REPUBBLICA ITALIANA Sent. n.5/2016 IN NOME DEL

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REPUBBLICA ITALIANA Sent. n.5/2016 IN NOME DEL
REPUBBLICA ITALIANA
Sent. n.5/2016
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE SARDEGNA
composta dai seguenti magistrati:
Cristina ASTRALDI
Presidente
Antonio CONTU
Consigliere
Antonio Marco CANU
Consigliere relatore
pronuncia la seguente
SENTENZA
sul giudizio di responsabilità instaurato ad istanza del Procuratore regionale della Corte
dei conti per la Regione Sardegna nei confronti di
Giuseppe MELA, nato a Sassari il 10.10.1951, rappresentato e difeso dall’avvocato
Giovanni MELA, presso il cui studio in Sassari, via Milano n. 27 è elettivamente
domiciliato.
Visto l’atto di citazione del 29/04/2015, iscritto al n. 23453 del registro di Segreteria, e
tutti gli atti della causa.
Uditi, nella pubblica udienza del 02/12/2015, il relatore Consigliere Antonio Marco
CANU, l’avvocato Giovanni MELA per il convenuto e il Pubblico Ministero nella
persona del Vice procuratore generale Susanna LOI.
MOTIVI DELLA DECISIONE
FATTO
Il Procuratore regionale della Corte dei conti per la Regione Sardegna ha promosso
azione di responsabilità nei confronti del sig. Giuseppe MELA per un danno di euro
15.949,18 arrecato alla Provincia di Sassari.
Il Procuratore regionale ha esposto quanto segue.
Il Consiglio provinciale di Sassari, con deliberazione n. 47 del 21 dicembre 2012, ha
riconosciuto un debito fuori bilancio di euro 31.599,00, comprensivo di interessi e
sanzioni, in favore del Comune di Santa Maria Coghinas, derivante da irregolarità nel
pagamento dell’ICI relativamente alle Terme di Casteldoria per gli anni dal 2003 al 2008
compresi. In citazione vengono riportati gli estremi degli avvisi di accertamento emessi
dal Comune di Santa Maria Coghinas nei confronti della Provincia di Sassari, che hanno
dato luogo al suddetto riconoscimento di debito.
Dai fatti descritti sarebbe derivato alla Provincia di Sassari un pregiudizio patrimoniale,
pari a € 23.498,26 complessivi, corrispondente alle somme pagate a titolo di sanzioni,
interessi e spese di notifica dipendenti da omissioni e/o errori nel pagamento, per gli anni
indicati, dell’ICI dovuta per l’immobile, di proprietà della Provincia, ubicato nel Comune
di Santa Maria Coghinas, destinato a stabilimento termale.
Ravvisata la presunta responsabilità, per tale danno, dei signori Giovanni GUIDO (per
l’anno 2003 e per l’importo di € 8.249,08) e Giuseppe MELA (per gli anni dal 2004 al
2008 e per l’ammontare di € 15.949,18), il Pubblico Ministero ha loro notificato il
prescritto invito a dedurre.
Nel termine assegnato entrambi gli interessati hanno presentato controdeduzioni.
Le argomentazioni difensive formulate dal GUIDO sono state ritenute idonee a far venir
meno, segnatamente con riguardo all’elemento psicologico, la sussistenza delle condizioni
per l’esercizio dell’azione nei suoi confronti, mentre prive di pregio sono state
considerate quelle svolte dal MELA, contro il quale è stata quindi proposta l’azione di
responsabilità.
Secondo il Procuratore regionale, il danno contestato sarebbe l’effetto della condotta del
convenuto - che risulta essere stato incaricato, all’epoca dei fatti, di dirigere il Settore XII
(Trasporti-Patrimonio-Provveditorato) e, dal 2005, il Settore IV (Edilizia-Patrimonio) - il
quale avrebbe disatteso inspiegabilmente e ingiustificatamente gli obblighi di servizio
connessi alla funzione attribuitagli.
Dall’istruttoria eseguita è emerso che, ai fini del pagamento dell’ICI per gli immobili di
proprietà della Provincia, veniva seguita una procedura la quale prevedeva, per ogni anno,
l’individuazione degli immobili gravati dall’imposta e la contestuale determinazione
dell’importo da versare, calcolato in base alle disposizioni vigenti.
Al MELA viene addebitato di aver omesso di riportare tra tali immobili quello di cui si
discute per gli anni dal 2004 al 2006, e di averlo invece ricompreso negli atti ricognitivi
degli anni 2007 e 2008, ma con erronea determinazione degli importi dovuti. Errori tutti
che hanno determinato il danno contestato.
La colpa grave del dirigente sarebbe da riconoscere in quanto l’immobile risultava
regolarmente iscritto nell’inventario dell’ente quanto meno dal 1996 e comunque, già dal
2003, erano disponibili tutti i dati necessari e sufficienti al fine di ricomprenderlo tra i
beni per cui pagare l’ICI. Né varrebbe ad escludere la sussistenza dell’elemento
psicologico la giustificazione addotta dal MELA di aver, in sostanza, confidato
nell’oggettivo presupposto di adeguata conoscenza del patrimonio da parte del personale
assegnato all’Ufficio, operato, ogni anno, come quello precedente, in assenza di
specifiche comunicazioni interne ed esterne di variazione, essendo l’atto ricognitivo di
competenza del dirigente, il quale avrebbe dovuto, allo scopo, verificare, tra l’altro, anche
la completezza dell’attività istruttoria propedeutica compiuta dai collaboratori.
Parimenti grave sarebbe da considerare la colpa del convenuto per aver erroneamente
determinato l’importo dell’ICI per gli anni 2007-2008, dovendosi ritenere inescusabile
che egli abbia ignorato la normativa introdotta dal D.L. n. 262 del 2006.
Il convenuto si è costituito in giudizio a ministero dell’avvocato Giovanni MELA, il quale
ha formulato conclusioni di rigetto integrale della domanda attrice, con vittoria di spese e
competenze del giudizio.
In sintesi, il difensore, richiamate integralmente le deduzioni presentate nella fase
dell’invito a dedurre, ha argomentato come segue.
Nell’operato del dirigente non sarebbe configurabile la colpa grave, avendo egli confidato
sulla correttezza dei dati predisposti dal Servizio Patrimonio, in presenza dello stesso
personale che vi aveva lavorato in precedenza, anche per un lungo periodo di tempo, ed
in totale assenza di qualsivoglia comunicazione né formale né informale, interna da parte
del servizio Edilizia, o esterna da parte di altri Enti, in ordine a possibili modifiche della
composizione del patrimonio provinciale. Al contrario, il dirigente avrebbe dimostrato
puntuale diligenza, visto che le determinazioni ricognitive sono state eseguite
tempestivamente ed in base ad un preciso criterio logico.
La mancata inclusione del bene tra quelli di proprietà della Provincia assoggettabili ad ICI
sarebbe stata dovuta alla condizione dell’immobile, interessato nel corso di oltre un
quindicennio da importantissimi lavori di ristrutturazione, riadattamento, riqualificazione
e completamento, della cui conclusione il Settore Patrimonio, in tutto il periodo in cui è
stato diretto dall’odierno convenuto, non ha mai ricevuto formale od informale
comunicazione dal Settore Edilizia.
Tale situazione di fatto aveva determinato uno stato di oggettiva incertezza, già
consolidatasi, in epoca precedente al conferimento dell’incarico di direzione del Settore
Patrimonio all’ing. MELA e non addebitabile ad alcuno, che venne superato nel 2007,
quando, sostanzialmente conclusi i suddetti lavori, venne predisposto il bando ad
evidenza pubblica per l’affidamento in concessione della gestione dello stabilimento
termale ed avviata la relativa gara d’appalto e, conseguentemente, venne fatta dal MELA
la denuncia ai fini ICI.
Quando, nel 2009, il Comune di Santa Maria Coghinas ne fece espressa richiesta (cosa
che non aveva mai fatto precedentemente), il dirigente provvide al tempestivo pagamento
dell’ICI per gli anni dal 2004 al 2006, avendo potuto verificare, solo allora, che lo stato di
fatto legittimava tale richiesta.
Quanto alla contestazione di aver colposamente ignorato le novità introdotte dal DL n.
262 del 2006, si osserva che le conseguenze della violazione della norma in questione
sarebbero state ingiustificatamente eccessive e che sarebbe stato opportuno e doveroso,
da parte degli organi di vertice della Provincia, attivare un’interlocuzione con gli organi di
vertice dell’Amministrazione Comunale per la disapplicazione, totale o almeno parziale,
delle sanzioni, così come consentito dalla normativa tributaria vigente.
Viceversa, la deliberazione del Consiglio provinciale ha considerato fondate le pretese del
Comune senza sottoporle ad adeguato vaglio, non consentendo al presunto responsabile
di relazionare in merito e senza neppure tentare un accordo tra le due amministrazioni
che avrebbe potuto evitare il noto epilogo. Al riguardo, si osserva che in altre analoghe
fattispecie, verificatesi nei confronti di altri Comuni, la Provincia di Sassari dovette
rettificare la liquidazione dell’ICI relativa agli anni 2007 - 2008 – 2009, senza però che
venisse irrogata alcuna sanzione alla Provincia da parte dei Comuni interessati.
Con riferimento all’errore di calcolo, si replica che non sarebbe possibile né proficuo
demandare al Dirigente in persona il dettaglio di ogni singola operazione, essendo
viceversa proprio del ruolo dirigenziale il coordinamento e la sovraintendenza del
corretto funzionamento dei servizi affidati attraverso il personale assegnato, inquadrato
gerarchicamente per l’ottimale svolgimento delle attività e responsabilizzato per il ruolo a
ciascuno assegnato.
Infine, si sostiene che, in base alla nozione di “finanza pubblica allargata”, non dovrebbe
sussistere danno erariale laddove all’esborso effettuato da un’Amministrazione pubblica
corrisponda un conseguente introito di un’altra Amministrazione pubblica, realizzandosi
un mero spostamento di somme all’interno di una finanza sostanzialmente unitaria.
L’assunto troverebbe conferma nella prevalente giurisprudenza e sarebbe confortato
dall’art. 1, comma 1 bis della l. n. 20 del 1994, nella formulazione modificata dall’art. 17,
comma 4 ter [rectius: 30-quater ] del DL n. 78 del 2009, modifica peraltro che si sarebbe
limitata ad esplicitare una disciplina già implicita nel sistema, speculare con il disposto del
comma 4 dell’art. 1 L. n. 20/1994 che consente al PM contabile di chiedere il
risarcimento anche dei danni subiti da enti diversi da quelli di appartenenza del
danneggiante.
Peraltro, nel caso specifico, vi sarebbe anche da considerare, stante il rapporto tra le
amministrazioni coinvolte, che le risorse trasferite dall’uno all’altro ente locale sono
rimaste, in effetti, nello stesso territorio amministrato dalla Provincia di Sassari,
probabilmente impiegate in fini di pubblica utilità non estranei allo stesso stabilimento di
Casteldoria. Non si sono arricchiti terzi privati ed è lecito supporre che, per tale vicenda,
le comunità amministrate non abbiano subito svantaggio alcuno, derivante da lucro
cessante o da danno emergente.
Nell’udienza del 2 dicembre 2015, fissata per la discussione della causa, sia il difensore del
convenuto che il Pubblico ministero hanno integralmente confermato le rispettive
conclusioni.
DIRITTO
La Sezione deve esaminare preliminarmente l’eccezione difensiva relativa all’inesistenza
di un danno risarcibile o, come appare più corretto affermare, alla compensazione del
danno subito dalla Provincia di Sassari con il connesso vantaggio conseguito dal Comune
di Santa Maria Coghinas.
Come è noto, il principio della cd. compensatio lucri cum damno, di origine giurisprudenziale,
è stato espressamente codificato nel giudizio di responsabilità amministrativa dall’art. 1,
comma 1 bis della legge n. 20/1994, aggiunto dalla legge n. 639/1996.
La norma, nella sua formulazione originaria, prevedeva che “nel giudizio di responsabilità,
fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti
dall’amministrazione o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori
o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità”.
La tesi avanzata dalla difesa, secondo cui tale compensazione dovrebbe operare anche
nell’ipotesi in cui danni e vantaggi siano riferibili ad amministrazioni diverse, era stata
fatta propria da una parte della giurisprudenza di questa Corte, la quale aveva fatto
essenzialmente riferimento al concetto di finanza pubblica allargata (ex multis, v. Sezione
giurisdizionale Campania, n. 1314 del 19/07/2004; Sezione giurisdizionale Trento, n. 18
del 16/03/2009).
Secondo tale orientamento, si avrebbe un danno risarcibile solo quando, ad esito del
raffronto tra il danno subito da una pubblica amministrazione e il vantaggio conseguito
da altra pubblica amministrazione, conseguenze entrambi della medesima condotta
ascritta al convenuto, il primo risulti di entità superiore al secondo.
Altra giurisprudenza escludeva invece la compensazione in questione, dando
un’interpretazione più restrittiva della norma.
Si affermava così che il vantaggio valutabile dovesse essere conseguito dalla “stessa
amministrazione” danneggiata e non dalla finanza pubblica nel suo complesso e dalla
“collettività amministrata” e non quindi dalla collettività indifferenziata dei cittadini,
talché non sarebbe stato consentito di valorizzare un’eventuale compensatio lucri cum
damno nell’ambito della “finanza pubblica allargata” (così Sezione giurisdizionale
Sardegna, n. 647 del 10/11/2005; in senso conforme, Sezione giurisdizionale Molise, n.
38 del 07/02/1996).
Secondo quanto ritenuto dalla Sezione seconda centrale d’appello (sentenza n.
399 del 21/12/2001), invece, la tesi della compensabilità tra danni e vantaggi riferibili a
enti diversi, ma facenti parte del sistema della finanza pubblica allargata avrebbe perso
consistenza proprio dopo l’entrata in vigore delle leggi di riforma degli anni ‘90. In
particolare, sarebbe stato significativo che la normativa in questione “considerasse
espressamente il danno a soggetto diverso dall’ente di appartenenza, in vario modo regolandolo, il
che[avrebbe dimostrato] che il legislatore non ha accolto quella tesi unitaria, e ha preso in
considerazione il danno con riferimento al singolo soggetto”.
La questione deve essere riesaminata alla luce della modifica introdotta al comma 1 bis
citato dall’art. 17, comma 30-quater, lettera b) del D.L. 1 luglio 2009, n. 78, nel testo
integrato dalla legge di conversione 3 agosto 2009, n. 102, il quale ha previsto che il
giudice
contabile
debba
tenere
conto,
oltre
che
dei
vantaggi
conseguiti
dall’amministrazione di appartenenza, anche di quelli ottenuti “da altra amministrazione”.
Ad avviso della Sezione, dopo l’entrata in vigore di detta modifica non si possono ormai
nutrire più dubbi circa il chiaro intento del legislatore di fare propria la tesi favorevole
all’applicazione estensiva della compensatio, nel senso indicato dal primo degli indirizzi
giurisprudenziali sopra richiamati.
Quanto agli effetti della novella nel tempo, la giurisprudenza che si è pronunciata nel
senso suddetto si è orientata a riconoscerne l’immediata applicabilità in ragione di una
sua, sia pure implicita, valenza interpretativa (così Sezione giurisdizionale Sicilia, n. 1477
del 02/07/2010; Sezione giurisdizionale Lombardia, n. 234 del 30/12/2014), o, in
alternativa, processuale (Sezione terza centrale di appello, n. 326 del 04/04/2011).
In ogni caso, deve ritenersi che la disposizione, quand’anche se ne affermasse la natura
innovativa e sostanziale, trovi applicazione nel caso in discussione, posto che, sebbene la
condotta addebitata al convenuto sia stata tenuta in epoca precedente, l’illecito si è però
perfezionato successivamente, con il pagamento, a carico del bilancio della Provincia,
delle somme contestate.
Ciò detto, vanno ora esaminati gli effetti dell’applicazione della norma nel caso specifico.
Premesso che l’esborso delle somme in questione ha sicuramente costituito un danno per
l’erario provinciale, ci si deve chiedere se e in che misura l’erario del Comune ne abbia
tratto un correlato vantaggio (nel presupposto, che appare evidente, che entrambi, il
danno e il vantaggio, sarebbero causalmente conseguenti alla medesima condotta
imputata al convenuto).
La risposta, con riguardo ai pagamenti per interessi e spese di notifica, deve essere
negativa.
Se il vantaggio di cui si discute è da intendere come incremento netto del patrimonio
dell’ente che ne beneficia, appare indiscutibile che le somme percepite a detti titoli dal
Comune di Santa Maria Coghinas non possano essere considerate a tale stregua,
trattandosi o di rimborsi di spese sostenute per la comunicazione degli avvisi di
accertamento (nel caso delle spese di notifica) ovvero di risarcimento per il danno
derivato dal ritardato introito dell’imposta (nel caso degli interessi, di evidente natura
moratoria).
Per quanto riguarda questi ultimi, va soggiunto, per completezza, che il danno subito
dalla Provincia di Sassari per il loro pagamento non può ritenersi compensato neppure da
un correlato vantaggio per il medesimo ente, in relazione al fatto che le somme da
destinare al pagamento dell’ICI sono uscite con ritardo dal bilancio della Provincia. E ciò
non perché tale evenienza, peraltro neppure allegata dal convenuto, sia da escludere in
assoluto, ma in quanto non è stata data, né emerge comunque dagli atti, la prova che tale
vantaggio si sia concretamente verificato né, eventualmente, quale ne sia stata la misura.
A conclusione opposta si deve invece pervenire con riguardo al pagamento delle
sanzioni.
In tal caso, infatti, non può negarsi che la relativa entrata costituisca un vantaggio (nel
senso sopra definito) per il bilancio comunale, non potendo la stessa essere considerata (a
differenza delle altre due) in alcun modo compensativa di una precedente deminutio.
Vi è da dire, peraltro, che la scarna giurisprudenza formatasi successivamente all’entrata
in vigore della modifica dell’art. 1, comma 1 bis della legge n. 20/1994 che ha preso in
esame casi di danno derivato dal pagamento di sanzioni amministrative, pur non
disconoscendo quanto testé affermato in ordine alla sussistenza del vantaggio per l’ente
che le ha percepite, ha però escluso la compensazione di cui si discute (v. Sezione
giurisdizionale Sicilia, n. 2453 del 28/06/2011; Sezione giurisdizionale Calabria, n. 210
del 12/06/2013; Sezione giurisdizionale Lazio, n. 164 del 17/02/2014). Secondo Sezione
giurisdizionale Lazio, n. 493 del 10/05/2012, la compensazione non sarebbe da
escludere in toto, ma essa non potrebbe operare nella sua integralità, dovendosi tenere
conto della natura complessa della responsabilità amministrativa, nella quale
coesisterebbero
una
funzione
compensativo-risarcitoria
con
altra
repressivo-
sanzionatoria.
Conseguentemente, sarebbe compito del Giudice contabile, nel caso concreto, “scomputare
dalla quota di responsabilità degli amministratori per l’avvenuto pagamento di sanzioni amministrative,
non automaticamente l’intero danno, ma solo quella parte di danno che l’esame della fattispecie consentirà
di ritenere addebitale sotto il profilo sanzionatorio agli amministratori, tenendo conto dell’irredimibile ed
ingiustificata sottrazione di risorse al soggetto amministrato”.
In effetti, la motivazione che accomuna le pronunce sopra citate è proprio quella della
natura (anche) sanzionatoria della responsabilità amministrativa, la quale, si afferma,
sarebbe ingiustificatamente sacrificata ove si accedesse alla tesi della compensabilità
integrale tra danno e vantaggio.
In tal caso, infatti, secondo la cit. sentenza n. 2453/2011 della Sezione Sicilia, “si finirebbe
per depotenziare l’azione di deterrenza dell’istituto, elevando, oltre la soglia del tollerabile, moduli
operativi sciatti, non improntati alla massima cura delle risorse gestite.
L’idea che il non pagare tempestivamente le imposte che gravano sull’ente non integra una condotta
dannosa quando c’è un ente diverso che dalla scarsa solerzia trae beneficio, mortifica la finalità della
responsabilità amministrativa facendo scadere la fattispecie ad un livello nel quale diventa lecito dubitare
della sua permanente utilità”.
Ad avviso della Sezione, la tesi, per quanto suggestiva, non è tuttavia condivisibile.
Va ricordato che la giurisdizione di questa Corte in materia di responsabilità
amministrativa si distingue nettamente da quella puramente sanzionatoria, relativa a
fattispecie determinate, espressamente e previamente individuate dal legislatore (v. ad es.
art. 30, comma 15 l. n. 289/2002).
Infatti, sin dall’origine (v. artt. 81-83 della legge di contabilità generale dello Stato),
elemento essenziale della responsabilità amministrativo-contabile è stato il danno recato
all’erario pubblico.
La necessità che la responsabilità conseguisse alla produzione di un danno ha finito per
essere affermata perfino in casi nei quali la normativa non faceva alcun riferimento ad
esso.
Si allude alla cd. responsabilità formale, prevista per l’inosservanza dei precetti contenuti
negli artt. 252-253 del previgente T.U. della legge comunale e provinciale approvato con
r.d. 03/03/1934, n. 383.
Secondo una risalente giurisprudenza (v. ad es. Sezione giurisdizionale Sicilia, n. 6 del
24/06/1955), la citata normativa contemplava casi in cui la responsabilità sorgeva per la
sola violazione delle disposizioni ivi contenute, non essendo consentito al convenuto di
andarne esente dando prova dell’insussistenza del danno o della colpa.
Tale orientamento, pur ampiamente contraddetto (v. ad es. Sezione prima centrale, n. 68
del 29/04/1981, secondo cui anche le citate norme prevedevano una comune forma di
responsabilità patrimoniale fondata sugli elementi della colpa e del danno), era comunque
sopravvissuto sino alla sentenza della Corte costituzionale n. 72 del 08/03/1983, la quale
dichiarò la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 252
nell’interpretazione più rigorosa osservando per l’appunto che, in base al “diritto
vivente”, la responsabilità in esame consisteva nella normale responsabilità patrimoniale
fondata sui requisiti del danno e dell’elemento psicologico.
Anche prima della citata pronuncia della Corte costituzionale, la dottrina (come riportato
nella stessa sentenza) aveva avversato il primo dei citati indirizzi giurisprudenziali sotto
profili plurimi.
Intanto, si era osservato che l’assunto della irrilevanza dell’elemento del danno (che
comportava anche il rifiuto di valutare eventuali utilità per l’ente locale conseguenti agli
atti adottati, formalmente illegittimi) produceva effetti distorsivi sulla funzionalità del
sistema, essendosi verificato che i soggetti condannati dalla Corte dei conti finivano poi
per citare l’ente locale innanzi al giudice ordinario chiedendone (e non di rado
ottenendone) la condanna al pagamento della somma corrispondente all’utilità di cui
l’ente pubblico si fosse arricchito (spesso di importo pari a quello della spesa per cui vi
era stata condanna da parte del giudice contabile).
In secondo luogo, si rilevava che, così interpretata, la norma finiva per configurare una
responsabilità di tipo puramente sanzionatorio, con rilevanti e conseguenti sospetti di
incostituzionalità derivanti dalla violazione del principio di legalità (art. 25, comma 2 della
Costituzione), mancando la previa fissazione della sanzione da parte del legislatore.
Nel caso in esame, vi è da dire che il contrasto con il precetto costituzionale sarebbe
persino più grave, in quanto difetterebbe, ancor prima, la previsione della condotta
vietata, che di fatto verrebbe ad essere frutto di creazione giurisprudenziale.
E’ appena il caso di sottolineare che il legislatore ha espressamente imposto
l’applicazione della norma sulla compensazione (non essendo consentito al giudice di
stabilire discrezionalmente se e in che misura operarla) proprio nell’ambito del giudizio di
responsabilità amministrativa, a conferma, se pure ve ne fosse stato bisogno, della
centralità dell’elemento del danno.
E’ pur vero, come sottolineato in alcune sentenze che hanno negato la compensazione,
che la natura anche sanzionatoria della responsabilità amministrativa è stata riconosciuta
dallo stesso giudice costituzionale a seguito delle riforme degli anni ‘90. Il riferimento è
alla nota sentenza n. 371 del 20/11/1998 della Corte costituzionale che ha evidenziato la
nuova conformazione dell’istituto della responsabilità amministrativo-contabile, in cui
confluiscono elementi restitutori e di deterrenza.
Tuttavia, ad avviso della Sezione, l’affermazione non giustifica l’interpretazione data dalle
sentenze citate.
In disparte il fatto che (ad eccezione della sentenza del Lazio n. 493/2012 cit.) le sentenze
in questione, preoccupandosi di salvaguardare la funzione di deterrenza, finiscono per
pretermettere totalmente quella restitutoria, istituendo di fatto una gerarchia tra i due
elementi in questione di cui non si comprende il criterio ispiratore, appare più corretto
ritenere che la componente sanzionatoria della responsabilità amministrativa si esprima
piuttosto nel senso di consentire al giudice di modulare l’importo della condanna (che è
sempre ad un risarcimento), facendolo coincidere con quello del danno erariale o
riducendone l’entità, in ragione di vari fattori, tra i quali il grado di riprovevolezza della
condotta, l’evenienza di un illecito arricchimento del responsabile, ecc..
La stessa sentenza della Corte costituzionale cit., quando aveva precisato che la
disposizione ingiustamente sospettata di incostituzionalità (che aveva generalizzato la
limitazione della responsabilità amministrativa ai soli casi di condotta dolosa o
gravemente colposa) rispondeva “alla finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba
restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale
da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di
stimolo, e non di disincentivo”, aveva chiaramente inteso, parlando di ripartizione del rischio,
alludere alle conseguenze dannose delle condotte dei dipendenti pubblici, riecheggiando
argomenti proposti dalla migliore dottrina a giustificazione del cd. potere riduttivo.
Si obietta, come nella cit. sentenza n. 2453/2011 della Sezione Sicilia, che, così
interpretata, la norma sulla compensazione finirebbe per incentivare condotte di
ingiustificata inerzia da parte dei pubblici funzionari.
Ma è facile replicare che l’argomento prova troppo, essendo innumerevoli le fattispecie in
cui condotte siffatte, o persino peggiori, sfuggono alla cognizione del giudice contabile
proprio perché non hanno generato, anche a prescindere dall’operare di qualsivoglia
compensazione, un danno erariale.
Aggiungasi che non è dato comprendere in base a quale criterio, se la non applicazione
della compensazione viene giustificata in ragione della natura particolarmente
biasimevole della condotta censurata o della natura del precetto violato dal dipendente
pubblico, si possa invece pervenire ad un’opposta conclusione in altri casi (come quello
esaminato dalla Sezione Lombardia nella cit. sentenza n. 234/2014, nel quale l’inerzia del
funzionario non è stata certo meno grave e le conseguenze, sul piano del danno inferto
all’ente di appartenenza, consistito nella perdita di un credito per prescrizione, si sono
rivelate persino di entità più ragguardevole rispetto a casi rientranti nel primo gruppo).
Non c’è dubbio che la norma, se interpretata nel senso indicato da questa Sezione, possa
indurre a sospetti di irragionevolezza, determinando una compromissione delle ragioni
creditorie dell’ente danneggiato che potrebbe apparire ingiustificata.
Tuttavia, considerato l’ormai consolidato orientamento della Corte costituzionale, la
quale ritiene che il legislatore goda di ampia discrezionalità nel disciplinare l’istituto della
responsabilità amministrativa, la relativa questione di legittimità costituzionale va reputata
manifestamente infondata, potendosi ritenere non irragionevole che si sia considerato
opportuno limitare tale responsabilità solo ai casi in cui la condotta illecita abbia
determinato una lesione alla finanza pubblica nel suo complesso (fermo restando,
ovviamente, che tale condotta può sempre essere sanzionata in altra sede e per altri
aspetti).
Per quanto detto, l’eccezione va quindi accolta per la componente del danno contestato
costituita dal pagamento delle sanzioni. Il che, per incidens, esime la Sezione dall’esaminare
le questioni sollevate dalla difesa circa la possibilità, che la Provincia avrebbe
colpevolmente trascurato di esplorare, di ottenere dal Comune la non irrogazione delle
stesse o una loro riduzione.
Per il resto, la domanda attrice va ritenuta fondata.
Sul piano strettamente causale non è in dubbio che il danno subito dalla Provincia di
Sassari sia conseguenza della condotta del convenuto, il quale aveva il compito di
emettere l’atto con il quale si approvava l’elenco dei beni di proprietà dell’ente soggetti al
pagamento dell’imposta, con indicazione, per ciascuno di essi, dell’importo da pagare (in
acconto e a saldo).
Per quanto concerne il periodo dal 2004 al 2006, si imputa al convenuto di aver omesso
di riportare in detto elenco il bene di cui si discute, nonostante lo stesso fosse
pacificamente compreso nel patrimonio immobiliare della Provincia sin da molti anni
addietro. Si afferma che il convenuto, pur attingendo da dati predisposti da altri
(segnatamente dal Servizio patrimonio, compreso nel Settore da lui diretto), avrebbe
avuto il dovere di accertarne l’esattezza, verificando la “completezza dell’attività istruttoria
propedeutica compiuta dai collaboratori” (v. pag. 6 della citazione).
Per contro, la difesa obietta che, in assenza di indizi che potessero ragionevolmente
indurre il dirigente a dubitare della correttezza dell’elenco (il quale, conforme a quelli
approvati dai suoi predecessori, era stato predisposto dal medesimo personale del
Servizio Patrimonio, addetto a tale compito da ben prima che egli assumesse l’incarico
dirigenziale), non sarebbe stato possibile per l’interessato accorgersi dell’errore
commesso.
La tesi del Procuratore regionale, in termini assoluti, non sarebbe condivisibile, perché
finirebbe per esigere dal convenuto un livello di diligenza superiore a quello minimo, la
cui violazione sola integra il requisito di legge della colpa grave.
Non appare infatti possibile che un dirigente, tanto più quando sia posto a dirigere un
settore complesso, cui fanno capo più servizi, sia concretamente in grado di accertare la
correttezza di ogni provvedimento portato alla sua firma.
Ciò detto, vero è però che non si deve cadere nell’eccesso opposto di ritenere lo stesso
dirigente sempre esente da responsabilità solo perché, come quasi sempre avviene, del
resto, adotta provvedimenti la cui istruttoria sia curata da altri, in quanto, così opinando,
si finirebbe per prevedere una troppo ampia area di esenzione da responsabilità in
relazione ad atti che ricadono comunque nella sua sfera di competenza.
Come impone la stessa previsione della colpa grave, l’indagine sull’esistenza e sul grado
dell’eventuale negligenza del convenuto va quindi compiuta non prendendo a riferimento
un modello astratto di condotta, o troppo rigoroso o troppo indulgente, ma in concreto,
tenendo conto delle specifiche circostanze di fatto nel cui contesto la condotta censurata
si è svolta.
Nel caso di specie, va osservato che, in tutto l’arco di tempo (tre anni) in cui l’interessato
ha adottato gli atti da cui è derivato il danno di cui si discute non è mai stata effettuata
alcuna ricognizione del compendio immobiliare della Provincia. Ricognizione che venne
eseguita solo nel 2007 e ad iniziativa non del convenuto, bensì del nuovo responsabile del
Servizio Patrimonio (nominato ad agosto di quell’anno), evidentemente allertato dal fatto
che il Comune di Sassari avesse reclamato il pagamento dell’imposta per un bene che non
era mai stato incluso tra quelli assoggettati all’ICI (la vicenda è stata riferita dallo stesso
convenuto nelle deduzioni all’invito, v. in part. fgl. 148-149 del fascicolo depositato dalla
Procura regionale).
Tale ricognizione portò alla luce uno stato di gravissima lacunosità dei precedenti elenchi
ICI (come riconosciuto dallo stesso convenuto, v. supra), posto che non solo emerse la
pretermissione dell’immobile sito nel territorio del Comune di Sassari e delle terme di
Casteldoria, ma venne riscontrato che erano stati omessi anche numerosi altri immobili
ricadenti nel territorio di diversi Comuni della Provincia.
L’ampia distanza tra la situazione del patrimonio immobiliare pre-ricognizione e quella
post-ricognizione è facilmente apprezzabile ponendo a raffronto una determinazione
adottata nel primo periodo con l’elenco dei beni aggiornato allegato alla determinazione
n. 379/GM del 17/12/2007 (v. fgl. 47 e sgg. del fascicolo di Procura).
In sostanza, è emerso che per tutto il periodo in esame il Settore cui era preposto il
convenuto tralasciò di curare un compito essenziale (non solo ai fini che interessano),
così consentendo il perpetuarsi di un gravissimo inadempimento degli obblighi tributari
dell’ente. E proprio da tale circostanza che emerge inequivocabilmente la colpa grave del
MELA.
La fiducia che un dirigente ripone nella correttezza dei dati fornitigli dai propri
collaboratori può al più essere giustificata nell’immediatezza dell’assunzione dell’incarico.
Successivamente, egli ha il dovere di assicurarsi che l’apparato svolga i compiti e curi
l’istruttoria delle pratiche di propria competenza in maniera corretta ed efficiente,
diramando apposite direttive e verificandone l’osservanza.
Nel caso specifico, non sarebbe dovuta sfuggire al dirigente la necessità di curare la
periodica ricognizione del patrimonio immobiliare dell’ente, essendo evidente (anche a
prescindere dall’esistenza della situazione ampiamente patologica di cui si è detto) che lo
stato patrimoniale non è un dato immutabile nel tempo, ma può subire variazioni (a
questo riguardo, occorre ricordare che l’art. 230, comma 7 del TUEL n. 267/2000
prevede espressamente che gli enti locali provvedano annualmente all’aggiornamento
degli inventari).
Solo dopo aver accertato che il Servizio preposto, cioè quello del Patrimonio, provvedeva
periodicamente a detto aggiornamento, egli avrebbe, allora sì, potuto ragionevolmente
confidare nell’attendibilità dei dati che gli venivano forniti (salvo al più procedere
occasionalmente a qualche riscontro).
Viceversa, non essendosi mai preoccupato di effettuare alcuna verifica (cosa che gli
avrebbe permesso di constatare che tale aggiornamento non veniva curato e anzi, in
realtà, era stato assai gravemente trascurato, come si è visto), egli non avrebbe mai
dovuto acriticamente e supinamente sottoscrivere le determinazioni in questione,
dovendo comprendere l’elevato rischio di commettere in tal modo errori anche gravi.
Inquadrata nel contesto della situazione di fatto che si è appena descritta, la
contestazione dell’attore appare pertanto pienamente fondata e da condividere.
Anche l’ulteriore argomento difensivo è privo di consistenza.
Si afferma che la mancata inclusione del bene in questione negli elenchi di quelli
assoggettati all’ICI sarebbe stata dovuta ad errore scusabile indotto dallo stato di ampio
dissesto in cui si era trovato l’edificio termale sino a quando non erano stati completati i
lavori di ristrutturazione durati parecchi anni e della cui conclusione il convenuto non era
mai stato informato sino al 2007.
La tesi è da rigettare per due ragioni.
In primo luogo, posto che la Provincia ha dato corso, sia pure con ritardo, al pagamento
dell’imposta anche per gli anni dal 2004 al 2006, deve evincersene che, se fosse stata
quella affermata dalla difesa la ragione dell’omesso pagamento, evidentemente,
comunque, quanto meno dal 2004 doveva essere venuta meno, per essere stati conclusi i
suddetti lavori di ristrutturazione. E allora è facile obiettare che ciò sarebbe stato
facilmente constatabile ove si fosse proceduto alla ricognizione del patrimonio di cui si è
ampiamente detto sopra.
Ma vi è un’altra e più valida ragione per ritenere infondata la tesi difensiva.
Infatti, la circostanza che il bene fosse inagibile non lo avrebbe affatto esentato dal
pagamento dell’ICI, potendo la stessa determinare solo una riduzione del 50%
dell’imposta (v. art. 8 del d. l.vo 30/12/1992, n. 504). E’ del tutto evidente, quindi, che
anche un eventuale errore riguardante lo stato di inagibilità dell’edificio non avrebbe
giustificato la completa omissione del bene dagli elenchi ma solo, al limite, un errore nel
calcolo dell’imposta dovuta.
Quanto alla tesi adombrata dal difensore per la prima volta in udienza, secondo cui il
bene, in quanto destinato a usi sanitari, sarebbe stato del tutto esente dal pagamento
dell’imposta, va detto che il Comune, negli avvisi di accertamento, incluse l’immobile
nella categoria B/2, riguardante le case di cura ed ospedali (senza fine di lucro), beni
quindi pacificamente soggetti all’imposta, senza che la Provincia (in persona anche
dell’odierno convenuto) avanzasse alcuna obiezione al riguardo. Obiezione che peraltro
non sarebbe stata comunque fondata, non rientrando l’edificio in questione in alcuna
delle categorie esentate dal pagamento dell’imposta, ai sensi dell’art. 7 del cit. d. l.vo 504.
Per quanto concerne l’addebito relativo al pagamento, per gli anni 2007 e 2008, di
un’imposta inferiore a quella dovuta, il calcolo errato dell’imposta è stato causato
dall’aver omesso di prendere atto della modifica normativa recata dall’art. 2, comma 45
del decreto legge 03/10/2006, n. 262, nel testo sostituito dalla legge di conversione
24/11/2006, n. 286, per effetto del quale, a decorrere dal 1° gennaio 2007, le rendite
catastali dei fabbricati classificati nel gruppo catastale B dovevano essere aumentate, con
conseguente incremento dell’imposta.
La gravità della colpa deve ritenersi risieda innanzi tutto nell’avere ignorato una
innovazione normativa riguardante la materia tributaria, avente diretta incidenza sulla
corretta determinazione dell’imposta, il cui calcolo, per gli immobili della Provincia,
rientrava proprio nelle attribuzioni del Settore diretto dal convenuto.
Tenuto conto del grado di diligenza che deve osservare un dirigente pubblico, il quale ha
il preciso dovere di rimanere aggiornato sulle innovazioni normative, soprattutto quando
esse riguardino le materie ad esso attribuite, la circostanza costituisce sintomo di grave
negligenza, tanto più ove si consideri che la norma ha continuato ad essere ignorata per
due anni, sino a quando il Comune interessato ha contestato l’errore commesso nella
quantificazione del tributo indicata nei provvedimenti adottati dal convenuto.
Questi, se fosse stato a conoscenza della norma, avrebbe innanzi tutto dovuto verificare
che la stessa fosse applicata dai propri collaboratori. Avrebbe potuto comunque
constatare agevolmente l’errore commesso dalla struttura preposta senza necessità di
rifare personalmente i relativi calcoli, essendo sufficiente verificare che l’importo dell’ICI
indicato per gli anni in questione non era modificato rispetto agli anni precedenti,
circostanza questa che sarebbe stata evidentemente impossibile dopo l’entrata in vigore
della disposizione.
Per le ragioni esposte, la domanda attrice va ritenuta fondata, con riguardo al danno
risarcibile, da quantificare nella complessiva somma di euro 3.317,91.
Dovendosi tuttavia tenere conto del concorso dell’apparato amministrativo nella
produzione del danno, la condanna del convenuto va equitativamente limitata al 70%
della somma sopra indicata, ovverosia euro 2.322,54.
Sulle somme per cui è condanna è dovuta la rivalutazione monetaria sulla base dell’indice
ISTAT, calcolata dalla data di ogni singolo pagamento effettuato dalla Provincia (ridotto
alla percentuale sopra indicata) e sino alla data della presente sentenza. Sono altresì
dovuti gli interessi in misura legale, calcolati sulla somma rivalutata a decorrere dalla data
della presente sentenza e sino al pagamento.
La condanna alle spese del giudizio, liquidate in dispositivo, segue la soccombenza.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Sardegna, definitivamente
pronunciando, condanna Giuseppe MELA al pagamento, in favore della Provincia di
Sassari, della somma di € 2.322,54 (diconsi euro duemilatrecentoventidue e
cinquantaquattro centesimi), oltre a rivalutazione monetaria e interessi legali da calcolare
come indicato in parte motiva.
Condanna il suddetto convenuto al pagamento, in favore dello Stato, delle spese del
giudizio, che sino alla presente sentenza, si liquidano in euro 298,96
(diconsi euro duecentonovantotto/96).
Così deciso in Cagliari, nella camera di consiglio del 2 dicembre 2015.
L’ESTENSORE
CANU
IL PRESIDENTE f.to Antonio Marco
f.to Cristina ASTRALDI
Depositata in Segreteria il 15 gennaio 2016.
Il Dirigente
f.to Paolo Carrus