La trama dEL matrimonio - Le storie che ci piacciono

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La trama dEL matrimonio - Le storie che ci piacciono
Jeffrey Eugenides
La trama
del matrimonio
Romanzo
Traduzione di Katia Bagnoli
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Dello stesso autore
in edizione Mondadori
Le vergini suicide
Middlesex
Le citazioni di Roland Barthes sono tratte da Frammenti di un discorso
amoroso, traduzione di Renzo Guidieri, Einaudi, Torino 1979.
La trama del matrimonio
di Jeffrey Eugenides
Collezione Scrittori italiani e stranieri
ISBN 978-88-04-61358-9
Copyright © 2011 by Jeffrey Eugenides
© 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale
The Marriage Plot
I edizione ottobre 2011
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La trama del matrimonio
Ai coinquilini
Stevie e Moo Moo
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Nessuno si innamorerebbe se non
avesse mai sentito parlare dell’amore.
François de La Rochefoucauld
And you may ask yourself, Well, how did
I get here?…
And you may tell yourself,
This is not my beautiful house.
And you may tell yourself,
This is not my beautiful wife.
Talking Heads
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Un pazzo innamorato
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Guardiamo i libri, per cominciare. C’erano i romanzi di
Edith Wharton, allineati sullo scaffale non in ordine alfabetico per titolo ma per anno di pubblicazione; c’era l’opera completa di Henry James della Modern Library, regalo del padre per il suo ventunesimo compleanno; c’erano
i testi con le orecchie alle pagine usati per gli esami, molto Dickens, un assaggio di Trollope, dosi generose di Jane
Austen e George Eliot e delle formidabili Brontë. Un buon
numero di tascabili New Directions con le copertine bianche e nere, soprattutto poetesse come H.D. o Denise Levertov. I romanzi di Colette letti di nascosto. La prima edizione
di Coppie, appartenuta a sua madre, che Madeleine aveva
sfogliato clandestinamente in prima media e ora aveva utilizzato come supporto testuale per la sua tesi di laurea sulla trama del matrimonio. C’era, insomma, questa biblioteca
di medie dimensioni ma ancora trasportabile che riuniva
quasi tutte le letture di quattro anni di college, una raccolta di volumi apparentemente casuale che a poco a poco trovava un senso, come uno di quei complicati test della personalità che non ti permettevano di barare prevedendo le
implicazioni delle domande, e dove ti smarrivi al punto
che l’unica soluzione era rispondere la verità. E poi aspettavi, sperando che il responso fosse “Artista” o “Passionale”, pensando di poter sopportare “Sensibile” mentre in
segreto temevi “Narcisista” e “Casalinga”, per ottenere in11
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fine un risultato a doppio taglio che ti faceva sentire diversa a seconda del giorno, dell’ora o del ragazzo con cui stavi: “Inguaribile Romantica”.
Questi erano i libri nella stanza dove Madeleine giaceva, con un cuscino sulla testa, la mattina della cerimonia
di laurea. Li aveva letti tutti fino all’ultimo, spesso più volte, sottolineando molti brani, ma adesso non le erano di alcun aiuto. Tentando di ignorare la stanza e ciò che conteneva, Madeleine sperava di eclissarsi nell’oblio che l’aveva
protetta nelle ultime tre ore. Un qualsiasi grado di lucidità l’avrebbe costretta ad affrontare alcuni fatti incresciosi:
la quantità e la varietà di alcolici, per esempio, consumati
nottetempo, e l’essersi addormentata senza togliere le lenti a contatto. Pensare a simili dettagli le avrebbe ricordato i
motivi che l’avevano spinta a bere, e questa era l’ultima cosa
che voleva. Perciò Madeleine sistemò il cuscino in modo da
nascondere la luce del mattino e cercò di riaddormentarsi.
Un tentativo inutile, perché in quel preciso momento
dall’altra parte della casa suonò il campanello.
Inizi di giugno a Providence, Rhode Island. Il sole era già
sorto da un paio d’ore e illuminava la baia grigia e le ciminiere della Narragansett Electric, alzandosi nel cielo come
il sole dal volto sagace che simboleggiava la sapienza nello
stemma della Brown University riprodotto sugli stendardi e gli striscioni che coprivano ogni angolo del campus.
Ma se, con pessimismo battista, i fondatori dell’università
avevano voluto raffigurare la luce della conoscenza insidiata da un manto di nubi, a indicare che l’ignoranza non
era ancora stata bandita dal regno degli uomini, il sole su
Providence sconfiggeva l’astro metaforico aprendosi un
varco tra le nuvole per inviare sulla terra i suoi raggi frammentati, ridando ai plotoni di genitori intirizziti da un fine
settimana freddo e piovoso la speranza di una giornata di
festa non rovinata da un maltempo fuori stagione. Splendeva su tutta College Hill, sui giardini geometrici delle dimore georgiane, sui cortili profumati dalle magnolie degli
edifici vittoriani, sui marciapiedi di mattoni, sulle nere re12
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cinzioni di ferro battuto che sembravano uscite da un fumetto di Charles Addams o da una storia di Lovecraft, di
fronte agli studi della Rhode Island School of Design, dove
uno studente che si laureava in arti figurative rimasto alzato l’intera notte diffondeva a tutto volume la musica di Patti
Smith. Si rifletteva sugli strumenti (rispettivamente bassotuba e tromba) di due membri della banda dell’università
che, arrivati presto al punto di raccolta, si guardavano intorno inquieti chiedendosi dove fossero finiti tutti gli altri,
illuminava il lastricato delle stradine secondarie che scendevano verso il fiume inquinato e splendeva su ogni pomello d’ottone, su ogni ala d’insetto e su ogni filo d’erba. E
di concerto con la repentina inondazione di luce, come fosse il colpo sparato dallo starter per dare inizio alle attività, nell’appartamento del quarto piano il campanello gracchiò, penetrante, insistente.
La vibrazione la colpì più come una sensazione che un
suono, una scossa elettrica lungo la spina dorsale. Scostò il
cuscino di scatto e si mise seduta sul letto. Madeleine sapeva chi stava suonando. Erano i suoi genitori. Aveva appuntamento con Alton e Phyllida alle sette e mezzo, per fare
colazione insieme. L’accordo risaliva ad aprile, due mesi prima, ed eccoli lì, efficienti e affidabili, all’ora stabilita. Non
c’era nulla di strano o di sbagliato nel fatto che fossero venuti in automobile dal New Jersey per assistere alla cerimonia di laurea e festeggiare, con loro legittima soddisfazione,
la conquista di quel traguardo. Il problema era che per la
prima volta in vita sua Madeleine non voleva avere niente
a che fare con tutto ciò. Non era fiera di se stessa. Non era
in vena di festeggiare. Aveva perso ogni fede nel significato di quel giorno e in ciò che rappresentava.
Considerò la possibilità di non rispondere. Ma in tal caso
l’avrebbe fatto una delle sue coinquiline, e allora avrebbe
dovuto spiegare dov’era andata a finire, la sera prima, e
con chi. Perciò, seppure a malincuore, si alzò.
Per un momento le sembrò di poter stare in piedi. Si sentiva la testa stranamente leggera, vuota. Poi il sangue che
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defluiva dall’encefalo come sabbia in una clessidra raggiunse la strozzatura e un dolore atroce le fece esplodere il cranio all’altezza della nuca.
Nel bel mezzo di questo bombardamento, come fosse il fulcro di furore che lo scatenava, il campanello riprese a suonare.
Madeleine uscì dalla camera. A piedi nudi e a passi malfermi arrivò fino al citofono e schiacciò il pulsante speak
per far cessare il rumore.
«Sì?»
«Che succede? Non sentivi il campanello?» Era la voce di
Alton, baritonale e autoritaria come sempre, benché uscisse da un piccolo altoparlante.
«Scusa» disse Madeleine. «Ero sotto la doccia.»
«Poco plausibile. Ci fai entrare, per favore?»
Madeleine non voleva che entrassero. Doveva prima
lavarsi.
«Scendo io» disse.
Questa volta tenne premuto il pulsante troppo a lungo e
non sentì la risposta di Alton. Lo premette ancora. «Papà?»
disse, ma dovevano aver parlato contemporaneamente,
perché quando schiacciò il pulsante listen le arrivò soltanto un crepitio.
Madeleine approfittò della pausa nella comunicazione per
appoggiare la fronte allo stipite della porta. Il legno era piacevolmente fresco. Se avesse potuto tenere la testa premuta contro quel legno confortante, pensò, magari quell’orribile dolore sarebbe passato, e se avesse potuto tenere tutto il giorno la
fronte sullo stipite e al tempo stesso uscire, forse ce l’avrebbe fatta, forse sarebbe riuscita a fare colazione con i genitori,
prendere parte al corteo, ritirare la pergamena della laurea.
Madeleine alzò la testa e premette di nuovo il pulsante del citofono.
«Papà?»
Le rispose la voce di Phyllida. «Che cosa succede, Maddy? Apri, su.»
«Le altre dormono ancora. Scendo io. Non suonate più
il campanello, per favore.»
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«Non ci fai vedere la tua casa?»
«Adesso no. Arrivo. Non suonate.»
Madeleine staccò la mano dal citofono e si raddrizzò,
guardandolo con occhi fiammeggianti come per sfidarlo a
riprovarci. Visto che taceva tornò nel corridoio per andare in bagno. Era a metà strada quando Abby emerse dalla
sua camera, bloccandole il passaggio. Sbadigliò, si passò
una mano nella folta chioma e vedendola fece un sorrisetto complice.
«Oh, bene» disse. «Si può sapere dove sei sparita ieri
sera?»
«Sono arrivati i miei» rispose Madeleine. «Dobbiamo andare a fare colazione.»
«Dài, racconta.»
«Non ho niente da raccontare. Sono in ritardo.»
«Allora come mai sei ancora vestita come ieri sera?»
Anziché rispondere Madeleine abbassò gli occhi. Dieci
ore prima, quando si era fatta prestare da Olivia l’abito nero
Betsey Johnson, aveva pensato che le stesse bene. Adesso
era caldo e appiccicoso, il cinturone di cuoio sembrava un
attrezzo sadomaso e vicino all’orlo c’era una macchia che
preferiva non identificare.
Nel frattempo Abby aveva bussato alla porta della camera di Olivia ed era entrata senza aspettare la risposta. «Altro che cuore infranto. Alzati e vieni a vedere!»
Il corridoio era libero. Madeleine aveva un bisogno estremo, quasi patologico, di fare la doccia. Come minimo doveva lavarsi i denti. Quando sentì la voce di Olivia capì che
da un momento all’altro avrebbe subito un doppio interrogatorio. Era probabile che i suoi genitori ricominciassero a suonare il campanello. Camminò all’indietro cercando di non far rumore, infilò i piedi in un paio di mocassini
lasciati accanto alla porta, schiacciando il tallone, ritrovò
l’equilibrio e scappò fuori.
L’ascensore la attendeva in fondo alla passatoia a motivi
floreali. La attendeva perché uscendone barcollante, poche
ore prima, non l’aveva chiuso bene. Ora provvide a spingere
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il cancelletto fino in fondo, schiacciò il pulsante per il piano
terra e con uno scossone l’antico marchingegno cominciò
la sua discesa nella penombra delle viscere dell’edificio.
La casa dove viveva Madeleine, il Narragansett, un castello neoromanico che occupava l’angolo fra Benefit e Church
Street, era stata costruita all’inizio del secolo. L’ascensore
era uno dei dettagli d’epoca sopravvissuti insieme al lucernario con i vetri colorati, ai candelabri a muro d’ottone
e all’atrio di marmo. Gigantesca gabbia per uccelli fatta di
sbarre di metallo curve, l’ascensore continuava miracolosamente a funzionare, ma con estrema lentezza, e Madeleine ebbe il tempo di cercare di rendersi presentabile. Si
sistemò i capelli pettinandoli con le dita. Usò l’indice per
pulirsi i denti. Staccò i grumi di mascara dalle palpebre inferiori e si inumidì le labbra con la lingua. Mentre l’ascensore oltrepassava la balaustra del secondo piano si guardò
nello specchio appeso al pannello dietro di lei.
Uno degli aspetti positivi dell’avere ventidue anni, o
di essere Madeleine Hanna, era che tre settimane di pene
d’amore, seguite da un’epica notte di bevute, non avevano
provocato danni permanenti. A parte gli occhi un po’ gonfi, Madeleine era la bella ragazza bruna di sempre. La simmetria del suo viso – il naso dritto, gli zigomi e la mascella
alla Katharine Hepburn – era di una precisione quasi matematica. Soltanto l’ombra di un solco tra le sopracciglia
tradiva la persona leggermente ansiosa che sapeva di essere, in fondo.
Vide i genitori, intrappolati fra la porta dell’atrio e il portone: Alton con la giacca di lino a righe, Phyllida con un
completo pantalone blu marino e una borsetta intonata con
la fibbia dorata. Per un istante Madeleine provò l’impulso
di fermare l’ascensore e abbandonarli nell’atrio tappezzato da poster di gruppi new wave con nomi come Wretched
Misery o Clits, in mezzo a disegni porno di Egon Schiele
del Risd Museum lasciati dal ragazzo del secondo piano,
nonché a un diluvio di volantini ciclostilati o fotocopiati il
cui sottotesto era che i sani valori patriottici della genera16
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zione dei suoi genitori erano ormai finiti nella discarica della storia, soppiantati da una visione nichilista e post-punk
che nemmeno lei capiva ma volentieri usava per scandalizzarli. Poi l’ascensore si fermò, lei fece scorrere il cancelletto e uscì ad accoglierli.
Il primo a entrare fu Alton. «Eccoti!» disse con passione.
«La nostra laureata!» e si slanciò, come se andasse sotto rete,
per stringerla in un abbraccio. Madeleine si irrigidì. Temeva di avere addosso l’odore dell’alcol o, peggio, del sesso.
«Non capisco perché non hai voluto farci salire» disse
Phyllida entrando a sua volta. «Ci tenevo moltissimo a conoscere Abby e Olivia. Ci farebbe molto piacere invitarle
a cena, stasera.»
«Non ci tratteniamo per la cena» le ricordò Alton.
«Potremmo, volendo. Dipende dagli impegni di Maddy.»
«No, non era nel programma. Secondo il nostro programma facciamo colazione con lei e dopo la cerimonia
ripartiamo.»
«Tuo padre e i suoi programmi» disse Phyllida a Madeleine. «Pensi di metterti quel vestito?»
«Non so» rispose Madeleine.
«Non mi sembrano molto eleganti, queste spalle imbottite che usate voi ragazze. Sono così mascoline.»
«È di Olivia.»
«Sembri distrutta, Mad» disse Alton. «Vi siete dati alla
pazza gioia, ieri sera?»
«Mica tanto.»
«Non hai qualcosa di tuo da mettere?» chiese Phyllida.
«Sopra avrò la toga, mamma» rispose Madeleine, e per
evitare ulteriori indagini li precedette verso l’uscita. Il sole
aveva perso la sua battaglia con le nubi ed era sparito. Il clima era lo stesso dei giorni precedenti. Venerdì sera il ballo
all’aperto era stato annullato a causa della pioggia, domenica la funzione religiosa si era svolta sotto una pioggerella insistente. Oggi, lunedì, non pioveva, ma la temperatura era più consona a una giornata di metà marzo che alla
prima settimana di giugno.
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Mentre aspettava che i genitori la raggiungessero sul
marciapiede, a Madeleine venne in mente che non aveva
fatto sesso, non in senso stretto, almeno, e quel pensiero la
confortò.
«Tua sorella avrebbe tanto voluto esserci» disse Phyllida
uscendo dal portone. «Purtroppo oggi deve portare Riccardo Cuor di Leone a fare un’ecografia.»
Riccardo Cuor di Leone era il nipote di Madeleine. Aveva nove settimane. Tutti gli altri lo chiamavano Richard.
«Come mai?» chiese Madeleine.
«A quanto pare ha un rene piccino. I medici preferiscono tenerlo sotto controllo. Se vuoi la mia opinione, tutte
queste ecografie servono soltanto a creare ulteriori motivi
di preoccupazione.»
«A proposito» disse Alton, «dovrei farne una al ginocchio.»
Phyllida lo ignorò. «Comunque Allie è desolata. Le rincresce moltissimo non essere presente alla tua laurea. Anche a
Blake. Ma si augurano che quest’estate tu e il tuo nuovo fiancé possiate passare a trovarli quando andrete a Cape Cod.»
Con Phyllida bisognava stare sempre all’erta. Ecco che
parlando del rene piccolo di Riccardo Cuor di Leone aveva già portato il discorso sul nuovo ragazzo di Madeleine,
Leonard (che lei e Alton non conoscevano ancora), e su Cape
Cod (dove Madeleine aveva annunciato di voler andare a
vivere con lui). In un giorno normale, con il cervello funzionante, Madeleine sarebbe stata in grado di anticipare le
mosse materne, ma questa mattina poteva al massimo lasciare che le parole le galleggiassero intorno.
Per fortuna Alton cambiò argomento. «Dove consigli di
andare a fare colazione, Maddy?»
Lei si voltò e guardò distrattamente Benefit Street. «C’è
un posto qui vicino» disse.
Si incamminò strascicando i piedi. Camminare, muoversi, sembrava una buona idea. Passarono davanti a una fila
di vecchie case ben tenute con targhe storiche sulla facciata
e a un edificio con il tetto a due spioventi. Providence era
una città corrotta, infestata dalla criminalità e controllata
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dalla mafia, ma da College Hill non lo si sarebbe mai detto. Il centro malfamato e le fabbriche tessili moribonde o
defunte erano laggiù, cupe e distanti. Qui le stradine, molte delle quali lastricate, che si inerpicavano tra edifici armoniosi o serpeggiavano intorno a camposanti puritani
con pietre tombali strette come la porta del paradiso, avevano nomi come Prospect, Benevolent, Hope e Meeting e
confluivano tutte nel campus alberato sulla sommità della collina. La posizione elevata evocava di per sé la statura intellettuale.
«Sono una meraviglia, questi marciapiedi di ardesia!»
disse Phyllida camminando dietro di lei. «Li avevamo anche nella nostra strada. Erano tanto più belli. Ma poi il comune li ha fatti asfaltare. Che orrore!»
«Tutto con i soldi dei contribuenti» disse Alton, che
chiudeva la fila zoppicando leggermente. La gamba destra dei pantaloni grigi era rigonfia a causa del tutore che
portava sul campo da tennis e fuori. Era campione senior
del suo club da dodici anni consecutivi, uno di quei giocatori di una certa età con la fascia sui capelli radi, un diritto debole e una luce assassina negli occhi. Da tutta la vita
Madeleine provava a batterlo. Che ormai fosse più brava
di lui la faceva infuriare ancora di più. Ma quando vinceva un set lui ricorreva alla tattica della provocazione, dicendo cattiverie o polemizzando, e Madeleine smetteva di
giocare bene. Temeva che ci fosse qualcosa di paradigmatico in questo, temeva di essere destinata ad attraversare
la vita facendosi intimorire da uomini meno dotati di lei.
Ormai le partite con Alton avevano una carica di significato talmente sproporzionata che lei si irrigidiva, con risultati prevedibili. E Alton gongolava ancora quando vinceva, gasato, le guance arrossate, come se l’avesse battuta in
virtù del puro talento.
Attraversarono l’incrocio di Benefit con Waterman
Street, dietro il campanile bianco della First Baptist
Church. Sul prato della chiesa erano già stati collocati
gli altoparlanti per la cerimonia. Un uomo con il farfal19
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lino e un’aria da preside di facoltà fumava nervosamente una sigaretta ispezionando la schiera di palloncini legati alla recinzione.
Intanto Phyllida aveva affiancato Madeleine, prendendola sottobraccio per affrontare la pavimentazione sconnessa, deformata dalle radici dei platani nodosi che ombreggiavano il marciapiede. Da piccola Madeleine era
convinta che sua madre fosse una bella donna, ma da allora molto tempo era trascorso. Negli anni il viso di Phyllida si era appesantito e le guance cominciavano ad afflosciarsi come quelle di un cammello. Lo stile classico dei
vestiti che portava – da filantropa o ambasciatrice – tendeva a nascondere la sua figura. Era nei capelli che risiedeva il suo potere. Il costoso coiffeur li aveva trasformati in
una cupola liscia, una specie di tendone per lo spettacolo
in cartellone da molto tempo che era la sua faccia. Madeleine non ricordava di aver mai visto Phyllida a corto di
parole o incerta su una questione di etichetta. Con le sue
amiche rideva dei modi formali della madre, però le accadeva spesso di pensare che gli altri, in confronto, non sapevano nemmeno cosa fossero le buone maniere.
E ora Phyllida la stava guardando con l’espressione adeguata a quel preciso momento: emozionata per la solennità
dell’occasione, impaziente di rivolgere domande intelligenti a qualsiasi professore le capitasse a tiro, o di scambiare
convenevoli con gli altri genitori. In breve, era ben disposta verso tutti e tutto e in perfetta sintonia con l’ostentazione sociale e accademica, il che non faceva che acuire in
Madeleine la sensazione di essere fuori tempo, quel giorno e per il resto della vita.
Madeleine continuò ad avanzare lungo Waterman Street
e salì i gradini di Carr House in cerca di un rifugio e di un
caffè.
Il bar aveva appena aperto. Il ragazzo con gli occhiali
alla Elvis Costello che era dietro il banco stava pulendo la
macchina del caffè. Seduta a un tavolo accostato al muro,
una ragazza con i capelli rosa dritti sulla testa fumava una
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sigaretta ai chiodi di garofano e leggeva Le città invisibili.
Dallo stereo sul frigorifero uscivano le note di Tainted Love.
Stringendosi la borsetta al petto Phyllida si fermò sulla soglia e osservò con sguardo critico le opere d’arte degli
studenti esposte nel locale: sei ritratti di altrettanti cagnolini spelacchiati che portavano colletti bianchi di plastica.
«Non sono spiritosi?» esclamò magnanima.
«È la bohème» commentò Alton.
Dopo aver sistemato i genitori a un tavolo accanto alla finestra a bovindo, il più lontano possibile dalla ragazza con i
capelli rosa, Madeleine si avvicinò al banco. Il ragazzo se la
prese comoda. Gli ordinò tre caffè – per lei doppio – e qualche bagel. Mentre i bagel si tostavano portò i caffè al tavolo.
Alton, incapace di fare colazione senza leggere qualcosa,
stava sfogliando una copia del “Village Voice” che qualcuno aveva abbandonato su un tavolo. Phyllida fissava apertamente la ragazza con i capelli rosa.
«Credi che siano comodi?» chiese a bassa voce.
Girandosi, Madeleine vide che i brandelli dei jeans neri
della ragazza erano tenuti insieme da alcune centinaia di
spille da balia.
«Non lo so, mamma. Perché non vai a chiederglielo?»
«Avrei paura di pungermi.»
«Secondo questo articolo» disse Alton leggendo dal
“Voice”, «fino al diciannovesimo secolo l’omosessualità
non esisteva. È stata inventata. In Germania.»
Il caffè era caldo e buono. Avrebbe resuscitato un morto. Dopo qualche sorso Madeleine cominciò a sentirsi un
po’ meno stravolta.
Si alzò per andare a prendere i bagel. Erano bruciacchiati,
ma non voleva aspettare che ne preparassero degli altri e
quindi li portò ai genitori. Alton esaminò il suo e si mise a
raschiarlo spietatamente con un coltello di plastica.
«Dunque oggi ci presenti Leonard?» chiese Phyllida.
«Non lo so» rispose Madeleine.
«C’è qualcosa di cui dovremmo essere informati?»
«No.»
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«Avete sempre in progetto di andare a vivere insieme,
quest’estate?»
Madeleine aveva addentato il suo bagel. E siccome rispondere alla domanda della madre era complicato – a rigor di termini lei e Leonard non progettavano di vivere
insieme perché si erano lasciati da tre settimane; ciononostante, Madeleine non aveva ancora rinunciato alla speranza di una riconciliazione, e considerata la fatica che le era
costato far accettare ai genitori l’idea di una convivenza con
un fidanzato, non voleva vanificare quel risultato ammettendo che il progetto era saltato – fu ben contenta di poter
far segno che aveva la bocca piena e quindi era autorizzata a non rispondere.
«Be’, ormai sei adulta» disse Phyllida. «Sei libera di fare
le tue scelte. Anche se, per amor di precisione, devo dire
che non approvo.»
«Sei già stata più che precisa sull’argomento» intervenne Alton.
«Perché rimane una pessima idea!» strillò Phyllida. «Non
ne faccio una questione di convenienze. Penso agli aspetti
pratici. Se tu vai a vivere con Leonard – o con qualsiasi altro
giovanotto – e dei due è lui quello che ha un lavoro, vuol
dire che tu parti da una situazione di svantaggio. Che cosa
succede se poi non andate d’accordo? Dove vai? Non avrai
più un posto dove vivere e neanche un lavoro.»
Il fatto che l’analisi materna fosse corretta, che la situazione dalla quale Phyllida la stava mettendo in guardia
fosse esattamente la situazione in cui già si trovava, non era
motivo sufficiente a dichiararsi d’accordo.
«Tu hai lasciato il lavoro, quando hai incontrato me» disse Alton.
«Appunto. So bene di che cosa parlo.»
«Possiamo cambiare argomento?» disse Madeleine, una
volta deglutito il pezzetto di bagel.
«Ma certo, tesoro. Non dirò più una parola. Se cambi programma puoi sempre tornare a casa. Tuo padre e io saremmo felici di riaverti con noi.»
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«Io no» disse Alton. «Non la voglio. Tornare a vivere a
casa dei genitori è sempre un errore. Stai lontana.»
«Tranquillo» disse Madeleine. «Non tornerò.»
«Spetta a te decidere» disse Phyllida. «Ma qualora volessi tornare potresti prenderti la mansardina. Così avresti
la tua libertà.»
Madeleine si sorprese a valutare la proposta. Perché non
raccontare tutto ai genitori, rannicchiarsi sul sedile posteriore dell’automobile e farsi portare a casa? Avrebbe ritrovato la sua stanza, con il letto a barca stile impero e la carta da
parati con i disegni dei libri di Madeline. Poteva diventare
una zitella come Emily Dickinson, scrivere intense poesie
piene di trattini e non ingrassare mai.
La voce di Phyllida la riportò alla realtà.
«Maddy? Quello non è il tuo amico Mitchell?»
Madeleine si girò sulla sedia. «Dove?»
«Mi pare che sia proprio Mitchell. Qui di fronte.»
Nel giardino della chiesa, seduto all’indiana sull’erba
appena tagliata, c’era effettivamente Mitchell Grammaticus, il cosiddetto amico. Muoveva le labbra come se stesse parlando da solo.
«Perché non lo inviti a unirsi a noi?» disse Phyllida.
«Adesso?»
«Perché no? Sarei felice di rivederlo.»
«Starà aspettando i suoi genitori» disse Madeleine.
Phyllida agitò una mano anche se Mitchell era troppo
lontano per accorgersene.
«Che cosa fa seduto per terra?» chiese Alton.
I tre Hanna guardarono Mitchell seduto nella posizione
del mezzo loto dall’altra parte della strada.
«Be’, se non vai a chiamarlo tu ci vado io» concluse Phyllida.
«Okay» disse Madeleine. «D’accordo. Vado.»
L’aria era un po’ meno fredda, ma non molto. Mentre Madeleine scendeva gli scalini di Carr House e attraversava la
strada per entrare nel giardino della chiesa, in lontananza
si ammassavano nuvoloni neri. Qualcuno stava provando
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gli altoparlanti nella navata, scandendo: «Sussex, Essex and
Kent. Sussex, Essex and Kent». Sullo striscione sopra il portone c’era scritto “Laurea 1982”. Sotto lo striscione, sull’erba, c’era Mitchell. Muoveva le labbra in silenzio, ma quando vide Madeleine chiuse la bocca di scatto.
Madeleine si fermò a qualche passo di distanza.
«Ci sono i miei genitori» lo informò.
«È il giorno della laurea» le fece notare Mitchell. «Ci sono
i genitori di tutti.»
«Ti vogliono salutare.»
Mitchell sorrise debolmente. «Forse non sanno che non
mi parli più.»
«No, non lo sanno» disse Madeleine. «E comunque lo sto
facendo. Ti sto parlando. Adesso.»
«Perché costretta o per un cambiamento di politica?»
Madeleine spostò il peso del corpo da un piede all’altro
e fece una smorfia di sofferenza. «Senti. Mi scoppia la testa. Praticamente non ho chiuso occhio, stanotte. I miei sono
qui da dieci minuti e mi stanno già facendo impazzire. Se
tu volessi venire a salutarli sarebbe fantastico.»
Mitchell batté due volte le palpebre. Aveva gli occhi scuri, grandi ed espressivi. Portava una camicia di gabardine
vintage, pantaloni neri di lana e un paio di vecchie scarpe
stringate. Madeleine non lo aveva mai visto in pantaloncini o con le scarpe da ginnastica.
«Mi dispiace per quello che è successo» disse lui.
«D’accordo» rispose lei distogliendo lo sguardo. «Non
fa niente.»
«Sono stato spregevole, come al solito.»
«Anch’io.»
Rimasero in silenzio per un momento. Sentendo su di
sé lo sguardo di Mitchell, lei incrociò le braccia sul petto.
Ecco che cos’era successo: sei mesi prima, una sera di
dicembre, in un momento di preoccupazione per lo stato
della propria vita sentimentale, Madeleine aveva incontrato Mitchell nel campus e lo aveva portato a casa sua. Aveva bisogno di attenzione maschile e aveva flirtato con lui
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senza ammetterlo nemmeno con se stessa. In camera da
letto Mitchell aveva preso dalla scrivania un barattolo di
un gel riscaldante chiedendo a cosa servisse. Madeleine
aveva spiegato che a chi faceva sport capitava, a volte,
di avere i muscoli indolenziti. Poteva capire che lui fosse all’oscuro di tale fenomeno, visto che la sua unica attività era starsene seduto in biblioteca, ma doveva crederle sulla parola. Mitchell le si era avvicinato di soppiatto e
le aveva schiaffato una pallina di gel dietro un orecchio.
Lei era saltata in piedi disgustata e togliendo la crema
con una maglietta si era messa a urlare. Benché arrabbiarsi fosse nel suo diritto, Madeleine era conscia (anche allora) di aver usato la propria indignazione come pretesto
per scacciare Mitchell dalla sua camera e coprire il fatto
di aver flirtato con lui. La cosa peggiore era stata la faccia
costernata di Mitchell, che sembrava sull’orlo delle lacrime. Balbettava che gli dispiaceva, che era solo uno scherzo, ma lei gli aveva intimato di andarsene. Nei giorni seguenti, ripensando a quella scena, Madeleine si era fatta
prendere dal rimorso. Aveva deciso di chiamarlo per scusarsi, quando aveva ricevuto una sua lettera, una lettera
di quattro pagine molto dettagliata, convincente, psicologicamente astuta e pacatamente ostile in cui la definiva “un’attizzacazzi” e sosteneva che il suo comportamento era stato “l’equivalente erotico del panem et circenses
ma senza il pane”. Quando si erano rivisti per caso Madeleine aveva finto di non conoscerlo e da allora non si erano più rivolti la parola.
Ora, sul sagrato della First Baptist Church, Mitchell la
guardò e disse: «Va bene. Andiamo a far due chiacchiere
con i tuoi».
Phyllida li salutò con la mano mentre entravano nel bar.
Nel tono civettuolo che riservava agli amici di Madeleine
che le erano simpatici disse: «Ti ho riconosciuto, lì seduto
per terra. Sembravi uno swami!».
«Congratulazioni, Mitchell» disse Alton, stringendogli
la mano con calore. «Oggi è un gran giorno. Una pietra
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miliare della vita. Una nuova generazione prende le redini del paese.»
Invitarono Mitchell a sedersi e gli chiesero se voleva mangiare qualcosa. Madeleine tornò al banco a prendere altro caffè, contenta che ci fosse lui a tenere occupati i suoi genitori.
Guardandolo, con quei vestiti da vecchio signore, impegnato a discorrere con Alton e Phyllida, Madeleine pensò, non
per la prima volta, che era proprio il tipo di ragazzo intelligente, sano, apprezzato dai genitori che avrebbe dovuto amare e sposare. Il fatto che non se ne sarebbe mai innamorata e
non l’avrebbe mai sposato proprio a causa della sua idoneità
era soltanto un’altra prova, in una mattinata in cui già abbondavano, di quanto fosse scombinata nelle faccende di cuore.
Tornò al tavolo e nessuno diede segno di accorgersene.
«Allora, Mitchell» stava dicendo Phyllida, «che progetti hai per il futuro?»
«Mio padre mi ha fatto la stessa domanda» rispose lui.
«A quanto pare ritiene che non ci sia una gran richiesta di
storici delle religioni.»
Madeleine sorrise, ed era la prima volta da quando si
era svegliata. «Visto? Nemmeno Mitchell ha un lavoro che
lo aspetta.»
«Be’, in effetti un lavoretto l’avrei» disse lui.
«Non è vero» lo rimbeccò Madeleine.
«Dico sul serio. Ce l’ho.» E spiegò che lui e Larry Pleshette,
il suo coinquilino, avevano escogitato un piano per combattere la recessione. In quanto neolaureati che entravano nel mondo del lavoro in un periodo in cui il tasso di disoccupazione
era arrivato al 9,5 per cento, dopo lunghe riflessioni avevano
deciso di lasciare il paese e restarne lontani il più possibile.
Alla fine dell’estate, una volta messa insieme la somma necessaria, avrebbero girato l’Europa con zaino e sacco a pelo.
Dopo aver visto tutto quello che c’era da vedere sarebbero andati in India con l’idea di rimanere lì finché duravano i soldi.
Un viaggio di otto o nove mesi, forse addirittura di un anno.
«Vai in India?» disse Madeleine. «Andare in India non
è un lavoro.»
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«Faremo ricerche per la professoressa Hughes» disse
Mitchell.
«Quella del dipartimento di teatro?»
«Qualche tempo fa ho visto una trasmissione sull’India»
disse Phyllida. «Davvero deprimente. Quanta povertà!»
«Un motivo di attrazione in più per me, signora Hanna»
disse Mitchell. «Io nello squallore prospero.»
Phyllida, che trovava irresistibile quel genere di ironia,
mise da parte la sua compostezza e si abbandonò al gioco.
«Allora stai andando proprio nel posto giusto!»
«Magari faccio un viaggio anch’io» disse Madeleine in
tono minaccioso.
Nessuno reagì. Alton chiese a Mitchell: «Che vaccinazioni bisogna fare per l’India?».
«Colera e tifo. Le gammaglobuline sono facoltative.»
Phyllida scosse la testa. «Tua madre sarà preoccupata da
morire.»
«Quando ero nell’esercito» riprese Alton, «ci facevano un
sacco di iniezioni. Senza neppure dirci che vaccini erano.»
«Credo che andrò a vivere a Parigi, invece di trovarmi
un lavoro» annunciò Madeleine a voce più alta.
«Mitchell» riprese Phyllida, «visto il tuo interesse per la
storia delle religioni, direi che l’India è perfetta. Lì c’è di
tutto. Indù, musulmani, sikh, zoroastriani, giainisti, buddisti. Per tutti i gusti come da Baskin & Robbins! Sono sempre stata affascinata dalle religioni, diversamente da questo
san Tommaso di mio marito.»
Alton fece l’occhiolino. «Dubito anche dell’esistenza di
san Tommaso.»
«Conosci Paul Moore, il vescovo Moore della cattedrale di St. John the Divine?» chiese Phyllida che non voleva
perdere l’attenzione di Mitchell. «È un nostro caro amico.
Per te potrebbe essere interessante fare la sua conoscenza,
e noi saremmo lieti di presentartelo. Quando siamo in città
vado sempre alla funzione nella cattedrale. L’hai mai vista?
Oh. Dunque. Come potrei descriverla? È semplicemente…
ecco, semplicemente divina!»
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Phyllida si portò una mano alla gola per il piacere che
le dava il suo bon mot, e con cortesia, perfino con convinzione, Mitchell rise.
«A proposito di grandi personaggi religiosi» li interruppe Alton, «ti ho mai raccontato di quando abbiamo incontrato il Dalai Lama? C’era una raccolta fondi al Waldorf e
noi eravamo in fila con gli altri ospiti. Non meno di trecento persone. Comunque, quando finalmente siamo arrivati
davanti a lui gli ho chiesto: “Scusi, lei è per caso imparentato con Dolly Parton?”.»
«Che mortificazione!» esclamò Phyllida. «Ero assolutamente mortificata.»
«Papà» disse Madeleine, «farete tardi.»
«Come?»
«Se volete trovare un buon posto vi dovete muovere
adesso.»
Alton guardò l’orologio. «Manca ancora un’ora.»
«Ci sarà una gran folla» sottolineò Madeleine. «Dovreste sbrigarvi.»
Alton e Phyllida guardarono Mitchell, come se si aspettassero un consiglio. Madeleine gli sferrò un calcio sotto il
tavolo e prontamente lui rispose: «In effetti può esserci una
discreta folla».
«Qual è il punto migliore per vedere il corteo?» chiese
Alton sempre rivolgendosi a lui.
«Vicino ai cancelli Van Wickle. In cima a College Street.
Passeremo tutti da lì.»
Alton si alzò. Dopo aver stretto la mano a Mitchell si chinò a baciare la sua Madeleine su una guancia. «Ci vediamo
dopo, Miss Laurea 1982.»
«Congratulazioni, Mitchell» disse Phyllida. «È stato un
piacere vederti. E quando sarai partito per il tuo Grand
Tour, ricordati di scrivere a tua madre montagne di lettere.
Altrimenti si dispererà.»
A Madeleine disse: «Magari potresti cambiarti d’abito,
prima della cerimonia. C’è una macchia visibile».
Ciò detto, nella loro scintillante concretezza genitoriale
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tutta giacca a righe e borsetta, filo di perle e camicia con
gemelli, Alton e Phyllida attraversarono il bar color sabbia
e mattoni e se ne andarono.
Come per accompagnare la loro uscita, una nuova canzone attaccò: la voce acuta di Joe Jackson in picchiata sulle percussioni. Il ragazzo dietro il banco alzò il volume al massimo.
Madeleine posò la testa sul tavolo e i capelli le coprirono la faccia.
«Non toccherò mai più una goccia di alcol» disse.
«Le ultime parole famose.»
«Tu non sai che cosa mi è capitato.»
«Come potrei saperlo? È da un po’ che non mi rivolgi
la parola.»
Senza staccare la guancia dal tavolo, Madeleine disse lamentosa: «Sono senza casa. Mi sto laureando e non ho un
posto dove vivere».
«Sì, certo.»
«È così!» disse lei. «Prima mi dovevo trasferire a New
York con Abby e Olivia. Poi sembrava che invece dovessi
andare a Cape Cod, e quindi ho detto alle ragazze di cercarsi un’altra compagna. Adesso non vado più a Cape Cod
e non so dove andare. Mia madre vorrebbe che tornassi a
casa ma piuttosto mi uccido.»
«Io torno a casa per l’estate» disse Mitchell. «A Detroit.
Perlomeno tu sei vicina a New York.»
«Non ho ancora ricevuto nessuna risposta per il dottorato e siamo a giugno» continuò Madeleine. «Avrei dovuto
saperlo già un mese fa! Potrei chiamare le segreterie di facoltà ma non lo faccio perché ho paura di sentirmi dire che
non mi prendono. Finché rimango all’oscuro posso sperare.»
Ci fu un momento di silenzio prima che Mitchell parlasse di nuovo. «Potresti venire in India con me» disse.
Madeleine aprì un occhio e da dietro un ricciolo vide che
la sua non era solo una battuta.
«Il problema non è neanche il dottorato» continuò. E dopo
un lungo sospiro confessò: «Leonard e io ci siamo lasciati».
Dirlo, dare un nome alla sua tristezza, le procurò una
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sensazione di enorme piacere, perciò la stupì la freddezza
con cui Mitchell reagì.
«Perché me lo racconti?» le chiese.
Madeleine alzò la testa, allontanando i capelli dal viso.
«Non lo so. Volevi sapere che cos’avevo.»
«Non proprio, in realtà. Non te l’ho nemmeno chiesto.»
«Pensavo che ti interessasse, visto che siamo amici.»
«Esatto» disse Mitchell, improvvisamente sarcastico. «Parliamo della nostra meravigliosa amicizia! Di un’amicizia della quale tu sola stabilisci i termini. Le regole le fai tu, Madeleine. Se decidi che non vuoi rivolgermi la parola per tre
mesi, non ci parliamo. Se poi decidi che ti servo perché vuoi
che intrattenga i tuoi genitori, ecco che ci parliamo di nuovo.
Siamo amici quando ti fa comodo, e non possiamo essere niente di più perché a te non interessa. E io mi devo adeguare.»
«Mi dispiace» disse lei, sentendosi bistrattata e vulnerabile. «È che non mi piaci in quel senso.»
«Esatto!» gridò Mitchell. «Non sei attratta da me fisicamente. Okay, d’accordo. Ma chi ti ha detto che a me sia mai
piaciuta la tua mente?»
Madeleine si irrigidì come se fosse stata schiaffeggiata.
Era offesa, ferita e sdegnata.
«Sei un tale…» cercò l’insulto peggiore «sei un tale bastardo!» Voleva avere un atteggiamento imperioso, ma sentiva già una fitta al petto e, sgomenta, scoppiò in lacrime.
Mitchell fece per toccarle il braccio ma lei lo respinse. Sforzandosi di non sembrare una che piangeva di rabbia, Madeleine si alzò e uscì su Waterman Street. Aggredita dalla
chiesa parata a festa, si avviò verso il fiume decisa ad allontanarsi dal campus. Le era tornato il mal di testa, le tempie
pulsavano. Guardando le nubi temporalesche che incombevano sul centro della città come altre brutte notizie, si
chiese perché mai fossero tutti così cattivi con lei.
Le pene d’amore di Madeleine erano iniziate in un momento in cui il concetto stesso di amore veniva decostruito
dalle teorie francesi oggetto di uno dei corsi che seguiva.
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