L`america di John mccain

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L`america di John mccain
Organo ufficiale d’informazione della Federazione dei Verdi
Anno IV – n.186  sabato 18 ottobre 2008
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La grande corsa di Obama
Anche un autorevole endorsement del Washington Post a favore del candidato democratico alla White House
Il Post è un
giornale liberal che
ha saputo dare anche
voce alle opinioni
più conservatrici.
Adorano McCain,
ma scelgono
Obama. Nonostante
l’esperienza, il giovane
senatore ha formulato
le proposte più
convincenti nei settori
politici determinanti
per il futuro del Paese
 Alessio Postiglione a pagina 2 
Una vittoria a valanga?
Nella settimana in cui Obama sfonda “quota 270” sulle mappe elettorali, l’America si chiede se la corsa sia finita
Alessio Nannini
S
L’America di
John McCain
Petrolio
casalingo,
energia nucleare,
niente Kyoto: i
Repubblicani
non invertono la
rotta
2
arà una vittoria a valanga da 350 voti elettorali, dicono alcuni
strateghi democratici, e parlano di uno “tsunami economico” che spinge Barack
Obama verso la Casa Bianca.
No, attenzione, può essere
una doccia fredda, replicano
altri addetti ai lavori, esortando ad evitare entusiasmi
prematuri. Nella settimana
in cui Obama sfonda “quota
270” sulle mappe elettorali, l’America si chiede se la
corsa sia finita o sia ancora
possibile un colpo di scena.
Da quasi un mese i sondaggi
indicano concordi che il candidato democratico è in testa
sul repubblicano John McCain. I dibattiti presidenziali
non hanno cambiato niente,
l’economia punisce il partito che da otto anni detiene
la Casa Bianca e gli elettori,
se sono vere le rilevazioni,
sono pronti a mandare Oba-
Barack Obama sta spendendo tre volte più
dell’avversario John McCain in spot televisivi,
che vengono diffusi in un gran numero di Stati
che i democratici puntano a conquistare nelle
elezioni presidenziali del 4 novembre prossimo.
E’ quanto emerge da uno studio sulle spese dei
candidati condotto dall’Università del Wisconsin, a Madison. In un giorno-campione, lunedì
13 ottobre, il senatore democratico ha speso ben
3,3 milioni di dollari acquistando spazi televisivi,
mentre il suo avversario repubblicano ha investito circa 900 mila dollari. Il ritmo imposto da
Obama indica, secondo lo studio, che si avvia a
spendere quasi 100 milioni di dollari solo in spot
televisivi nell’ultimo mese della campagna elettorale: una somma superiore all’intero budget
che ha disposizione McCain. Il repubblicano ha
scelto di accettare i finanziamenti pubblici per la
fase finale della campagna e ha ricevuto 84 milioni di dollari da spendere in settembre e ottobre.
Obama è stato invece il primo candidato dagli
anni Settanta – quando sono entrate in vigore le
leggi sui finanziamenti elettorali – a rinunciare
ma nello Studio Ovale. Il sito
Real Clear Politics, che monitora tutti i sondaggi, per
la prima volta sulla propria
mappa lo indica oltre i 270
voti elettorali, per il passaggio nel suo campo della Virginia, finora una roccaforte
repubblicana. Nel sistema
zionale) e servono 270 voti
per vincere. Virginia, North
Carolina, Ohio e Florida,
tutti Stati vinti da George
W. Bush nel 2004, sono ora
orientati verso Obama. Basta che McCain ne perda uno
per essere spacciato, ma tra
gli strateghi democratici c’è
I dibattiti presidenziali non hanno
cambiato niente, l’economia
punisce il partito che da otto anni
detiene la Casa Bianca e gli elettori,
se sono vere le rilevazioni, sono
pronti a mandare Barack Obama
nello Studio Ovale di Washington
americano ogni Stato “vale”
un certo numero di voti,
quanti sono i suoi membri
in Congresso. Chi vince la
maggioranza del voto popolare nello Stato incassa tutto
il bottino (con l’eccezione
di Nebraska e Maine, che
hanno un sistema propor-
Barack spende in
spot tv tre volte più
dell’avversario
ai soldi pubblici, e può investire tutto quello che
riesce a raccogliere dagli elettori. Lo staff di Obama non ha diffuso cifre aggiornate sulla raccolta
di fondi (non è tenuto a render noti i dati di settembre fino al 20 ottobre), ma le casse del candidato democratico risultano strapiene. McCain
viene aiutato dal partito repubblicano, che ha a
disposizione 66 milioni di dollari da spendere autonomamente dal candidato, ma anche unendo
le spese del senatore con quelle del partito, resta
un forte divario con Obama. In testa nettamente
nei sondaggi, il democratico sta inoltre puntando
soprattutto su spot “positivi”: solo il 34 per cento
dei suoi interventi attaccano direttamente McCain. Al contrario il repubblicano, che è all’inseguimento, secondo l’università del Wisconsin attacca l’avversario nel 100 per cento degli spot. 
chi, come Paul Maslin, pensa che in realtà Obama se li
aggiudicherà tutti, innescando un effetto a catena che
porterà nel suo campo, nel
West, anche Colorado, New
Mexico e Nevada e gli darà
una vittoria da 350 voti elettorali, simile a quella che nel
1996 accompagnò la conferma di Bill Clinton alla Casa
Bianca. È uno scenario che
Doug Schoen, ex sondaggista di Clinton, ha definito su
“The Politic” uno “tsunami
economico”, legato alla situazione di Wall Street. Ma c’è
anche chi invita alla cautela. Primo tra tutti, lo stesso
Obama. “Se sarò eletto presidente...”, dice in questi giorni nei comizi e ha ripetuto
anche in Ohio, come sempre
interrotto dagli elettori che
gridano: “Non «se», «quando»!”. “No, no, calma - è la
consueta replica di Obama
- io sono superstizioso, va
bene il «se»...”. Il sondaggista
John Zogby, che non è certo di simpatie repubblicane,
ha messo in guardia dal non
credere troppo presto “che
Obama abbia chiuso la partita”. I suoi sondaggi in questi
giorni vedono il democratico avanti di soli 2-4 punti
su scala nazionale, mentre la
Gallup per il secondo giorno
consecutivo lo indica in vantaggio dell’11% (52-41%). Secondo Zogby, il precedente
da tenere a mente è quello di
Ronald Reagan nel 1980, che
all’epoca era considerato un
po’ un’incognita come Obama: “Solo la domenica prima delle elezioni - ha detto
Zogby - si ruppe la diga e la
gente decise di fidarsi di lui”.
Anche Karl Rove, lo stratega
delle vittorie di Bush, sul Wall
Street Journal si è detto convinto che la partita non sia
chiusa e che gli elettori non
siano ancora convinti che
Obama abbia le doti che servono alla Casa Bianca. “Dei
candidati recenti - secondo
Rove - solo Michael Dukakis
nel 1988 aveva una percentuale più ampia di elettori che
dicevano ai sondaggisti che
gli mancavano le qualifiche
per essere presidente”. 
“Più tutele sociali ed economiche”
3
Intervista ad
Angelo Bonelli:
non importare il
modello elettorale
bipolare americano
Economia batte
“pelle nera”
Elida Sergi
[email protected]
Wall Street batte il colore della
pelle: meglio Barack Obama,
un nero alla Casa Bianca, del
bianco John McCain, troppo
vicino alle politiche economiche di George W. Bush,
che ci stanno costando casa e
risparmi. Nessuno, negli Stati
Uniti, pronuncerà apertamente una frase decisamente
razzista di questo tipo, ma in
tanti lo pensano. E sono sempre di più ad esserne convinti
nelle aree industriali in crisi
di Pennsylvania ed Ohio, due
degli Stati decisivi per le elezioni presidenziali del 4 novembre. Nella “Rust Belt”, la
cintura della ruggine, le “tute
blu” erano pronte ad appoggiare Hillary Clinton, e dopo
la sua sconfitta nelle primarie
democratiche erano pronte
ad appoggiare McCain, dato
che il senatore dell’Illinois
“manca di esperienza”: una
maniera educata per dire “ha
la pelle nera”. L’angoscia di non
giungere alla fine del mese ha
superato il timore del colore
della pelle. In Ohio, secondo
gli ultimi sondaggi, Obama
raccoglie il 48,9 per cento delle intenzioni di voto contro
45,1 per McCain. Non è certo
fatta, ma è possibile. La situazione è invece drammaticamente chiara in Pennsylvania,
dove il vantaggio di Obama
su McCain è stimato in ben
11 punti, 50,4 contro 39,4 per
cento, secondo “Real Clear
Politics”. Lo conferma anche
il quotidiano online “The
Politic”, secondo cui Obama
sta ottenendo grossi risultati
nell’area di Scranton, quella
per eccellenza delle “tute blu”
della Pennsylvania. E’ un’area
storicamente democratica, è
vero, ma che aveva votato alle
primarie per Hillary (anche
perché la famiglia è originaria
della città), a larghissima maggioranza, 74 contro 26 per
cento. E’ una città considerata
“socialmente conservatrice”,
una parola politicamente corretta per in realtà dire “razzista”. Per la prima volta forse
nella storia degli Stati Uniti, il
fattore razza potrebbe contare
molto meno che in passato. E’
vero che i sondaggi devono
essere presi con un minimo
di prudenza, dato che non
pochi elettori voteranno per
McCain dopo avere assicurato che avrebbero scelto Obama. Gli esperti calcolano una
discrepanza dell’1 per cento,
del 2 per cento al massimo:
teoricamente insufficiente per
rovesciare la situazione. Niente “effetto Bradley o Wilder”
quindi, come la questione
razziale viene pudicamente
definita nelle elezioni Usa.
Tom Bradley, lo storico sindaco nero di Los Angeles, non
venne eletto governatore della
California nel 1982 esclusivamente perché aveva la pelle
nera, dato che i sondaggi lo
davano in testa. Douglas Wilder diventò governatore della
Virginia ma solo per un pelo,
nel 1989. I sondaggi lo davano
vincitore con ampio margine.
2
sabato 18 ottobre 2008
L’equilibrio: il pregio di Barack
La svota del Post: la leadership del senatore dell’Illinois può tirare via l’America dalle secche della crisi economica
V
dalla prima
enerdì 17 non sempre
porta male. Obama
ha, infatti, ricevuto il
prestigioso endorsement per
la Casa Bianca da parte del
“Washigton Post”. E non è un
caso. E’ vero. Il “Post” già aveva appoggiato alle presidenziali John Kerry. Ma è anche
vero che molti conservatori
considerano questo giornale
un classico esempio di liberal
media bias. Ovvero un mass
medium che, pure quando
non appoggia apertamente un partito, viene scritto e
confezionato da giornalisti
liberal; che orientano il lettore con la scelta delle notizie.
Ma sarà vero? Il “Post” ha
appoggiato in passato molti
politici liberal Repubblicani.
Ma non sempre le posizioni
politiche dell’autorevole quotidiano della Capitale si possono definire liberali. Chris
Matthews, noto anchor man,
con la sua ironia, ha parlato
di “svolta neocon del Post”.
D’altronde, con vari editoriali, il “Post” ha appoggiato
la guerra in Iraq del 2003 e
il taglio della Social Security. Ed è proprio per questo
che l’endorsement a Obama
pesa. Il Post ancora reputa
McCain un politico di altissima levatura. “McCain è fra
i politici che ci piacciono di
più”. L’editorialista aggiunge,
serafico: “Abbiamo riserve e
preoccupazioni per l’inespe-
Le politiche sulle quali si gioca il futuro del Paese
– a detta dell’anonimo editorialista – sono quattro:
redistribuzione della ricchezza, miglioramento della
scuola, della sanità e lotta ai cambiamenti climatici.
E la proposta di Obama è la migliore
La macchina dei sondaggi al lavoro
Su scala nazionale le
rilevazioni stanno offrendo
indicazioni contraddittorie
Il sondaggista Neil Newhouse, in un incontro con alcuni
giornalisti a Washington, è stato esplicito: “Quello che
facciamo con i numeri è più arte che scienza”. Con il voto
per la Casa Bianca che si avvicina, gli istituti di rilevazione sono come sempre sotto pressione: i candidati usano i
loro numeri per decidere su quali Stati spostare le risorse,
ma specialmente su scala nazionale i sondaggi stanno offrendo indicazioni contraddittorie. Il motivo è legato alle
particolarità del sistema di voto e alle caratteristiche del
Paese. Per votare occorre registrarsi, indicando un’affiliazione come democratico, repubblicano o indipendente. La
grande sfida dei sondaggi 2008 è cercare di capire come
e quanto stia cambiando l’elettorato, in un anno che tutti
ritengono di svolta. Ma le modalità utilizzate sono spesso controverse. Per esempio, è convinzione diffusa che
quest’anno aumenterà la partecipazione al voto degli under 30, in buona parte perché attratti da Barack Obama.
Ma prevedere come si orienteranno è difficile con i metodi
tradizionali: i sondaggisti usano le linee telefoniche fisse,
mentre i giovani comunicano su cellulari e web. Gli addetti ai sondaggi, inoltre, hanno mezzi limitati per tastare
il polso alle minoranze, mentre capire per esempio quale
sarà la reale affluenza degli afroamericani è stavolta decisivo, vista la presenza di un candidato nero. Le maggiori
controversie sono legate a formule che vengono usate per
“aggiustare” i risultati. Alcuni istituti ritengono che i dati
che ottengono debbano essere “pesati” e modificati per
renderli omogenei con le affiliazioni ai partiti su scala nazionale. Così per esempio il sondaggista Scott Rasmussen
valuta che gli elettori registrati come democratici superino quest’anno i repubblicani per 39,3% a 33% e modifica
i risultati per adeguarli a questa realtà. John Zogby, un
altro sondaggista, sta denunciando il metodo dei colleghi. Le sue rilevazioni danno vantaggi minori a Obama
e Zogby ha spiegato al Wall Street Journal che il motivo
è che “alcuni partono dal presupposto che solo il 27% di
coloro che rispondono siano repubblicani: sbagliano, non
descrivono l’America”. Ci sono sondaggi, come il Los Angeles Times-Bloomberg, che evitano qualsiasi formula per
omogeneizzare i risultati in base alle percentuali di affiliazione e li usano per quello che sono. Altri istituti, come la
celebre Gallup, hanno deciso di offrire ogni giorno ben tre
risultati diversi. Un sondaggio riguarda semplicemente gli
elettori registrati, a prescindere dalla loro effettiva volontà
di esprimersi. Ma tra gli aventi diritto e coloro che alla fine
votano davvero in America c’è un ampio divario, legato
anche al fatto che in molti Stati dove l’esito è scontato gli
elettori non sono particolarmente stimolati a presentarsi
alle urne. Nel 2004, l’affluenza alle elezioni presidenziali fu
del 60,7% (122 milioni di persone) ed è stata la più alta dal
1968. Per questo, Gallup offre adesso anche altri due sondaggi legati agli elettori “probabili”, che si basano su modelli storici e formule studiate sulla base dei cambiamenti
della società. Una prima rilevazione, definita “tradizionale”, si serve dei modelli delle passate elezioni ed è quella che
attualmente indica un vantaggio minore per Obama. Una
seconda, chiamata “modello allargato”, è legata alle effettive intenzioni di voto e tiene conto della possibile maggiore
affluenza di giovani e minoranze.
rienza di Obama”. Ma qual
è il perché, allora, di questo
endorsement? Sarah Palin.
Al Post proprio non va giù.
La sua agenda valoriale ultraconservatrice è ininfluente in
tutte le faccende che interessano veramente gli america-
ni. Ma non sono solo i demeriti della Palin a costituire le
virtù di Obama. Nonostante
le preoccupazioni, il “Post” è
generoso di acuti rilievi positivi verso il senatore dell’Illinois. Viene descritto come un
uomo di sottile intelligenza,
di grande capacità di costruire il consenso; nella politica
interna sembra possedere
quell’equilibrio in grado di
portare il Paese fuori dalla
crisi economica. Regolamentare quello che non va, credere nel mercato e moralizzare
la condotta degli operatori
economici riportando il tema
della giustizia sociale e della
redistribuzione al centro del
dibattito politico.
Ecco, allora, che la sponsorizzazione del “Post” può rivelarsi decisiva ed orientare
un’opinione pubblica che,
quando si è fidata del suo
giornale, ha dovuto accettare
anche George W. Bush. Due
anni fa, infatti, il giornale ha
anche sottolineato la necessità che le truppe non si ritirassero subito dall’Iraq, sostenendo la strategia neocon
pre-Petraesus e scioccando
gli americani, in larga maggioranza schierati sul rapido
ritiro delle truppe. La sponsorizzazione del “Post”, in
definitiva, suona anche come
un’autocritica quando individua in Obama l’uomo giusto
per trascinare l’America via
dalla condizione disastrosa
nella quale l’ha precipitata
l’ultima presidenza. Le politiche sulle quali si gioca
ilfuturo del Paese – a detta
dell’anonimo editorialista –
sono quattro: redistribuzione
della ricchezza, miglioramento della scuola, della sanità e
lotta ai cambiamenti climatici. E la proposta di Obama è
la migliore. In tutti i casi. 
L’America di John McCain
Petrolio Usa, energia nucleare, niente Kyoto: i Repubblicani non invertono la rotta
Francesco Benetti
[email protected]
L’
energia, la pace, il futuro.
E ancora le riforme, la prosperità. In ogni programma politico troveremo sempre
queste parole, e ci mancherebbe
altro. Anche il programma McCain-Palin 2008 non si discosta
dallo standard di una democrazia moderna. Quello che è importante, è non fermarsi ai titoli.
Alla voce “Energia”, per esempio,
il punto fondamentale è ridurre o
eliminare la dipendenza statunitense dal petrolio straniero. Utilizzando il proprio. Certo, qualche
timida apertura alle fonti rinnovabili viene fatta, ma che peccato
rinunciare a quei “trilioni di dollari di petrolio presenti nel territorio
americano”. Probabilmente l’idea
viene dalla vice Sarah Palin, direttamente da quell’Alaska costantemente a rischio trivellazioni. Sul
fronte innovazioni, il mondo dei
trasporti offre le migliori possibilità: auto ibride e nuovi carburanti
diventano la nuova frontiera. L’ottica, però rimane quella dell’automobile e del trasporto su strada,
lungi dall’intaccare il predominio
delle grandi case automobilistiche,
per le quali sono pronti milioni
di dollari per l’innovazione e l’efficienza. Bicchiere mezzo pieno
quindi. Tornando alle energie rinnovabili, o, come vengono definite dal programma repubblicano,
“fonti alternative e pulite”, si arriva
alla grande contraddizione: dopo
una breve e irrilevante introduzione (“Non c’è motivo per cui gli
Usa non dovrebbero essere leader
in questo settore”), non troviamo
sole, acqua o vento, ma “45 nuove
centrali nucleari entro il 2030”. Più
Le vere energie pulite sono relegate
all’ultimo punto, un fastidio necessario
a cui devolvere qualche risorsa statale
finché “non riusciranno ad essere
autosufficienti e avranno un mercato”.
O almeno questo è ciò che pensano i
suoi spin-doctor…
realistico forse del progetto italico
del nostro Governo, è comunque
rappresentativo della nuova utopia conservatrice di questo inizio
di millennio, secondo la quale
l’energia nucleare, i cui problemi
di immagazzinamento delle scorie
non è ancora stato risolto, sarebbe il futuro. Le vere energie pulite
sono relegate all’ultimo punto, un
fastidio necessario a cui devolvere
qualche risorsa statale finché “non
riusciranno ad essere auto-sufficienti e avranno un mercato”.
Allo stesso modo si parla di cambio climatico. La sensazione è che
sia inserito nel programma proprio perché non si poteva evitare:
l’approccio è totalmente economico, e la lettura che ne viene fatta
è nell’ottica dello scambio di quote
e del profitto, della crescita e del
“non interferire con l’interesse delle aziende”. La politica sul clima
“deve favorire gli sforzi internazionali” per risolvere i problemi.
Ma Kyoto non viene nominato,
mentre l’ipotesi vede gli Stati Uniti
alla testa di un non meglio definito sforzo per combattere il cambio
climatico. Questo approccio rientra sicuramente in un più generale
bisogno degli States di sentirsi leader e non solamente partecipi di
uno sforzo multilaterale – di qualunque natura esso si tratti.
Dal programma per l’agricoltura,
poi, ritroviamo un grande classico della politica statunitense:
supporto e aiuto agli agricoltori
americani, nei confronti dei quali
vige un onesto impegno alla protezione di un settore vitale (anche
in termini demografici); al tempo
stesso, però, la “battaglia” sui tavoli
di contrattazione di tutto il mondo
vedrà l’amministrazione McCain
impegnata nell’eliminare ogni tipo
di resistenza estera all’export nordamericano, perché “il 95% dei
consumatori sta al di fuori del nostro territorio, ed è nostro dovere
raggiungerli”.
Nessun accenno agli Ogm, che
saranno pertanto ben accetti: l’innovazione tecnologica nel campo
agricolo sarà una delle priorità
della nuova amministrazione, nel
perenne inseguimento del massimo profitto, della crescita. È ancora il sogno americano, che nonostante le battute d’arresto e le recenti lezioni economiche continua
a correre, incurante (o perlomeno
poco attento a giudicare da questo
programma elettorale) delle conseguenze, fintanto che l’economia
e la crescita saranno garantite. 
sabato 18 ottobre 2008
3
“Più tutele sociali ed economiche”
Intervista ad Angelo Bonelli: “Sarebbe dannoso importare nel nostro Paese il modello elettorale bipolare americano”
Valerio Ceva Grimaldi
[email protected]
A
ngelo Bonelli, già
capogruppo
dei
Verdi alla Camera,
esperto di politica internazionale: tra poche settimane negli Usa si voterà
per eleggere il presidente.
Quali crede saranno i temi
principali su cui i candidati Obama e McCain si giocheranno l’elezione?
“Sarà certamente la crisi
economica e sociale, in particolare il crollo di un modello solo liberista. Obama
sta dando un’impronta di
forte attacco all’operato di
Bush, chiedendo più tutele
sociali ed economiche per
gli americani. Per quanto
riguarda la politica estera,
i temi portanti saranno il
ritiro delle truppe dall’Iraq,
il recupero del multilateralismo e del ruolo degli organi sovranazionali, a partire
dall’Onu”.
Dopo una grande evidenza
con il Nobel ad Al Gore, le
questioni ambientali sembrano tornate un po’ marginali anche nel dibattito
politico americano. Come
mai?
“Tra le priorità della campagna elettorale americana c’è certamente la lotta
al cambiamento climatico,
questione strettamente legata alle questioni economiche e finanziarie. Il fatto
è che però è sopraggiunta
la crisi economica e quindi
è normale che se ne parli in modo prevalente in
quest’ultimo dibattito. Va
ricordato, come dice Jeremy
Rifkin, che la crisi alimentare è legata all’aumento del
prezzo delle materie prime
e quindi è evidente lo strettissimo legame che esiste
tra l’ambiente e l’economia.
In caso di vittoria di Obama
ci auguriamo che, finalmente, gli Stati Uniti possano
sottoscrivere il protocollo
di Kyoto. Purtroppo in Italia
il presidente del Consiglio
Berlusconi ha invece acquisito le posizioni antiambientaliste di Bush...”.
In base a numerosi sondaggi, negli Usa sembrerebbe riemergere la questione razziale. Ritiene
che una forma di razzismo
strisciante possa influenzare l’esito del voto?
“C’è un tentativo da parte
repubblicana di alimentare
quest’aspetto in un modo
basso, retrivo. Addirittura
indicando Obama come
“l’amico dei terroristi”…
si è persa davvero la bussola. Peraltro, alcuni sondaggi della Cnn e di altre
testate indicano che, in
luoghi dove i democratici
non vincono fin dal 1964
come in Virginia, nell’attuale fase politica prevarrebbero. Ciò dimostra che
Obama rappresenta un
segno di svolta, un vero
cambiamento, tutto ciò in
una modalità che va oltre
la “pancia” dell’America
più profonda, va oltre (e
quindi, elettoralmente, li
compensa fino a superarne
gli eventuali effetti contrari) i pregiudizi”.
Anche nel nostro Paese ci
stiamo avviando verso un
bipolarismo come quello
americano? E con quali
conseguenze?
“La volontà dei due leader
dei maggiori partiti italiani,
Berlusconi e Veltroni, sarebbe proprio questa, perché funzionale a un sistema
economico che non vuole
elementi critici. Il bipolarismo consente agli interes-
“In caso di vittoria di Obama
ci auguriamo che, finalmente,
gli Stati Uniti sottoscrivano il
protocollo di Kyoto. Purtroppo
in Italia il presidente del
Consiglio Berlusconi ha
invece acquisito le posizioni
antiambientaliste di Bush...”
La battuta che cambia la vita
Per gli esperti, la chiave del successo di una campagna elettorale sta nei dibattiti in Tv
Simone Di Meo
[email protected]
E
ra il 1960: John F. Kennedy
batte un cupo Richard Nixon, impreparato per la Tv.
1976: Gerald Ford spara una gaffe
fatale sull’Urss. 1984: Ronald Reagan con una battuta vince un secondo mandato alla Casa Bianca.
Sono alcuni dei momenti-chiave di
dibattiti presidenziali dell’ultimo
mezzo secolo, che hanno segnato
svolte nelle campagne elettorali,
rovinato carriere politiche e cambiato la storia dell’America. Barack
Obama e John McCain sono arrivati al loro terzo faccia a faccia tenendo a mente le molteplici lezioni
imparate dai dibattiti del passato.
I loro strateghi hanno passato al
setaccio esperienze ed errori per
aiutare i candidati a cercare di evitarli. Non è solo una questione di
preparazione degli aspiranti presidenti: quasi sempre i dibattiti Tv si
vincono sulla base della percezione
che resta agli elettori e basta una
battuta sbagliata o una smorfia
per rovinare tutto. Lo ha imparato
a proprie spese Al Gore, che nel
2000 mostrò gesti di esasperazione
di fronte alle risposte di George W.
Bush, e finì con l’apparire agli elettori saccente e presuntuoso. E’ anche una questione di luce e makeup. Il 26 settembre 1960, nel primo
dibattito presidenziale trasmesso
in Tv nella storia americana, Kennedy apparve solare e rilassato,
mentre Nixon, con il volto pallido,
si mostrò cupo e sudato sotto i riflettori. Risultato: per i 66,4 milioni
di americani che videro il dibattito
sugli schermi, Kennedy fu il chiaro
vincitore, mentre gli 8 milioni di
persone che lo seguirono alla radio
ebbero l’impressione opposta. “Le
luci sono tutto”, amava ripetere Michael Deaver, lo stratega di Reagan
recentemente scomparso, un mago
del settore. Il suo trucco era “inondare” il presidente-attore con luci
che scendevano dall’alto e ne esaltavano il volto scavato dalle rughe.
Nel 1984 lo staff dell’avversario
di Reagan, il democratico Walter
Mondale, si fidò a tal punto del talento di Deaver che gli lasciò carta
bianca nel decidere le luci. Il problema è che ciò che funzionava
benissimo per Reagan – che non
usava cerone - risultò invece una
pessima soluzione per Mondale:
il pesante make-up che aveva sul
volto richiedeva luci dirette, non
dall’alto. I dibattiti sono momenti
a rischio per le campagne elettorali
perché si prestano a gaffe poi difficili da rimediare. Nel 1976 l’allora
presidente repubblicano Gerald
Ford, nel faccia a faccia con lo sfidante democratico Jimmy Carter,
si lasciò scappare una frase ardita:
“Non c’è alcun dominio sovietico
sull’Europa dell’Est e non ci sarà
mai sotto un’amministrazione
Ford”. Nonostante i tentativi del
moderatore di dare a Ford la possibilità di chiarire la sua idea che la
Polonia o la Romania all’epoca fossero da considerare “indipendenti
e autonome”, il presidente non fece
retromarcia. Carter, che aveva perso il precedente dibattito per aver
studiato troppo ed essersi presentato sovraccarico di dati, recuperò
posizioni e vinse le elezioni. Reagan,
nel 1984, perse malamente il primo
dibattito con Mondale perché, a
differenza di Carter, non aveva studiato. Ma nel secondo - illuminato
dalle luci di Deaver - guadagnò un
applauso anche dall’avversario e
vinse le elezioni con una battuta.
Buona parte del dibattito quell’anno era incentrata sul fatto che Reagan era troppo vecchio, a 73 anni,
per un secondo mandato: un tema
sensibile oggi per McCain, che ne
ha 72. Quando arrivò l’inevitabile
domanda sull’età, Reagan sfoderò
il miglior sorriso hollywoodiano e
replicò: “Non farò dell’età un tema
di questa campagna. Non voglio
sfruttare a fini politici la giovinezza e l’inesperienza del mio avversario”. E Mondale, a 56 anni, era più
anziano di Obama di un decennio.
Se tutta l’attenzione, di solito, è dedicata ai dibattiti tra candidati presidenti, spesso a far notizia sono
anche quelli dei vice. Sicuramente
è questo il caso nel 2008, per lo
scontro in Tv della repubblicana
Sarah Palin contro la vecchia volpe
democratica Joe Biden.
Un precedente del 1988 turba i
sonni degli strateghi repubblicani: Dan Quayle, l’allora giovane
candidato vice di George Bush Sr.,
nel dibattito contro l’avversario
Lloyd Bentsen si paragonò a John
F. Kennedy. L’anziano ed esperto
Bentsen lo gelò: “Io ho lavorato
con Kennedy. Jack Kennedy era un
mio amico. Senatore, lei non è Jack
Kennedy”.
Lo ha imparato a proprie spese Al Gore, che nel
2000 mostrò gesti di esasperazione di fronte alle
risposte di George W. Bush, e finì con l’apparire
agli elettori saccente e presuntuoso. E’ anche una
questione di luce e make-up
si economici consolidati,
come più volte ho detto,
di “cadere” sempre in piedi
indipendentemente da chi
vince. Nel nostro Paese serve sì una semplificazione del
sistema politico, ma ciò non
dovrà mai avvenire a discapito del pluralismo e della
democrazia. Quando una
fetta importante della politica (come i Verdi, l’Italia dei
Valori, l’Udc, Rifondazione
comunista ed altri) rischia
di non aver più rappresentanza (le proposte di modifica della legge elettorale
per le europee vanno verso
un meccanismo che prevede lo sbarramento al 5% e
l’abolizione delle preferenze, ndr), oltre a costituire un
fenomeno di riduzione del
pluralismo politico, pone
anche un problema di mancata partecipazione alla vita
politica. Non è infatti detto
che gli elettori di queste forze si “riversino” a sostenere
i due partiti più grandi, e
questo fenomeno comporta
un impoverimento complessivo del sistema politico. In
più, bisogna tenere presente
che in questo quadro è solo
chi ha più soldi che può fare
politica. Negli Usa, per essere eletto “solo” consigliere
comunale a New York, bisogna spendere l’equivalente
di diversi milioni di euro.
Per i tanti che hanno cominciato a fare politica indipendentemente dal censo si annunciano tempi durissimi.
Sarebbe davvero un danno
per la democrazia arrivare a
un sistema bipartitico. Peggio: un colpo mortale”.
Allora che fare?
“E’ necessario organizzare
una grande battaglia politica
che non significa riproporre
la frammentazione ma fare
in modo che cittadini e forze politiche possano portare
avanti le proprie idee e non
essere fermati. Ciò sarebbe
inaccettabile da un punto
di vista democratico. Serve
quindi una forte mobilitazione delle forze politiche e
sociali che hanno a cuore la
democrazia per difendere il
pluralismo della rappresentanza”.
Una previsione: chi vincerà?
“Sono per Obama” 
La gaffe
E sulla scheda elettorale
comparve Barack “Osama”
Un refuso che crea imbarazzi e qualche polemica: una
contea nello Stato di New York ha inviato agli elettori
schede per il voto per corrispondenza, per le elezioni presidenziali, nelle quali il candidato democratico è indicato
come Barack “Osama”, invece di Obama. “E’ stato un errore fatto in buona fede”, ha detto Edward McDonough, uno
dei responsabili delle procedure elettorali per la contea di
Rensselaer, un democratico. “E’ un refuso, abbiamo tre
persone incaricate di rivedere le bozze e in qualche modo
non è stato notato”, gli ha fatto eco il collega repubblicano
Larry Bugbee. Il quotidiano “Times Union” di Albany, che
ha portato alla luce la vicenda, ha però sottolineato come
su qualsiasi tastiera la lettera “S” sia abbastanza lontana
dalla “B” da far pensare più a un lapsus, o a un gesto deliberato, che non a un refuso. Le schede sbagliate, secondo
le autorità locali, sono state inviate a circa 300 elettori. Chi
lo chiederà avrà la possibilità di riceverne una corretta, ma
alcuni elettori si sono chiesti se, votando per “Osama”, la
loro preferenza resti valida o possa venir annullata il 4 novembre al momento dello scrutinio.
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1-02-2008
19:20
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