Cosenza lì 09/03/2007 - Ordine degli Avvocati di Cosenza

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Cosenza lì 09/03/2007 - Ordine degli Avvocati di Cosenza
Materiale didattico fornito dal dott. Marco Rossetti in occasione del
Seminario del 28 aprile 2012 dal titolo:
“ Le voci di danno e il loro computo nella materia contrattuale,
extracontrattuale e lavoristica. ”
Il danno biologico
Scheda di inquadramento e criteri di calcolo
1. Nozione.
Il danno alla salute nel nostro ordinamento non trova apparentemente una definizione unitaria.
Esistono sì norme di legge che ne forniscono la definizione e dettano i criteri di risarcimento, ma
tali norme hanno un ambito di applicazione limitato: essi riguardano soltanto i danni alla salute
derivati da alcuni tipi di condotte illecite, in particolare i sinistri stradali e gli infortuni sul lavoro.
Per i danni alla salute derivati da condotte illecite diverse da quelle previste dalla legge non esistono
né una definizione normativa, né criteri legali per la sua liquidazione.
Sarebbe tuttavia erroneo ritenere che nel nostro ordinamento esistano tre “tipi” diversi di danno alla
salute: quello derivante da infortuni sul lavoro, quello derivante da sinistri stradali ed infine tutti gli
altri.
Le definizioni dettate dalla legge sono infatti sostanzialmente coincidenti con quelle elaborate dalla
giurisprudenza, ed anzi proprio i princìpi elaborati da quest’ultima sono stati recepiti dal legislatore
nel delineare la nozione di danno alla salute.
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Quanto alle definizioni di volta in volta adottate dalla giurisprudenza, alla varietà di forme
sintattiche corrisponde una sostanziale uniformità di contenuti, come meglio si vedrà nei §§
seguenti.
Pertanto, sebbene diverse siano le definizioni di danno alla salute e le fonti di esse, tale nozione è
identica in tutti gli ambiti del diritto civile, e solo sul piano della aestimatio del danno la diversità di
disciplina può portare, come vedremo, a diversità di liquidazione.
2. Le definizioni normative.
La legge disciplina espressamente il danno biologico, dandone la definizione, in due ipotesi:
(a) se il danno in questione è causato da un infortunio sul lavoro indennizzabile dall’Inail, la
definizione di esso è contenuta nell’art. 13 d. lgs. 23.2.2000 n. 38 (“Disposizioni in materia di
assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, a norma dell'articolo 55,
comma 1, della legge 17 maggio 1999, n. 144”), secondo cui il danno biologico è “la lesione
all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona. Le prestazioni per
il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente dalla capacità di
produzione del reddito del danneggiato”;
(b) se il danno alla salute è derivato da un sinistro stradale, causato da veicoli soggetti all’obbligo
dell’assicurazione della r.c.a., la definizione di esso è contenuta negli artt. artt. 138, comma 2,
lettera (a), e 139, comma 2, d. lgs. 7.9.2005 n. 209 (“Codice delle assicurazioni”), secondo i quali
per danno biologico si intende “la lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della
persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle
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attività
quotidiane
e
sugli
aspetti
dinamico-relazionali
della
vita
del
danneggiato,
indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”.
Le due definizioni normative differiscono sotto due profili:
(a) l’art. 13 d. lgs. 38/2000 (infortuni sul lavoro) definisce “danno biologico” quello suscettibile di
valutazione medico legale, mentre gli artt. 138 e 139 cod. ass. (sinistri stradali) definisco “danno
biologico” quello suscettibile di accertamento medico legale;
(b) solo gli artt. 138 e 139 cod. ass. precisano che il danno biologico deve esplicare “un’incidenza
negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato”,
mentre tale previsione non compare nel d. lgs. 38/2000.
Né l’una, né l’altra di tali divergenze consentono però di affermare il danno biologico indennizzato
dall’Inail sia pregiudizio diverso da quello risarcito dall’assicuratore della r.c.a..
Quanto alla differenza sub (a), è certamente vero che l’espressione “suscettibile di valutazione” non
è equivalente all’altra, “suscettibile di accertamento”. In teoria, infatti, potrebbe essere valutato in
termini percentuali anche un danno insuscettibile di accertamento. Così, ad esempio, una persistente
e cronica cefalea costituisce una compromissione dell’integrità psicofisica suscettibile di
valutazione, ma non di accertamento, e lo stesso può dirsi di tutte le patologie non accompagnate da
sintomi strumentalmente rilevabili.
Tuttavia è altresì vero che nessun tipo di danno potrebbe mai essere liquidato, da privati o da
assicuratori sociali, se non ne sia stata debitamente e previamente dimostrata l’esistenza. E’,
pertanto, impossibile interpretare l’art. 13 d. lgs. 38/2000 come se consentisse la liquidazione del
danno biologico anche a prescindere dall’effettivo accertamento della sua esistenza in corpore. Tale
norma va invece interpretata come se dicesse che il danno biologico è quello del quale, essendone
stata dimostrata l’esistenza, è possibile una valutazione medico legale. Così intesa, la disposizione
in esame è perfettamente sovrapponibile agli artt. 138 e 139 cod. ass..
Quanto alla differenza sub (b), essa è solo apparente, in quanto l’art. 13 d. lgs. 38/2000, dopo avere
definito il danno biologico, precisa che “le menomazioni conseguenti alle lesioni dell'integrità
psicofisica (…) sono valutate in base a specifica "tabella delle menomazioni", comprensiva degli
aspetti dinamico-relazionali”. Anche in questo caso, pertanto, vi è perfetta coincidenza tra il codice
delle assicurazioni e la legislazione conto gli infortuni sul lavoro.
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2.1. Le definizioni giurisprudenziali.
Quando il danno biologico derivi da cause diverse da quelle indicate al § precedente sub (b) e (c),
non vi è alcuna norma di legge che ne detti la definizione e ne disciplini il risarcimento, i quali
restano perciò affidati all’elaborazione della giurisprudenza.
Il giudice di legittimità ha adottato nel corso degli anni varie formule per definire il danno
biologico. Tali formule sono raggruppabili in varie tipologie.
Talora la definizione fa leva sulla accertabilità medico legale della lesione, per distinguere il danno
biologico da altri pregiudizi non patrimoniali. Questo viene perciò definito come la “lesione
dell'integrità psicofisica accertabile in sede medico-legale (Cass., sez. lav., 22-03-2007, n. 7049,
inedita; Cass., sez. III, 12-06-2006, n. 13546, in Danno e resp., 2006, 843; Cass., sez. lav., 12-052006, n. 11039, in Foro it. Rep. 2006, Danni civili, n. 286).
Altre volte si pone l’accento sugli effetti della lesione biologica, ed il danno in questione viene
perciò identificato con le “ripercussioni negative - di carattere non patrimoniale e diverse dalla
mera sofferenza psichica - della lesione dell'integrità psicofisica del soggetto leso, per l'intera
durata della sua vita residua, nel caso di invalidità permanente, oppure, nel caso di invalidità
temporanea, finché la malattia risulti ancora in atto” (Cass., sez. lav., 23-04-2004, n. 7730, in Foro
it. Rep. 2004, Danni civili, n. 186; Cass., sez. III, 24-02-2003, n. 2775, in Danno e resp., 2003,
1081).
Una formula molto risalente, e che ha avuto molto successo, è quella che definisce il danno
biologico come “la menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata,
in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua dimensione, che non si esaurisce nell’attitudine
a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali riguardanti il soggetto nel
suo ambiente di vita ed aventi rilevanza non solo economica ma anche biologica, sociale, culturale
ed estetica” [Cass., sez. lav., 29-01-2002, n. 1114, in Dir. ed economia assicuraz., 2003, 223 (in
motivazione); Cass., sez. III, 09-12-1994, n. 10539, in Foro it. Rep. 1994, Danni civili, n. 170 (in
motivazione); Cass., sez. lav., 08-07-1992, n. 8325, in Foro it., 1992, I, 2965 (in motivazione);
Cass., 06-07-1990, n. 7101, in Notiziario giurisprudenza lav., 1990, 653; Cass., 24-01-1990, n. 411,
in Foro it. Rep. 1990, Danni civili, n. 95; Cass., 26-11-1984, n. 6134, in Riv. giur. lav., 1985, II,
689].
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Altre definizioni sottolineano l’irrilevanza dei riflessi patrimoniali della lesione, definendo il danno
biologico come la “menomazione dell'integrità psico-fisica della persona in sé considerata, a
prescindere da ogni possibile rilevanza o conseguenza patrimoniale della lesione” (ex multis, Cass.
6.6.2008 n. 15054, inedita; Cass. 26.3.2008 n. 7872, inedita; Cass., sez. lav., 07-11-2007, n. 23162,
inedita; Cass., sez. lav., 08-05-2007, n. 10441, in Foro it., 2007, I, 2701; Cass., sez. lav., 24-022006, n. 4184, inedita; Cass. 19.8.2005 n. 17044, inedita), od ancora come “menomazione della
salute in senso lato a prescindere dalla perdita o riduzione della capacità di guadagno” (Cass.
17.3.2006 n. 5919, inedita).
Vi sono poi di quelle definizioni che adottano formule assai ampie, a sottolineare la
omnicomprensività di questo tipo di pregiudizio, definito come “danno alla persona nella sua
globalità e quindi come menomazione dell'integrità psicofisica del soggetto, [che] si ripercuote su
tutte le sue attività” (Cass. 13.5.2008 n. 11940, inedita.
Non meno varie, almeno formalmente, sono state le formule adottate dai giudici di merito. Ecco una
silloge delle definizioni più diffuse, dalle quali risulta che il danno biologico è stato definito di volta
in volta come:
(-) “una disfunzione peggiorativa della complessiva integrità psicofisica dell'individuo, suscettibile
di accertamento e valutazione medico legale.
Esso presuppone una lesione della mente o del corpo, dalla quale derivino dei postumi permanenti
o transeunti, i quali a loro volta comportino un peggioramento della complessiva qualità della vita
della vittima” (Trib. Roma 7.7.2007, Z.O. c. Villa Salaria, e Trib. Roma 27.12.2006, C.V. c.
Università Cattolica del Sacro Cuore, ambedue in www.dejure.it);
(-) “la menomazione psicofisica della persona, implicante la compromissione delle attività in cui si
esplica la personalità del soggetto, oltre ed al di là degli eventuali danni patrimoniali e morali
prodotti dal fatto lesivo, [in quanto] nell’attuale contesto sociale e giuridico, (...) il ‘valore di una
persona come essere umano non è in alcun modo correlato alla consistenza patrimoniale da lui
vantata (e ciò a differenza di quanto è accaduto in altre epoche storiche, dove il riconoscimento di
situazioni soggettive favorevoli è stato in tutto o in parte riconnesso a ‘titoli o al ‘censo o ad altri
‘status’” (Trib. Roma 23.3.1996, in Riv. giur. circolaz. trasp. 1996, 765);
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(-) [la] “compromissione del complesso delle funzioni naturali, presenti e future, del soggetto
nell’ambiente in cui si esplicano, indipendentemente da un’eventuale incidenza sulla capacità di
guadagno” (Trib. Roma 12.1.1994, Mariani c. SAI, inedita);
(-) “la menomazione psicofisica della persona, in sé e per sé considerata, [è] risarcibile sempre e
comunque a tutti i soggetti indipendentemente dal fatto che la lesione abbia ripercussioni sulla
capacità di produrre reddito” (Trib. Piacenza, 22-5-1993, in Arch. circolaz., 1993, 705);
(-) “la menomazione psico-fisica in sé e per sé considerata, estrinsecatesi non solo sul piano
economico, ma anche su quello biologico e sociale” (Trib. Como, 2-3-93, in Riv. giur. circolaz.
trasp., 1994, 376);
(-) [la] menomazione della persona in sé considerata, non si esaurisce nella sola diminuita
attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al
soggetto nell'ambiente in cui egli vive” (Trib. Pescara, 5-3-92, in PQM, 1992, 73);
(-) [la] menomazione dell'integrità psicofisica del soggetto in senso dinamico, (...) il [cui]
risarcimento riguarda esclusivamente le conseguenze negative che ostacolano le attività
realizzatrici della persona umana, vale a dire le molteplici funzioni individuali e sociali dell'uomo”
(Trib. Pavia, 3-1-1992, in Giur. merito, 1994, 82);
(-) “la menomazione dell'integrità fisio-psichica in sé considerata, a prescindere dalla sua
incidenza sul reddito, assorbe in sé il danno alla vita di relazione, il danno estetico, nonché quello
meramente psichico ed alla vita sessuale” (Trib. Ravenna, 13-03-1990, in Riv. giur. circolaz. trasp.,
1991, 853);
(-) [il danno] derivante da illecito lesivo dell’integrità psicofisica della persona che, a prescindere
dal danno correlato alla capacità di produzione del reddito, si estende a tutti gli effetti negativi
incidenti sul bene primario della salute, in sé considerato, quale diritto inviolabile dell’uomo alla
pienezza della vita ed all’esplicazione della propria personalità, morale, intellettuale, culturale”
(Trib. Milano 12.12.1988, in Arch. circolaz., 1989, 405);
(-) [l’]alterazione dell’integrità ed efficienza fisiopsichica del soggetto che gli impedisca di godere
la vita nella stessa misura in cui era possibile prima dell’insorgenza del fatto lesivo,
indipendentemente da qualsiasi riferimento alla capacità lavorativa e di guadagno” (Trib. Pisa
16.1.1985, in Giur. it., 1986, I, 2, 192).
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Al lettore accorto non sarà sfuggito che tutte le definizioni che precedono (sia quelle adottate dal
giudice di legittimità, sia quelle adottate dai giudici di merito) presentano difformità di sintassi ma
uniformità di sostanza. Tutte infatti, sia pure con forme e termini diversi, mettono in evidenza le
seguenti caratteristiche del danno biologico:
(a) presuppone una lesione dell’integrità psicofisica;
(b) non coincide con tale lesione, ma consiste nel peggioramento del modo di essere e della qualità
della vita della vittima, nessun aspetto escluso;
(c) prescinde dalle ripercussioni patrimoniali della lesione.
Dunque le più comuni definizioni elaborate dalla giurisprudenza concordano nell’individuazione di
quelli che, come vedremo tra breve, costituiscono gli elementi essenziali del danno alla salute.
Prima di esaminarli in dettaglio, però, è necessario a questo punto - dopo avere delineato la
definizione del danno biologico - soffermarsi sul fondamento normativo del relativo diritto al
risarcimento.
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3. Il fondamento normativo della risarcibilità.
La risarcibilità del danno biologico si fonda su norme diverse.
Talora la legge prevede espressamente la risarcibilità di questo tipo di danni, come nei casi già
ricordati dei danni alla salute derivanti da infortuni sul lavoro o sinistri stradali (art. 13 d. lgs.
38/2000; artt. 138 e 139 cod. ass.).
In altri casi la legge non prevede espressamente la risarcibilità del danno biologico, ma consente
comunque il risarcimento dei danni non patrimoniali, tra i quali rientra ovviamente il danno in
esame (ad es., art. 185 c.p.).
In un terzo gruppo di ipotesi, infine, la risarcibilità non si fonda su una previsione normativa
espressa, ma sull’interpretazione costituzionalmente orientata che della legge ha dato la
giurisprudenza (Cass. sez. un. 11.11.2008 n. 26972).
All’esame di queste tre ipotesi saranno dedicati i §§ che seguono.
3.1. Danni alla salute la cui risarcibilità è espressamente prevista dalla legge.
Quando il danno alla salute è stato causato da un sinistro stradale o da un infortunio sul lavoro vi è
una norma ad hoc che ne prevede - rispettivamente - l’indennizzabilità o la risarcibilità1. In queste
ipotesi dunque il danno in questione è sempre risarcibile, quale che ne sia l’entità, ovviamente nei
limiti ed alle condizioni stabilite dalla legge stessa2.
3.2. Illeciti costituenti reato.
Se la lesione dell’integrità psicofisica di una persona discende da fatti previsti dalla legge come
reato (solitamente lesioni colpose o dolose, ma anche violenza privata, violenza carnale, strage,
disastro colposo, epidemia, diffusione di sostanze o farmaci avariate o scaduti, e via dicendo 3) il
fondamento della risarcibilità del danno alla salute non pone problemi di sorta.
1
Per i danni derivanti da infortuni sul lavoro si tratta del già ricordato art. 13 d. lgs. 38/2000; per i danni derivanti da
sinistri stradali si tratta degli artt. 138 e 139 cod. ass..
2
L’INAIL, ad esempio, non indennizza il danno biologico da invalidità temporanea, né quello da invalidità permanente
se abbia comportato postumi inferiori al 6% (art. 13, comma 2, lettera (a), d. lgs. 23.2.2000 n. 38). Naturalmente
resta ferma per la vittima la possibilità di chiedere al responsabile del danno il ristoro di tali pregiudizi.
3
Secondo la Corte di cassazione, la responsabilità civile del reo sussiste “non soltanto in relazione all'offesa del bene
oggetto della specifica tutela penale, ma anche in relazione ad ogni altro interesse patrimoniale o non patrimoniale
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Il danno biologico è infatti un danno non patrimoniale4, e la risarcibilità dei danni (patrimoniali e
non) causati da reato è consentita senza limite alcuno dall’art. 185, comma secondo, c.p.5.
Pertanto il danno alla salute sarà sempre integralmente risarcibile, quale che ne sia la natura (fisico
o psichico, temporaneo o permanente) e l’entità (anche se lieve o lievissimo, purché ovviamente
produttivo di conseguenze oggettivamente apprezzabili), quando la condotta dell’offensore sia
penalmente rilevante.
La posizione delle vittime di reati è stata poi agevolata dalla giurisprudenza, la quale ritiene che per
la configurabilità del reato (e quindi per la risarcibilità integrale del danno alla salute) non è
necessario:
(-) né che il fatto reato sia stato accertato dal giudice penale, potendo a tanto provvedere anche
quello civile, salvi ovviamente i vincoli di giudicato previsti dagli artt. 651 e 652 c.p.p.6;
(-) né che la colpa del reo (nel caso di reato colposo) non sia stata accertata in concreto, ma sia stata
ritenuta sussistente dal giudice civile in base ad una presunzione di legge (ad es., ex art. 1218 c.c.
oppure ex art. 2054, comma 1, c.c.)7;
riconducibile nell'ambito della condotta delittuosa in virtù di un nesso di derivazione eziologico”. Ciò vuol dire che
se - ad es. - da un delitto contro il patrimonio, contro la pubblica amministrazione, contro la pubblica fede, derivi
con nesso eziologico immediato e diretto una lesione della salute (ad es., prodotta dal terrore o dallo stress provocato
dal delitto), anche di tale pregiudizio il reo dovrà rispondere ex art. 185 c.p. (Cass. pen., sez. VI, 04-11-2004 (dep.
24.2.2005, n. 7259), imp. Caprini, in Foro it. Rep. 2005, Parte civile, n. 10 (inedita nella motivazione qui trascritta).
4
Che il danno alla salute abbia natura non patrimoniale è affermazione divenuta pacifica solo in epoca relativamente
recente in giurisprudenza (in tal senso, la sentenza capostipite è Cass., sez. III, 31-05-2003, n. 8827, in Foro it.,
2003, I, 2273).
In passato, invece, giudici e dottori si erano accapigliati a lungo sulla natura del pregiudizio in esame, ritenuto da taluni
patrimoniale, da altri non patrimoniale, e da altri persino un tertium genus.
Tale questione è oggi definitivamente superata, e sarebbe ultroneo darne conto in questa sede; per una ricostruzione del
relativo dibattito sia consentito il rinvio a Rossetti, Il danno da lesione della salute - Biologico, patrimoniale,
morale, Padova, 2001, ***.
5
Secondo cui “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il
colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”.
6
Cass., sez. I, 15-03-2001, n. 3747, in Foro it. Rep. 2001, Danni civili, n. 133; Cass., sez. III, 24-03-2000, n. 3536, in
Foro it. Rep. 2000, Danni civili, n. 185; Cass., sez. III, 14-02-2000, n. 1643, in Foro it. Rep. 2000, Responsabilità
civile, n. 255.
7
Cass., sez. lav., 10-01-2007, n. 238, in Notiziario giurisprudenza lav., 2007, 47; Cass., sez. III, 16-01-2006, n. 720, in
Foro it. Rep. 2006, Danni civili, n. 196; Cass., sez. III, 15-07-2005, n. 15044, in Foro it. Rep. 2005, Danni civili, n.
206; Cass., sez. III, 27-10-2004, n. 20814, in Dir. e giustizia, 2004, fasc. 44, 24; Cass., sez. III, 01-06-2004, n.
10489, in Foro it. Rep. 2004, Danni civili, n. 197; Cass., sez. III, 10-03-2004, n. 4906, in Arch. circolaz., 2004, 869;
Cass., sez. III, 06-08-2004, n. 15179, in Foro it. Rep. 2004, Danni civili, n. 219; Cass., sez. III, 03-03-2004, n. 4359,
in Arch. circolaz., 2004, 729; Cass., sez. III, 01-04-2004, n. 6383, in Arch. civ., 2004, 871; Cass., sez. III, 12-05-
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(-) né, infine, che il reo sia imputabile (ad es., perché minore degli anni quattordici)8.
3.3. La lesione di diritti della persona costituzionalmente garantiti.
Può accadere, infine, che il danno alla salute non sia derivato né da un sinistro stradale, né da un
infortunio sul lavoro, né da un fatto astrattamente configurabile come reato, né da una delle altre
fattispecie tipiche previste dalle norme ricordate al § precedente.
Tale ipotesi ricorre ad es. nei casi in cui la responsabilità dell’offensore sia stata affermata non sulla
base di un accertamento positivo della colpa, né di una presunzione legale di colpa, ma sulla base di
una norma che preveda un’ipotesi di responsabilità oggettiva (ad es., ex art. 2051 c.c.) 9. In questi
casi, essendo mancato l’accertamento concreto dell’elemento soggettivo del reato (dolo o colpa), in
teoria non è configurabile alcun reato, e la vittima non potrebbe invocare il risarcimento del danno
non patrimoniale, ai sensi dell’art. 185 c.p..
Anche in questi casi tuttavia il danno alla salute sarà sempre risarcibile: non però sulla base di una
espressa previsione di legge, sibbene sulla scorta di una interpretazione “costituzionalmente
orientata” dell’art. 2059 c.c. adottata dalla Corte di cassazione.
Secondo quest’interpretazione, tra i “casi previsti dalla legge” che, ai sensi della norma ora
ricordata, consentono il risarcimento del danno non patrimoniale rientrano tutte le ipotesi in cui il
fatto illecito abbia leso un diritto della persona costituzionalmente garantito. Ciò per due ragioni: sia
perché la tutela risarcitoria è quella minima, e di essa non possono pertanto non beneficiare i diritti
2003, n. 7283, in Foro it., 2003, I, 2273; Cass., sez. III, 12-05-2003, n. 7282, in Resp. civ., 2003, 676; Cass., sez. III,
12-05-2003, n. 7281, in Foro it., 2003, I, 2274.
Tale principio è stato ribadito anche da Corte cost., 11-07-2003, n. 233, in Foro it., 2003, I, 2201.
8
Cass., 20-11-1990, n. 11198, in Foro it. Rep. 1990, Danni civili, n. 82; Cass., 18-06-1985, n. 3664, in Giur. it., 1986, I,
1, 1525; Cass., 30-01-1985, n. 565, in in Foro it. Rep. 1985, Danni civili, n. 53. La sentenza “capostipite” di tale
orientamento è Cass. sez. un., 06-12-1982, n. 6651, in Foro it., 1983, I, 1630.
9
Cass., sez. III, 27-10-2004, n. 20814, in Dir. e giustizia, 2004, fasc. 44, 24.
Contra, però, si veda Trib. Biella, 01-06-2005, in Giur. it., 2007, 88, secondo cui per effetto dell’adesione dell’Italia alla
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), il danno non patrimoniale da lesione della salute deve essere
risarcito anche quando la legge attribuisca ad un soggetto l’obbligo risarcitorio in base ad una regola di
responsabilità oggettiva. Quella del tribunale piemontese è comunque tesi in aperto contrasto non solo con la
giurisprudenza di legittimità, ma anche con quella della Corte costituzionale, secondo cui la norme della CEDU non
hanno efficacia pari a quella delle norme costituzionali, e sono prive di efficacia diretta nei rapporti tra privati,
essendo rivolte unicamente agli Stati aderenti alla Convenzione. Pertanto, ove il giudice di merito ritenga che una
norma interna sia in contrasto con la CEDU, non può disapplicarla, ma deve sollevare dinanzi alla Corte
costituzionale la relativa questione, con riferimento al parametro di cui all’art. 117 cost. (Corte cost., ***).
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fondamentali riconosciuti dalla Costituzione; sia perché la “legge” alla quale fa riferimento l’art.
2059 c.c. è non solo quella ordinaria, ma anche la costituzione stessa, e dunque per casi “previsti
dalla legge” debbono intendersi anche i “casi previsti dalla costituzione” (Cass. 26.11.26972, in
***; nello stesso senso Cass., sez. III, 31-05-2003, n. 8827, in Danno e resp., 2003, 819, e Cass.,
sez. III, 31-05-2003, n. 8828, in Danno e resp., 2003, 816).
Tuttavia, quando la lesione della salute deriva da un fatto non costituente reato la sua risarcibilità
non è illimitata, ma è subordinata alla sussistenza di tre presupposti, stabiliti dalle Sezioni Unite
della S.C. nella decisione con la quale è stato risolto, dopo aspri contrasti, il problema della
risarcibilità dei danni consistiti nella lesione di diritti fondamentali, ma non derivanti da reato.
Tali presupposti sono:
(a) che la lesione sia grave, cioè eccedente la soglia della normale tollerabilità;
(b) che il pregiudizio patito dalla vittima non sia futile;
(c) che l’interesse leso, e non le conseguenze che ne sono derivate, abbia copertura costituzionale10.
Ciascuna di queste tre affermazioni pone, con riferimento al danno biologico, delicati problemi
all’interprete, che occorre qui brevemente esaminare.
Gravità della lesione significa che essa deve eccedere la soglia della normale tollerabilità: pertanto,
al di fuori delle ipotesi di reato o degli altri casi previsti dalla legge (ad es., danni causati dalla
circolazione di veicoli soggetti all’obbligo di assicurazione), la lesione della salute sarà risarcibile
solo se oggettivamente apprezzabile. Non saranno tali, e dunque non potranno essere considerate
“gravi” e per ciò risarcibili, ad esempio, la perdita di un capello, ovvero una lieve contusione senza
ecchimosi, od ancora la modestissima abrasione dell’epidermide11.
10
11
Cass. sez. un. 11.11.2008 n. 26972, in ***.
Non a caso, nella già ricordata sentenza delle Sezioni Unite 11.11.2008 n. 26972, la Corte di cassazione per illustrare
il concetto di “non gravità” della lesione ricorre all’esempio del graffio superficiale dell’epidermide.
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4. Le caratteristiche del danno biologico.
Le caratteristiche del danno biologico consistono:
(a) nell’esistenza d’una lesione all’integrità psicofisica;
(b) nella possibilità di valutare l’esistenza e la gravità della lesione secondo regole e barémes
medico legali;
(c) nell’irrilevanza del reddito del danneggiato ai fini della liquidazione del risarcimento.
Il danno alla salute può dunque essere definito in termini generali come la temporanea o definitiva
compromissione della complessiva integrità psicofisica dell’individuo, suscettibile di essere
positivamente accertata sotto il profilo medico-legale, dalla quale sia derivato un peggioramento
della salute della vittima, intesa quale complessivo stato di benessere ed efficienza psicofisica
godute dalla vittima prima dell’infortunio12.
Il danno in esame consiste in una perdita: per l’esattezza, nella riduzione o nella soppressione della
qualità della vita del danneggiato, riduzione o soppressione che debbono essere causate da una
compromissione dello stato di salute goduto prima del verificarsi del danno, e debbono essere
valutate a prescindere da qualsiasi conseguenza patrimoniale sfavorevole.
Quello biologico costituisce un danno in senso tecnico, in quanto rappresenta una perdita di utilità.
L’utilità perduta è costituita dal godimento della vita nella sua pienezza, e quindi dall’interesse alla
completa esplicazione della propria personalità morale, intellettuale, culturale. Sussiste perciò un
danno biologico ogni qual volta il danneggiato, dopo il fatto lesivo, non può continuare ad essere,
apparire, comportarsi, vivere, come era, appariva, si comportava, viveva prima del prodursi del
danno.
Perché possa parlarsi di danno biologico in senso proprio, è tuttavia necessario che la perdita di cui
si è detto sia prodotta non quomodolibet, ma in conseguenza di una illecita lesione della
12
La migliore dottrina condivide questi assunti. Così, secondo Alpa, Bessone e Zeno Zencovich, I fatti illeciti, in Tratt.
dir. civ. diretto da Rescigno, vol. VI, Torino, 1995, 427, “le caratteristiche del danno biologico sono (...) la
unitarietà (in quanto in esso rientra il danno alla vita di relazione (...); il danno estetico (...); la capacità lavorativa
generica come già nel 1974 proposto dal tribunale di Genova), la autonomia (in quanto si tratta di una voce di
danno a tutti riconosciuta e in quanto distinta dal danno alla potenzialità di reddito e alla capacità lavorativa
specifica, così come dal danno morale), la a-redditualità (in quanto tale danno va risarcito a tutti, percettori o
produttori di reddito e non).
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complessiva integrità fisica e psichica dell’individuo, cioè attraverso una menomazione del corpo o
della mente.
Definito in questi termini, il danno biologico è un danno che presenta i seguenti caratteri:
(a) è un danno a fondamento medico legale, in quanto presuppone necessariamente la sussistenza
d’una lesione fisica o psichica, clinicamente accertabile;
(b) è un danno disfunzionale, in quanto consiste in un peggioramento della qualità della vita,
causalmente collegata ad una lesione dell’integrità psicofisica;
(c) è un danno omnicomprensivo, in quanto nella liquidazione di esso deve tenersi conto di tutte le
ripercussioni sfavorevoli che la lesione ha avuto sulla vita del soggetto danneggiato, con esclusione
soltanto di quelle patrimoniali;
(d) è un danno areddituale, in quanto sussiste a prescindere da ogni e qualsivoglia conseguenza
patrimoniale che le lesioni della salute possano avere prodotto, e va di conseguenza valutato in
modo del tutto indipendente da eventuali contrazioni del reddito del danneggiato;
(e) è un danno primario, in quanto va risarcito in anteparte, anche con pregiudizio - in caso di
incapienza del patrimonio del debitore - del diritto di surrogazione degli assicuratori sociali che
abbiano pagato alla vittima indennizzi a titolo di ristoro di pregiudizi di tipo diverso dal danno
biologico13.
All’esame di ciascuna di queste caratteristiche saranno dedicati i §§ che seguono.
5. (a) La necessaria sussistenza d’una lesione psichica o fisica.
Perché possa ritenersi sussistente un danno alla salute è presupposto necessario ed indefettibile
l’esistenza d’una lesione in corpore, e cioè una compromissione dell’integrità fisica o psichica della
vittima.
Beninteso, il danno alla salute è pur sempre un danno non patrimoniale, e la sofferenza da esso
causata non è qualitativamente diversa da quella che potrebbe scaturire - poniamo - da insuccessi
13
Alcuni degli elementi caratterizzanti sopra elencati sono condivisi dalla generalità della dottrina: ad esempio, si
ammette unanimemente che il danno biologico presupponga una lesione dell’integrità psicofisica, e che esso vada
liquidato a prescindere da ogni ripercussione sul reddito (Franzoni, Fatti illeciti, in Comm. cod. civ. a cura di
Scialoja e Branca, Bologna-Roma 1993, 997; Bianca, Diritto civile, V, Milano 1994, 176; Alpa, Bessone e Zeno
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scolastici o lavorativi, perdite patrimoniali, delusioni amorose, lutti, calunnie. Qualsiasi evento
suscettibile di gettare l’uomo in uno stato di prostrazione, impedendone o limitandone l’espressione
delle potenzialità fisiopsichiche, se causato da una condotta illecita altrui, può essere fonte di danno
non patrimoniale. Quando però la sofferenza è generata da una lesione della salute fisica o psichica,
solo allora possono trovare applicazione i peculiari criteri di accertamento, liquidazione e
personalizzazione del danno biologico. La sofferenza causata dall’ingiuria o dalla privazione della
libertà sono anch’esse ovviamente risarcibili, ma nella aestimatio del rispettivo danno non
patrimoniale non sarà necessario accertare l’esistenza della lesione, quantificarne l’incidenza sulla
complessiva validità dell’individuo, e convertire in denaro tale incidenza.
Il danno in esame, insomma, non consiste nella minore godibilità della vita, ma nella minore
godibilità della vita causata da una lesione fisica o psichica. Ha affermato, a tal riguardo, la S.C.
che “il danno alla salute, per quanto normalmente si risolva in un peggioramento della qualità
della vita, presuppone pur sempre una lesione dell'integrità psicofisica, di cui, quel peggioramento
è solo la conseguenza. Non, dunque, la minore godibilità della vita è in sé risarcibile a tale titolo,
ma solo la lesione della salute, costituente il bene giuridicamente tutelato dall'art. 32 della
Costituzione.
Ne discende che, in difetto di prova di una lesione della integrità psicofisica del soggetto (…), non è
configurabile un danno biologico”14.
Nel medesimo senso si sono pronunciati anche numerosi giudici di merito, i quali ad esempio hanno
ripetutamente escluso, in assenza della prova d’una effettiva lesione della salute fisica o psichica, la
configurabilità d’un danno biologico nel caso di attività rumorosa eccedente la normale
tollerabilità15, ovvero nel caso di morte di un prossimo congiunto16.
Zencovich, op. ult. cit., 426; Giannini e Pogliani, Il danno da illecito civile, Milano, 1997, 170; Salvi, La
responsabilità civile, Milano 1998, 69).
14
Cass., sez. III, 17-11-1999, n. 12756, in Assicurazioni, 2000, II, 2, 196. Va rimarcato che il grassetto è nell’originale
del provvedimento.
15
Trib. Roma (ord.) 27.12.1997, in Giurispr. romana 1998, ***; Trib. Savona 31.1.1990, in Giur. it. 1991, I, 2, 606;
Trib. Verona 13.10.1989, in Giur. it. 1991, I, 2, 606; Trib. Biella 22.4.1989, in Foro it. 1989, I, 3303; Trib. Monza
26.1.1982, in Giur. it. 1983, I, 2, 398.
16
Trib. Cagliari, 12-02-2000, in Riv. giur. sarda, 2002, 643; Trib. Napoli, 24-12-1999, in Riv. giur. circolaz. e trasp.,
2000, 765.
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Ovviamente l’esistenza della lesione, presupposto per la risarcibilità del danno biologico, deve
essere accertata in modo certo e rigoroso: ma poiché tale accertamento esige di norma il ricorso
all’ausilio di un esperto medico legale, si dirà meglio allorché tratteremo della consulenza tecnica.
6. (b) Il peggioramento della qualità della vita.
La sussistenza d’una lesione dell’integrità psicofisica è presupposto necessario, ma non sufficiente
per potere pretendere il risarcimento del danno alla salute.
Quest’ultimo infatti non consiste nel mero fatto di avere patito una compromissione dell’integrità
psichica o fisica, ma consiste nelle ripercussioni negative che quella lesione ha avuto, per sempre
oppure per un periodo di tempo limitato, sulla vita concreta della vittima. Se la lesione, per le
particolari condizioni del soggetto su cui ha inciso, non ha sortito alcun effetto negativo
(permanente o temporaneo) sull’esistenza di quest’ultimo, non vi sarà alcun danno da risarcire.
Dunque non l’ecchimosi, l’anchilosi, la frattura, la cicatrice costituiscono il danno biologico da
risarcire, ma l’impossibilità di muoversi, giocare, lavorare, relazionarsi agli altri, necessariamente
prodotte da quelle lesioni.
Così, ad esempio, il distacco traumatico della retina è senz’altro una compromissione dell’integrità
psicofisica dell’individuo, ma se è patito da una persona già cieca prima del sinistro esso non ha
inciso in alcun modo sulla vita della vittima, e non costituisce perciò un danno biologico risarcibile.
I principi appena esposti non sempre sono stati unanimi in giurisprudenza, né in dottrina. Ad avviso
di taluni, infatti, il danno biologico risarcibile sussisterebbe in re ipsa in tutti i casi in cui è stata
compromessa l’integrità psicofisica di una persona, anche se da ciò non siano derivate ulteriori
conseguenze.
Secondo un orientamento molto risalente il “danno alla salute” coinciderebbe con la mera
compromissione dell’integrità psicofisica, a prescindere da qualsiasi accertamento concreto sulle
ripercussioni concrete che tale pregiudizio potrà avere sulla vita della vittima. Basterebbe, dunque,
la mera dimostrazione di un’alterazione biologica del corpo o della psiche per acquisire il diritto al
risarcimento: anche se chi l’ha patita non ne ha risentito pregiudizio.
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Sulla base di tali assunti, l’orientamento in esame distingue tra il danno biologico “statico”,
rappresentato dalla lesione della salute in sé e per sé considerata, ed il danno biologico
“dinamico”, rappresentato dalle conseguenze pregiudizievoli della lesione17. Il primo sarebbe un
danno in re ipsa, che non richiederebbe altra prova che quella dell’esistenza della lesione; il
secondo sarebbe invece un danno da accertare e provare caso per caso, sia pure attraverso ampio
ricorso al fatto notorio (art. 115 c.p.c.) ed alle presunzioni semplici (art. 2727 c.c.).
La distinzione tra aspetto statico ed aspetto dinamico del danno alla salute ebbe inizialmente larga
diffusione tra i giudici di merito18, e finì per essere accolta in una (sola) occasione sinanche dalla
Corte costituzionale. Oggi tuttavia la concezione del danno biologico come danno in re ipsa, e la
connessa distinzione tra danno biologico “statico” e “dinamico”, è stata abbandonata dalla Corte di
cassazione e dalla quasi totalità dei giudici di merito19.
17
Un autorevole giudice del tribunale di Genova, estensore delle prime decisioni che proclamarono l’autonoma
risarcibilità del danno alla salute, scrisse tra l’altro: “[deve] essere chiaro che il danno biologico, quale evento
naturalistico, ha due aspetti del tutto indissolubili: da un lato, diciamo sotto il profilo statico, è costituito dalla
menomazione stessa dell’integrità fisiopsichica (ad esempio la perdita di un arto, la lesione di un organo, ecc.) e
dall’altro, cioè sotto il profilo dinamico, dalla corrispondente riduzione della validità del soggetto leso, intesa quale
sua preesistente potenzialità e funzionalità fisica e psichica (...).
Col termine “invalidità” non ci si deve riferire alla concreta attitudine a svolgere le quotidiane attività
precedentemente svolte dal soggetto leso, bensì alla sua astratta preesistente potenzialità di svolgere qualsiasi
attività.
Sarebbe infatti del tutto illegittimo valutare differentemente, in termini di riduzione della validità, le menomazione
dell’integrità fisiopsichica di un soggetto che svolge scarse attività, rispetto a quella di un soggetto particolarmente
attivo” (Barone, ***, in ***, 1990, 106).
18
Così Trib. Verona 4.3.1986, in Nuova giurispr. civ. comm., 1986, 525. Sostanzialmente nello stesso senso, sia pure
talora attraverso l’adozione di motivazioni piuttosto concise, si vedano App. Roma 2.7.1986, in Giur. merito, 1988,
328; Trib. Reggio Calabria 22.12.1988 n. 425, Princi c. Cotroneo, inedita; Trib. Messina 8.6.1988 n. 548, inedita;
Trib. Pescara 3.2.1988 n. 46, in PQM, 1989, 45; Trib. Genova 17.2.1989, in Assicurazioni, 1989, 121; Trib. Genova
9.3.1989, in Giur. it. 1989, 938; Trib. Busto Arsizio 15.2.1990 n. 90, in Arch. circolaz., 1990, 598; Trib. Ravenna
13.3.1990, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1991, 853; Trib. Treviso 24.5.1990 n. 1283, in Riv. giur. circolaz. trasp.,
1990, 796; Trib. Novara 21.6.1990, in Arch. circolaz. 1991, 481; Trib. Reggio Calabria 1.2.1991, Altomonte c.
Amodeo, inedita; Trib. Milano 16.7.1992 in Resp. civ., 1993, 348; Trib. Torino 8.8.1992 n. 6511, in Arch. circolaz.,
1993, 545; Trib. Milano 4-6-1990, in Giur. merito 1992, 369; Trib. Pescara, 5-3-1992, in PQM, 1992, 73; Trib.
Como 2.3.1993, in Riv. giur. circolaz. trasp. 1994, 376; Giud. Pace Pordenone 6.5.1996, in Arch. circolaz. 1996,
825.
19
Continuano a distinguere tra danno statico e dinamico Trib. Perugia-Foligno, 31-01-2001, in Rass. giur. umbra, 2002,
46; Trib. Lecce, 09-10-2000, in Corti Bari, Lecce e Potenza, 2001, I, 387; Giudice di pace Pordenone, 09-05-1996,
in Arch. circolaz., 1996, 825.
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Alla tesi secondo cui la lesione della salute costituisce un danno in sé (c.d. danno biologico statico),
anche quando non ne siano derivate conseguenze pregiudizievoli, vennero infatti mosse varie
obiezioni.
La prima obiezione investì la matrice culturale della tesi del danno in re ipsa. Questa, come si
ricorderà, si fondava sulla distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza (il danno è la lesione
stessa del diritto, il danno-evento, anche quando non ne siano derivate conseguenze
pregiudizievoli).
La dottrina avversa a tale distinzione ritenne di ravvisarne il germe in una vecchia tesi di Francesco
Carnelutti, la quale identificava il danno con la lesione dell’interesse, e non con la perdita di
un’utilità20. A quella tesi si obiettò che essa aveva ragione di esistere nel campo del diritto penale,
ove effettivamente la violazione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice può costituire un
“danno” per la collettività21. Nel campo del diritto civile, invece, non vi sono reati da sanzionare,
ma perdite da compensare. La responsabilità civile non ha una funzione sanzionatoria, ma
eminentemente “compensativa”, con la conseguenza che ciò che deve essere valutabile
economicamente, ai fini del risarcimento, non è il danno in sé, ma le conseguenze sfavorevoli di
esso22.
La seconda obiezione mossa alla tesi del danno biologico come pregiudizio in re ipsa si fonda sulla
inaccettabilità delle conseguenze cui essa condurrebbe.
Se si risarcisse la mera lesione dell’integrità psicofisica in modo uguale a parità di lesione, e
prescindendo dalle conseguenze concrete che la lesione ha avuto sulla vita del danneggiato, il
20
Carnelutti, Il danno e il reato, Padova 1926, passim, ma specialmente 17 e ss.. Secondo questa tesi, poiché quello alla
salute è un interesse giuridicamente protetto dall’art. 32 cost., la semplice lesione dell’integrità psicofisica
obbligherebbe l’autore dell’illecito al risarcimento del danno.
L’opinione secondo cui la Consulta, con la distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza, si sarebbe rifatta al
Carnelutti, è di Busnelli, Il danno risarcibile: problemi e prospettive, in Nuovi orientamenti e nuovi criteri per la
determinazione del danno, Atti dell’Incontro di studio per i magistrati, Trevi 30 giugno - 1 luglio 1989, Quaderni
del CSM, Roma, 1990, 33.
21
Mastropaolo, Il danno biologico tra meriti e miti, in Nuovi orientamenti e nuovi criteri per la determinazione del
danno, Atti dell’Incontro di studio per i magistrati, Trevi 30 giugno - 1 luglio 1989, Quaderni del CSM, Roma,
1990, 212, ed ivi gli ulteriori riferimenti alla dottrina penalista.
22
Così già Scognamiglio, Risarcimento del danno, in Novissimo Dig., XVI, Torino, 1969, 464; nonché, con riferimento
al danno biologico, Busnelli, Il danno risarcibile: problemi e prospettive, in Nuovi orientamenti e nuovi criteri per
la determinazione del danno, Atti dell’Incontro di studio per i magistrati, Trevi 30 giugno - 1 luglio 1989, Quaderni
del CSM, Roma, 1990, 34-35.
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risarcimento perderebbe ogni funzione compensativa, per trasformarsi in una vera e propria
sanzione privata, imposta all’offensore ed a vantaggio dell’offeso.
E’ stato osservato a questo riguardo che “se si identificasse lesione con danno, otterremmo
conseguenze assurde. Supponiamo che un uomo in coma o, meglio, in stato vegetativo persistente,
perda un centimetro quadrato di pelle, perché ustionato dall’incauto uso di uno strumento
cauterizzante da parte di un infermiere. Vi è un danno che dia diritto al risarcimento in favore di
quest’uomo in coma? (...). Ma (...) l’ustione sul centimetro quadrato di pelle (...) costituisce (...)
danno biologico? Potrebbe dire sì solo chi identifichi quest’ultimo in qualsiasi alterazione
materiale dello stato anteriore del corpo umano: anche un pelo strappato, anche un’unghia
spezzata sarebbero allora danno biologico”23.
La terza obiezione mossa alla tesi del danno biologico come danno in re ipsa si incentra sulla
nozione di danno, e contesta che questo possa sussistere anche in assenza di una perdita, di tipo
patrimoniale o non. Il concetto di danno, si è affermato a tal riguardo, implica necessariamente
l’idea della “perdita”. Non basta, cioè, che sia leso un interesse perché possa ritenersi sussistente un
danno in senso proprio: è necessario, invece, che dalla lesione dell’interesse sia conseguita una
perdita patrimoniale o di altro tipo. Pertanto, se si facesse coincidere il danno biologico con la mera
lesione dell’integrità psicofisica, anche se essa non ha avuto conseguenze peggiorative della vita del
soggetto, si risarcirebbe un “danno” che non ha causato perdite. In questo senso la tesi del danno
biologico come danno strutturale è stata definita, senza mezzi termini, un “errore”24.
La quarta obiezione che si può muovere alla tesi del danno biologico come danno in re ipsa è di
natura medico legale. Si è già accennato al fatto che il danno biologico ha fondamento medico
legale, nel senso che presuppone necessariamente l’esistenza d’una lesione fisica o psichica.
Ebbene, per la medicina legale il danno alla persona giuridicamente rilevante non è qualsiasi lesione
dell’integrità psicofisica, ma soltanto quella lesione la quale abbia causato una disfunzione in uno
qualsiasi dei molteplici aspetti della vita del danneggiato.
Per il medico legale quindi lesione dell’integrità psicofisica e conseguenze derivatene sono concetti
che vanno tenuti distinti, tanto è vero che la gravità della lesione non è affatto proporzionale alla
23
Mastropaolo, op. ult. cit., 212-213.
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gravità delle conseguenze. Il distacco della retina in un soggetto non vedente costituisce una lesione
grave dalle conseguenze minime se non nulle; al contrario l’abbassamento di 1/10 del visus in un
soggetto monocolo costituisce una lesione lieve, ma dalle rilevanti conseguenze.
Le obiezioni alla tesi del danno biologico in re ipsa, di cui si è detto sin qui, sono state fatte proprie
- in vario modo - sia dalla Corte costituzionale, sia dalla Corte di cassazione, ambedue contrarie a
ritenere che la sola lesione della salute costituisca di per sé un danno, ove non ne siano derivate
conseguenze pregiudizievoli.
Il giudice delle leggi, che come si vide nel 1986 aveva ravvisato nella lesione della salute un danno
in re ipsa, nel 1994 cambiò clamorosamente idea. In quell’anno la Consulta, chiamata a
pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c. nella parte in cui non consentiva la
risarcibilità agli eredi del c.d. “danno biologico da morte”, ha negato che basti la prova della lesione
psicofisica per pretendere il risarcimento. “La prova della lesione - si legge nella sentenza - è, in re
ipsa, prova dell'esistenza del danno (atteso che da una seria lesione dell'integrità fisio-psichica
difficilmente si può guarire in modo perfetto), [ma] ai fini del risarcimento è sempre necessaria la
prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita
di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un
valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente)
commisurato”25.
La Corte costituzionale non sarebbe potuta essere più esplicita nell’affermare che la dimostrazione
della lesione dell’integrità psicofisica non è sufficiente ad ottenere il risarcimento: quest’ultimo
infatti sarà dovuto solo se dimostrata “la diminuzione o privazione di un bene personale”. È ovvio
che, nella stragrande maggioranza dei casi, questa dimostrazione potrà agevolmente essere fornita
col ricorso alla prova presuntiva (art. 2727 c.c.), in quanto l’esistenza d’una lesione, di norma,
consente di affermare che la vita di chi l’ha patita ne sarà negativamente influenzata. A livello
teorico, tuttavia, la precisazione della Corte costituzionale assume un rilievo fondamentale per
24
25
Busnelli, Tre “punti esclamativi”, tre “punti interrogativi”, un “punto e a capo”, in Giust. civ., 1994, I, 3037.
Corte cost. 27.10.1994 n. 372, in Giust. civ., 1994, I, 3029.
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potere definire il danno biologico come un danno disfunzionale: esso, cioè, sussiste ove sia
dimostrato un peggioramento nella qualità della vita del soggetto leso.
Anche la Corte di cassazione, in una nutritissima serie di decisioni, ha mostrato in modo chiaro di
non condividere la tesi del danno biologico come danno in re ipsa.
Sin dalle prime due “storiche” sentenze con le quali venne ammessa la piena risarcibilità della
lesione della salute in quanto tale, la Corte ha fatto riferimento al danno biologico non come lesione
dell’integrità psicofisica, ma come “perdita delle funzioni” naturali afferenti al soggetto
nell'ambiente in cui la vita si esplica ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica,
sociale, culturale ed estetica26.
Secondo la Corte, dunque, la lesione fisica o psichica è soltanto il “substrato” del danno biologico,
ma non si identifica affatto con esso. Il danno in questione consiste invece nelle rinunce cui la
lesione ha costretto il danneggiato, ovvero con la perdita di funzioni esistenziali sofferta dal leso.
Per il giudice di legittimità la quidditas del danno biologico non va dunque individuata
nell’esistenza d’una lesione dell’integrità psicofisica. Questa ne rappresenta il presupposto
necessario (il “substrato”, come affermato da Cass. 10.12.1991 n. 13292, in Resp. civ., 1992, 222),
26
Cass. 6.6.1981 n. 3675, in Foro it., I, 1884, e Cass. 6.4.1983 n. 2396, in Giur. it., 1984, I, 1, 537.
Il richiamo alle “funzioni” perdute, alle “perdite funzionali”, alla “funzionalità” dell’individuo negli anni ’90 divenne
quasi una clausola di stile nella giurisprudenza della Corte: si legge ad esempio nella motivazione di Cass. 6.12.1994
n. 10454, in Foro it. Rep., 1994, Danni civili, 169, che “per danno biologico deve intendersi la menomazione della
integrità psico-fisica in sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che
non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si ricollega alla somma delle funzioni naturali
afferenti al soggetto nell'ambiente in cui la vita si esplica, e si estende quindi a tutti gli effetti negativi incidenti sul
bene primario della salute, quale diritto inviolabile alla pienezza della vita ed all'esplicazione della propria
personalità morale, intellettuale, culturale (...). Nella liquidazione il giudice deve considerare anche l'eventuale
invalidità permanente, non già come menomata capacità di guadagno, ma come menomazione della salute fisiopsichica dello stesso", "prescindendo quindi dai riflessi sulla capacità di reddito del soggetto danneggiato" (...), e
tutti i possibili profili di incidenza della menomazione del bene salute” (l’enfasi è aggiunta).
Nello stesso senso, si vedano anche Cass., 14-4-1984, n. 2422, in Resp. civ., 1984, 333; Cass. 20.8.1984, n. 4661, in
Resp. civ., 1985, 211; Cass. 26.11.1984, n. 6134, in Riv. giur. lav., 1985, II, 689; Cass. 6.5.1988 n. 3367, in Foro it.
Rep. 1988, Danni civili, 69; Cass. 5.9.1988, n. 5033, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1989, 589; Cass. 4.12.1992, n.
12911, in Riv. critica dir. lav., 1993, 577; Cass. 14.10.1993, n. 10153, in Arch. circolaz., 1994, 17; Cass. 5.11.1994,
n. 9170, in Foro it. Rep., 1994, Danni civili, 121; Cass. 10.3.1995, n. 4255, in Resp. civ., 1995, 519.
In altri casi, in modo ancora più esplicito, la Corte ha distinto la “pura lesione dell’integrità psicofisica (o danno
fisiologico)”, dal vero e proprio danno biologico (Cass. 10.12.1991 n. 13292, in Resp. civ., 1992, 222).
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ma l’essenza del danno risiede nel “valore umano” perduto, ovvero nelle conseguenze negative
che la lesione ha prodotto sulla vita del danneggiato27.
Va infine ricordato che la definizione del danno biologico come danno disfunzionale, piuttosto che
come mera lesione dell’integrità psicofisica, è condivisa dalla grande maggioranza dei giudici di
merito, i quali considerano il danno in questione come fatto che limita le possibilità vitali del
danneggiato, impedendogli di vivere lo stesso tipo e qualità di vita che avrebbe vissuto se non fosse
stato attinto dalla lesione. Le formule adottate al riguardo dai giudici di merito sono piuttosto varie
nella sintassi, ma sostanzialmente analoghe dal punto di vista semantico. Così, il danno biologico
viene definito di volta in volta come fatto che preclude al danneggiato di avvalersi delle proprie
energie vitali nella stessa misura possibile prima della lesione; lesione delle manifestazioni o
espressioni quotidiane del bene salute, riguardanti sia attività lavorative che extralavorative;
lesione del valore uomo in tutta la sua dimensione concreta; lesione del diritto alla pienezza della
vita; lesione delle funzioni naturali del soggetto; lesione della personalità del soggetto con
riferimento alla somma delle funzioni naturali che afferiscono al soggetto stesso nell’ambito
dell’ambiente in cui vive. Varietà lessicale, dunque, ma sostanziale uniformità di concezione, che è
quella secondo cui il danno biologico consiste in una perdita di qualità della vita28.
27
Per la qualificazione del danno biologico in termini di “valore umano” perduto si vedano ex permultis Cass.
25.6.1997 n. 5675, in Dir. econ. ass., 1997, 1056; Cass. 24.6.1997 n. 5635, in Foro it. Rep., 1997, Danni civili, 224;
Cass. 14.5.1997 n. 4236, in Foro it. Rep., 1997, Danni civili, 225; Cass. 15.11.1996 n. 10015, in Riv. giur. circolaz.
trasp., 1997, 86; Cass. 11.11.1996 n. 9835, in Foro it. Rep. 1996, Danni civili, 188; Cass. 18.9.1996 n. 8344, in Riv.
giur. circolaz. trasp., 1996, 945; Cass. 30.5.1996 n. 5005, inedita con riferimento al principio che qui interessa.
28
La giurisprudenza al riguardo è sterminata. Tra le tante decisioni si vedano Trib. Pisa 16.1.1985, in Riv. it. med. leg.,
1987, 630; Trib. Roma 9.3.1987 n. 3014, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1987, 670; Pret. Piedimonte Matese 1.8.1987,
in Arch. circolaz., 1988, 842; Trib. Milano 12.12.1988 n. 1173, in Arch. circolaz., 1989, 405; App. Perugia
18.3.1989, in Arch. civ., 1990, 46; Trib. Macerata 20.12.1989, in Arch. circolaz., 1990, 398; App. L’Aquila
21.3.1990, in PQM, 1990, 26; Trib. Napoli 13.7.1990, in Arch. civ., 1991, 61; Trib. Pescara 5.3.1992, in Arch.
circolaz., 1992, 1016; Trib. Firenze 30.6.1992, in Arch. circolaz., 1992, 1013; Trib. Milano 10.12.1992, in Resp.
civ., 1993, 995; Trib. L’Aquila 2.11.1993, in Giur. merito, 1994, 852; Trib. Ancona 11.4.1994, in Arch. circolaz.,
1994, 855 (quest’ultima sentenza si segnala per chiarezza sintattica ed esaustività della motivazione); Trib. Roma
14.4.1994, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1994, 656; Trib. Firenze 7.6.1994, in Arch. circolaz., 1994, 1070; Giud.
Pace Pordenone 9.5.1996, in Arch. circolaz., 1996, 825.
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7. (c) La natura omnicomprensiva.
La terza caratteristica del danno alla salute è la omnicomprensività. Omnicomprensività del danno
vuol dire che, nella liquidazione del risarcimento, occorre tenere conto di tutti i pregiudizi derivati
dalla lesione, nessuno escluso. Così, costituisce danno risarcibile la perduta (per sempre o per un
certo tempo) possibilità di camminare, di leggere, di fare sport, ma anche la perduta possibilità di
raccogliere funghi, tenere comizi, far volare aquiloni, e via dicendo. Tutte le attività dell’esistenza
divenute impossibili (in tutto o in parte) in seguito alla lesione sono suscettibili di essere valutate
nella liquidazione del danno. Questo principio conosce un solo limite: non è risarcibile la perduta
possibilità di svolgere attività illecite (ad es., rubare o truffare) od immorali (ad es., prostituirsi).
La natura omnicomprensiva del danno alla salute è unanimemente proclamata dal giudice delle
leggi, da quello di legittimità e dai giudici di merito.
Il primo ha stabilito che il danno biologico, ai fini del risarcimento, deve essere preso in
considerazione “in relazione alla integralità dei suoi riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le
attività, le situazioni e i rapporti in cui la persona esplica se stessa nella propria vita: non soltanto,
quindi, con riferimento alla sfera produttiva, ma anche con riferimento alla sfera spirituale,
culturale, affettiva, sociale, sportiva e ad ogni altro ambito e modo in cui il soggetto svolge la sua
personalità, e cioè a tutte le attività realizzatrici della persona umana”29.
Tale opinione, da tempo condivisa dalla giurisprudenza assolutamente unanime della Corte di
cassazione30, è stata confermata dall’autorità delle Sezioni Unite, ad avviso delle quali “il danno
non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di
interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria
non suscettiva di suddivisione in sottocategorie”, e che di conseguenza costituisce componente
intrinseca del danno biologico “ogni sofferenza, fisica o psichica”31. In applicazione di questo
29
30
Corte costit. 18-7-1991 n. 356, in Assicurazioni, 1991, II, 2, 109.
Ex plurimis, Cass., sez. III, 03-08-2005, n. 16225, in Foro it. Rep. 2005, Danni civili, n. 306; Cass. 14.3.1995 n. 2932,
in Foro it. Rep. 1995, Danni civili, 145; Cass. 18.4.1996 n. 3686, in Riv. giur. lav. 1996, II, 33; Cass. 19.4.1996, n.
3727, in Foro it. Rep. 1996, Danni civili, 114; Cass., 11.6.1997, n. 5251, in Foro it. Rep. 1997, Danni civili, 158.
31
Cass. sez. un. 11.11.2008 n. 26972, in ***.
In dottrina, tale opinione è condivisa da Busnelli, Tre “punti esclamativi”, tre “punti interrogativi”, un “punto e a capo”, in Giust.
civ., 1994, I, 3035; e da Monateri, La responsabilità civile, Torino 1998, 484. Quest’ultimo autore, peraltro, non senza
contraddizione dopo avere affermato la natura omnicomprensiva del danno biologico, ha sostenuto la diversità rispetto ad esso dei
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principio, si è ritenuto corretto corretto l'operato del giudice di merito che liquidi il risarcimento del
danno biologico in una somma omnicomprensiva, “posto che le varie voci di danno non
patrimoniale elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza (danno estetico, danno esistenziale,
danno alla vita di relazione, ecc.) non costituiscono pregiudizi autonomamente risarcibili, ma
possono venire in considerazione solo in sede di adeguamento del risarcimento al caso specifico, e
sempre che il danneggiato abbia allegato e dimostrato che il danno biologico o morale presenti
aspetti molteplici e riflessi ulteriori rispetto a quelli tipici (Cass. 9.12.2010 n. 24864).
La natura omnicomprensiva del danno alla salute risulta, infine, condivisa dalla prevalente
giurisprudenza di merito, nella quale è frequente il richiamo al danno biologico come figura
assorbente del danno alla vita sessuale, di quello alla vita di relazione, di quello estetico, di quello
alla capacità lavorativa generica, e via dicendo, figure tutte divenute perciò non più autonomamente
risarcibili (ex plurimis, App. Ancona 28.2.1996, Procaccini c. Intercontinentale, inedita; Trib.
Piacenza 22.5.1993, in Arch. circolaz., 1993, 705; Trib. L’Aquila 26.1.1991, in PQM, 1991, 67;
Trib. Napoli 5.8.1990, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1991, 228; Trib. Ravenna 13.3.1990, in Riv.
giur. circolaz. trasp., 1991, 853; Trib. Milano 25.1.1990, in Arch. circolaz., 1990, 398; Trib. Como,
21-06-1989, in Arch. circolaz., 1989, 917; Trib. Spoleto 10.8.1987, in Arch. circolaz., 1988, 328;
App. Roma 9.3.1987, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1987, 670; App. Cagliari 15.2.1985, in Giur. it.,
1985, I, 2, 1180).
Questa opinione assolutamente dominante è stata tuttavia disattesa da una isolata decisione della
S.C., nella quale si sostiene che nonostante il principio dell'unitarietà del danno non patrimoniale,
quale categoria omnicomprensiva che include anche il danno biologico ed il danno da reato, il
giudice deve comunque procedere ad una “valutazione ponderale analitica” delle varie tipologie di
danno non patrimoniale (Cass. 11.6.2009 n. 13530).
Nelle maggioranza delle decisioni di merito è frequente il richiamo al contenuto del danno
biologico in termini di limitata esplicazione della personalità morale, intellettuale, culturale,
sociale, sportiva, estetica, del danneggiato (App. Torino 25.11.1985, in Arch. circolaz., 1986, 379).
Anzi, è proprio nella giurisprudenza di merito che si rinvengono al riguardo gli spunti di maggiore
pregiudizi esistenziali (Monateri, Alle soglie di una nuova categoria risarcitoria: il danno esistenziale, in Danno e
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interesse, al di là delle formule stereotipe che la S.C., in adempimento del proprio ruolo
nomofilattico, è necessitata ad adottare. Così, ad esempio secondo App. Milano 17.1.1989,
Norditalia c. Sarno, inedita, nella liquidazione del risarcimento occorre tenere conto anche delle
aspettative e dei bisogni del leso, sorti in seguito all’invalidità. App. Perugia 16.5.1985, Pignotti c.
Ist. riun., inedita, ha fatto invece riferimento alla incidenza negativa delle lesioni sul tempo libero
del danneggiato. Tra le conseguenze esistenziali negative, di cui tenere conto nelle liquidazione, per
Pret. Livorno 27.2.1992 rientrano poi le conseguenze dei postumi sui rapporti del leso con il
coniuge, i figli, e con tutta la famiglia e la società in genere. Trib. Verona 20.3.95, in Riv. dir.
sport., 1996, 94, ha ritenuto che la sopravvenuta incapacità di svolgere uno sport non remunerativo
vada valutata nella liquidazione del danno alla salute. Infine, Trib. Spoleto 10.8.1987, in Giust. civ.,
1988, I, 2992, ha affermato che nella liquidazione vanno “tenute presenti” la ricchezza della vita di
relazione del danneggiato, i suoi studi, e le gratificanti attività collaterali da questi esercitate
(nello stesso senso si veda anche Giud. pace Pordenone 9.5.1996, in Arch. circolaz., 1996, 825).
Assai frequente, infine, è l’affermazione secondo cui nella liquidazione del danno biologico occorre
tenere conto anche delle ripercussioni negative che esso ha avuto sullo svolgimento dell’attività
lavorativa, in termini di maggior affaticamento o usura, a prescindere da eventuali contrazioni
reddituali (Trib. Roma 16.2.2002, Abalos c. Bayerische, inedita; si tratta del c.d. pregiudizio alla
cenestesi lavorativa).
L’emersione del concetto di danno biologico, e l’affermazione della sua natura omnicomprensiva,
hanno fatto diventare del tutto inutili varie categorie di danni, create dalla giurisprudenza allorché
non si ammetteva la risarcibilità del danno alla salute in sé e per sé considerato.
In quell’epoca la lesione della salute veniva risarcita solo a titolo di danno morale (che però poteva
essere irrisarcibile, in assenza di reato), ovvero di danno patrimoniale: ma poiché non sempre la
vittima era percettore di reddito, dottrina e giurisprudenza avevano elaborato una serie di fictiones
iuris, alle quali ricorrere nei casi in cui il danneggiato, non avendo redditi, non avrebbe a rigore
potuto pretendere alcun risarcimento. Queste categorie (l’incapacità lavorativa generica, il danno
alla vita sessuale, il danno alla serenità familiare, il danno estetico, il danno alla vita di relazione)
resp., 1999, 5).
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venivano concepite per lo più come ipotesi di danno patrimoniale indiretto. Si presumeva cioè che il
danno, pur nona vendo inciso su alcun reddito in atto, avrebbe potuto incidere su redditi meramente
futuri o potenziali della vittima.
Ora, se si conviene sul fatto che queste categorie di danno non avevano alcun referente oggettivo,
ma costituivano soltanto finzioni introdotte dalla prassi al fine di apprestare tutela a casi di
danneggiati senza reddito, deve di conseguenza convenirsi sul fatto che l’utilità di tali nozioni, con
l’apparizione del danno biologico, è del tutto venuta meno. La nozione di danno biologico, come
sin qui delineata, permette infatti di risarcire la lesione della salute subìta da qualsiasi soggetto, sia
egli ricchissimo o poverissimo, iperattivo o infingardo. Oggi quindi non è più possibile che esistano
“uomini senza valore”, e di conseguenza non è più necessario ricorrere a fictiones iuris per
immaginare improbabili ripercussioni sul reddito di danni che nulla, col reddito, avevano a che fare.
8. (d) La natura areddituale.
La quarta caratteristica del danno alla salute è che esso va accertato e liquidato a prescindere da
qualsiasi incidenza che la lesione della salute possa avere avuto sul patrimonio e sui redditi della
vittima.
Ciò significa che sussiste una assoluta autonomia tra il risarcimento del danno patrimoniale ed il
risarcimento del danno alla salute: l’uno non implica, né presuppone l’altro. Il danno alla salute
andrà perciò sempre liquidato, anche quando il danneggiato non abbia ancora, o abbia perduta, o
non abbia mai avuto attitudine a svolgere attività produttiva di reddito. Il risarcimento del danno
biologico spetta a tutti coloro che abbiano patito una lesione della salute, che siano o meno
percettori o produttori di reddito32.
Questo principio, da sempre tenuto fermo dalla giurisprudenza33, è stato elevato a dignità
normativa dagli artt. 138 e 139 cod. ass., nonché dall’art. 13 d. lgs. 38/2000, i quali nel definire il
32
Sterminati i riferimenti dottrinari: per tutti, si veda Alpa, Vecchi e nuovi problemi concernenti il danno biologico, in
Giust. civ., 1993, 2103.
33
Ex permultis, nel senso che il risarcimento del danno biologico deve prescindere dalle conseguenze patrimoniali della
lesione, si vedano Cass., sez. III, 20-04-2007, n. 9510, in Resp. civ., 2007, 1553; Cass., sez. III, 09-11-2006, n.
23918, in Foro it., 2007, I, 71; Cass., sez. III, 28-07-2005, n. 15822, in Foro it. Rep. 2005, Danni civili, n. 198;
Cass., sez. III, 11-08-2000, n. 10725, in Foro it. Rep. 2000, Danni civili, n. 237; Cass. 30-10-1998 n. 10897, in Foro
it. Rep., 1998, Danni civili, 250; Cass. 25-5-1998 n. 5195, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 235; Cass. 22-519-98
n. 5134, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 238; Cass. 22-4-1998 n. 4071, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 246;
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danno biologico espressamente stabiliscono che esso va valutato a prescindere dalle ripercussioni
sul reddito.
Dalla natura areddituale del danno biologico discendono due conseguenze:
(a) la prima è che a parità di età, sesso, lesione e postumi patiti dalla vittima, il risarcimento del
danno in esame sarà tendenzialmente uguale per il miliardario e per il nullatenente;
(b) la seconda è che il danno alla salute non può essere liquidato con alcun criterio che ponga a base
della liquidazione il reddito del danneggiato34.
9. (e) L’intangibilità del risarcimento.
L’ultima caratteristica essenziale del danno biologico è l’intangibilità, a certe condizioni e da parte
di determinati soggetti, delle somme dovute alla vittima a titolo di risarcimento.
Si tratta di una intangibilità relativa, opponibile soltanto agli assicuratori sociali che, una volta
indennizzata la vittima di lesioni, intendano agire in surrogazione nei confronti del responsabile del
danno. Ricorrendo tale ipotesi, il responsabile non può rifiutare o limitare il risarcimento del danno
alla salute, per il solo fatto di avere già accolto la richiesta di surrogazione avanzata dagli
assicuratori sociali, i quali abbiano indennizzato alla vittima pregiudizi diversi da quello
biologico35.
10. Danno biologico e danno morale.
Per lungo tempo ha costituito una prassi giurisprudenziale assolutamente uniforme la liquidazione
congiuntsa del danno biologico e del danno morale, definito come il “patema d’animo transeunte”.
La tradizionale identificazione del danno definito “morale” col solo pregiudizio psichico venne
abbandonata per prima in tema di risarcimento del danno patito da persone giuridiche. Rispetto a
queste ultime non era infatti concepibile alcuna “sofferenza psichica”; sicché a tenere ferma la
Cass. 24-2-1998 n. 1975, in Giust. civ., 1998, I, 2618; Cass. 25-8-1997 n. 7977, in Foro it. Rep., 1997, Danni civili,
223; Cass. 2-7-1997 n. 5949, in Foro it. Rep., 1997, Danni civili, 220; Cass. 24-6-1997 n. 5635, in Foro it. Rep.,
1997, Danni civili, 224; Cass. 15-4-1996 n. 3539, in Foro it. Rep., 1996, Danni civili, 125; Cass., sez. III, 16-091995, n. 9772, in Foro it. Rep. 1995, Danni civili, n. 150Cass. 13-5-1995 n. 5271, in Arch. circolaz., 1996, 20.
34
Ex multis, Cass., sez. III, 16-11-2000, n. 14874, in Foro it. Rep. 2000, Danni civili, n. 243; Cass., sez. III, 12-05-2000,
n. 6117, in Foro it. Rep. 2000, Danni civili, n. 244; Cass., sez. III, 08-01-1999, n. 101, in Danno e resp., 1999, 665;
Cass., sez. III, 30-10-1998, n. 10897, in Foro it. Rep. 1998, Danni civili, n. 250.
35
Art. 1916 c.c., nel testo risultante dalla pronuncia di Corte cost., 18 luglio 1991, n. 356, in Assicurazioni, 1991, II, 2,
109; si veda anche l’art. 142 cod. ass..
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tradizionale impostazione si sarebbe dovuto negare il risarcimento del danno non patrimoniale alle
persone giuridiche vittime di reato. Così la S.C. cominciò a negare, sia pure in questo settore
particolare, l’identificazione del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. col solo patema
d’animo soggettivo e transeunte. La sentenza capostipite in tal senso è Cass. 10 luglio 1991 n. 7642,
in Giust. civ., 1991, I, 1955, la quale ritenne il danno non patrimoniale comprensivo “di qualsiasi
conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria
basata su criteri di mercato, non possa essere oggetto di tecnico risarcimento, sibbene di
riparazione”36.
Un altro fiero colpo all’impostazione tradizionale, che identificava il danno morale con la sola
sofferenza transeunte, fu assestato (inconsapevolmente) dalle due coeve decisioni con le quali la
S.C. interpretò in senso costituzionalmente orientato l’art. 2059 c.c., chiarendo che il risarcimento
del danno non patrimoniale è consentito non solo nei casi previsti dalla legge, ma anche in tutte le
ipotesi in cui l’illecito leda un diritto della persona costituzionalmente garantito (Cass., sez. III, 3105-2003, n. 8827 e Cass., sez. III, 31-05-2003, n. 8828, ambedue in Danno e resp., 2003, 816 e ss.).
Con queste decisioni infatti la S.C. stabilì che:
(a) tutti i danni si dividono in patrimoniali e non patrimoniali, e non esistono tertia genera;
(b) il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. ha natura omnicomprensiva;
(c) anche quando l’illecito non integri gli estremi di un reato, il danno non patrimoniale è sempre
risarcibile nel caso di offesa a diritti della persona di rilievo costituzionale.
Così interpretato l’art. 2059 c.c., veniva meno sia il presupposto teorico, sia lo scopo pratico, della
distinzione tra danno morale e danno non patrimoniale.
Il presupposto, infatti, era rappresentato dall’assunto che l’art. 2059 c.c. riguardasse solo una
aliquota di tutti i danni non patrimoniali, là dove la S.C. affermò invece nelle sentenze appena
ricordate l’esatto opposto, e cioè che l’art. 2059 c.c. disciplina tutte le ipotesi di danno non
patrimoniale.
36
Successivamente, nello stesso senso, Cass. 5 dicembre 1992 n. 12951, in Foro it., 1994, I, 561; Cass. 3 marzo 2000 n.
2367, in Danno e resp., 2000, 490; Cass. 16 luglio 2004 n. 13163, in Giust. civ., 2005, I, 1579; Cass. 4 giugno 2007
n. 12929, in Danno e resp., 2007, 1236.
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Lo scopo pratico della distinzione tra danno morale e danno non patrimoniale era quello di sottrarre
il danno biologico al limite risarcitorio previsto dall’art. 2059 c.c., ed anche questa necessità venne
meno allorché si stabilì che, reato o non reato, la lesione della salute è sempre risarcibile, perché
incidente su un diritto della persona garantito dall’art. 32 cost.37.
Il colpo di grazia alla ormai anacronistica distinzione tra danno morale e danno biologico venne
infine inferto dalle Sezioni Unite38. Queste ultime, riprendendo e sviluppando i princìpi già
affermati dalle sentenze del 2003 sopra ricordate, ha affermato ore rotundo che la “tradizionale
figura del c.d. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita
per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poiché
né l'art. 2059 c.c. né l'art. 185 c.p. parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo
se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poiché la
sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto
penoso protrarsi anche per lungo tempo (…) .
Va conseguentemente affermato che, nell'ambito della categoria generale del danno non
patrimoniale, la formula "danno morale" non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma
descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla
sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel
tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del
risarcimento”39.
Da questa affermazione di principio discende che rientra nel concetto di danno biologico ogni
sofferenza fisica o psichica provata dalla vittima, che di quel danno “per sua natura intrinseca
costituisce componente”, e che “determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta
attribuzione del danno biologico e del danno morale (…), sovente liquidato in percentuale (da un
terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si
avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno
37
Nell’immediatezza, però, la stessa S.C. non trasse le debite conseguenze da queste affermazioni di principio: ed
infatti nelle stesse sentenze 8827/03 ed 8828/03, citate nel testo, si continua a considerare il danno morale e quello
biologico come entità “ontologicamente” diverse.
38
Cass. sez. un. 11.11.2008 n. 26972, in ***.
39
Cass. 26972/08, cit., § 2.10 dei “Motivi della decisione”.
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biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal
soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza”40.
Ciò non vuol dire che la sofferenza morale causata dalle lesioni non debba più essere risarcita. La
sofferenza resta un danno, e come tale è risarcibile se derivante da una lesione della salute o
comunque da un fatto reato. Quel che deve escludersi è che il medesimo pregiudizio (la sofferenza)
possa essere liquidato due volte, dapprima a titolo di danno biologico e quindi a titolo di danno
morale. Delle particolari sofferenze causate dall’infortunio il giudice dovrà quindi tenere conto non
liquidando una posta di danno aggiuntiva rispetto al danno biologico, ma adeguatamente
personalizzando la liquidazione di quest’ultimo (così Cass. 24.2.2010 n. 4484; Cass. 13.5.2011 n.
10527).
Va tuttavia precisato che il nuovo orientamento non è stato accolto senza resistenze (spesso anche
inconsapevoli), e così ancora a distanza di molti mesi dall’intervento delle Sezioni Unite ancora si
regostrano decisioni - sia di legittimità che di merito - le quali ancora contoinuano a distinguere
concettualmente tra danno morale e danno biologico (Cass. 24.5.2010 n. 12593).
11. Invalidità permanente ed invalidità temporanea.
Ad ogni lesione dell’integrità psicofisica consegue, di norma, un certo periodo di malattia, che può
essere più o meno lungo e più o meno impeditivo delle ordinarie attività dell’esistenza; in esito a
questo periodo si colloca la guarigione, che può avvenire con o senza postumi permanenti.
Sia il periodo di malattia e convalescenza, sia la guarigione con postumi, costituiscono ipotesi di
danno alla salute. Il primo è danno perché, costringendo il leso ad una totale o parziale inattività, gli
impedisce lo svolgimento delle ordinarie attività vitali; il secondo è danno perché, in ragione
dell’efficacia invalidante dei postumi, riduce proporzionalmente la possibilità del leso di attendere
alle proprie ordinarie attività.
Questi due tipi di danno, pur appartenendo allo stesso genere, vengono nella prassi tenuti distinti. Il
periodo di malattia e di convalescenza viene designato come invalidità temporanea (da taluno,
40
Cass. 26972/08, cit., § 4.8 dei “Motivi della decisione”. Contra, tuttavia, si è in seguito pronunciata cass. 19.1.2010 n.
702, la quale ha ammesso che il danno morfale possa essere liqudiato in una frazione del danno biologico.
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meno esattamente definita “inabilità”41); la guarigione con postumi viene designata come invalidità
permanente. Sia l’una che l’altra possono essere assolute o parziali, a seconda che le ordinarie
attività dell’esistenza del leso siano impedite in tutto (momentaneamente o temporaneamente),
ovvero soltanto in parte (momentaneamente o temporaneamente).
La distinzione è stata suggerita dalla medicina legale e dalla prassi, ed ha l’obiettiva utilità di
favorire liquidazioni che tengano conto il più possibile delle peculiarità dei casi concreti, tenendo
conto ad esempio della durata della malattia, e dell’effetto invalidante di essa.
La Corte di cassazione ha ritenuto ammissibile la liquidazione del danno alla salute tenendo distinto
il risarcimento dell’invalidità permanente da quello dell’invalidità temporanea, ferma restando la
natura unitaria del danno biologico, e sempre che il complessivo ammontare del risarcimento sia
commisurato alla reale entità del danno42. Ciò vuol dire, in particolare, che l’invalidità permanente
va valutata soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l’individuo
non abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi, giacché
altrimenti la contemporanea liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione
dello stesso danno43.
Così, per fare un esempio: se a causa della frattura dell’olecrano Tizio perde la possibilità di giocare
a tennis, attività cui era dedito prima dell’infortunio, e nella liquidazione dell’invalidità permanente
il giudice tiene conto di tale perdita opportunamente personalizzando il risarcimento, non potrà poi
nella liquidazione del danno biologico da invalidità temporanea tenere conto una seconda volta del
fatto che, durante la degenza ospedaliera, la vittima ha dovuto rinunciare a praticare la suddetta
attività
Nella giurisprudenza di merito l’orientamento larghissimamente maggioritario è quello di liquidare
separatamente il danno da invalidità temporanea e quello da invalidità permanente, ed a tal fine
41
Per la medicina legale, infatti, il lemma “inabilità” dovrebbe designare le conseguenze della menomazione su una
attività di lavoro.
42
Cass., sez. III, 19-07-2005, n. 15223, in Foro it. Rep. 2005, Danni civili, n. 305; Cass., sez. lav., 30-07-2003, n.
11704, in Foro it. Rep. 2003, Danni civili, n. 343; Cass. 17.3.1999 n. 2425, in Foro it. Rep. 1999, Danni civili, n.
248; Cass. 8.1.1999 n. 101, in Danno e resp., 1999, 665; Cass. 15-9-1995 n. 9725, in Foro it. Rep., 1995, Danni
civili, 245.
43
Cass., sez. III, 25-02-2004, n. 3806, in Arch. circolaz., 2004, 752.
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viene appositamente domandato al c.t.u. medico legale sia di determinare il grado di invalidità
permanente, sia di indicare la durata della malattia e della convalescenza44.
Si vedrà in seguito (Capitolo ***) attraverso quali criteri viene convertito in denaro sia il danno da
invalidità permanente, sia quello da invalidità temporanea. E’ però opportuno ribadire sin d’ora che
queste ultime costituiscono tutte e due un danno alla salute, e vengono valutate separatamente
soltanto per convenzione. Appare pertanto scorretta quella prassi, che talora si riscontra nelle aule
giudiziarie, secondo la quale se il leso è un minorenne non in età da lavoro, non gli viene
riconosciuto alcun periodo di invalidità temporanea. Questa prassi confonde inammissibilmente il
danno alla salute col danno da lucro cessante. Infatti, se è ammissibile che il minore non possa
avere subito alcun danno da lucro cessante durante il periodo di malattia, è vero assolutamente il
contrario per il danno alla salute. Anche il minore, rinunciando alle proprie ordinarie attività
esistenziali (quali che esse siano) durante il periodo di malattia, subisce un danno biologico, che
deve essere adeguatamente ristorato in termini di invalidità temporanea.
12. Danno alla vita sessuale, danno estetico, danno alla vita di relazione, danno da incapacità
lavorativa generica.
Come accennato, l’affermazione della risarcibilità del danno alla salute in se e per sé (cioè a
prescindere dalle sue conseguenze patrimoniali), e l’affermazione della natura omnicomprensiva del
danno alla salute (cioè la necessità di valutare, a fini risarcitori, la compromissione di qualsiasi
funzione vitale compromessa), hanno reso del tutto inutili alcune categorie di danni create dalla
giurisprudenza nel passato, allorché la lesione della salute veniva risarcita solo attraverso la fictio
juris della lesione del reddito (ipotizzandosi cioè che ad ogni limitazione percentuale della validità
corrispondesse una uguale contrazione del reddito).
Quando la lesione della salute veniva valutata soltanto sotto il profilo delle sue conseguenze
patrimoniali, dottrina e giurisprudenza avevano elaborato una serie di categorie concettuali, alle
44
Tuttavia occorre dare atto dell’esistenza di alcune isolate decisioni di merito, le quali hanno negato la possibilità di
liquidazioni distinte per invalidità temporanea ed invalidità permanente, sulla base del rilievo secondo cui uno è il
bene “salute”, e pertanto una deve essere la liquidazione (App. Milano 25.1.1994, in Assicurazioni, 1994, II, 2, 169;
Trib. Crema 22.9.1994, in Resp. civ., 1995, 351).
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quali ricorrere nei casi in cui il danneggiato, non avendo redditi, non avrebbe a rigore potuto
pretendere alcun risarcimento. Queste categorie (l’incapacità lavorativa generica, il danno alla vita
sessuale, il danno alla serenità familiare, il danno estetico, il danno alla vita di relazione) venivano
concepite per lo più come ipotesi di danno patrimoniale indiretto.
Tuttavia oggi la nozione di danno biologico, come elaborata dalla giurisprudenza, permette di
risarcire la lesione della salute subìta da qualsiasi soggetto, sia egli ricchissimo o poverissimo,
iperattivo o infingardo. Oggi, quindi, non è più possibile che esistano “uomini senza valore”, e di
conseguenza non è più necessario ricorrere a fictiones iuris per immaginare improbabili
ripercussioni sul reddito di danni che nulla, col reddito, avevano a che fare.
Alla luce di queste considerazioni, deve concludersi che le vecchie figure di danno sono state
assorbite nella nozione di danno biologico. Ed infatti:
(a) per quanto attiene il danno da lesione della c.d. capacità lavorativa generica, la S.C. afferma
costantemente che la riduzione o perdita della capacità lavorativa generica è “inerente al valore
dell’uomo come persona e deve essere valutata all’interno della liquidazione del danno biologico”
(Cass. 25.5.2007 n. 12247; Cass. 2.2.2007 n. 2311; Cass., sez. III, 22-02-2002, n. 2589, in Foro it.,
2002, I, 2074; Cass., sez. III, 24-05-2001, n. 7084, in Foro it. Rep. 2001, Danni civili, n. 127; Cass.,
sez. III, 12-09-2000, n. 12022, in Danno e resp., 2001, 949; Cass., sez. III, 11-08-2000, n. 10725, in
Danno e resp., 2001, 946);
(b) per quanto attiene il danno alla vita di relazione, anche in questo caso (sebbene con maggiori
tentennamenti) la S.C. è pervenuta infine ad ammettere che esso costituisca un aspetto, o
componente, del danno biologico (Cass. 25.5.2007 n. 12247; Cass. 20.4.2007 n. 9510; Cass., sez.
III, 24-04-2001, n. 6023, in Dir. e giustizia, 2001, fasc. 20, 71; Cass., sez. III, 15-12-2000, n. 15859,
in Foro it. Rep. 2000, Danni civili, n. 156; Cass., sez. III, 17-11-1999, n. 12741, in Foro it. Rep.
1999, Danni civili, n. 179);
(c) per quanto attiene il danno estetico, è pacifico che il danno estetico, ovvero la compromissione
dell’integrità fisionomica della persona, costituisce necessariamente un danno biologico (anche se,
ovviamente, può causare anche un danno patrimoniale, ove la perduta integrità estetica causi una
comprovata riduzione del reddito: così Cass. 8.6.2007 n. 13391; Cass. 27.3.2007 n. 7492; Cass.,
sez. III, 29-09-1999, n. 10762, in Danno e resp., 2000, 647; cfr. altresì Cass. 1.4.2004 n. 6383;
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Cass., sez. III, 15-12-2000, n. 15859, in Foro it. Rep. 2000, Danni civili, n. 156; Cass., sez. III, 2105-2001, n. 6895, in Foro it. Rep. 2001, Danni civili, n. 124);
(d) per quanto, infine, attiene al danno alla vita sessuale, anche in questo caso la giurisprudenza
non dubita che di esso, se causato da una lesione fisica o psichica derivata dall’altrui atto illecito, si
debba tenere conto nella liquidazione del danno biologico, in quanto in quest’ultimo
necessariamente ricompreso (Cass., sez. lav., 18-04-1996, n. 3686, in Riv. giur. lav., 1996, II, 33;
Cass., sez. III, 14-10-1993, n. 10153, in Arch. circolaz., 1994, 17; Cass., sez. III, 30-03-1992, n.
3867, in Foro it., 1993, I, 1959).
13. Accertamento.
L’accertamento del danno alla salute pone due ordini di problemi, uno di ordine teorico (ma con
rilevantissime ricadute pratiche), l’altro di ordine pratico.
Il primo problema è quello di stabilire se il danno biologico sia un danno in re ipsa, ovvero richieda
l’accertamento di un quid pluris rispetto alla lesione dell’integrità psichica o fisica.
Il secondo problema è quello di stabilire se l’accertamento del danno richieda necessariamente, ed
entro quali limiti, l’ausilio d’un medico legale.
Al primo problema, per lungo tempo, giudici di merito, giudici di legittimità e parte della dottrina
hanno dato risposta affermativa sulla scorta dell’insegnamento della Corte costituzionale.
Quest’ultima, con la già citata sentenza 14-07-1986, n. 184, in Riv. giur. circolaz. e trasp., 1986,
1007, al fine di dimostrare la differenza strutturale tra danno biologico e danno morale (nell’intento
di sottrarre il danno biologico al limite risarcitorio posto, per il danno morale, dall’art. 2059 c.c.),
affermò che ogni atto illecito ha una struttura tripartita: condotta umana; evento di danno; nesso
causale tra condotta ed evento.
L’evento di danno, cioè il risultato della condotta dell’uomo, costituisce un elemento materiale,
naturalistico, che va tenuto distinto dalle ulteriori conseguenze che da esso possono derivare. Nel
caso di danno biologico, l’evento materiale di danno (la lesione dell’altrui salute) è elemento
costitutivo dell’illecito.
Questo evento materialistico, o danno-evento, a sua volta, può poi porsi quale causa di ulteriori
conseguenze dannose (ad esempio, la perdita di un affare vantaggioso), o danni-conseguenza, le
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quali sono legate alla originaria condotta tenuta dall’autore dell’illecito da un ulteriore nesso di
causalità.
Pertanto, poiché il danno biologico è un “danno-evento”, cioè un danno che si identifica con
l’evento materiale, basta provare la lesione di quest’ultimo perché possa pretendersene il
risarcimento. Si tratta, in definitiva, di un danno in re ipsa.
Questa impostazione, tuttavia, è stata abbandonata pochi anni dopo dalla stessa Corte
costituzionale, con una clamorosa marcia indietro. Con la sentenza 372/94, infatti, la Corte osservò:
“là dove qualifica come «presunto» [il danno alla salute], identificandolo col fatto (illecito) lesivo
della salute, [la sentenza n. 184/86] intende dire che la prova della lesione è, in re ipsa, prova
dell'esistenza del danno (atteso che da una seria lesione dell'integrità fisio-psichica difficilmente si
può guarire in modo perfetto), non già che questa prova sia sufficiente ai fini del risarcimento. E'
sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha
prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla
diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve
essere (equitativamente) commisurato” (Corte cost. 27.10.1994 n. 372, in Giust. civ., 1994, I,
3029).
Pertanto, mentre nella sentenza n. 184/86 la Consulta aveva articolato il seguente sillogismo:
(a) il diritto alla salute è situazione giuridica soggettiva costituzionalmente protetta;
(b) la lesione di una situazione giuridica soggettiva costituzionalmente protetta fa sorgere l’obbligo
di risarcire il danno;
(c) ergo, la lesione della salute, da sola, costituisce un’ipotesi di danno risarcibile, con la
conseguenza che basta provare l’esistenza della lesione, per avere diritto al risarcimento;
al contrario con la sentenza 372/94 la prospettiva viene completamente ribaltata, distinguendosi tra
“esistenza del danno” ed “entità del danno”. L’esistenza della lesione è prova, da sola,
dell’esistenza del danno, e solo in questo senso il danno biologico può ritenersi “presunto”: ovvero
nel senso che, provata l’esistenza della lesione, è automaticamente provata anche l’esistenza del
danno.
Provata tuttavia l’esistenza della lesione in corpore, non sorge per ciò solo il diritto al risarcimento:
è necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno: la prova, cioè, che a causa della lesione ed in
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conseguenza di essa il soggetto danneggiato ha subìto la “diminuzione o privazione di un valore
personale non patrimoniale”.
Principio, quest’ultimo, che sembra essere stato condiviso dalla S.C., la quale ha espressamente
affermato che, in tema di danno biologico, “non vale la regola che, verificatosi l'evento, vi sia
senz'altro un danno da risarcire.
Il risarcimento del danno vi sarà se vi sarà perdita di quelle utilità che fanno capo all'individuo nel
modo preesistente al fatto dannoso e che debbono essere compensate con utilità economiche
equivalenti.
In caso contrario il cosiddetto danno biologico non può essere configurato” (Cass. 29.5.1996 n.
4991, in Foro it., 1996, I, 3107).
Negli ultimi anni, poi, la Corte di cassazione ha dapprima manifestato serie perplessità - sia pure
obiter dictum - su tutta la costruzione teorica che distingue tra danno-evento e danno-conseguenza
(cfr. in tal senso, Cass., sez. un., 21-02-2002, n. 2515, in Danno e resp., 2002, 499, in motivazione),
e quindi - come già detto - definitivamente abbandonato l'artificiosa ricostruzione della Corte
costituzionale, espressamente affermando che il danno non si identifica con la lesione dell'interesse;
ma da quest'ultima possono scaturire conseguenze dannose, che il danno sempre allegate e provate
(Cass. 31.5.2003 n. 8827, in Assicurazioni, 2003, II, 2, 111).
In conclusione, quindi, può affermarsi che l’accertamento del danno biologico richiede
necessariamente, quale indefettibile presupposto, l’accertamento di una lesione della salute psichica
o fisica. Questa, però, non è sufficiente, in quanto occorre altresì accertare che da tale lesione siano
derivate conseguenze peggiorative, vuoi permanenti, vuoi temporanee, per la concreta esistenza
della vittima.
E’ stato osservato da parte della dottrina che tali conclusioni sembrerebbero essere in contrasto con
la definizione normativa di danno biologico, contenuta negli artt. 5 l. 57/01, e 13 d. lgs. 38/00, di
cui si è detto supra. Secondo tali norme, infatti, il danno biologico è la “lesione all'integrità
psicofisica della persona”, il che potrebbe lasciar intendere che, per il legislatore, quel che si
risarcisce è la lesione in sé, e non le sue conseguenze. Tale conclusione tuttavia appare affrettata. Si
consideri, infatti, che il successivo comma 5 dello stesso art. 5 l. 57/01 stabilisce che il risarcimento
può essere aumentato dal giudice fino al 20%, “con equo e motivato apprezzamento delle condizioni
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soggettive del danneggiato”: dal che si desume che quel che rileva, ai fini della personalizzazione
del risarcimento, non è l’entità delle lesioni, ma l’entità delle conseguenze che ne sono derivate.
La seconda peculiarità dell’accertamento del danno biologico, come già accennato, consiste nel
fatto che questo tipo di danno, per essere valutato nella sua eziologia e apprezzato nelle sue
conseguenze lesive, richiede normalmente l’ausilio di un medico legale (cfr. altresì l’art. 5 l. 57/01,
ove il danno biologico è definito come la lesione “suscettibile di accertamento medico-legale”).
Da ciò derivano importanti conseguenze, ed in particolare che danno biologico risarcibile è soltanto
quello derivante dall’accertata esistenza di una patologia, permanente o transeunte, della quale
soffra od abbia sofferto il corpo o la psiche. Il danno biologico è dunque soltanto quello corpore
corpori illatum (ovviamente comprendendo nel concetto di “corpus” anche la salute mentale).
Questa conclusione è stata fatta propria dal giudice di legittimità, il quale ha escluso che il danno
biologico possa prescindere dall’accertata esistenza d’una lesione fisica o psichica, accertabile da
un medico legale. Tale danno, secondo la S.C., per quanto normalmente si risolva in un
peggioramento della qualità della vita, presuppone pur sempre una lesione dell'integrità psicofisica,
di cui, quel peggioramento è solo la conseguenza. “Non, dunque, la minore godibilità della vita è
in sé risarcibile a tale titolo, ma solo la lesione della salute, costituente il bene giuridicamente
tutelato dall'art. 32 della Costituzione”. La conseguenza è che, in difetto di prova di una lesione
della integrità psicofisica della pretesa vittima, non è configurabile un danno biologico (Cass.
17.11.1999 n. 12756, in Riv. giur. circolaz. trasp., 2000, 308; nello stesso senso, Cass. 18.1.2006 n.
828).
Da ultimo, va ricordato che, con limitato riferimento all’accertamento dei danni con esiti
micropermanenti, il legislatore ha introdotto una specifica sanzione aggiuntiva a carico dei sanitari quale che ne sia la veste: c.t.u., c.t.p., ecc. - i quali dovessero attestare falsamente uno stato di
microinvalidità conseguente ad incidente stradale, da cui derivi il risarcimento del danno connesso a
carico della società assicuratrice. Ha stabilito, in particolare, l’art. 10 bis d.l. 31.5.2010 n. 78,
convertito, con modificazioni, nella legge 30.7.2010 n. 122, che in tal caso il sanitario e' punito con
la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad euro 1.600.
Sugli aspetti sostanziali e processuali della consulenza tecnica d’ufficio in generale, nel giudizio di
responsabilità, si veda la scheda ad hoc.
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14. Liquidazione.
I criteri di liquidazione del danno biologico possono variare a seconda:
(a) dell’eziologia del danno, in quanto i danni causati da sinistri stradali sono disciplianti dagli artt.
138 e 139 cod. ass., mentre gli altri sono liquidati equitativamente ex art. 1226 c.c.;
(b) del sistema di tutela nel quale il risarcimento si inserisce, in quanto il danno biologico subìto dal
lavoratore assicurato dall’Inail è liquidato ai sensi dell’art. 13 d. lgs. 38/2000; mentre quando il
sinistro non è avvenuto in occasione di lavoro, o comunque la vittima non è assicurata dall’Inail il
risarcimento avviene equitativamente, ex art. 1226 c.c., ovvero ai sensi degli artt. 138-139 cod. ass..
I criteri elaborati dalla giurisprudenza per la liquidazione del danno alla salute (i quali, ovviamente,
trovano applicazione nei casi ai quali non si applicano le previsioni normative, più volte citate, di
cui agli artt. 138-139 cod. ass. e 13 d. lgs. 38/2000), possono essere raggruppati in quattro tipologie:
(a) il criterio equitativo puro;
(b) il criterio tabellare, o “genovese”;
(c) il criterio a punto elastico, o “pisano”;
(d) il criterio a punto variabile, o “milanese ”.
Si è parlato di “tipologie”, e non di criteri risarcitori tout court, in quanto ciascuna delle suddette
categorie, pur nella unicità del principio informatore, conosce molteplici varianti applicative.
(A) Il criterio equitativo puro consiste nella liquidazione del danno al di fuori di qualsiasi richiamo
a parametri predeterminati od oggettivi, e tenendo conto unicamente delle circostanze del singolo
caso.
Il criterio equitativo puro, oggi scarsamente utilizzato, presenta due grossi inconvenienti: da un lato,
non consente una adeguata uniformità di trattamento; dall’altro, non permette alcuna prevedibilità
delle decisioni giudiziarie, e quindi non può avere ha alcuna efficacia deflattiva del contenzioso.
Nonostante questi inconvenienti, il criterio equitativo puro è stato ritenuto legittimo in qualche
sentenza di legittimità (Cass., 28-11-1995, n. 12301, in Arch. circolaz., 1996, 444, ma
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l’affermazione costituisce un obiter), a condizione che il giudice motivi in modo adeguato le ragioni
della propria scelta.
(B) Il criterio tabellare, o “genovese”, non ha nulla a che vedere con le c.d. tabelle utilizzate da
molti uffici giudiziari per la liquidazione del danno alla salute. Esso consiste nel moltiplicare una
rendita (reale o fittizia) per un coefficiente di capitalizzazione, ragguagliato all’età del danneggiato,
e quindi proporzionale alla presumibile durata della vita residua del danneggiato stesso. Il prodotto
della rendita per il coefficiente dà un capitale, che rappresenta l’importo del risarcimento.
Questo metodo può essere sinteticamente indicato con la formula
D=k*R
dove D è il danno da liquidare; k è il coefficiente di capitalizzazione; R è la rendita (ovvero il
reddito con carattere di continuità) da porre a base del risarcimento.
Naturalmente, sia il moltiplicando (il reddito fittizio) che il moltiplicatore (il coefficiente di
capitalizzazione) della formula che precede possono essere scelti equitativamente dal giudice.
In giurisprudenza, gli uffici giudiziari che hanno adottato il metodo tabellare hanno scelto quale
base di calcolo o il reddito medio nazionale (in tal senso Trib. La Spezia, 30-12-1991, in Dir. prat.
ass., 1992, 234; Trib. Alessandria, 7-1-1983, in Assicurazioni, 1983, II, 2, 186; Trib. Roma, 11-101979, in Foro it., 1981, I, 1885), oppure un multiplo (normalmente, il triplo), della pensione sociale
(T. Roma, 14-9-1994, in Riv. giur. circ. trasp., 1994, 859).
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La Corte di legittimità, che in passato aveva ritenuto ammissibile il ricorso al metodo tabellare
fondato sul triplo della pensione sociale (Cass., 3-6-1994, n. 5380, in Corriere giur., 1994, 1360;
Cass., 4-12-1992 n. 12911, in Foro it. Rep., 1992, Danni civili, 129; Cass., 11-5-1989 n. 2150, in
Giur. it., 1989, I, 1, 1832; NGCC, 1989, I, 769; in Foro it., 1990, I, 634; Cass., 16-1-1985, n. 102, in
Riv. giur. circ. trasp., 1985, 521), in prosieguo di tempo ha mutato avviso, ed è ormai costante
nell’escludere che il criterio in esame potesse essere utilizzato per liquidare il danno alla salute,
neppure nell’ambito dei poteri equitativi del giudice (ex plurimis, Cass., 18-5-1999, n. 4801, in
Danno e resp., 1999, 1101; Cass., 8-1-1999, n. 101, in Danno e resp., 1999, 665; Cass., 4-12-1998,
n. 12312, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 247; Cass., 25-11-1998, n. 11974, in Foro it. Rep.,
1998, Danni civili, 248; Cass., 16-11-1998, n. 11532, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 249;
Cass., 30-10-1998, n. 10897, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 250; Cass., 27-10-1998, n. 10693,
in Danno e resp., 1999, 665; Cass., 3-9-1998 n. 8769, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 252;
Cass., 24-2-1998, n. 1975, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 254; Cass., 23-1-1998, n. 668, in
Giur. it., 1998, 2039).
Va comunque segnalato che, nonostante il contrario avviso della S.C., molti giudici di merito hanno
continuato ad utilizzare il metodo tabellare fondato sul triplo della pensione sociale (Trib. Catania,
3-11-1997, in Arch. circolaz., 1998, 53; Giud. pace Foligno, 4-4-1996, in Arch. circolaz., 1996,
384; Trib. Ancona, 7-3-1995, Baroni c. Messersì, inedita; A. Bologna, 16-2-1994, in Arch.
circolaz., 1994, 743; Trib. L'Aquila, 25-11-1993, GM, 1994, 852; Trib. Genova, 5-7-1993, in Giur.
it., 1994, I, 2, 1048; Trib. Reggio Emilia, 16-6-1993, in Arch. circolaz., 1993, 1071; Trib. S. Maria
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Capua Vetere, 1-9-1992, in Arch. circolaz., 1993, 440; Trib. Palermo, 17-10-1991, in Arch.
circolaz., 1992, 42).
(C) Il criterio a punto elastico, o “pisano”, si fonda sull’idea secondo cui, dal momento che
l’invalidità permanente si misura in punti percentuali, per liquidare il danno basta individuare un
valore monetario che corrisponda ad ogni singolo punto di invalidità: il risarcimento del danno
da invalidità permanente sarà dato dal prodotto del valore del punto per il numero di punti, mentre il
risarcimento del danno da invalidità temporanea sarà dato dal prodotto della somma giornaliera
(equitativamente stabilita) per il numero dei giorni di invalidità.
La flessibilità del sistema è assicurata dal riconosciuto potere del giudice di aumentare o diminuire
il valore del punto (o il risarcimento giornaliero per l’invalidità temporanea) sino alla metà, per
adattare il risarcimento alle concrete caratteristiche del caso concreto (T. Pisa, 19-5-1982, in Giur.
it., 1984, I, 2, 427, ma specialmente 440; nello stesso senso, Trib. Pisa, 28-6-1984, in Arch.
circolaz., 1985, 542; Trib. Pisa, 16-1-1985, in Arch. circolaz., 1985, 543).
Il punto nodale di questo criterio di liquidazione consiste nella determinazione del valore del punto
di invalidità, che il tribunale di Pisa ricavò dalla media dei precedenti giudiziari di quell’ufficio
giudiziario, limitatamente ai casi di liquidazione di danni consistenti in invalidità inferiori al 10%.
Il metodo pisano a punto è stato utilizzato da moltissimi giudici di merito: ex plurimis, Giud. pace
Bari, 28-6-1996, in Arch. circolaz., 1997, 54; Giud. pace Ancona, 5-6-1996, in Arch. circolaz.,
1997, 261; Trib. Firenze, 26-1-1996, in Resp. civ. prev., 1996, 589; A. Ancona, 2-3-1993,
Saltamarini c. A.I.C., inedita; Trib. Busto Arsizio, 13-11-1993, in Arch. circolaz., 1994, 131; Trib.
Ravenna, 4-6-1992, in Arch. circolaz., 1993, 1075; Trib. Rieti, 22-2-1992, in Arch. circolaz., 1993,
890; Trib. Reggio Calabria, 1-2-1991, Altomonte c. Amodeo, inedita; Trib. Milano, 30-1-1991, in
Resp. civ. prev., 1993, 640; Trib. Ravenna, 13-3-1990, in Riv. giur. circ. trasp., 1991, 853; Trib.
Brescia, 28-2-1990, Terna c. Ratti, inedita; Trib. Reggio Calabria, 22-12-1988, Princi c. Cotroneo,
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inedita; Trib. Como, 8-6-1988, in Arch. circolaz., 1989, 787; Trib. Crema, 18-12-1987, in Resp. civ.
prev., 1988, 214; Trib. Torino, 26-6-1987, in Resp. civ. prev., 1988, 70; A. Roma, 2-7-1986, in
Foro it., 1987, I, 235, GM, 1988, 328; A. Perugia, 16-5-1985, Pignotti c. Istituti Riuniti, inedita;
Trib. Lucca, 6-4-1984, RIML, 1986, 206; in Foro pad., 1985, 121.
Il metodo pisano “a punto” è stato ritenuto pienamente ammissibile anche dalla Corte di cassazione,
ma a certe condizioni. In particolare, per l’utilizzabilità del criterio in esame è necessario, secondo
la S.C.:
(a) che il valore del punto sia ricavato dalla media dei precedenti giudiziari;
(b) che il giudice non si limiti ad indicare il valore numerico del punto e la sua maggiorazione; ma
precisi per quali ragioni concrete nel caso di specie abbia ritenuto di adottare quel valore, e di
applicare quella maggiorazione (Cass., 17-3-1999 n. 2425, in Foro it. Rep., 1999, Danni civili, n.
248, inedita con riferimento al principio qui in esame; Cass., 16-11-1998, n. 11532, in Foro it. Rep.,
1998, Danni civili, 249; Cass., 20-10-1998, n. 10405, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 242;
Cass., 13-4-1995, n. 4255, in Resp. civ. prev., 1995, 519).
(D) Il criterio cui più spesso gli uffici giudiziari fanno ricorso è quello c.d. del punto variabile
(altrimenti chiamato “metodo milanese”, in quanto adottato per primo dal tribunale di Milano nel
1995).
Questo sistema, sorto dal tentativo di eliminare, od almeno attenuare, i principali difetti sia del
sistema “a punto”, sia del sistema tabellare, condivide con il criterio pisano il principio per cui ad
ogni punto di invalidità deve corrispondere un valore monetario. Se ne discosta, però, perché la
variazione del valore del punto non è lasciata alla discrezionalità equitativa del giudice, ma è
predeterminata secondo una precisa funzione matematica. Il valore del punto, cioè, cresce in modo
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matematicamente predeterminato, in funzione crescente rispetto al crescere dell’invalidità, ed in
funzione decrescente rispetto all’età della vittima. Per l’esattezza, secondo questo criterio il valore
del punto cresce geometricamente col crescere dell’invalidità (sicché ad invalidità doppie
corrisponderanno risarcimenti più che doppi), mentre cresce in modo aritmetico rispetto all’età del
danneggiato.
In questo modo, viene assicurata la tendenziale corrispondenza tra gravità delle lesioni ed entità del
risarcimento, in ossequio al principio medico legale secondo cui la sofferenza ed i disagi causati da
una invalidità crescono in modo progressivo rispetto al crescere dell’invalidità stessa.
Naturalmente, resta sempre salva la possibilità per il giudice di adattare equitativamente il
risarcimento (con aumenti o riduzioni rispetto all’importo risultante dall’applicazione “pura” del
criterio ora descritto), al fine di tenere debito conto di tutte le circostanze del caso concreto.
Gli elementi essenziali del criterio del punto variabile, da stabilire ex ante, sono:
(a) il valore monetario “iniziale” del singolo punto d’invalidità: vale a dire la somma che, in
teoria, deve essere liquidata per una invalidità dell’1% in un soggetto di 1 anno;
(b) la funzione di crescita del valore del punto.
Il valore iniziale del punto può essere stabilito o attraverso la media dei precedenti giudiziari del
medesimo o di altri uffici, ovvero attraverso la fissazione di una somma equitativamente scelta dal
giudice (il primo criterio è senz’altro da preferire, perché pur sempre meno arbitrario rispetto al
secondo).
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La funzione di crescita del valore del punto, che deve rispondere a criteri di scientificità, non può
essere fissata dal giudice, ma deve essere demandata all’analisi di medici legali ed esperti statistici.
In base al criterio del punto variabile d’invalidità, una volta stabilito il valore monetario iniziale del
singolo punto, e la funzione matematica di crescita, è possibile sviluppare una sorta di “prontuario”,
usualmente detta “tabella”, nella quale indicare l’ammontare complessivo del risarcimento dovuto
per ogni grado di invalidità e per ogni fascia di età del danneggiato.
La c.d. “tabella” costituisce quindi lo sviluppo del metodo del punto variabile o “milanese”,
attraverso un quadro sinottico in cui sia già indicato il risultato delle operazioni di moltiplicazione
da compiere per ogni misura di invalidità e per ogni fascia di età. La tabella non ha quindi nulla a
che vedere con il “metodo tabellare”, con il quale non va confusa. La prima rappresenta
l’espressione grafica di un metodo liquidativo “a punto”, la cui filosofia è antitetica rispetto al
metodo tabellare: il primo si fonda sul valore monetario del punto di invalidità; il secondo sulla
capitalizzazione di una rendita pari ad un reddito fittizio o figurato.
La “tabella”, di cui moltissimi uffici giudiziari si sono dotati negli ultimi anni, è dunque un
parametro di riferimento per la liquidazione del danno da lesione della salute (Rossetti, Contributo
iconoclastico al culto delle tabelle, in Dir. econ. ass., 1997, 471).
Il criterio “milanese” del punto variabile era stato già in passato ritenuto non solo valido, ma
addirittura utile dalla Corte di cassazione, la quale gli ha riconosciuto evidenti pregi: evitare
disparità di trattamento, dare un contenuto oggettivo al giudizio di equità, consentire la prevedibilità
delle decisioni giudiziarie: purché, naturalmente, si tratti di un “vero” criterio del punto variabile,
cioè fondato su una precisa funzione matematica di crescita del valore del punto, il quale a sua volta
sia stato ricavato dalla media dei precedenti giudiziari (Cass., 24-1-2000, n. 748).
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Più di recente la Corte di cassazione è andata ancora più oltre, stabilendo che nella liquidazione del
danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l'adozione della regola equitativa di
cui all'art. 1226 cod. civ. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del
caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e
non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché
esaminati da differenti Uffici giudiziari. Garantisce tale uniformità di trattamento il riferimento al
criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso
sul territorio nazionale - e al quale la S.C., in applicazione dell'art. 3 Cost., riconosce la valenza, in
linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle
disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ. -, salvo che non sussistano in concreto circostanze
idonee a giustificarne l'abbandono. L'applicazione di diverse tabelle, ancorché comportante
liquidazione di entità inferiore a quella che sarebbe risultata sulla base dell'applicazione delle
tabelle di Milano, può essere fatta valere, in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge,
solo in quanto la questione sia stata già posta nel giudizio di merito (Cass. 7.6.2011 n. 12408).
Per effetto di tale decisione, pertanto, quando la liquidazione del danno alla salute non sia
disciplinata da norme di legge l’unico criterio cosnentito è rappresentato dalla tabelle elaborate dal
tribunale milanese, a pena di violaizone dell’art. 1226 c.c..
Deve comunque segnalarsi che dopo tale decisione non tutta la giurisprudenza di merito vi si è
uniformata: il Tribunale di Roma, ad esempio, si è posto in m otivato dissenso con la Corte dic
assaizone, continuando ad applicare la propria tabella (Trib. Roma 9.1.2012 n. 210).
Si ricordi comunque che il ricorso al metodo a punto non può mai servire a sollevare il giudice da
due precisi munera: da un lato, adeguare in ogni caso il risarcimento al caso concreto, senza
limitarsi a convertire automaticamente in denaro il grado di invalidità permanente fornito dal c.t.u.;
dall’altro, fornire adeguata motivazione della liquidazione operata, indicando i fattori che hanno
consigliato nel caso di specie la misura ed il tipo di personalizzazione del risarcimento (Cass.
11.1.2007 n. 392; Cass. 1.6.2006 n. 13130; Cass. 12.5.2006 n. 11039; Cass. 20.10.2005 n. 20323;
Cass. 23.5.2003 n. 8169; Cass., 19-5-1999, n. 4852, in Danno e resp., 1999, 1104; Cass., 17-3-1999,
n. 2425, inedita).
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Ciò vuol dire che, anche quando la liquidazione del danno biologico avviene col criterio del punto
variabile, essa si articola concettualmente in due fasi:
(a) una prima fase di scelta ed applicazione del parametro standard, cioè quello uguale per tutti a
parità di postumi;
(b) una seconda fase di personalizzazione del risarcimento, vale a dire di adeguamento della
somma risultante dall’applicazione del parametro standard al caso concreto (con maggiorazioni o
riduzioni).
Quando il giudice adotta il criterio del punto variabile, egli è di fatto sollevato dall’onere di
motivare tale scelta, con riferimento alla prima fase della liquidazione. Basterà, al riguardo la mera
indicazione che il parametro standard sia stato desunto dalla tabella uniforme adottata dall’ufficio
giudiziario, e ricavata dalla media dei precedenti. L’obbligo di motivazione permane invece con
riferimento alla seconda fase (concettuale) della liquidazione, cioè la personalizzazione del
risarcimento: in questo permane per il giudice l’obbligo di motivare sull’an e sul quomodo abbia
ritenuto di adattare i valori della tabella al caso concreto (Cass., 19-5-1999, n. 4852, in Danno e
resp., 1999, 1104; Cass., 25-5-2000, n. 6873; Cass., 22-5-2000, n. 6616).
Inoltre, poiche' l'adozione delle cosiddette "tabelle" costituisce di per se' espressione del potere
equitativo del giudice, questi non e' vincolato all'adozione della tabella adottata presso il proprio
ufficio giudiziario e ben puo' adottare "tabelle" in uso presso altri uffici. Tuttavia, poiche' il
fondamento della "tabella" e' la media dei precedenti giudiziari in un dato ambito territoriale e
la finalita' e' quella di uniformare i criteridi liquidazione del danno, il giudice deve congruamente
motivare le ragionidella sua scelta (Cass. 20.10.2005 n. 20323). In applciazione di questo principio,
ad es., è stata ritenuta applicabile la tabella dell’ufficio giudiziario del l uogo dove era avvenuto il
sinistro, in un caso di “forum shopping”, e cioè di radicamento del giudizio dinanzi ad un tribunale
incompetente per territorio, che però non potè dichiarare la propria incompetenza a per non essere
stata la relativa ecezione sollevata da tutti i convenuti, litisconsorti necessari (Trib. Roma
18.6.2005, Vidali c. Polo).
Tuttavia, la parte la quale in sede di legittimita' si dolga dell'incongrua applicazione delle tabelle
non puo' limitarsi a una generica denuncia del vizio relativamente al valore del punto preso in
considerazione, ma deve dare conto delle tabelle invocate, indicando in quale atto sono state
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prodotte e in che senso sono state disapplicate o incongruamente applicate dal giudice di merito
(Cass. 26.10.2004 n. 20742).
14.1. I criteri di liquidazione di cui agli artt. 138 e 139 cod. ass..
Si è già accennato al fatto che, nel caso di danni derivanti da sinistri stradali, il risarcimento del
danno biologico è sottratto alla valutazione equitativa del giudice, ed è determinato nel suo valore
base dalla legge.
Attualmente la legge prevede due criteri di liqudiazione diversi, a seocnda che i postumni causati
dalle lesioni siano pari o superiori (art. 138 cod. ass.), od inferiori (art. 139 cod. ass.) al 10%.
Nel caso di postumi pari o superiori al 10%, l’art. 138 cod. ass. prevede l’adozione di un criterio “a
punto”, consistente cioè nella moltiplciazione di una somma di denaro stabilita dalla legge per il
numero dei punti di invalidità.
Tale criterio è tuttavia ancora inapplciabile, in quanto non è stato emanato il regolamento
ministeriale contenente gli importi del valore di ogni singolo punto di invalidità (la bozza di decreto
è stata tuttavia approvata dal consiglio dei ministri il 3 agosto 2011).
Anche nel caso di postumi inferiori al 10% l’art. 139 cod. ass. prescrive l’adozione del criterio “a
punto”, ma in questo caso la legge è immediatamente applicabile, in quanto è già stato emanato sia
il regolamento ministeriale che ha approvato il baréme medico legale in base al quale determinare il
grado di invalidità (d.m. 3.7.2003), sia il regolamento ministeriale contenente l’indicazione del
valore del punto di invalidità.
Nel caso di danni con esiti micropermaneti (art. 139 cod. ass.), il risarcimento si ottiene:
(a) moltiplicando il valore monetario del singolo punto d’invalidità, per il grado di invalidità
permanente;
(b) moltiplicando il prodotto risultante dall’operazione sub (a) per un coefficiente stabilito dalla
legge, proporzionale al grado di invalidità permanente;
(c) riducendo, infine, il prodotto sub (b) in funzione dell’età del danneggiato; tale riduzione si
ottiene applicando al prodotto delle operazioni precedenti per un c.d. demoltiplicatore (cioè una
riduzione percentuale proporzionale all’età della vittima).
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Il valore base del punto deve essere aggiornato ogni anno, con decreto del ministro dell’industria, in
misura pari alla variazione dell’indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e
impiegati accertata dall’ISTAT (art. 139, comma 5, cod. ass.). Data la previsione espressa della
legge, deve ritenersi che l’aggiornamento non sia consentito al giudice chiamato a liquidare il
danno, quand’anche il ministro non abbia provveduto ad emanare il decreto di aggiornamento.
L’ultimo aggiornamento è stato disposto con d.m. 27.5.2010, ed ha portato il valore base del punto
a € 739,81, mentre il risarcimento base per ogni giorno d’invalidità temporanea è stato elevato a €
43,16 [vedi scheda].
La disciplina del risarcimento del danno alla salute di lieve entità è completata dalla previsione
secondo cui l'ammontare del danno biologico può essere aumentato dal giudice in misura non
superiore ad un quinto con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del
danneggiato (art. 139, comma 3, cod. ass.).
La norma pone all’interprete una questione particolarmente delicata, e cioè quali siano le
“condizioni soggettive” del danneggiato, di cui tenere conto ai fini della personalizzazione del
risarcimento. Tuttavia, come già rilevato, che quel che rileva ai fini della personalizzazione del
risarcimento siano le concrete attività svolte dalla vittima, e precluse dai postumi.
Da taluni autori si è anche dubitato della conformità a costituzione di tale norma, nella parte in cui
pone un tetto massime al ristoro del danno biologico. Tali dubbi però appaiono non del tutto
fondati, ove si considerino due circostanze:
(a) l’art. 139 cod. ass. disciplina unicamente i danni micropermanenti, rispetto ai quali assai
raramente può porsi un vero e proprio problema di personalizzazione, non foss’altro perché assai
raramente le vittime possono allegare e dimostrare che il proprio danno, a parità di invalidità, è
“differenziato” e maggiorato rispetto agli altri consimili;
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(b) la Corte costituzionale, sia pure in materia tutt’affatto diversa, è stata già chiamata ad esprimersi
sulla conformità a costituzione di una norma la quale fissi un limite massimo al risarcimento del
danno, ed ha precisato al riguardo (in motivazione) che il legislatore, in casi eccezionali, può
ritenere equa e conveniente una limitazione del risarcimento del danno, attuabile sia nel campo
della responsabilità contrattuale, sia in materia di responsabilità extracontrattuale (Corte cost., 0211-1996, n. 369, in Foro it., 1997, I, 2400).
Va, infine, ricordato, che secondo la S.C. i criteri di liquidazione del danno biologico previsti
dall'art. 139 cod. ass., per il caso di danni derivanti da sinistri stradali, costituiscono oggetto di una
previsione eccezionale, come tale insuscettibile di applicazione analogica nel caso di danni non
derivanti da sinistri stradali (Cass. 7.6.2011 n. 12408).
14.1. bis. Alcuni rilievi critici sui criteri di liquidazione previsti dal nuovo codice delle
assicurazioni.
Con d. lgs. 7.9.2005 n. 209 (in Gazz. uff. 13.10.2005 n. 239, suppl. ord. n. 163) è stato promulgato
il nuovo codice delle assicurazioni private, un testo unico che raccoglie le norme in tema di impresa
assicuratrice, intermediari e r.c.a..
Il nuovo testo normativo contiene anche diverse norme in tema di risarcimento del danno biologico,
non tutte riproduttive di disposizioni previgenti.
Iniziamo col dire che il legislatore usa con una certa disinvoltura i lemmi “invalidità” ed “inabilità”:
e se ciò poteva in qualche modo ammettersi all’epoca della l. 990/69, nella quale non si concepiva
l’autonoma risarcibilità del danno alla salute, oggi altrettale approssimazione genera qualche
sconcerto.
Ricordiamo, allora, quali siano le convenzioni lessicali ormai pressoché unanimemente condivise
nelle società scientifiche di medici legali e nella giuripsrudenza.
La coppia “abilità/inabilità” viene utilizzata per designare il possesso o meno dell’attitudine al
lavoro, cioè della capacità di applicare energie industri ad una attività produttiva di reddito.
L’inabilità è dunque nozione che rileva nell’ambito del danno patrimoniale; anzi l’inabilità è essa
stessa un danno patrimoniale.
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La coppia “validità/invalidità”, invece, designa l’integrità biologica dell’individuo, e rileva
nell’ambito del danno (non patrimoniale) da lesione della salute o danno biologico.
L’inabilità al lavoro, ovviamente, di norma deriva da una invalidità biologica, ma i due concetti
sono ben distinti. Nel codice delle assicurazioni, invece, vengono impiegati in modo promiscuo:
così, ad es., nell’art. 137, comma 1, si parla indifferentemente di conseguenze della “inabilità
temporanea” e della “invalidità permanente” per quanto attiene il danno patrimoniale; mentre
nell’art. 138, comma 2, lettera (e), il lemma “inabilità” viene impiegato per designare la
compromissione temporanea della salute.
Si potrebbe pensare, esaminando gli artt. 137 e 138 cod. ass., che il legislatore abbia inteso
designare con il lemma “inabilità” la compromissione temporanea della salute, e con quello
“invalidità” la compromissione permanente della salute: sarebbe un uso inappropriato dei termini,
ma almeno renderebbe ragione della ratio delle norme appena citate. Invece, a complicare le cose,
si mette il disposto dell’art. 283, comma 3, ove si afferma che per i sinistri indennizzati dal Fondo
di garanzia la percentuale di “inabilità permanente” si determina in base al baréme allegato al d.p.r.
1124/65. Perciò se volessimo seguire ad litteram il legislatore dovremmo preoccuparci di definire
ben tre concetti: l’invalidità, che può essere solo permanente; l’inabilità permanente e l’inabilità
temporanea.
Pertanto, a meno di non volere far ripiombare la materia in questione in incertezze ed ambiguità
ormai da tempo superate, occorre riconoscere che quelle usate dal legislatore sono più o meno
“parole in libertà”, e che spetta all’interprete recuperare senso e logica alle disposizioni sopra citate.
Ciò è possibile intendendo il lemma “inabilità”, che appare negli artt. 137, 138, comma 2, lettera
(e), e 283 cod. ass., come sinonimo di “invalidità biologica”, e quindi come danno biologico:
temporaneo, nelle previsioni di cui agli artt. 137 e 138, e permanente, nella previsione di cui all’art.
283 cord. ass..
Il danno biologico è disciplinato dagli artt. 138-139 cod. ass.. Tali norme, come accennato,
riproducono solo in parte il contenuto dei previgenti artt. 5 l. 57/2001 e 23, comma 4, l. 12.12.2002
n. 273.
Le nuove norme presentano anche in questo caso molteplici imperfezioni tecniche, non sempre
agevolmente superabili dall’interprete.
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Iniziamo col rilevare che mentre l’art. 139 delimita il proprio ambito di applciazione (“il
risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve entità, derivanti da sinistri conseguenti alla
circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, è effettuato secondo i criteri e le misure seguenti”),
nessuna disposizione analoga è contenuta nell’art. 138 cod. ass., così come del resto nella norma
che ne rappresenta l’antecedente (art. 23 l. 273/02). Certo, l’inteprete è aiutato dalla circostanza che
la norma sia inserita nel Titolo X (rubricato “Assicurazione obbligatoria dei veicoli a motore e dei
natanti) di un “codice delle assicurazioni”, e ciò induce a ritenere senz’altro applicabile la
disposizione in tutti i casi di danni derivanti da sinsitri causati da veicoli per i quali vi sia obbligo di
assicurazione. Restano però seri dubbi sull’applciabilità delle disposizioni di cui all’art. 138 cod.
ass. nel caso di sinistri caudsati da veicoli per i quali non vi sia obbligo di assicurazione, e ciò a
dispetto di quanto previsto dal successivo art. 139 in tema di micropermanenti, il quale non fa
riferimento alcuno all’obbligo di assicurazione, e quindi si applica indifferentemente a tutti i sinistri
stradali.
In secondo luogo, non si comprende la ragione per la quale è stata divisa in due diverse disposizioni
la disciplina del risarcimento del danno a seconda dell’entità delle lesioni. I criteri per liquidare le
lesioni piccole e quelle medie sono infatti sostanzialmente analoghi, eccezion fatta per la
circostanza che il giudice dispone di un maggior potere di “personalizzazione” con riferimento alle
seconde.
Identica è anche la nozione di danno biologico contenuta nelle due disposizioni, definito come “la
lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di
accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli
aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali
ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”.
La definizione differisce da quella in precedenza contenuta nell’art. 5 l. 57/2001, in quanto ad essa è
stato aggiunto l’inciso “che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti
dinamico-relazionali della vita del danneggiato”.
L’ambigua formula degli aspetti “dinamico-relazionali” ha tre precedenti: essa compare:
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- nell’Allegato I al ricordato d.m. 3.7.2003, contenenti i “criteri applicativi” del baréme medico
legale per la determinaizone del grado di invalidità permanente sino al 9%, derivante da sinistri
stradali;
- nell’art. 13 d. lg. 23.2.2000 n. 38, contenente la delega al governo per la redazione della tabella di
valutazione delle menomazioni biologiche indennizzate dall’Inail;
- nell’art. 95 l. 23.12.2000 n. 388 (legge finanziaria 2001), il quale consente alle regioni di stipulare
convenzioni con l’Inail per il compiuto recupero della integrità psico-fisica degli infortunati sul
lavoro, “comprensiva degli aspetti dinamico-relazionali”.
In tutti questi testi regolamentari o legislativi l’espressione “dinamico-relazionali” viene usata,
secondo l’uinica interpretazione consentita dalla ratio della norma e dai lavori preparatori, quale
sinonimo di “pregiudizio alla concreta esistenza della vittima, riguardata non solo in sé, ma anche
con riferimento alle relazioni interpersonali”.
Questa formula, se riferita al danno biologico, più che ambigua è inutile. La S.C. infatti,
abbandonando precedenti orientamenti che non mette conto qui ricordare, è ormai costante
nell’affermare che la lesione dell’integrità psicofisica, in sé per sé considerata, non costituisce il
“danno” da risarcire. Per l’esistenza del danno alla salute non è infatti sufficiente una qualsiasi
compromissione dell’integrità psicofisica, ma è necessario che da tale compromissione siano
conseguite, per sempre oppure per un certo periodo di tempo, ripercussioni negative per l’esistenza
del leso (ex multis, Cass., sez. lav., 03-07-2001, n. 9009, in Lavoro e prev. oggi, 2001, 1396, ove si
legge che “il danno biologico non è presunto, siccome identificabile col fatto illecito lesivo della
salute, giacché, se è indiscutibile che la prova della lesione è in re ipsa, e in re ipsa è anche prova
dell’esistenza del danno, è pur sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la
dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art.
1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla
quale il risarcimento deve essere commisurato”). Il danno biologico dunque è necessariamente un
pregiudizio “dinamico-relazionale”, altrimenti non esisterebbe nemmeno. Così, per fare un esempio,
la frattura femorale con accorciamento dell’arto, che normalmente causa zoppia e quindi danno
biologico permanente, tale non è ove occorra a persona che già prima del sinistro era priva dell’uso
delle gambe.
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Non riterrei perciò che dalla nuova definizione contenuta negli artt. 138-139 cod. ass. possano trarsi
conseguenze sul piano dei contenuti concreti della nozione di danno biologico, come consegnataci
dal diritto vivente. Sicché il riferimento all’ “incidenza negativa sugli aspetti dinamico-relazionali”
non fa che ribadire e precisare un dato ormai acquisito, vale a dire che l’esistenza del danno e la
misura del risarcimento non sono in re ipsa, ma dipenderanno dal modo in cui la vita della vittima è
peggiorata dopo il sinistro.
Per quanto attiene più in dettaglio ai criteri di liquidazione, il legislatore ha adottato per tutti e due i
“gruppi” di danno (lesioni non lievi e lesioni lievi) un criterio analogo, cioè quello c.d. “a punto”,
consistente nel moltiplicare il valore monetario del singolo punto di invalidità per la percentuale di
invalidità permanente.
Il criterio di liquidazione del danno biologico “a punto”, come noto, esige la previa fissazione di
due parametri: un baréme medico legale in base al quale determinare il grado di invalidità
permanente, ed un valore monetario del singolo punto di invalidità, che cresca secondo una precisa
funzione matematica. Il codice delle assicurazioni dà indicazioni sia per l’uno che per l’altro di tali
parametri, ma non del tutto perspicue.
(A) Iniziando l’analisi dalla tabella delle menomazioni, il codice delega il governo ad emanare due
barémes medico legali: uno per le invalidità dal 10 al 100% (art. 138, comma 1, lettera (a), cod.
ass.), l’altro per le invalidità dall’1 al 9% (art. 139, comma 4, cod. ass.). Queste due disposizioni
sorprendono sotto due profili; da un lato, non si comprende perché mai delegare l’esecutivo ad
emanare due distitne tabelle, invece che una soltanto comprensiva di tutte le ipotesi di invalidità (0100%); dall’altro lato la delega alla redazione della tabella delle microinvalidità sembra dimenticare
che questa tabella già esiste (d.m. 3-7-2003, contenente “Tabella delle menomazioni alla integrità
psicofisica comprese tra 1 e 9 punti di invalidità”, in G.U. 11-09-2003, n. 211). Non è chiaro
dunque se il legislatore del 2005 sia incorso in una svista, ovvero abbia inteso attribuire una delega
all’esecutivo (cioè a se stesso) per rivedere anche la Tabella delle micropermanenti.
(B) Anche per quanto attiene al valore monetario del punto di invalidità la legge distingue tra
micro- e macropermanenti.
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Per le prime, l’art. 139 cod. ass. ripete puntualmente i criteri ed i valori già oggi vigenti, come
risultanti dall’art. 5 l. 57/2001 e dai successivi decreti ministeriali di aggiornamento del valore
monetario del punto.
Per le seconde, invece, l’art. 138, comma 1, lettera (b), cod. ass. demanda al consiglio dei ministri la
“predisposizione di una specifica tabella unica su tutto il territorio della Repubblica (...) del valore
pecuniario da attribuire ad ogni singolo punto di invalidità comprensiva dei coefficienti di
variazione corrispondenti all'età del soggetto leso”. Seguono, al comma due, i criteri cui il governo
si dovrà attenere nella preparazione di questa tabella.
Le indicazioni contenute in queste disposizioni brillano per lo scarso tecnicismo delle espressioni
adottate, e possono dar luogo a qualche incertezza.
Lart. 138, comma 2, lettera (a), cod. ass. stabilisce che la tabella dei valori di punto deve fondarsi
“sul sistema a punto variabile in funzione dell’età e del grado di invalidità”: è bene dunque
premettere qualche cenno su tale criterio di liqudiazione del danno alla salute.
Questo sistema si fonda sull’idea che ad ogni punto di invalidità deve corrispondere un valore
monetario crescente (ad esempio, se l’invalidità è 1%, 100 euro a punto; se è 2%, 110 a punto; se è
3%, 120 a punto, e così via). La crescita del valore del punto rispetto al grado di invalidità
permanente secondo questo criterio deve essere predeterminata secondo una precisa funzione
matematica. Il valore del punto, cioè, deve variare in modo matematicamente prestabilito, in
funzione crescente rispetto al crescere dell’invalidità, ed in funzione decrescente rispetto all’età
della vittima. Per l’esattezza, secondo questo criterio il valore del punto cresce geometricamente col
crescere dell’invalidità (sicché ad invalidità doppie corrisponderanno risarcimenti più che doppi),
mentre decresce in modo aritmetico rispetto all’età del danneggiato (sicché, a parità di invalidità, il
risarcimento sarà tanto minore quanto maggiore è l’età della vittima).
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In applicazione di tale criterio, la misura del risarcimento sarà pari al prodotto del valore di punto
corrispondente al grado di invalidità permanente, per il numero di punti di invalidità permanente,
per il coefficiente di demoltiplicazione rapportato all’età.
Dunque il riferimento contenuto nell’art. 138, comm 1, cod. ass. alla tabella “comprensiva” dei
coefficienti di variazione deve essere inteso nel senso che il governo dovrà stabilire sia il valore
monetario del singolo punto di invalidità, sia il demoltiplicatore in base al quale ridurre il
risarcimento in funzione dell’età. Analogamente, del resto, a quanto l’art. 139, comma 6, cod. ass.
per i danni derivanti da lesioni micropermanenti.
L’art. 138, comma 2, lettera (c), cod. ass., precisa tuttavia che “il valore economico del punto è
funzione crescente della percentuale di invalidità e l’incidenza della menomazione sugli aspetti
dinamico-relazionali della vita del danneggiato cresce in modo più che proporzionale rispetto
all’aumento percentuale assegnato ai postumi”. E’ prevedibile che questa previsione susciterà non
poche discussioni.
La norma è scindibile in due proposzioni: la prima parte stabilisce come deve variare il valore del
punto, e cioè deve crescere al crescere del grado di invalidità permanente. La seconda parte
stabilisce invece quanto debba crescere il valroe del punto, e cioè in misura più che proporzionale
rispetto al grado di invalidità permanente. Se il soggetto delle due disposizioni fosse il medesimo, la
norma non farebbe che ricalcare i criteri già adottati e largamente invalisi nel diritto vivente.
Ma così non è, perché mentre la prima parte della norma stabilisce che è “il valore economico del
punto” a dover crescere con l’aumentare dell’invalidità, la seconda parte afferma che è solo
“l’incidenza della menomazione sugli aspetti dinamico-relazionali” a dovere aumentare in misura
più che proprzionale.
Questa infelice formulazione della norma pone all’interprete tre gravi problemi.
Il primo problema è che la norma in esame sembra riproporre la distinzione, un tempo prospettata in
dottrina, ma oggi definitivamente abbandonmata, della distinzione tra danno bioloigico “statico”
(inteso quale lesione dell’integrità psicofisica in se e per sé considerata, a prescidnere dalle
conseguenze che essa ha prodotto sulla vita della vittima), e danno biologico “dinamico” (inteso
quale differneza peggiorativa tra la bitudini di vita della vittima prima e dopo il sinistro. Questa
distinzione, come già visto, è stata da tempo superata dalla S.C., la quale non concepisce la
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risarcibilità di un danno alla salute che non abbia incidenza effettiva e concreta nella vita della
vittima.
Il secondo problema è che la lettera (c) del comma 2 dell’art. 138 si pone in contrasto con la
definizione di “danno biologico” contenuta nella lettera (a). In quest’ultima, infatti, l’incidenza sui
cc.dd. “aspetti dinamico-relazionali” della persona lesa costituisce un elemento indefettibile della
fattispecie “danno biologico”: ove mancasse, quest’ultimo non sarebbe configurabile. Nella lettera
(c), invece, si afferma che la suddetta incidenza costituisce solo un fattore di variazione del valore
del punto, come se in astratto potesse ammettersi un danno biologico che non incida sugli aspetti
“dinamico-relazionali".
Il terzo problema posto dalla disposizione in esame è di natura tecnica. Per realizzare concretamente
la tabella delle invalidità secondo le indciazioni dell’art. 138 cod. ass., occorrerebe frazionare il
valore del singolo punto di invalidità un due componenti (una relativa alla lesione in sé, l’altra agli
aspetti dinamico-relazionali di essa). Ammesso che ciò fosse possibile da un punto di vista
concettuale, occorrerebbe poi prevedere due diverse funzioni di variazione di tali valori: il primo
non si saprebbe in che misura dovrebbe variare col variare dell’invalidità (e quindi in teoria
potrebbe anche restare invariato); il secondo invece dovrebbe aumantare in misura più che
proporzionale. Così, per fare un esempio, ad applicare ad litteram il precetto normativo, si
dovrebbe:
(a) stabilire - poniamo - che il valore del punto di invalidità per una menomazione dell’1% in un
soggetto di 1 anno sia 100, e che di questi 100 solo 40 ristorino la lesione in sé, mentre i restanti 60
ristorino le conseguenze “dinamico-relazionali” di essa;
(b) stabilire non solo “come”, ma anche “se” debba crescere la prima frazione del valore di punto;
(c) far crescere in misura più che proporzionale la seconda frazione del valore di punto.
Il governo potrebbe dunque adottare, sulla base della legge delega, le soluzioni più diverse: far
crescere la fraizone statica meno di quella dinamica, farla crescere in modo identico, farla restare
invariat. Gli esiti concreti sul piano del quantum potrebbero essere diversissimi, con scarti anche del
25% tra l’una e l’altra ipotesi, come risulta dalla sinmulazione che segue.
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Grado di invalidità permanente
1%
2%
5%
Fraz. Fraz.
Fraz. Fraz.
Fraz. Fraz.
Static Dina Total Static Dina Total Static Dina Total
a
mica e
a
mica e
a
mica e
Ipotesi 1
Frazione statica e
dinamica crescono
in modo identico
Ipotesi 2
La frazione statica
resta invariata, la
dinamica cresce
Ipotesi 3
La frazione statica
cresce meno che la
frazione dinamica
40
60
100
90
130
220
385
485
870
40
60
100
80
130
210
200
485
685
40
60
100
85
130
215
220
485
705
La evidente assurdità di una simile conclusione induce forzare per via interpretativa il testo
normativo, e ritenere che l’art. 138, comma 2, lettera (c), cod. ass. vada inteso nel senso che il
valore del punto di invalidità non debba e non possa essere scisso in due “frazioni”, ma debba
crescere in modo uniforme col variare del grado di invalidità.
Alla lettera (d) del citato art. 138, la legge stabilisce che “il valore economico del punto è funzione
decrescente dell’età del soggetto, sulla base delle tavole di mortalità elaborate dall’ISTAT, al tasso
di rivalutazione pari all’interesse legale”: e qui le mie gote non si soffondono di rossore
nell’affermare che l’ignoto concierge governativo che ha vergato tali righe evidentemente non
sapeva nemmeno di cosa stesse parlando.
Inizoiamo col rilevare che la previsione è inutile, dal momento che già il comma 1 dello stesso
articolo prevedeva che il valore del punto dovesse variare in funzione dell’età della vittima. Non è
poi chiaro cosa c’entrino le statistiche mortuarie col valore del punto di invalidità. Ricordiamolo
brevemente: il coefficiente demoltiplicatore consiste in un numero decimale per ogni anno di età
della vittima al momento del sinistro. Così, se il coefficiente è 0,5 per anno, il coefficiente di
abbattimento sarà pari al 20% per un quarantenne, quale che sia la durata della vita media. Che le
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speranze di vita della vittima fossero di 100 oppure di 1 anno, l’entità del coefficiente di
abbattimento non cambia.
Dunque l’unico senso che potebbe avere la previsione normativa è che non già il criterio di
variazione del valore di punto, ma la misura di esso debba essere desunta dalle statistiche
mortuarie: così, ad es., il governo potrebbe stabilire che il valore del punto di invalidità debba
ridursi in misura dello 0,2, piuttosto che dello 0,5, per ogni anno di età della vittima. Ma se così è,
la previsione è come se non ci fosse, giacché non pone nessun serio vincolo al legislatore delegato.
Dire che il coefficiente di variazione deve variare “sulla base” delle tavole di mortalità equivale a
dire che esso deve variare tout court, giacché non si stabilisce la misura minima e massima di tale
variazione, la quale costituiva l’unico vero dato rielvante che si sarebbe dovuto imporre per legge.
Così, ad es., per un novantacinquenne potrebbe essere previsto un abbattimento del 95% del
risarcimento, oppure del 20 o del 5%, e ciascuna di tali previsioni sarebbe astrattamente conforme
al dettato di cui all’art. 138 lettera (d) cod. ass..
Non meno sorprendente è la previsione secondo cui il valore economico del punto è “funzione
decrescente dell’età della vittima (...) al tasso di rivalutazione pari all’interesse legale”.
Iniziamo col rilevare che un coefficiente non si rivaluta né può essere soggetto a rivalutazione, né
tampoco si può rivalutare una funzione matematica. Ma a parte ciò, si ha la netta impressione che
qui il legislatore abbia confuso il c.d. coefficiente di riduzione con i coefficienti per la costituzione
delle rendite immediate. Ricordiamo brevemente concetti che dovrebbero essere noti a chi pretende
di legiferare in materia.
Il coefficiente di riduzione del valore di punto in funzione dell’età è un mero moltiplicatore: cioè un
valore che restituisce il valore del risarcimento rapportato alla speranza di vita futura della vittima.
Esso non restituisce un valore futuro che occorre attualizzare; il valore monetario del punto di
invalidità è già espresso in moneta attuale, e tale valore non viene certo determinato attraverso
operazioni statistico-attuariali.
La necessità di stabilire un saggio di interesse potrebbe in teoria sussistere solo per la costruzione di
una tabella di “coefficienti per la costituzione di rendite vitalizie”, cioè di valori i quali restituiscono
il valore attuale di una rendita di n euro pagabile per tutta la vita del beneficiario.
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Ma, come già detto, la determinazione del valore del punto di invalidità non è una operazione di
capitalizzazione, e comunque men che meno costituisce una capitalizzazione la riduzione del
risarcimento in funzione dell’età. Sicché, concludendo:
- la determinazione del demoltilpicatore del valore di punto in funzione dell’età non è
un’operaizone di capitalizzazione, né di attualizzazione;
- la determinazione del demoltilpicatore del valore di punto in funzione dell’età non richiede
nessuna opera di rivalutazione;
- di conseguenza, essa non richiede la fissazione di alcun saggio di interesse.
Ove si condividano le premnesse e le conlcusioni che precedono, non appare azzardato concludere
che l’art. 138, comma 2, lettera (d) cod. ass. costituisce poco più che parole in libertà.
In ogni caso, ammesso che menti illuminate riescano ad intravedere un senso nella disposizione in
esame, resta ancora da considerare che:
(a) il saggio legale varia con cadenza quasi annuale, e non è dato comprendere perché mai l’entità
del risarcimento debba variare in funzione del momento in cui si è verificato il sinistro, a parità di
lesioni e di età della vittima;
(b) non è dato comprendere perché mai l’agganciamento del demoltiplicatore alle tavole di
mortalità non debba valere per le lesioni micropermanenti.
Comune, infine, sia alle lesioni micro- che macropermanenti è la previsione della possibilità per il
giudice di aumentare il valore monetario del singolo punto di invalidità, m in misura diversa: non
più del 20% per le miropermanenti, non più del 30% per le macropermanenti. Si badi che l’unica
variazione ammessa è in aumento, sicché il valore di punto previsto dalla legge dovrà ritenersi uno
standard minimo al di sotto del quale in nessun caso sarà possibile scendere.
15. Legittimazione attiva.
Legittimato a domandare il risarcimento del danno biologico è, ovviamente, il danneggiato, cioè la
vittima della lesione fisica o psichica. Ontologicamente impossibile, altrettanto ovviamente, è ogni
ipotesi di solidarietà dal lato attivo dell’obbligazione.
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Qualora il titolare del diritto al risarcimento sia un soggetto coniugato in regime di comunione legale dei beni, il credito risarcitorio non cade in
comunione, in virtù dell’espressa esclusione disposta dall’art. 179, comma primo, lettera e, c.c.. L’esclusione, in considerazione della ampia formula
legislativa, deve ritenersi sussistente per le somme spettanti a titolo di risarcimento sia del danno patito direttamente, sia del danno alla salute subìto
in conseguenza della morte o di gravi lesioni personali subìte dal partner (su quest’ultima ipotesi si veda anche il § seguente).
La legittimazione attiva di alcune categorie di danneggiati ha dato luogo a qualche incertezza, che occorre brevemente esaminare:
(A) Nascituri.
Nel nostro ordinamento, il nascituro (intendendosi per tale il soggetto né nato, né concepito) ed il
concepito (intendendosi per tale il soggetto non nato, ma concepito) sono privi di personalità
giuridica, mentre solo a limitati effetti sono considerati titolari di una aspettativa, peraltro sempre
subordinata all’evento della nascita.
Tuttavia sia la dottrina prevalente, sia la giurisprudenza, hanno ammesso la risarcibilità del danno
subìto durante la vita intrauterina, od addirittura immanente nel concepimento stesso: il
risarcimento dell’uno e dell’altro, tuttavia, resta pur sempre subordinato all’evento della nascita.
Il danno alla salute del concepito può essere arrecato sia dai genitori, sia da terzi.
Il danno arrecato dai genitori può essere consustanziale all’atto del concepimento, come ad
esempio nel caso dei genitori (o di uno di essi) che, pur sapendo di essere portatori di una grave
malattia ereditaria, non si astengano dall’unione, ovvero non impediscano la procreazione; oppure
può essere successivo al concepimento, come nel caso in cui il feto, sano al momento del
concepimento, venga successivamente contagiato dalla madre la quale, pur sapendo che il suo
partner è affetto da una malattia trasmissibile per via sessuale, non si astenga dall’unione con
questi.
Il danno è risarcibile - subordinatamente all’evento della nascita in tutti e due i casi sopra descritti, a
nulla rilevando che la condotta illecita sia anteriore alla venuta ad esistenza del danneggiato. Unico
requisito necessario è la colpa dei genitori, ravvisabile nel fatto di non essersi astenuti dal rapporto
sessuale, sebbene sapessero con certezza che il frutto dell’unione sarebbe stato un essere malato. In
giurisprudenza, la responsabilità del genitore per contagio eredoluetico è stata affermata da Trib.
Piacenza 31.7.1950, in Foro it., 1951, I, 987.
Anche il danno alla salute arrecato dai terzi al concepito è sempre risarcibile, quali che siano le
modalità della condotta illecita: risponderà pertanto di tale danno sia chi - ad esempio - usi violenza
alla donna in stato interessante, pur sapendo di essere portatore di una malattia trasmissibile per
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contagio attraverso l’atto sessuale; sia il medico che per imperizia o negligenza cagioni un danno al
feto durante la gestazione od al momento della nascita (Cass., sez. III, 09-05-2000, n. 5881, in
Danno e resp., 2001, 169; Cass., sez. III, 22-11-1993, n. 11503, in Corriere giur., 1994, 479; Trib.
Monza 8-5-1998, in Danno e resp., 1998, 927; Trib. Nocera Inferiore 7-3-1996, in Giur. mer., 1997,
521; Trib. Verona 31-1-1994, in Foro it., 1994, I, 2532; Trib. Milano 19-10-1989, in Resp. civ.,
1990, 628).
La risarcibilità del danno alla salute cagionato al concepito durante la vita intrauterina viene
solitamente fondata dalla giurisprudenza di merito sulla base di tre rilievi: (a) l’art. 1 c.c. non
esclude che il nascituro sia titolare di una aspettativa; (b) il nascituro deve considerarsi titolare di un
diritto “a nascere sano”; (c) la lesione di tale diritto costituisce un atto ingiusto.
A conclusioni diverse deve invece pervenirsi nel caso in cui le eventuali malformazioni o malattie
del feto, poi effettivamente nato, non siano dovute all’atto illecito del terzo o ad una condotta
colposa dei genitori, ma siano congenite. Il fatto di venire ad esistenza non può infatti essere
considerato un danno in sé, quale che sia la qualità dell’esistenza. Di conseguenza, è stato negato
che i genitori del bimbo venuto alla luce con gravi malformazioni congenite, non rilevate per
imperizia dei medici, possano agire in giudizio, in rappresentanza di lui, per chiedere il risarcimento
del danno alla salute subìto dal proprio figlio (Trib. Roma 13.12.1994, in Dir. famiglia, 1995, 662).
(B) Minori ed interdetti.
Il danneggiato, che è sempre titolare unico del diritto al risarcimento, non sempre è anche
legittimato all’esercizio di esso. Come noto, la legittimazione consiste nel potere di disposizione di
una determinata situazione giuridica, e nel rapporto obbligatorio scaturente dall’illecito essa si
sostanzia nel potere di sollecitare il debitore, interrompere la prescrizione, incassare il pagamento,
azionare il diritto, transigere la lite.
La legittimazione personale del danneggiato non può sussistere in tutti i casi in cui il medesimo è
privo della capacità di agire: e quindi nelle ipotesi di minore età e di interdizione. Si ricordi che, in
questi casi, il pagamento effettuato nelle mani dell’incapace è inefficace (art. 1190 c.c.), a meno che
il danneggiante non dimostri che il pagamento è stato effettivamente destinato a pro dell’incapace.
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Quando il danneggiato sia un minore, la riscossione del risarcimento (o l’esercizio della relativa
azione giudiziale) spetta a ciascuno dei genitori esercenti la potestà genitoria, anche disgiuntamente.
La giurisprudenza ritiene infatti che l'azione di risarcimento del danno subìto da un minore rientri
negli atti di ordinaria amministrazione, e quindi da un lato può essere esercitata disgiuntamente
anche da uno solo dei genitori (art. 320 c.c.; Trib. Cagliari 8-8-1989, in Riv. giur. sarda, 1995, 53);
dall’altro non richiede l'autorizzazione del giudice tutelare (Cass. 13.1.1981 n. 194, in Foro it.,
1981, I, 1325; Cass. 11-1-1989 n. 59, in Foro it. Rep., 1989, Minore civile, 12; Cass. 15-12-1980 n.
6503, in Giur. it., 1981, I, 1, 1453; Trib. Napoli 7.6.1976, in Arch. circolaz., 1976, 977; Trib.
Milano 11.6.1971, in Dir. prat. ass., 1971, 626).
Se uno solo dei genitori sia titolare della potestà genitoria, soltanto questi sarà legittimato a
domandare il risarcimento del danno alla salute subìto dal figlio minore.
La legittimazione dei genitori viene meno ove sussista tra questi ed il figlio un conflitto di interessi,
anche soltanto potenziale. Ipotesi, quest’ultima, abbastanza frequente in tema di sinistri stradali,
allorché il genitore sia il responsabile del danno. In questi casi, ovviamente, non potendo il genitore
nella qualità di rappresentante ex art. 320 c.c. convenire in giudizio se stesso quale responsabile del
danno, unico legittimato ad agire sarà l’altro genitore o, in mancanza, un curatore ad hoc nominato
ex art. 78 c.p.c.. In applicazione di questo principio, è stato ritenuto non legittimato a chiedere il
risarcimento del danno subìto dai propri figli minori, per l’esistenza d’un conflitto di interessi, il
genitore proprietario del veicolo sul quale viaggiavano i minori al momento del danno, in quanto
corresponsabile ex art. 2054 c.c. (Trib. Roma 5-3-1996, in Foro it., 1996, I, 3222, RGCT, 1996,
348, in motivazione).
La Corte di cassazione adotta comunque criteri molto ampi nel valutare la sussistenza del conflitto
di interessi. Il giudice di legittimità è infatti costante nell’affermare che il conflitto sussiste soltanto
quando il genitore abbia chiesto, giudizialmente, un provvedimento favorevole per sé e sfavorevole
per il figlio, e non quando il genitore chieda un provvedimento vantaggioso per il figlio, come
appunto una pronuncia di risarcimento dei danni (Cass. 15-9-1983 n. 5582, in Foro it. Rep., 1983,
Procedimento civile, 36; Cass. 13-1-1981 n. 281, in Foro it. Rep., 1981, Procedimento civile, 29).
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(C) Falliti.
Si è discusso se il diritto al risarcimento del danno alla salute possa essere esercitato dal fallito,
ovvero se il relativo credito debba essere acquisito all’attivo fallimentare. A tale quesito, in passato,
la giurisprudenza aveva dato soluzione negativa, osservando che con la sentenza (ovvero con la
transazione) e la conseguente liquidazione del danno, il diritto (personale) alla integrità fisica si
trasforma in un diritto (patrimoniale) sulla somma dovuta dal danneggiante. Pertanto, quando il
fallimento interviene successivamente alla sentenza di condanna al risarcimento (ovvero
successivamente alla transazione), il credito risarcitorio è già entrato a far parte del patrimonio del
fallito, anche se il pagamento non è stato ancora riscosso, e di conseguenza quel credito deve
entrare a far parte della massa fallimentare (Cass. 4-2-1992 n. 1210, in Fallimento, 1992, 681).
Questo orientamento ingenerava però varie anomalie. Ammettendosi l’acquisizione del credito
risarcitorio all’attivo del fallimento soltanto quando il credito stesso si era “patrimonializzato”, per
effetto di sentenza o di transazione, ne discendeva - incoerentemente - che il curatore fallimentare
non poteva agire per ottenere il risarcimento, mentre poteva intervenire nel giudizio promosso dal
fallito quando era in bonis.
Consapevole forse di questa e di altre incongruenze, più di recente il giudice di legittimità ha
mutato avviso, distinguendo, nel caso di lesioni personali, le somme dovute a titolo di risarcimento
del danno alla persona da quelle dovute a titolo di risarcimento del danno patrimoniale.
Per le seconde, rimane tuttora valido l’antico principio, secondo cui esse debbono essere acquisite
all’attivo della massa fallimentare. Per il credito di risarcimento del danno alla salute, invece, la
S.C. ha ritenuto che esso non possa essere “espropriato” al danneggiato e assegnato alla massa
fallimentare, in quanto il diritto al risarcimento del danno biologico costituisce un diritto di natura
strettamente personale, e come tale non compreso nel fallimento ai sensi dell’art. 46, comma primo,
n. 1, l. fall. (Cass. 20-6-1997 n. 5539, in Fallimento, 1998, 363; Cass. 13.6.2000, n. 8022, in
Fallimento, 2001, 57).
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(D) Creditori del danneggiato.
E’ dubbio se il diritto al risarcimento del danno alla salute possa essere esercitato dai creditori del
soggetto leso, ai sensi dell’art. 2900 c.c. (il quale esige, per l’esercizio dell’azione ivi prevista, da un
lato l’inerzia del debitore, e dall’altro che i diritti e le azioni da esercitare in via surrogatoria
abbiano contenuto patrimoniale e non siano, per legge o per loro natura, riservati al solo titolare).
A tale quesito la dottrina meno recente ha dato soluzione negativa, osservando che il diritto al
risarcimento del danno, quando sorge dalla lesione di un interesse non patrimoniale, deve
considerarsi personale, e come tale esercitabile soltanto dal titolare, cioè dal danneggiato.
Altra parte della dottrina, invece, è di contrario avviso, e ritiene che l’azione surrogatoria possa
avere ad oggetto un diritto di credito (patrimoniale) sorto dalla lesione di un interesse non
patrimoniale.
16. Il c.d. danno biologico da morte.
Può ritenersi ormai pacificato in giurisprudenza il problema della trasmissibilità agli eredi del diritto
al risarcimento del danno biologico.
Secondo l’orientamento consolidato della Corte di legittimità, occorre distinguere due ipotesi.
(A) Nel caso di morte immediata della persona lesa, non è neppure ipotizzabile l’acquisto in capo
a quest’ultima del diritto al risarcimento del danno alla salute, in quanto: (a) il diritto al risarcimento
presuppone l’esistenza in vita di colui che ne è titolare; (b) il danno biologico non consiste nella
mera lesione dell’integrità psicofisica, ma nella “perdita” (in termini di invalidità) da quella causata.
Di conseguenza, la morte immediata della vittima non produce alcun danno biologico in senso
stretto, perché non causa alcuna forma di invalidità, né temporanea, né permanente (la sentenza
capostipite è rappresentata da Cass. 2-3-1995 n. 2450, in Foro it. Rep., 1995, Danni civili, 120;
nello stesso senso, ex plurimis, Cass. 19.11.2009 n. 24432; Cass. 17.1.2008 n. 870; Cass. 25.5.2007
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n. 12253; Cass. 22.3.2007 n. 6946; Cass. 19.2.2007 n. 3760; Cass. 13.1.2006 n. 517; Cass.
25.2.2000 n. 2134; Cass. 14.2.2000 n. 1633; Cass. 29.11.1999 n. 13336; Cass. 17.11.1999 n. 12756;
Cass. 10.2.1999 n. 1131; Cass. 20-1-1999 n. 491; Cass. 28-11-1998 n. 12083, in Foro it. Rep., 1998,
Danni civili, 166; Cass. 12-10-1998 n. 10085; Cass. 10-9-1998 n. 8970, in Riv. giur. circ. trasp.,
1998, 951; Cass. 30-6-1998 n. 6404, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 168; Cass. 22-5-1998 n.
5136, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 170; Cass. 7-4-1998 n. 3561, in Arch. circolaz., 1998,
777; Cass. 18-11-1997 n. 11439, in Riv. giur. circ. trasp., 1998, 58).
Tuttavia, anche quando la sopravvivenza sia stata molto breve, è configurabile l’acquisto in capo
alla vittima del diritto al risarcimento (non del danno biologico, ma) del danno morale, in tutti i casi
in cui essa sia stata consapevole della morte imminente (Cass. 12.2.2010 n. 3357).
(B) A conclusioni diverse la S.C. perviene invece nell’ipotesi in cui la morte della vittima di lesioni
non sia immediata, ma sopraggiunga dopo un certo periodo di tempo (c.d. sopravvivenza quodam
tempore).
In questo caso, infatti, secondo il giudice di legittimità la vittima subisce una effettiva lesione della
salute, giuridicamente rilevante, nell’arco di tempo che va dall’infortunio alla morte. Il diritto al
risarcimento di tale lesione, di conseguenza, viene acquisito dalla vittima e trasmesso agli eredi,
poiché questo caso il leso è ben in grado di avvertire la “perdita” (biologica) subita, e quindi patisce
un danno sussumibile nella nuova e più ampia concezione di “danno non patrimoniale”, di cui si è
detto nella relativa scheda (v.) (Cass. 7.6.2010 n. 13672; Cass. 28.4.2006 n. 9959; Cass. 10.8.2004
n. 15408; Cass. 27-12-1994 n. 11169, in Foro it., 1995, I, 1852; Cass. 10.2.1999 n. 1131; Cass. 109-1998 n. 8970, in Riv. giur. circ. e trasp. 1998, pag. 951; Cass. 24-4-1997 n. 3592, in Arch.
circolaz., 1997, 899; Cass. 29-5-1996 n. 4991, in Foro it., 1996, I, 3107; in Arch. circolaz., 1996,
726; in Giust. civ., 1996, I, 2889; Cass. 29-9-1995 n. 10271, in Arch. circolaz., 1996, 292).
16.1. Liquidazione.
La giurisprudenza di merito è stata per lungo tempo divisa sul delicato punto della liquidazione del
danno biologico patito dalla vittima sopravvissuta quodam tempore, e da questa trasmesso ai propri
eredi.
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Così, alcuni giudici avevano ritenuto di liquidare il danno biologico in misura corrispondente ad
una invalidità del 100% (Pret. Jesi 12.4.1995, Di Giuseppe c. Anniballi, inedita); altri ancora in
misura pari ad una frazione del risarcimento che si sarebbe liquidato per una invalidità del 100%
(Trib. Vibo Valentia, 28-05-2001, in Foro it., 2001, I, 3198; Trib. Parma, 19-05-1998, in Riv. giur.
circolaz. e trasp., 1999, 774); altri avevano ritenuto di liquidare soltanto il danno da invalidità
temporanea (Trib. Roma, 27-05-1997, in Nuova giur. civ., 1998, I, 787; Trib. Firenze, 11-11-1998,
in Foro toscano, 1999, 7); altri ancora avevano seguito “criteri equitativi”, la quale è spesso formula
elegante per indicare improvvisate intuizioni.
La Corte di cassazione ha dato soluzione al problema in esame, distinguendo l'ipotesi della morte
non causata dalle lesioni, da quella della morte causata dalle lesioni
(A) Morte non causata dalle lesioni.
Se la vittima di lesioni personali, prima o dopo la guarigione, muore per cause diverse, si trasferisce
nel patrimonio degli eredi (legittimi o testamentari), pro quota, il diritto al risarcimento del danno
biologico acquisito dal de cuius
In questo caso tuttavia la liquidazione del danno da invalidità permanente ubbidisce a regole
particolari. Infatti, quasi tutti i criteri adottati dalla giurisprudenza per la liquidazione del danno alla
salute tengono conto dell’età del leso, e ciò in quanto il danno è tanto maggiore, quanto minore è
l’età della vittima: altro è infatti convivere con una invalidità per pochi anni, altro è tollerarla per la
maggior parte della vita. Quando però il danneggiato muore (ripetesi, per cause indipendenti dalle
lesioni), la durata della vita è nota: essa non costituisce più un dato presunto (sulla base della
mortalità media della popolazione), ma un dato reale; è possibile quindi sapere per quanto tempo il
danneggiato ha dovuto convivere con la sua menomazione. Nella aestimatio del danno, pertanto, il
giudice deve tenere conto non della vita media futura presumibile della vittima, ma della vita
effettivamente vissuta (Cass. 31.1.2011 n. 2297; Cass. 24.10.2007 n. 22338; Cass. 25.2.2004 n.
3806; Cass. 3.10.2003 n. 14767; Cass. 29-5-1998 n. 5366, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 283;
Cass. 20.1.1999 n. 489, in Foro it. Rep., 1999, Danni civili, n. 241; nonché, in dottrina, Iannarelli,
Danno da morte e danno biologico “da rimbalzo” tra Corte costituzionale e cassazione, in Corriere
giur., 1999, 872).
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Per tenere debito conto della durata effettiva della vita del danneggiato, il giudice del merito può
scegliere il criterio che ritiene più opportuno, purché ne dia adeguata motivazione. In particolare, è
stato ritenuto valido il criterio costituente nella riduzione del valore monetario standard del punto
d’invalidità, cioè di quel valore che sarebbe risultato dall’applicazione pura e semplice delle
“tabelle” o degli altri criteri predisposti dall’ufficio giudiziario procedente (cfr. Cass. 29-5-1998 n.
5366, cit.; Cass. 7-4-1998 n. 3561, in Arch. circolaz., 1998, 777; Cass. 29-5-96 n. 4991, in Foro it.,
1996, I, 3107; per la giurisprudenza di merito, sempre nello stesso senso, Trib. Roma 13.10.99, in
Giurispr. romana, 2000, 156).
Su tali princìpi, tuttavia, si registra qualche contrasto in seno alla Corte di legittimità. Mentre,
infatti, la Terza Sezione ha affermato i princìpi appena esposti, la Sezione Lavoro seconda è andata
in contrario avviso (deve ritenersi inconsapevolmente, posto che nella motivazione non si fa alcun
riferimento alla contraria opinione), affermando che nel caso di lesioni seguite quodam tempore
dalla morte della vittima, la valutazione del danno biologico va commisurata alla speranza di vita
futura, e quindi alla durata della vita media, “restando priva di rilievo la durata effettiva della vita,
in quanto il rilievo accordato a tale ultima circostanza si porrebbe in contrasto, sotto il profilo
logico-giuridico, col carattere non patrimoniale del danno di cui si trattasi, consistente nel
"quantum" di menomazione dell'integrità psico-fisica, giacché è solo la perdita patrimoniale che va
calcolata in relazione alla incidenza sulla capacità di produrre reddito in futuro” (Cass. 23.5.2003 n.
8204).
(B) Morte causata dalle lesioni.
Nel caso, invece, in cui il decesso sia stato causato proprio dalle lesioni partite dalla vittima, zzz
pare sussistere qualche contrasto nella giurisprudenza di legittimità.
Per lungo tempo la corte di cassazione aveva ritenuto che nell’ipotesi in esame la vittima acquista e
trasmette agli eredi il diritto al risarcimento del danno biologico, ma soltanto di quello da invalidità
temporanea: ed infatti, se la malattia causata dalle lesioni non guarisce, ma conduce la vittima alla
morte, non è concepibile lo stabilizzarsi dei postumi, e di conseguenza non è configurabile alcun
danno da invalidità permanente.
Secondo questo orientamento la nozione medico legale di "invalidità permanente" presuppone che
la malattia sia cessata, e che l'organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari alterato, ma pur
sempre stabile. Pertanto, nell'ipotesi di morte causata dalle lesioni, non è configurabile alcuna
invalidità permanente in senso medico legale, poiché la malattia in questo caso non si è risolta con
esiti permanenti, ma ha determinato la morte dell'individuo (Cass. 28.4.2006 n. 9959; Cass.
23.2.2004 n. 3549; Cass. 16.5.2003 n. 7632, in Assicurazioni, 2000, 94; nello stesso senso, in
dottrina, Rossetti, Il danno da lesione della salute, Padova 2001, 824 e ss.).
La Corte ha tuttavia ha aggiunto che nel caso di morte causata dalle lesioni, è consigliabile liquidare
il danno biologico temporaneo patito dalla vittima, ed il cui diritto al risarcimento è stato da questa
trasmesso agli eredi, attraverso una adeguata personalizzazione, che tenga conto della particolare
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intensità del danno consistente nella invalidità che precede la morte (Cass. 28.8.2007 n. 18163;
Cass. 28.4.2006 n. 9959; Cass. 30.1.2006 n. 1877; Cass. 14.7.2003 n. 11003).
In prosieguo di tempo tuttavia la S.C., muovendo da un obiter dictum contenuto in una decisione
delle Sezioni Unite (Cass. sez. un. 11.11.2008 n. 26972) ha iniziato a qualificare il danno
consistente nella sofferenza patita dalla vittima di lesioni, che sia rimasta lucida durante l'agonia, in
consapevole attesa della fine, non più come danno biologico, ma come danno morale (ovvero “non
patrimoniale” in senso ampio) (Cass. 7.6.2010 n. 13672).
(C) Morte seguita ad uno stato di incoscienza.
Le conclusioni appena esposte mutano nel caso di sopravvivenza quodam tempore della vittima in
stato di incoscienza.
Secondo la S.C., infatti, in questo caso l’incoscienza della vittima rende inconcepibile rispetto ad
essa il patimento di un danno alla salute. In tale ipotesi pertanto il danneggiato può acquistare (e
trasmettere agli eredi) il diritto al risarcimento del solo danno morale (Cass. 24.3.2011 n. 6754;
Cass. sez. un. 11.11.2008 n. 26972).
In precedenza, invece, la S.C. riteneva che se la morte è stata causata dalle lesioni, per quanto già
esposto), in quanto il danno biologico è risarcibile sol che sia dimostrata l’esistenza della lesione
biopsichica, a prescindere dalla percezione che la vittima ne abbia avuto (Cass. 19.10.2007 n.
21976; Cass. 1.12.2003 n. 18305).
Non era di questo avviso, tuttavia, parte della giurisprudenza di merito, secondo la quale quel che
rileva, ai fini della risarcibilità del danno biologico agli eredi della vittima, nel caso di
sopravvivenza quodam tempore di quest’ultima, non è se la sopravvivenza sia stata lunga o breve,
ma se la vittima, nel tempo intercorso tra le lesioni e la morte, abbia patito un danno biologico:
abbia, cioè, avuto la possibilità di percepire se stessa e la propria esistenza irrimediabilmente
vulnerate e compromesse. Se, infatti, l’essenza del danno biologico va ravvisata in una perdita di
tipo esistenziale, cioè nella perduta possibilità, per la vittima, di godere delle ordinarie occupazioni
cui attendeva prima del sinistro, tale danno non può essere ravvisato allorché l’infortunio sia stato
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di entità tale da sopprimere le facoltà neurosensoriali della vittima, sì da ridurla in uno stato
vegetativo.
Pertanto, secondo questo orientamento, il danno biologico può sussistere anche se la sopravvivenza
è stata brevissima, quando la vittima sia restata vigile e cosciente; mentre può mancare, anche nel
caso di sopravvivenza prolungata, quando le facoltà intellettive dell’infortunato siano state del tutto
soppresse dalle lesioni seguite al trauma. Di conseguenza, nel caso di sopravvivemza quodam
tempore in stato di incoscienza, iniziata immediatamente dopo le lesioni, la vittima non
acquisterebbe e non trasmetterebbe agli eredi alcun diritto al risarcimento del danno biologico (Trib.
Roma 7.3.2002, in Giurispr. romana, 2002, 160).
Il quadro dei danni risarcibili spettante agli eredi della vittima iure haereditario è dunque
riassumibile nel seguente quadro sinottico:
Causata dalle lesioni
Non causata dalle lesioni
Morte immediata
nulla spetta
***
Morte non immediata
spetta agli eredi il danno
morale patito dal de cuius
(contrasto)
spetta agli eredi il danno
morale, quello biologico da
invalidità temporanea e
quello da invalidità
permanente patiti dal de
cuius
16.2. Il c.d. “danno biologico da morte iure proprio”.
Si suole parlare di danno biologico da morte (in questo caso definito “iure proprio”) anche per
designare il danno alla salute, subito dai congiunti di persona deceduta in conseguenza dell’altrui
atto illecito. Così, ad esempio, costituisce un danno biologico da morte iure proprio l’apoplessia, o
la sindrome depressiva acuta, da cui una madre viene colpita dopo avere appreso della tragica
scomparsa del figlio in un sinistro stradale.
Il danno biologico da morte c.d. iure proprio costituisce una ordinaria ipotesi di danno alla salute, la
cui unica particolarità è che di non essere corpore corpori illatum. Il danno in esame, sia per il
giudice di legittimità, sia per quelli di merito, è pacificamente risarcibile. Alle medesime
conclusioni è pervenuta altresì la Corte costituzionale, la quale tuttavia ha fondatola risarcibilità di
questa pretesa sul disposto dell'articolo 2059 cod. civ. (Corte costit. 27-10-1994 n. 372, in Foro it.,
1994, I, 3297), con una tesi oggi avallata anche dalla Corte di cassazione (Cass. 8827/03, cit. supra,
§ 1.1).
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Vale comunque la pena ricordare, al riguardo, che il danno da perdita del congiunto (o “da lutto”),
in quanto danno biologico, presuppone sempre l’esistenza d’una malattia psichica o fisica, che va
accertata in concreto, e non può mai essere presunta (Cass. 25.2.2000 n. 2134).
Non sono mancati, però, giudici di merito che hanno ritenuto di liquidare (o meglio, che hanno
ritenuto di ravvisare comunque) il danno biologico subìto dai parenti della vittima anche in assenza
non solo di accertamenti medico legali, ma anche di documentazione clinica. In questi casi,
solitamente, i giudici motivano la decisione attraverso il ricorso allo strumento della presunzione
semplice (art. 2727 c.c.), ovvero del fatto notorio (art. 115 c.p.c.), ma in realtà pervengono ad una
autentica duplicazione risarcitoria. Si vedano in tal senso:
(-) Trib. Latina 1.8.1994, in Giur. it., 1995, I, 2, 426, secondo il quale per la liquidazione del danno
biologico subìto dai congiunti della vittima sarebbe sufficiente anche la prova presuntiva (nella
specie, però, la domanda venne rigettata per difetto di prova);
(-) Trib. Alba 21.1.1992, in Giur. merito, 1994, 82, ove si afferma che per la liquidazione del danno
biologico ai congiunti della vittima è sufficiente la dimostrazione che questi abbiano subìto un
danno alla vita di relazione, consistente in una difficoltà di inserimento nella vita sociale;
(-) Trib. Milano 1.2.93, in Foro it., 1994, I, 1954, ove si afferma che il danno biologico subìto dai
parenti della vittima rientra nel fatto notorio;
(-) e soprattutto Trib. Milano 2.9.93, in Dir. famiglia, 1994, I, 657, il quale ha liquidato ai genitori
di una sedicenne tragicamente perita in un incidente stradale, a titolo di danno biologico, la somma
di £ 60.000.000 ciascuno, sulla base della seguente motivazione: “si ritiene che (…) che la morte
della figlia abbia inciso sulla personalità degli attori, e la personalità altro non è se non una
espressione della psiche dell’individuo. Pertanto, in ultima analisi, l’evento dannoso ha certamente
intaccato l’integrità psichica e quindi il bene salute degli attori”.
16.3. Il c.d. “danno da perdita della vita".
Più di un autore, negli ultimi anni, aveva ritenuto che anche la perdita della vita costituisse una
danno risarcibile per... il defunto, adottando l’argomento dell’a fortiori: se è risarcibile il danno da
lesione della salute, a fortiori dovrà essere risarcibile il danno da lesione della vita, essendo
evidente che quest'ultima è un bene di valore superiore a quello della salute (per tutti, in tal senso, si
vedano Monateri-Bona-Oliva, Il nuovo danno alla persona, Milano 1999, 134-135).
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Questa tesi era stata condivisa da alcuni giudici di merito, i quali avevano ritenuto che se
l’ordinamento appresta tutela risarcitoria alla lesione della salute, a fortiori dovrà essere tutelata sul
piano risarcitorio la lesione della vita, che è bene maggiore rispetto alla salute (Trib. Massa Carrara
16-12-1997, in Riv. giur. circ. trasp., 2000, 122, in Arch. circolaz., 1998, 165, ove si parla
espressamente di “espropriazione del bene-vita” nel caso di lesioni mortali; Trib. Civitavecchia
26.2.96, in Riv. giur. circ. trasp.,1996, 958, ove si afferma che “il diritto alla vita viene a costituire,
in base al combinato disposto dell'articolo 32 cost. e 2043 cod. civ., non oggetto di un riferimento
programmatico a copertura costituzionale, ma posizione soggettiva perfetta tutelata nell'ambito dei
rapporti interprivati, che impone il risarcimento nella ipotesi di sua violazione”).
La S.C. ha ritenuto non condivisibile la tesi in esame, confutando tutti gli argomenti sui quali
veniva fondata, e più esattamente:
(a) non è vero che l’irrisarcibilità della “lesione del diritto alla vita” creerebbe una disparità di
trattamento rispetto all'ipotesi lesione della salute, perché vita e salute sono beni diversi, la cui
lesione genera conseguenze diverse;
(b) non è vero che la irrisarcibilità del preteso danno da lesione del diritto alla vita sia in contrasto
con la convenzione europea dei diritti dell'uomo e con la dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo, perché la soppressione dell'altrui vita è tutelata dall'ordinamento attraverso la sanzione
penale, ben più afflittiva rispetto alla "sanzione" del risarcimento del danno (Cass. 24.3.2011 n.
6754; Cass. 16.6.2003 n. 9620; Cass. 14.2.2000 n. 1646, in Arch. circolaz., 2000, 487; Cass.
14.2.2000 n. 1633, in Riv. giur. circolaz. e trasp., 2000, 927; Cass. 29.11.1999 n. 13336, in
Assicurazioni, 2000, II, 2, 198, e soprattutto Cass. 25-2-1997 n. 1704, in Resp. civ. prev., 1997,
432).
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16.4. La perdita delle chances di sopravvivenza.
Con una recente decisione, la S.C. ha vieppiù slargato la nozione di danno alla salute,
ricomprendendo in esso anche un pregiudizio definibile come perdita delle chances di
sopravvivenza.
La fattispecie, in verità, non è nuova: si tratta dell’ipotesi in cui l’errore del medico impedisce al
paziente di conoscere in tempo di essere affetto da una certa patologia, e quindi di adottare cure che
sarebbero efficaci solo se tempestive; oppure aggravi una patologia preesistente, riducendo le
possibilità di guarigione.
In questi casi, l’errore del medico compromette la speranza di vita futura del paziente, e gli causa un
danno definito appunto come “perdita delle chances di sopravvivenza”.
Secondo l’impostazione tradizionale, trattasi di un ordinaria ipotesi di danno biologico, per la cui
liquidazione occorre distinguere due ipotesi.
Se la vittima muore prima della liquidazione del danno, si tratta di accertare l’esistenza d’un
valido nesso causale tra l’errore del medico e la morte del paziente: accertare, cioè, se in assenza
dell’errore il paziente sarebbe sopravvissuto più a lungo.
Se, invece, la vittima è ancora in vita al momento della liquidazione del danno, il problema
diventa quello di quantificare un danno (il rischio di morte anticipata) che è futuro e probabile, ma
non certo.
Nella prima ipotesi (vittima deceduta prima della liquidazione del danno), ove possa
ragionevolmente affermarsi che, senza l’intervento del medico, il danneggiato sarebbe vissuto più a
lungo, l’autore dell’illecito sarà tenuto a risarcire sia il danno morale subìto dagli eredi per la morte
del proprio congiunto (sussistendo in questo caso un valido nesso causale tra atto illecito e morte);
sia il danno morale sofferto dalla vittima stessa, per la dolorosa consapevolezza di avere perduto
delle possibilità di sopravvivenza. Agli eredi, infine, spetta il risarcimento del danno biologico
patito dalla vittima, per avere vissuto meno e peggio di quanto il destino gli riservava (Trib. Monza
30.1.1998, in Resp. civ. prev., 1999, 701).
Di recente, come si accennava, la S.C. ha invece affermato che costituisce un danno risarcibile in
favore del paziente (o dei suoi eredi) non solo la perduta possibilità, in conseguenza dell’omissione
colposa da parte del medico, di una guarigione certa, ma anche la perduta possibilità di una
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guarigione eventuale; quest’ultimo danno, consistente nella perdita delle chances di sopravvivenza,
è ontologicamente diverso dal danno consistente nella perdita del risultato sperato, e va liquidato
equitativamente in misura inferiore rispetto a quello (Cass. 4.3.2004 n. 4400).
In tal modo, la S.C. sembra aderire all’orientamento maggioritario, che considera la perdita di
chance una ipotesi di danno emergente e non già di lucro cessante (ex multis, Cass. 1-4-1987 n.
3139, in Foro it., 1987, I, 2073; Cass. 29.4.93 n. 5026, in Giur. it., 1993, I, 1, 234; Cass. 7.3.1991 n.
2368, in Foro it., 1991, I, 1793; Cass. 12-10-1988 n. 5494, in Foro it., 1989, I, 1330; Cass. 24-11992 n. 781, in Foro it. Rep., 1992, Lavoro (rapporto), 836; Cass. 19.12.1985, in Foro it., 1986, I,
383).
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