La pagina de la Repubblica con il testo integrale degli articoli

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La pagina de la Repubblica con il testo integrale degli articoli
la Repubblica
sabato 29 maggio 2010
pag. 36 - 37 - 38
In principio fu
il Beaubourg di Parigi.
Poi arrivarono
il Guggenheim di Bilbao
e lo Jüdisches Museum
di Berlino. Oggi con
il Maxxi e il Macro
di Roma anche in Italia
sbarcano i centri espositivi
firmati da archistar.
Nati per essere punto
di riferimento culturale,
sociale e commerciale. Ma anche per entrare
in concorrenza con i capolavori in mostra.
Diventando opere d’arte essi stessi
L’ERA
IPERMUSEO
DELL’
STEFANO BARTEZZAGHI
L
e Muse hanno traslocato. Non intendono più
abitare le loro vecchie case tradizionali, che
erano poi palazzi molto distinti, nelle zone aristocratiche delle città, belli quanto quelli che
li circondavano o (proprio al massimo) un poco di più. Ora le Muse colonizzano deserti, frequentano periferie industriali dismesse e preferibilmente malfamate, bonificano quartieri
malsani. Quelle di loro che ancora abitano palazzi aviti fanno i capricci: a Madrid pretendono di farsi installare sul davanti vistosi ascen-
All’interno
Libri
Pavel Florenskij
il sacerdote
che sfidò
la Chiesa e Stalin
VITO MANCUSO
Intervista
Tiziano Scarpa
“I valori
da trasmettere
ai nostri figli”
MAURIZIO BONO
sori esterni, a Parigi delirano a proposito di piramidi. Ci sono anche quei nomi, trovati sfogliando la margherita: Moma o non Moma? Il
Maxxi, il Mambo, il Macro, la Gnam, il Mart, il
Maga, il Pac, il Pan: nomi da catalogo Algida.
Nessun Museo Egizio ha ancora trovato il coraggio di rinominarsi «il Mumia», ma a Napoli sono già arrivati al Madre, maschile. Sono i
nuovi musei, intenzionati a farsi notare —
spesso sin dal nome — almeno quanto le opere che custodiscono.
SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
CON UN ARTICOLO DI MAURIZIO FERRARIS
A
N
la Repubblica
sabato 29 maggio 2010
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I classici
I postindustriali
DAL LOUVRE AL PRADO
LA CIMINIERA DELLA TATE
I Musei Vaticani sono stati
fondati da papa Giulio II nel
XVI secolo. Il Louvre di Parigi
apre come museo nel 1793, in
piena Rivoluzione. La piramide
di vetro dal 1989 ne ha
rinnovato l’immagine. Il Prado
di Madrid, ora ampliato, è un
museo vero e proprio dal 1819
Gae Aulenti ricava il d’Orsay
parigino (1986) da una ex
stazione ferroviaria. La Tate
Modern di Londra (2000) è
stata riadattata da Herzog
e de Meuron su una centrale
elettrica preesistente. Il Ruhr
Museum di Essen (2010) era
una fabbrica di carbone
SE
LA
CORNICE
QUADRO
VALE PIÙ DEL
(segue dalla copertina)
I
l museo sa oramai di non essere visto come
un ristorante, che può essere
bello o brutto ma l'importante è quello che ci si consuma
all'interno. Proprio il Maxxi
(Zaha Hadid, 2010) ha aperto
prima come palazzo e poi come spazio espositivo, come
era già capitato con lo Jüdisches Museum di Berlino (Daniel Libeskind,1999) a dimostrazione del pareggio raggiunto nella dignità delle due
funzioni. Sempre ammesso
che non ci sia, invece, uno
squilibrio a favore della funzione esteriore.
I primi avvistamenti sono
stati molto precoci, se pensiamo per esempio all'età del
Guggenheim Museum di New
York (Frank Lloyd Wright,
1937), ma non c'è dubbio sul
fatto che la prima astronave
vera e propria a posarsi sul
suolo terrestre sia stata il Centre Georges Pompidou, noto
anche come Beaubourg (Renzo Piano, Richard Rogers,
1971-77). Installato nell'isolato che allora appariva come il
primo nella lista dei rioni parigini malsani e da bonificare; a
malapena visibile dietro la trama esterna dei tubi multicolore che lo riforniscono dei differenti fluidi necessari alla sua
sopravvivenza (gas, acqua,
energia elettrica, visitatori);
colossale ed enigmatico nella
sua apparenza di fabbricone o
apparecchio radio (le cui funzioni di comunicazione esoterica furono poi congetturate
da un amico di Renzo Piano,
Umberto Eco nel suo Pendolo
di Foucault), il Centre Pompidou ha sfondato innanzitutto
nell'immaginazione degli
amministratori della cultura,
che da allora hanno ininterrottamente vagheggiato la
fondazione di nuovi Beaubourg. «Beaubourg» è quasi
Dal Beaubourg al Guggenheim
ecco la generazione dei musei-star
STEFANO BARTEZZAGHI
diventato nome comune, antonomasia per alludere a edifici
capaci di assumere nello stesso
tempo funzioni espositive e
conservative, sociali ed economiche, culturali e commerciali
(il mito del «centro polivalente»); edifici capaci soprattutto
di far parlare tanto di sé.
Per fare scandalo, si sa, ci vogliono le pietre. Ecco allora che
il visitatore che esce in automobile dal casello di Bilbao dell'autostrada, imbocca subito
un tunnel percorso il quale, dopo poche centinaia di metri, gli
si squadernerà il panorama cittadino. Come in quelle scatole
scherzose, che (pop up!) appena aperte liberano un pugno
caricato a molla, così da dietro
la curva autostradale il visitatore verrà percosso dalla vista della sede locale della fondazione
Solomon R. Guggenheim
(Frank Gehry, 1997). Un pugno
vero e proprio, fornito di un
considerevole numero di noc-
che e bugni, in titanio. Intanto a
Metz, in Lorena, lo stesso Centre Pompidou apre una nuova
sede (Shigeru Ban, Jean de Gastines, 2010), ricoperta da un
velo formato da assi di legno disposte per moduli esagonali.
Trovandoci poi dentro dei Picasso o dei Rothko finiamo per
essere sorpresi molto più da codeste astronavi che dagli extraterrestri che ne vengono trasportati - tutto sommato, vecchie conoscenze, ormai.
Ma a inseguirsi lungo i circuiti internazionali dell'arte contemporanea non sono solo le
scuderie intitolate al signor Solomon Guggenheim e al presidente Georges Pompidou. La
Tate Modern festeggia il suo decennale e le proporzioni imprevedibili del suo successo con
progetti di ulteriori espansioni.
A Los Angeles il miliardario Eli
Broad ha selezionato sei archistar, fra cui Rem Koolhas, per il
nuovo edificio che in piena
downtown ospiterà la sua collezione di arte contemporanea. A
Dubai e ad Abu Dhabi, altre archistar costruiscono musei, auditorium, atolli artificiali (ancora Zaha Hadid, ancora Frank
Gehry, Jean Nouvel...), dove l'estro architettonico compensa il
vistoso straniamento territoriale. Lì il modo di dire «cattedrale nel deserto» perde molto
del suo carattere metaforico. Il
deserto è effettivo; la cattedrale,
quasi.
Non è così facile, infatti, scegliere il modello a cui si ispira la
nuova architettura museale. Se
la morfologia, spesso aerodinamica e sempre ritmica nell'accozzarsi dei volumi, fa inevitabilmente pensare all'astronave, l'essenza della funzione
sposta l'accento proprio verso
la cattedrale. La cattedrale può
anche contenere capolavori,
ma sarebbe frivolo (o maniacale) visitarla solo per quello: de-
ve essere anzitutto un capolavoro essa stessa e invitare a una
Funzione innanzitutto interiore, spirituale, di raccoglimento.
Si è lì più per le sue pareti, che
per ciò che vi è appeso. Solo che
mentre le cattedrali religiose
vogliono intimorire ed esaltare
l'anima degli individui, queste
cattedrali artistiche rivolgono
la loro Funzione ad anime collettive, di gruppo: dalla famigliola alla comitiva in pullman
sino alle comunità neomonacali degli appartenenti alla società di amici del museo, con
goloso diritto d'accesso a riti
più esoterici. A visitare da soli
questi luoghi immensi ci si sente infatti leggermente schiacciati: sono fatti perché ci si possa spingere carrozzine e sedie a
rotelle, pascolare greggi scolastiche o turistiche, perdersi e ritrovarsi tra figli e amici, per spazi che ricordano infallibilmente
segue
la Repubblica
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Le grandi firme
I cloni
MODELLO BEAUBOURG
MARCHI DA REPLICARE
Con il Centre Pompidou
parigino firmato Piano-Rogers
(1977) il contenitore museo si
impone sul contenuto. Frank
Gehry rilancia Bilbao col suo
Guggenheim (1997). Daniel
Libeskind firma il Museo
ebraico di Berlino (1999). Zaha
Hadid il Maxxi a Roma (2010)
I grandi musei, guardando al
Guggenheim, aprono nuove
filiali. A Metz è nato il Centre
Pompidou due. Il Louvre si
sdoppia nella francese Lens e
ad Abu Dhabi, dove nel 2012
sorgerà il nuovo museo di
Jean Nouvel. Renzo Piano
progetterà il nuovo Whitney
Il racconto
Quando l’esperienza estetica
si trasferisce nel bookshop
Breve viaggio in alcuni luoghi dell’arte contemporanea: da Punta della Dogana al Mart
Per scoprire come la nostra percezione sia sempre più distratta dai “contenitori”
MAURIZIO FERRARIS
enezia, Punta della Dogana. È il caso tipico di
una funzione consolatoria del contesto. Le
opere non sono affatto tutte belle, anche se i visitatori dicono
sempre “bello, bello”. Certe sono
brutte, o irrilevanti, e l’occhio,
inevitabilmente, cade sempre
sul contorno, non trovando nelle opere nutrimento sufficiente.
Alla fine vengo attirato, come tutti, da Fucking hell di Jack e Dinos
Chapman, immensi plastici,
quasi corredi da treni elettrici,
che raffigurano una grande epopea nazista, in effetti una specie
di versione visiva delle Benevole
di Jonathan Littell. La ricerca di
senso, frustrata da gran parte
delle opere, e compensata dalla
bellezza della cornice, si polarizza di fronte a questa installazione
riconoscibile (i visitatori infatti
smettono di dire “bello, bello”
ma dicono “chissà quanto tempo hanno impiegato per farlo,
che pazienza”).
Rovereto, Mart, 2007-2008,
una esposizione sulla parola nell’arte. Qui il contesto è più spoglio, gli ampi spazi di Mario Botta sembrano lasciare maggiore
autonomia alle opere, e a questo
punto sono le opere che si vendicano sull’ambiente. Ci sono pezzi che vanno dal futurismo e dalle avanguardie russe sino ai contemporanei più contemporanei,
passando ovviamente per Duchamp. E nella stanza di Duchamp c’è la classica installazione antincendio, il vetro da spaccare con le scritte sopra, e dentro
una pompa arrotolata. Visto
però che tutto intorno ci sono i
ready made di Duchamp, sembra anche quello un ready made,
e funziona alla perfezione.
Parigi, Louvre, scena classica,
la più classica che si possa immaginare. La Gioconda. La si vede
sempre da lontano, schermata
da un muro di turisti giapponesi.
È una visione che in genere si ha
da molto giovani, in gite scolastiche, ed è accompagnata da malinconia: perché quella immagine lontana non suscita immediatamente il trasporto sognante e
fantastico che ci avevano garantito avrebbe dovuto suscitare?
Niente, siamo fermi lì, lontani, ci
fanno male i piedi, e incominciamo a dubitare della Grande Arte.
Napoli, Reggia di Capodimonte, qualche anno fa, esposizione
di Caravaggio. Arrivo sul tardi, i
pezzi esposti sono pochi e l’ingresso costa abbastanza caro,
così mi accade un’esperienza rarissima per i musei, sono solo, a
tu per tu con i cinque o sei quadri
di Caravaggio. Il risultato è l’inverso che la Gioconda: quelle
opere lì, esposte, senza alcun altro visitatore mi danno l’impressione di essere finte.
V
ILLUSTRAZIONE DI EMILIANO PONZI
le tipologie dell'ambulacro, del
vestibolo, della loggia, della navata (con santini, oggetti votivi
e reliquie a disposizione di ogni
tasca). Con il paradosso che tale religione dello spazio continua ad avere bisogno di oggetti
da esporre perché non ci si renda conto, e con sgomento, che il
vero oggetto che ci si reca a venerare è, senza rimedio, un
vuoto.
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Penultima esperienza, già meno frustrante. Sono a Dresda, ho
visitato prima di tutto quella naturale raccolta di ready made ante Duchamp che sono le raccolte
di armi. Poi salgo a vedere i quadri. Al pian terreno vedo il ritratto di un signore del Seicento con
uno sguardo malinconico, e sco-
pro che è Maurizio di Nassau.
Faccio due piani, e vedo un volto
familiare, mi avvicino e mi rendo
conto che è un secondo ritratto di
Maurizio di Nassau, invecchiato.
Come dire che quel volto non mi
è nuovo, e questo mi dà un sicuro piacere estetico. Qualcuno mi
dirà che no, non è piacere esteti-
La lettera
“Io, Zaha Hadid e il Maxxi”
VITTORIO SGARBI
aro direttore, Zaha Hadid nel suo discorso, di
presentazione del Maxxi, ha ricordato le nostre proficue conversazioni. Certamente sa
che fui io — tra i dubbi di Urbani e di Lunardi
— a dare il definitivo via libera ai lavori. Interrogato dai
giornalisti, ho risposto quello che si legge nell’articolo
di venerdì di Francesca Giuliani: «Questo non è un museo, è una scultura. È il mausoleo di Zaha Hadid. Ed è
tutto un pieno: modulazioni meravigliose di cemento
armato; però questo edificio respinge le opere d’arte
come a dire: l’opera sono io».
Vedo che il mio giudizio lusinghiero non è piaciuto alla architetta che mi risponde stizzita coi consueti luoghi comuni sulla mia ignoranza di arte e architettura contemporanee, e cita un episodio impossibile: «Ma che ne sa Sgarbi dell’arte contemporanea? La prima volta che l’ho incontrato, qui al
Maxxi, ha scambiato i piloni all’entrata per delle installazioni».
Ricorda male, perché non sono mai andato con lei al
Museo, per la semplice ragione che, quando ci incontrammo, nell’autunno del 2001, del Maxxi non c’erano i piloni e neppure forse le fondamenta. La generosa architetta venne due volte nel mio ufficio al Collegio
Romano. Leggo ora che «non so niente di architettura». Sarà per questo che ho autorizzato l’inizio dei lavori. E mi piace ricordare a Zaha Hadid che le stesse osservazioni le ha fatte Luigi Ontani: «Se penso al Maxxi,
la prima cosa che mi viene da dire è che in quel museo
non c’è spazio». Anche Ontani, non sa nulla dell’Arte
Contemporanea?
C
co, che il vero piacere estetico
è un altro, ma sinceramente
non capisco perché.
L’esperienza religiosa che
oramai siamo soliti associare
al piacere estetico però ce l’ho
a Los Angeles, al Paul Getty
Museum. Ci sono andato perché ho fatto una conferenza il
giorno prima e alla sera devo
ripartire per l’Italia. Senza
macchina non è che uno a Los
Angeles possa fare più di tanto per cui mi sono fatto portare in taxi al museo, aspettando
che venga l’ora di andare all’aeroporto. Il tempo non mi
manca e il luogo è meraviglioso, con una stupenda vista sul
mare. Giro senza fretta, e
quando sono abbastanza
stanco per sentire il bisogno di
sedermi ecco che mi trovo davanti all’immenso Ingresso di
Cristo a Bruxelles di James Ensor. Del tutto inaspettato, mi
colpisce, e davvero mi dà l’idea del miracoloso. Ecco,
questa è l’esperienza tipo che
ci insegnano dovrebbe accadere nell’arte, ma, almeno per
me, è rara.
Il museo più surreale della
mia vita tuttavia non è stato un
museo, bensì un anomalo
metamuseo che ho trovato
una volta senza cercarlo, un
negozio a Torino dove si raccoglievano tutti i gadget dei
museum shop di tutto il mondo, di tutti i MoMa, i Macba, i
Madre, i Met. A mio parere il
proprietario aveva capito l’essenza del culto che si celebra
nei musei, e ne aveva raccolto
le reliquie. Anche se, come si
dice solitamente dei grandi
artisti, deve essere stato incompreso, e il negozio, se non
sbaglio, ha chiuso.
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