, le
scelte energetiche operate dall'Italia, dalla Strategia Energetica Nazionale del 2013 fino al recente
decreto Sblocca Italia, risultano certo prive di una prospettiva che orienti le scelte energetiche nel
quadro del contrasto ai cambiamenti climatici.
Lo stato delle negoziazioni
Prima del vertice di dicembre a Parigi, il programma prevede due appuntamenti intermedi di
negoziazione: la tornata di febbraio, appena conclusa a Ginevra, e la tornata di giugno che si terrà
in Germania, a Bonn. Alla base delle discussioni della sessione svizzera c’è stata la piattaforma
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negoziale istituita durante la 17° Conferenza delle Parti celebrata nel dicembre 2011 a Durban,
l'ADP - Durban Platform for Enhanced Action. Oltre all’ADP, sul tavolo dei negoziatori c’è il
documento approvato per il rotto della cuffia dalla sessione plenaria del vertice di Lima, la “Lima
call for climate action”. Il documento, la cui lunghezza è più che raddoppiata a Ginevra, ha finito
per includere tutte le proposte pervenute, rappresentando la complessità delle posizioni dei
diversi blocchi di paesi. Da qui a Parigi si dovrà lavorare dunque a individuare le linee condivise
sulle quali verterà la negoziazione, in materia di riduzione di emissioni, adattamento e mitigazione,
strumenti finanziari e tecnologici.
A parte le negoziazioni per l’accordo quadro, elemento dirimente sarà nei prossimi mesi l’azione
dei singoli paesi. Ciascun governo è infatti chiamato (tra aprile e ottobre) a presentare la propria
strategia di riduzione di emissioni a livello nazionale (Intended Nationally Determined
Contributions). L’Onu valuterà, attraverso un rapporto elaborato dalla Segreteria della
Convenzione e diffuso entro il 1 novembre, se la somma dei target dei singoli piani nazionali
soddisfa gli impegni necessari ad una azione efficace a livello globale.
In Italia il tema è poco presente nell’agenda politica e nel dibattito pubblico. A settembre il
premier Renzi, in occasione del Climate Summit di New York, aveva dichiarato che il clima deve
essere "una priorità per la politica, la sfida principale da affrontare, come la scienza consiglia, e che
dobbiamo garantire ai nostri figli che a Parigi gli impegni saranno vincolanti", appena due mesi
dopo il governo Renzi ha convertito in legge a colpi di fiducia il decreto Sblocca Italia e l’annessa
corsa ai nuovi permessi di ricerca ed estrazione. Il governo italiano non è certo l’unico a
presentarsi alla sfida del clima con questo doppio volto, si tratta però di un approccio non più
sostenibile.
Per agire efficacemente nel contrasto ai cambiamenti climatici occorrere un ripensamento
complessivo del sistema economico e del modello di produzione e di consumo, a partire dal campo
energetico. Taglio agli incentivi destinati alle fonti fossili, processi di conversione energetica basati
su reti intelligenti, rinnovabili a basso impatto e produzione distribuita. E ancora, investimenti in
processi di conversione ecologica delle produzioni (tramite efficientamento dei cicli produttivi,
filiere a basso impatto, innovazione di prodotto), reti capillari di trasporti pubblici ad alta
efficienza, riqualificazione del patrimonio immobiliare al posto di nuova cementificazione, messa
in sicurezza del territorio attraverso risanamento idrogeologico e bonifiche, promozione e
rafforzamento di reti di consumo condiviso. Infine, piani di adattamento territoriale agli impatti
climatici e politiche per il rafforzamento della resilienza urbana nei grossi centri.
*Ga Gazzetta ambiente n.3, 2015
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