Il cappello del prete (Classici moderni)

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Il cappello del prete (Classici moderni)
Un barone travolto dai debiti. Un prete arricchitosi con lotto e usura. Una villa vesuviana. Un morto. E un cappello, l’ogget
indistruttibile che darà vita a una serie di colpi di scena. Sono gli ingredienti del primo romanzo noir italiano. Ambientata
una Napoli per nulla pittoresca e raccontata con scrittura svelta e moderna, la vicenda si svolge a partire dall’omicidio d
prete e si alimenta degli incubi e delle ossessioni del suo assassino, teso a inseguire quel cappello che sempre semb
sfuggirgli: perché “il prete avrebbe potuto, nella sua misericordia, perdonare; il cappello, no”.
De Marchi conduce il lettore attraverso i meandri di un ra nato giallo psicologico sfruttando gli ingredienti narrativi d
romanzo d’appendice, nella convinzione che “l’arte è cosa divina; ma non è male di tanto in tanto scrivere anche per
lettori”.
EMILIO DE MARCHI (Milano, 1851-1901), formatosi a Milano ai margini della Scapigliatura, ebbe fortuna con i roman
d’appendice e le raccolte di novelle. Tra le sue opere ricordiamo Demetrio Pianelli.
RENZO CREMANTE insegna Letteratura teatrale del Rinascimento all’Università di Pavia. Con Loriano Macchiavelli h
diretto la rivista “Delitti di carta”.
Emilio De Marchi
IL CAPPELLO DEL PRETE
A cura di Renzo Cremante
Proprietà letteraria riservata
© 2015 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-58-68089-6
Prima edizione digitale 2015 da edizione BUR Classici moderni giugno 2015
In copertina: Giuseppe De Nittis, Autoritratto, Museo Civico, Barletta © Foto Scala, Firenze
Art Director: Francesca Leoneschi
Progetto grafico: Emilio Ignozza / theWorldofDOT
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INTRODUZIONE
Nel 1887 Emilio De Marchi ha trentasei anni e si trova nel pieno vigore di una vita pubblica
privata e di una carriera letteraria più che decennale, pur destinate a interromper
prematuramente di lì a soli quattordici anni. L’impiego confacente e dignitoso di segretario d
un’istituzione di non poco prestigio nella realtà culturale e scolastica milanese qua
l’Accademia scienti co-letteraria (nucleo costitutivo di quella che diventerà poi l’Universit
statale), oltre a o rirgli un comodo punto d’osservazione e di raccordo tra cultura accademic
e cultura militante e la possibilità di un costante rapporto con le forze più vive delle giovan
generazioni, non gli impedisce di continuare a coltivare con assiduità e zelo, in prosa e i
versi, la sua vocazione più radicata e tenace, il mestiere di scrittore. Attratto precocement
dal fascino irresistibile della scrittura e della carta stampata, come anche del palcoscenico
aveva cominciato giovanissimo a scrivere per il teatro, con nalità non meno educative ch
ricreative. Ma conta soprattutto, nella sua formazione, l’esperienza ricca e stimolante di un
battagliera rivista di giovani, la «Vita Nuova», alla cui fondazione partecipa nel 1876 e ch
condirige per un paio d’anni, no a quando la sua connaturata prudenza di cattolic
osservante e moderato gli impone di abbandonarla, avendo essa accentuato il propri
indirizzo democratico in senso radicale e «rosseggiante» dopo la fusione con «Il Preludio» d
Arcangelo Ghisleri. Nel corso di un quindicennio durante il quale la Paneropoli lombard
registra un tumultuoso, incessante sviluppo dell’industria giornalistica e editoriale e del
nuove forme della comunicazione che si sarebbe poi detta di massa, lo scrittore vien
acquistando una discreta notorietà nella vita giornalistica e letteraria, anche al di fuori del
cerchia dei Navigli, come autore coscienzioso e versatile di testi drammatici, poesie, novell
racconti, storielle, bozzetti, prose cadenzate in dialetto milanese, articoli di critica letterari
saggi di argomento pedagogico e educativo, traduzioni, almanacchi. Accanto a un’aperta, no
dogmatica professione di fede manzoniana, meno incline ad accogliere per intero le soluzion
linguistiche orentineggianti della quarantana che a condividere la duciosa disponibilit
dell’exemplum nei confronti del pubblico dei lettori, tali scritti testimoniano l’apprezzabi
capacità dell’autore di assimilare e rielaborare in forma autonoma, con voce sommessa,
diminuendo, secondo le proprie forze e inclinazioni, quelle istanze di realismo, popolarità
moralità, nella fattispecie cattolica, che avevano improntato nel corso degli ultimi due secol
fra lingua e dialetto, la tradizione più schietta e vitale della cultura letteraria lombarda, d
Maggi, a Parini, a Porta, no, appunto, a Manzoni: autori tutti, fra l’altro, di cui De Marchi
occupa variamente, in quegli anni, in sede critica, contribuendo, in qualche misura,
delineare quel canone della geogra a letteraria milanese e lombarda al quale va ricondotta
sua stessa esperienza di scrittura.
Due opere, apparse, rispettivamente, nel 1885 e nel 1886, avevano da ultimo richiamato
nonché un più avvertito interesse della critica, l’attenzione e il consenso dei lettori: u
volume di novelle già sparsamente divulgate per giornali e riviste, Storie di ogni colore (ch
comprende un capolavoretto come Carliseppe della Coronata) e, non meno lodata e destinat
ad ancor più larga circolazione e fortuna, la traduzione in versi delle Favole di La Fontain
pubblicata a dispense, con il corredo delle illustrazioni dell’immancabile Gustave Doré, nel
rinomata Biblioteca classica illustrata di Sonzogno e promossa attraverso un chiassoso lanci
pubblicitario che si avvaleva delle più aggiornate modalità rimbalzate d’oltralpe. I temp
sembrano ormai maturi perché lo scrittore, con accresciuta consapevolezza e più sald
determinazione, si misuri con esperimenti anche più ambiziosi e impegnativi, co
l’architettura del romanzo, vale a dire il genere più frequentato e popolare nella produzione
nella circolazione di quella letteratura che allora si designava con il titolo di «amena»: u
genere, oltretutto, che in anni recenti la pubblicazione dei Malavoglia, in una con il soggiorn
di Verga a Milano, aveva contribuito a collocare al centro di un intenso dibattito teorico
critico, rilanciando il confronto con il modello francese del roman expérimental. No
immemore, forse, delle idee espresse da Antonio Fogazzaro in una conferenza del 1872
Dell’avvenire del romanzo in Italia, il correligionario De Marchi (che avrebbe poi stretto con
più anziano scrittore vicentino una salda, duratura amicizia), per sua esplicita dichiarazion
ha a cuore, prima di tutto, la missione in senso lato «educatrice» del romanzo, «il libro» – pe
servirci delle sue parole – «meno libro di tutti gli altri»; sempre che si tratti, s’intende, di u
«buon» romanzo: e l’aggettivo sottende sempre un signi cato moraleggiante, non meno ch
formale e stilistico, per uno scrittore che per tutta la vita insisterà sull’importanza e sul ruol
educativo e formativo della lettura, compresa la lettura a voce alta e la lettura, come allora
diceva, di famiglia. In uno scritto senza data intitolato I romanzi, rimasto inedito e fatt
conoscere soltanto di recente, egli scriveva:
Prima che questa lettura entrasse nelle abitudini di tanta gente, i libri eran roba riservata a pochi privilegiati. Se non altro
romanzo ha di uso tante idee, ha predisposto l’animo delle moltitudini a ricevere una maggior coltura e sradicando tan
superstizioni, sparpagliando molti concetti sulla vita, sul carattere e sulla natura delle cose, ha preparato il terreno a mo
considerazioni e a molta maggior delicatezza. Per lo meno i romanzi hanno diffuso il gusto della lettura.
Varrebbe forse la pena di riprendere in mano i numerosi interventi dedicati da De March
al tema della lettura, no a ieri e tanto a lungo trascurato dagli storici del libro e del
letteratura. Egli stesso, del resto, aveva provveduto a raccoglierli, forse in vista di un
stampa in volume, in un quaderno intitolato Del leggere, che si conserva tra le sue carte.
Le tappe di questo non improvvisato appressamento demarchiano al romanzo son
rappresentate da alcuni notevoli racconti lunghi apparsi in rivista, a puntate, già nel
seconda metà degli anni Settanta: Il signor Dottorino, Due anime in un corpo, Tra gli strac
(«racconto popolare», come recita il sottotitolo); mentre altre prove narrative, come Vita
un giovane serio e Anime del Purgatorio, non sarebbero mai uscite dai cassetti, al pari di tant
parte della produzione giovanile dello scrittore. E non deve sorprendere l’apparent
paradosso che siano proprio la resistente impronta manzoniana della sua poetica e più ancor
forse, le accentuate preoccupazioni di ordine pedagogico e moraleggiante a orientare
sperimentazione romanzesca dello scrittore, e non soltanto nella fase aurorale, proprio nel
direzione della più a ermata, ma anche, di gran lunga, triviale e controversa fra le forme de
consumo narrativo contemporaneo: il feuilleton, il romanzo d’appendice, di norma importato
da almeno un paio di decenni, dalla Francia o, forse con un po’ più di decoro, dall’Inghilterr
relegato nei modestissimi pianterreni dei fogli quotidiani di ogni colore e divulgato a puntat
giorno dopo giorno, con strepitoso favore di lettori, prima di essere raccolto in volum
poniamo, nella Biblioteca romantica di Sonzogno o nella Biblioteca amena di Treves. È be
istruttivo, a questo proposito, il fatto che la massima parte dei romanzi di De Marchi, d
Cappello del prete, appunto, a Demetrio Pianelli (nell’appendice, con il titolo La bella Pigotta), d
Arabella a Redivivo (quest’ultimo con il titolo granguignolesco, nella prima edizione i
appendice, Il morto che parla), abbiano visto per la prima volta la luce e siano stati maga
anche ristampati proprio nelle appendici di un quotidiano, prima di venire rielaborati
pubblicati in volume. Anche la prima edizione di Giacomo l’idealista è legata in qualche mod
alla circolazione giornalistica, essendo apparsa nel 1897 nella veste di strenna del quotidian
conservatore milanese «La Perseveranza», mentre l’ultimo esperimento narrativo dell
scrittore, Col fuoco non si scherza, esce a puntate, a partire dal 1° gennaio 1900, su «L
Rassegna Nazionale», e con uirà in volume soltanto pochi mesi dopo la morte dell’autore. S
questa contiguità della narrativa demarchiana con il giornalismo, oltreché con il teatro
torneremo tra poco.
Il fatto che De Marchi postuli, per lo scrittore, la necessità di un coinvolgimento con
«signor pubblico», sia attratto quasi con imperio dalla «forza potente che emana dal
moltitudine» – per servirci delle parole dell’Avviso premesso alla prima edizione in volum
del Cappello del prete –, da «questa forza naturale» capace di «rinvigorire la tisica costituzion
dell’arte nostra», tutto questo non attenua, anzi accresce, la responsabilità di una scrittur
programmaticamente disposta a corrispondere con vigile e attiva partecipazione alle attes
dei lettori. Più ancora importa, sotto questo riguardo, che uno scrittore per temperamento
convinzioni ideologiche alieno quant’altri mai da ostentazioni di eccentricità
spregiudicatezza, scelga con piena cognizione di causa, anzi, si direbbe, con astut
lungimiranza, di uscire risolutamente allo scoperto, di confrontarsi con gli avversari propri
sul loro terreno, eleggendo come banco di prova un sottoprodotto, addirittura, fra i pi
«sensazionali», degradati e sviliti della contemporanea romanzeria d’appendice, il romanz
cosiddetto giudiziario (che è poi una denominazione di stretta derivazione francese); import
che egli non disdegni di avventurarsi lungo i margini squallidi e orripilanti di quella «sub
letteratura» – per usare un termine che entrerà nel vocabolario critico italiano di lì a qualch
anno – che alle soglie del nuovo secolo un antropologo e criminalista della scuola positiv
Alfredo Niceforo, applicando fra i primi, ben in anticipo sull’industria editoriale, un
distinzione cromatica alla rami cata produzione della narrativa di intrattenimento e d
consumo, avrebbe designato con il titolo di letteratura «rossa»: la letteratura «del sangue, d
delitto e della lotta contro il delitto» (il «giallo» e il «noir» erano ancora di là da venire). Un
decisione, insomma, che sembra sottendere, da parte del pedagogista e imminente autor
dell’Età preziosa, l’ardire di voler a errare il diavolo per le corna. Ma vien fatto di supporr
che De Marchi valutasse positivamente, come faranno nel secolo successivo scrittori anche d
prima grandezza, i vantaggi che possono derivare alla creazione letteraria dal dover collider
con la «resistenza del mezzo», per dir così, rappresentata dalle convenzioni e dalle norm
procedurali del genere, da quelli che nell’Avvertenza citata egli chiama, un p
sbrigativamente, i «comuni artifici d’invenzione e di richiamo».
In grado di contagiare con altissima frequenza la massa dei lettori, e non soltanto di quel
meno acculturati, il «mal francese» – ma anche, eventualmente e in misura più ridotta, ingles
o tedesco – del romanzo giudiziario, o giudiziale (o giuridico, come preferisce chiamarl
Carlo Dossi), in quel giro d’anni, ma chissà per quanto tempo ancora, è oggetto sulla scen
letteraria italiana di pressoché generale riprovazione e condanna senza appello da parte d
critici e scrittori di qualsivoglia tendenza: quand’anche poi qualcuno, come per esempio l
sfortunato Emilio Praga traduttore solerte e dignitoso della saga di Lecoq di Gaboriau, no
riuscisse però a sottrarsi alle ragioni alimentari e alle sollecitazioni di ordine pratico del
nascente industria culturale. E non era già, il loro, un coro composto di soli parrucconi, d
attardati classicisti a oltranza, di nostalgici zelatori del tempo passato. Uno spirito «bizzarro
e controcorrente come, per esempio, il Dossi che abbiamo appena citato, nella Diffida ch
accompagna la quarta edizione, sommarughiana, della Colonia infelice (1883), ma il giudizi
trova altresì riscontro in una Nota azzurra, rubricando quel suo curioso esperimento narrativo
anzi quell’«utopia lirica», come egli la de nisce, sotto l’etichetta di romanzo «giurìdico», co
tale distinzione terminologica intende deliberatamente contrapporlo – la gra a ri ette l
norme ortogra che applicate dallo scrittore lombardo – «a quella gàllica peste del giudizia
romanzo, il quale, dalla cancelleria dei tribunali passato alla crònaca giornalìstica, si è or
rispettabilmente accasato nelle appendici dei più rispettàbili fogli». Il punto di vista giuridico
precisava il settimanale milanese «La Corte d’Assise» nel numero dell’11 giugno 1879,
quello «che scruta le multiformi cause delle umane miserie e dei delitti». E sono opinion
largamente di use, generalmente condivise, per esempio da un altro strenuo sperimentator
come il piemontese Giovanni Faldella, che qualche anno prima, stigmatizzando il costum
letterario vigente, «la letteratura cortigiana venuta in andazzo e i giornali che
brancheggiano», in una lettera indirizzata nientemeno che a Giosuè Carducci, in data 2 giugn
1877, aveva espresso amare considerazioni circa la di coltà di riuscire ad accordare i prop
ideali artistici al dominante mal gusto del pubblico contemporaneo:
Il volgo (serve, portinai, tabaccaje, giovani di negozio e viaggiatori di commercio) hanno per ideale di epopea moderna
romanzi ciclici di Ponson du Terrail, hanno per ideale di narrazione attraente i romanzi di Corte d’assise del Gaboriau
quelli di pari sensazione di Montepin; – le signorine (d’ambo i sessi) hanno per ideale il De Amicis. […] Domina una viltà
concetti e di espressioni. Si dicono le cose più laide e disoneste con una irreprensibilità di bon-ton. Chi non sa portarsi
sentire comune di tutti, chi odia il mestiere di fare romanzi a macchina, chi non sa essere la precisa risultante meccani
della mediocrità del pubblico, egli è fritto.
Quali che siano le distinte ma non poi troppo divergenti prospettive di poetica, di lingua
di stile in cui operano i due scrittori appena citati, nei territori che siamo soliti intitolare al
Scapigliatura, è però con problemi di si atta natura e complessità che intende e dev
confrontarsi il più giovane, sia pure di poco, De Marchi allorché, nei primi mes
verosimilmente, del 1887 si risolve a metter mano alla composizione del Cappello del prete (
prima traccia del romanzo è costituita da un appunto autografo senza data, conservato fra
carte dello scrittore, dove si legge: «Uno uccide un prete ricco – gli resta in mente l’immagin
del cappello a Δ»). E si accinge a farlo non senza la sollecitazione di motivazioni esterne
accidentali, quasi per scommessa, come anche certi ca la testimonianza, fra le altr
dell’intrinseco Mario Borsa, già allievo dell’Accademia scienti co-letteraria e futuro direttor
del «Corriere della Sera». Lo spunto è offerto da un’animata discussione alla quale, assieme a
altri amici, avevano partecipato lo stesso De Marchi e Dario Papa, direttore dell’«Italia»,
quotidiano al quale lo scrittore collaborava. Al centro del dibattito, il romanzo d’appendice
le sue possibili applicazioni alla pratica giornalistica e romanzesca italiana. Alle obiezioni d
suoi interlocutori lo scrittore oppone l’opinione che anche un autore italiano possa cimentar
con decoro, originalità e successo in un genere quasi del tutto egemonizzato dagli scritto
francesi o al più frequentato, di qua dalle Alpi, da imbrattacarte di in mo ordine: «accatton
di personaggi impossibili, di situazioni acrobatiche, di sentimenti che non proveranno mai
per servirci delle parole di un critico del tempo, capaci soltanto di «ra azzonare centon
copie, plagi che pomposamente intitolano romanzi destinati a zavorra nel fondac
dell’editore» (ma non potremmo riferire giudizi consimili ad altre, meno remote fasi del
futura storia del giallo italiano?). Il proposito sarà ribadito nella già citata, notevo
Avvertenza, alla quale De Marchi a da un conciso, lucido abbozzo di poetica in nuce. Il suo
egli sente subito il bisogno di dichiarare in limine, «non è un romanzo sperimentale, tutt’altro
ma un romanzo d’esperimento». Facendo tutt’uno, nella sua presa di posizione polemica
moralistica, del roman expérimental e del feuilleton, di Zola e di Gaboriau, secondo un
prospettiva ideologica misogallica e antipositivista che la dialettica di delitto e castigo d
romanzo sviluppa con tutta evidenza, prosegue la nota:
Due ragioni mossero l’autore a scriverlo. La prima, per provare se sia proprio necessario andare in Francia a prendere
romanzo detto d’appendice, con quel bel bene cio del senso morale e del senso comune che ognuno sa; o se invece con u
poco di buona volontà non si possa provvedere da noi largamente e con più giudizio ai semplici desideri del gran pubblico.
seconda ragione fu per esperimentare quanto di vitale e di onesto e di logico esiste in questo gran pubblico così spes
calunniato e proclamato come una bestia vorace, che si pasce solo di incongruenze, di sozzure, di carni ignude, e alla quale
giornali a centomila copie credono necessario di servire di truogolo.
Vale ad ogni modo la pena di sottolineare il carattere, oltreché colto, anche, per dir cos
arti ciale, d’importazione, che il romanzo giudiziario e poliziesco italiano assume n dal
origini, secondo una modalità che sembra curiosamente anticipare di alcuni decenni quell
che costituirà poi un vero e proprio marchio di fabbrica o vizio d’origine del giallo italiano
ne condizionerà tanto a lungo, com’è noto, l’accidentata vicenda.
La genesi materiale dell’opera va dunque collocata nel clima di fervore, di sperimentazion
di competizione che caratterizza, in quel giro d’anni, l’o cina giornalistica milanese, pi
precisamente, nel nostro caso, la redazione dell’«Italia», un quotidiano d’ispirazion
originariamente monarchico-costituzionale ma non conservatrice che un estroso e intelligent
giornalista trentino, Dario Papa, assumendone la direzione nel 1884 al ritorno da u
soggiorno negli Stati Uniti, aveva saputo trasformare profondamente, intus et in cute (e le su
innovazioni non sarebbero state senza eco nella storia del giornalismo milanese e italiano
Sulla scorta, infatti, dei modelli giornalistici americani, e specialmente del «New Yor
Herald», la struttura formale e la veste gra ca del rinnovato quotidiano puntavano, in prim
luogo, a lusingare il lettore con la sovrabbondante invadenza della cronaca, la varietà deg
stelloncini e delle rubriche, l’esuberanza e l’evidenza degli annunci pubblicitari,
spettacolarità dei titoli su più colonne, nanco cinque, l’uso di asterischi, di corpi e caratte
tipogra ci di erenti, del grassetto ecc. Un contesto e un’apertura all’attualità che
rispecchiano perfettamente, come vedremo, nella trama e nella struttura del Cappello d
prete.
Nei numeri compresi fra il 1° gennaio e il 16 marzo 1887 l’«Italia» di Dario Papa, quasi pe
preparare il terreno, aveva già ospitato anonimo, nelle sue appendici, un romanzo giudiziari
italiano, Il delitto di Via Spiga, di inequivocabile ambientazione milanese e scritto, a quattr
mani, da due redattori del quotidiano (ne fu tratto anche un dramma, messo in scena
Milano, in quel medesimo anno, nel Teatro della Commenda). L’anonimato dell’autore
formalmente mantenuto anche nel caso del Cappello del prete, ma per il lettore provvedut
non è certo di cile scoprirne l’identità, appena celata dietro la menzione delle Storie d’og
colore, pubblicate da Dumolard appena due anni prima. Ma al nuovo romanzo è riservata
grancassa di una campagna pubblicitaria impressiva e clamorosa, per quei tempi abbastanz
memorabile, intesa a introdurre il potenziale lettore in quella medesima atmosfera di mister
e di paura che il corpo, vero o supposto, del delitto fa vivere al protagonista del romanzo. E
è una pubblicità che investe, contemporaneamente, le strade di Milano e il giornale. Da un
parte, per citare la nota degli editori premessa alla settima edizione in volume del romanzo
la città è inondata di manifesti:
Su grandiosi fogli a ssi alle cantonate spiccava in nero disegno un gigantesco cappello da prete. Eccitata la curiosità, poc
giorni dopo altri grandiosi fogli annunciavano che tale era il titolo del nuovo romanzo che avrebbe pubblicato in appendice
giornale «L’Italia» […].
Dall’altra, pressoché contemporaneamente, il disegno stilizzato di un tricorno nero, senz
altra speci cazione, comincia ad apparire sulle pagine del quotidiano a partire dal numero d
10-11 giugno 1887. Muta ed enigmatica, l’immagine continua a far capolino con cadenz
incessante, a ogni numero, per più settimane, ntantoché l’immagine comincia a esser
accompagnata dalle parole di un puzzle che giorno dopo giorno, una alla volta, si riuniscon
per comporre alla ne, in una frase compiuta e comprensibile, l’annuncio preventivo del
imminente pubblicazione, nelle appendici del quotidiano, del romanzo «a atto originale» d
«un letterato italiano». Una sorta di hors-d’oeuvre per stimolare l’appetito del lettore, quand
l a suspense sarà trasferita dal contenitore al testo, dalla cornice del giornale alle pagine d
romanzo, che esce, in 43 puntate, dal 17 giugno al 29 luglio 1887.
Il ruolo e l’incidenza della comunicazione giornalistica nella genesi del romanzo son
confermati anche dalla scelta dell’argomento, ispirato da un «fattaccio» di cronaca nera ch
aveva avuto, qualche anno prima, una larga risonanza sulle pagine dei giornali, non soltant
italiani: l’assassinio premeditato e proditorio, a scopo di lucro, di un sacerdote, don Virgili
Costa, avvenuto a Imola il 12 agosto 1881. L’assassino venne tempestivamente identi cat
nella persona del conte Alessandro Faella, esponente di una nota famiglia aristocratica del
città emiliana, costituitosi dopo un breve periodo di latitanza. Il processo davanti alla Cort
d’Assise di Bologna si aprì il 1° febbraio 1882 e proseguì no al 18 febbraio, quand
l’imputato, mai reo confesso e che aveva sempre ri utato di presentarsi nell’aula d
dibattimento, si uccise con il veleno nel carcere di San Giovanni in Monte proprio quel
mattina, poche ore prima che il Tribunale emettesse l’attesa, ineluttabile sentenza d
condanna. La qualità della vittima e la notorietà dell’assassino avevano naturalmente scoss
l’opinione pubblica, soprattutto di parte clericale, suscitando vivacissime polemiche anche d
natura ideologica: in anticipo di un paio di decenni sul più clamoroso ed emblematico d
processi penali bolognesi di quella stagione, il processo Murri. Del delitto si occuparono i
più occasioni, fra gli altri, due campioni dell’antropologia criminale allora in auge, Cesar
Lombroso ed Enrico Ferri, autori, congiuntamente, di uno studio Su A. Faella e sugli osteomi
le cardiopatie negli alienati, apparso sull’«Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropolog
criminale». Mentre De Marchi, oltre alla sovrabbondante cronaca giornalistica, avrebb
potuto tenere anche presente l’opuscolo che uno degli avvocati del collegio di difesa, Giuli
Tozzoni, aveva dedicato al Processo e morte del conte Alessandro Faella (Bologna, Monti 1882
dove qualche parte è riservata alle teorie scienti che e materialistiche contro le quali
appunta, nel romanzo, la critica ferma e severa dello scrittore cattolico.
Le analogie fra il delitto imolese e il soggetto del Cappello del prete sono numerose e
evidenti, a cominciare dalla rispettiva qualità delle persone dell’assassino e della vittim
Come il conte Faella, anche il barone di Santafusca vanta un passato di combattente nel
guerre risorgimentali, professa opinioni materialistiche, versa in gravi di coltà economiche
so re di disturbi cardiaci. Anche l’età li avvicina; e il barone, prima del delitto, si reca i
visita a casa del sacerdote, come l’inchiesta accertò che avesse fatto il conte Faella nei giorn
precedenti l’omicidio. Per entrambi, sia pure in termini diversi, si a accia l’ipotesi dell
follia. Allo stesso modo, don Costa, come il prete Cirillo (si direbbe anch’egli suo coetaneo
vive in fama di uomo danaroso e presta denari a usura. Si parla, nella cronaca processua
come nel romanzo, di tra ci, di polizze, di cartelle di rendita al portatore, di boni di pegno
di ipoteche, di pagherò, di cambiali, magari falsi cate. In entrambi i casi l’assassino attira co
l’inganno la vittima in una villa di sua proprietà, distante pochi chilometri dal luogo d
residenza, dopo averne allontanato con un pretesto il servitore. Anche il luogo e
circostanze del delitto sono abbastanza simili. Don Costa, dopo essere stato fatto precipitar
in un pozzo scavato in una stanzone annesso alla tettoia della Villa Faella e appositament
ostruito a mo’ di trabocchetto, è ucciso con grosse pietre e una pesantissima selce. Il cadaver
è poi ricoperto con sassi e con strati di pula di riso e di ghiaia. L’esame del cadavere, accant
al quale venne rinvenuto il cappello a punta, rivela la frattura delle ossa della volta e del
base del cranio. Prete Cirillo, a sua volta, è ammazzato con una grossa leva di ferro – «
piccola testa dell’infelice […] si ruppe come una noce» – in un cortiletto annesso alla villa,
il cadavere, spinto in una cisterna, ricoperto di sabbia, di mattoni e di calce, mentr
sull’imboccatura l’assassino colloca «una grossa pietra già preparata». Come il cont
falsi cando una lettera, aveva cercato di far credere, prima del ritrovamento del cadaver
che don Costa fosse vivo e si trovasse a Genova, in procinto di imbarcarsi sopra u
bastimento destinato a far vela per lontane regioni, con la missione di convertire gli infedel
così, dopo la scomparsa di prete Cirillo, si sparge fra la gente del rione la voce che egli «s
andato con un grosso fardello in Levante, tra gl’infedeli». I riscontri potrebbero continuare.
Ad ogni buon conto, a conferma ancora una volta del carattere «arti ciale», come si
accennato, eteronomo, dell’esperimento, l’autore sceglie di allontanarsi quanto più può d
Milano e dalla Lombardia e di ambientare il romanzo nella realtà della Napo
contemporanea, una città che lo scrittore milanese, se non vogliamo dire meneghino, dovev
aver imparato a conoscere quasi esclusivamente sulle pagine dei libri e soprattutto attravers
le inchieste e la cronaca dei giornali, per i quali, per più ragioni, la napoletanità, nella vast
gamma delle sue possibili accezioni, nei decenni postunitari costituisce un argomento d
sicura attrazione, di sempre grande richiamo: basti scorrere, a questo riguardo, proprio
pagine dell’«Italia», magari quegli stessi fogli che esibiscono le appendici del romanz
demarchiano. Sulle colonne dei giornali, del resto, avevano visto per la prima volta la luce, i
anni recenti, testi e resoconti subito con uiti in libri di larga circolazione e risonanza, d
Napoli e i napoletani di Carlo del Balzo (1872, ma ristampato a Milano da Treves nel 1885)
Napoli a occhio nudo (1877) di Renato Fucini, a Vedi Napoli e poi…: ricordo dell’Esposizion
nazionale di Belle Arti (1877) di Yorick glio di Yorick (e cioè Pietro Coccoluto Ferrigni), d
La miseria in Napoli (1877) di Jessie White Mario a Napoli e dintorni: impressioni e ricor
(1880) di Cesira Pozzolini Siciliani, no a Il ventre di Napoli (1884) di Matilde Serao. È be
probabile che certe pagine, in particolare, della scrittrice napoletana (penso, per esempio,
quelle dedicate al gioco del lotto o all’usura), abbiano avuto qualche parte nell’ideazione
nell’elaborazione di un romanzo che, fra gli altri, ha però anche il merito di conceder
abbastanza poco, tutto sommato, alla stereotipia del colore locale o del pittoresco di manier
Non escluderei neppure che De Marchi, per il quale il paesaggio è sempre, prima di tutto, un
stato d’animo, un paesaggio interiore, abbia inteso contrapporre la Napoli e i dintorn
vesuviani del Cappello del prete non soltanto ai luoghi comuni della comunicazion
giornalistica e delle cartoline illustrate, ma anche ai loci deputati del più popolare e corrivo
forse, dei romanzieri d’appendice napoletani, Francesco Mastriani (I misteri di Napoli: stu
storico-sociali, erano stati ristampati a Milano, da Sonzogno, nel 1875). Ma Napoli è anche, i
quel momento, una delle città più popolose d’Europa, una megalopoli traboccante di umanit
e di mistero. E come scriverà di lì a pochi anni un maestro del racconto poliziesco, Gilbe
Keith Chesterton, uno scrittore ideologicamente a ne a De Marchi e che come lui ri uta «d
considerare prosaico il presente o privo di interesse ciò che è comune», la città custodisce
segreti appena accennati (forse anche crudeli), che lo scrittore conosce, ma che il lettore ignora. A ogni svolta di strada, u
dito puntato; ogni pro lo di comignolo sembra indicarci, come uno sberle o, la chiave del mistero. […] La città, a be
guardare, è anche più poetica della campagna; dal momento che la natura è un caos di forze sconosciute, mentre la città è u
caos di forze conosciute e controllabili. I petali smerlettati di un ore, l’arabesco di un lichene possono assumere, oppure n
un signi cato simbolico. Ma non c’è ciottolo di strada o mattone di muro che non sia e ettivamente un simbolo be
determinato, il messaggio di qualcuno, proprio come un telegramma o una cartolina. […] Ogni mattone è un gerogli co
storie umane, come una pietra tombale di Babilonia, ogni tegola di ardesia una testimonianza istruttiva non meno di un
lavagna piena di somme e di sottrazioni. A ogni svolta di strada un dito puntato.
Così, dopo aver commesso il delitto, «u barone» trascorre per le vie di Napoli:
Passavano carrozzelle, birocci, omnibus pieni di gente: ognuno aveva un pensiero in capo, una voglia in corpo, qualche co
da dire, da portare, da ricevere. Egli si trovava invece d’essere un uomo perduto in mezzo alla gente, precisamente come se
fatica fatta per ammazzare quel prete avesse consumata tutta la freschezza della sua vita e vivesse in sé, come un uomo sec
in un guscio secco. Uno strano desiderio lo condusse verso i quartieri popolari del Mercato: ma a un certo punto si fermò. G
sembrò che Napoli fosse piena di preti. Non ne aveva mai visti tanti. Ne spuntava uno ad ogni angolo. Forse egli ci bada
per la prima volta. Quanti preti! […] Aveva bisogno di emigrare almeno col pensiero, nché molta acqua fosse passata. M
sentiva già che è più facile uccidere un uomo, che uccidere un pregiudizio.
E ancora:
Provò il bisogno di uscire di casa e di respirare l’aria libera delle strade. […] Per quanti sforzi però egli facesse sopra sé stes
per non pensare al cappello, cento motivi incontrava per via che gliene richiamavano la memoria. Bastava, per esempio,
vista d’un prete… Se ne vedeva uno lontano svoltare per un vicoletto, si a rettava a corrergli dietro attraverso alle vie,
mezzo alla gente, fin oltre le case, lungo la riva del mare…
Il cappello del prete non rappresenta, a rigore, il primo tentativo di romanzo giudiziario o, s
vogliamo, poliziesco italiano. Fra i precedenti prossimi più curiosi e interessanti meritan
almeno una menzione, anche per la loro struttura seriale, quattro romanzi di Giulio Piccin
(1849-1915), l’eclettico giornalista, critico teatrale e scrittore toscano che si rmava con l
pseudonimo di Jarro: L’assassinio nel Vicolo della Luna (1883), Il processo Bartelloni (1883),
ladri di cadaveri (1884) e La figlia dell’aria (1884), tutti ambientati in una Firenze «sotterranea
e malavitosa, e accomunati dalla gura eccentrica e originale dell’investigatore, il «birro
Lucertolo, una specie di Vidoq nostrano (ma di carattere poliziesco e criminale è anche L
polizia del diavolo, uscito da Treves proprio nel 1887). Nel nostro caso, tuttavia, la novità
l’importanza dell’operazione consistono principalmente nel fatto che sia uno scrittore d
qualità, dalle intenzioni deliberatamente artistiche, a voler fare i conti con i ritmi del mistero
del brivido e dell’emozione, con forme e procedimenti narrativi collaudati e codi cati d
generale apprezzamento del pubblico.
Nel segno della suspense, non è di cile ritrovare nel romanzo di De Marchi topoi, tesser
procedimenti narrativi dedotti dagli archetipi del feuilleton. Basti scorrere la sequenza d
titoli di alcuni capitoli: «La trappola», «Il prete risuscita», «Primi spaventi», «Il fantasma d
cappello», «Paure…», «Una visita al morto», «La mano della giustizia», «L’hanno arrestato
«L’assassino del prete» (o anche «Il prezzo del sangue», per citare la partizione della redazion
appendicistica del romanzo, modi cata nella versione in volume, come vedremo); oppure g
explicit dei capitoli, nei quali si condensano gli e etti di interrogazione e attesa: «Il poverin
non immaginava nemmeno che sarebbe caduto in bocca al lupo» (p. I, cap. 1); «Ma “
prevete” non era buon astrologo questa volta» (p. I, cap. 2); «Bisognava dare alla vita un
buona scossa e far cadere con un colpo tutte le foglie morte» (p. I, cap. 7); «e proprio i
prima pagina vide scritte in testa a un articolo queste precise parole in carattere maiuscolo
PRETE CIRILLO» (p. I, cap. 9); «ma che cosa era poi avvenuto di quel cappello?» (p. I, cap
12); «Don Ciccio questa volta era più ispido del suo cilindro bianco» (p. II, cap. 7) ec
Appartengono ugualmente alle convenzioni del genere gli ingredienti «gotici», i colori d
mistero e dell’orrore impiegati nella descrizione del teatro del delitto, il fatiscente palazzott
«maledetto» dei Santafusca, «abbandonato alle eriche, all’edera e alle ortiche» (la «cas
maledetta» è un topos largamente presente nel romanzo d’appendice):
Chiuse tutte le persiane, chiuse tutte le porte, l’umido e il freddo davano a quelle vaste sale un’aria di grandi sotterranei,
cui risuonava l’eco dei passi e svolazzavano ombre misteriose. Dove la tenebra era più
tta, per la grande quantità de
frasche, che avevano stesa una tenda sulle gelosie, i pipistrelli avevan fatto il loro sordido nido, ed «u barone» non osa
accostarsi per paura di risvegliarne l’immonda tregenda.
Ambienti che si caricano di terri canti premonizioni, di macabri avvertimenti negli incub
orripilanti e tormentosi che agitano il sonno del barone nella notte che precede il delitto.
locus horridus si scompone negli elementi allusivi e minacciosi elencati da una lunga, ossessiv
enumerazione asindetica:
Luoghi bui, antri, caverne, stalle, scuderie, grotte, bassifondi, tinaie, legnaie, pozzi, androni, solai, sotterranei neri, scale ne
e umide, e molte ragnatele, grandi, forti, che lo invischiavano, lo avviluppavano, gli impedivano il passo e il movimento de
braccia, e una lotta grottesca tra lui e un grosso ragno nero, che non era in fondo che il suo prete.
Così come il gusto più facile e grossolano del pubblico sembra condizionare il capitol
dedicato, nella seconda parte del romanzo, all’«orgia» alla quale, nell’imminenza del
catastrofe, «u barone» partecipa, insieme ad alcune cocottes, nella villa vesuviana d
marchese di Spiano. Chi direbbe scritta dal delicato ritrattista di tanti personaggi, maschili
femminili, votati al sacri cio e alla rinuncia, una pagina contra atta e arti ciosa com
questa?
Usilli aveva portato un cesto di bottiglie di Sciampagna, marca garantita, cinquanta lire alla bottiglia […]. I turaccio
scapparono dalle bocche d’argento come palle di lucide mitragliatrici, e saltarono in mare. Un’onda bionda e spumosa come
capelli di Marinella riempì le coppe, i piatti, traboccò, spruzzò i seni delle ragazze che si tu arono gridando in quel dol
lavacro fremente, mentre «u barone», più alticcio degli altri, diceva di celebrare la santa messa.
Al punto che, quando l’orgia si conclude con un «tremendo scompiglio» e con il baron
ubriaco che si ferisce urtando una vetrata, il narratore, assumendo il punto di vista d
personaggio, da una distanza ironica e con tecniche di ascendenza manzoniana, comment
«Vino e sangue! Che bel titolo per un romanzo d’appendice!». Per concludere, poco dopo
«Vino e sangue non era un titolo da romanzo, ma la vera storia orribile della sua vita.
questa storia minacciava di non nir mai». O si pensi, per altro verso ancora, a cer
procedimenti della sintassi narrativa, dalla paragrafatura, frequente e spezzata, all’impiego
di uso no alla ridondanza, di una punteggiatura melodica, enfatica, del punto esclamativo
soprattutto dei puntini di sospensione.
Allo stesso tempo, l’autore non rinuncia a atto all’ambizione di impiegare i prop
sperimentati strumenti espressivi, linguistici e stilistici per scrivere un romanzo senz
aggettivi, una storia che vuole essere, contemporaneamente – per citare alcuni termin
oppositivi disseminati nel tessuto narrativo ed esibiti anch’essi nei titoli dei capitoli – d
delitto e di castigo, di paure e di rimorsi, di sensazioni e di coscienza, di un morto ma anch
di un risorto (e il secondo termine del binomio, si noti, che o re il titolo all’epilogo de
romanzo, è usato proprio nella sua accezione tecnica, evangelica). Le citate coppie antitetich
danno in varia misura conto dell’ampio raggio della problematica etica, giuridica, psicologic
sociale, loso ca, religiosa che lo svolgimento della trama misteriosa e «sensazionale
implica e sottende, senza tuttavia risultarne, in genere, appesantita o compromessa. Anche
parti di contenuto più scopertamente speculativo o didascalico sono quasi sempr
incorporate, con sapiente dosaggio, nel tessuto narrativo, senza apparente contrasto o perdit
di tensione. E a proposito di delitto e di castigo, che De Marchi conoscesse direttamente
romanzo di Dostoevskij non è più che un’ipotesi, sulla quale non insisterei troppo, da riferir
naturalmente alla traduzione francese di Victor Derély, apparsa a Parigi nel 1884 con il titol
Crime et châtiment (eventualmente citato, nella stampa italiana coeva, come Colpa e
espiazione): dalla quale dipende l’edizione italiana, uscita per la prima volta da Treve
soltanto nel 1889 con il titolo Il delitto e il castigo.
Certo è che la scelta dell’ambientazione napoletana e l’inserimento nella trama non soltant
di descrizioni paesaggistiche, del resto sobrie e funzionali, ma anche di aspetti del
topogra a e della vita sociale napoletana, sia aristocratica, sia popolare, non potevano no
concorrere a stimolare la curiosità e l’interesse del lettore (si pensi all’assoluto rilievo ch
l’ambientazione e la topogra a assumeranno nella storia e nella fortuna del romanz
poliziesco). All’e cacia della rappresentazione contribuisce anche un pur discreto ricorso
espressioni idiomatiche o del dialetto napoletano (a cominciare dagli appellativ
antonomastici che distinguono e insieme accomunano l’assassino e la vittima: «u barone» e «
prevete»), a cui si mescolano per contrasto, a rendere più mescidata e mossa l’orditur
linguistica, taluni residuali lombardismi o, ancora, francesismi dell’uso aristocratico,
anglicismi dedotti, per esempio, dal lessico ippico (four-in-hand, tilbury, derby, turf, sportman
break ecc.: ma tutto il capitolo intitolato Alle corse sembra tolto di peso, quasi a rifarne
verso, dalla cronaca mondana o sportiva di un quotidiano). E si noti, con Luca Danzi, che
ricorso ai forestierismi «contribuisce in sostanza a connotare la rappresentazione di situazion
di pratiche e di atteggiamenti moralmente discutibili o addirittura riprovevoli, che ri etton
uno stato di alterazione dei personaggi, e durante i quali avvengono tragedie o si compion
ingiustizie». Forestierismi in qualche modo bilanciati dalle di use citazioni latine prelevate
più spesso, dal lessico liturgico (Et lux perpetua luceat ei, Et libera nos a malo, per omn
saecula, in vitam aeternam ecc.) e messe in bocca ai numerosi preti che con la loro ossessiv
moltiplicata presenza costituiscono un elemento caratterizzante e sintomatico della struttura
dell’ideologia del romanzo. Dall’esperienza teatrale e da un’attitudine confermata per altr
dalla genesi o dalla trasposizione drammaturgica di più d’uno dei suoi romanzi sembra invec
provenire un altro elemento fondamentale, fra i più peculiari e innovativi dell’arte narrativ
demarchiana: la dominante presenza, l’incisività e la spinta dei dialoghi, con l’accelerazione
il dinamismo che essi imprimono alla pagina scritta. Tanto più quando il narrator
attenuando, quando non annullando, il rilievo della cornice enunciativa e dei verba dicend
delega ai personaggi stessi la responsabilità dello scambio di battute.
Non meno vitale per lo scrittore, accanto all’esperienza del dialogo teatrale, quella del
comunicazione giornalistica. Ancora a distanza di anni, addirittura nel testo di una lezione d
un corso universitario di Stilistica italiana presso l’Accademia scienti co-letteraria, sul
scorta della propria comprovata esperienza di giornalista e di scrittore, De Marchi suggerir
di studiare con impregiudicata attenzione «tutte le malizie della brevità, della concision
dell’evidenza» del linguaggio giornalistico, di guardare al giornale come a una modern
«institutio oratoria», a una vera, e cacissima «scuola di stilistica». Una lezione che
rispecchia perfettamente nella trama e nella struttura del Cappello del prete, ben di
dall’episodio di cronaca nera che ne ha ispirato il soggetto.
Non può, per esempio, non colpire l’occhio del lettore anche più frettoloso e super cia
l’insolita, altissima frequenza degli a capo, la brevità dei paragra , ma anche, qua e l
l’ingigantimento del corpo tipogra co, l’uso di caratteri cubitali e del grassetto. Accorgimen
tipogra ci che accade di incontrare non solo là dove, più e più volte, sono colonne intere d
quotidiani a essere interpolate nel corpo della narrazione – secondo un procediment
largamente di uso nella narrativa d’appendice, come già nei racconti «congetturali» di Edga
Allan Poe, nelle indagini di Monsieur Dupin – ma anche, per esempio, in un episodio fra i pi
lodati del romanzo, come la movimentata descrizione dell’estrazione del lotto. Qu
all’e cacia della rappresentazione e a sottolinearne i contrappunti psicologici, anch’es
nalizzati alla trama, concorre la ripetuta riproduzione sulla pagina e in un corpo smisurato
del numero 90, il «gran signore del lotto, […] che nella sua ponti cale maestà viene in fond
alla processione degli altri numeri, […], simbolo dell’abbondanza», l’ultimo de «li nummer
suggeriti da prete Cirillo a Filippino il cappellaio, il numero che, completando e certi cand
il terno della vincita, è urlato in lettere e in cifre, «con voce da cannone», dal banditore. O
pensi, ancora, al «grosso numero nero», il 4 (di aprile, il giorno del delitto), che il barone d
Santafusca legge sul «foglio dell’almanacco americano, attaccato a una delle imposte sul
nestra» del suo quartierino di via Speranzella; il numero che, riprodotto sulla pagina i
caratteri cubitali e in grassetto, con la sua ossessiva evidenza continua a rappresentare, pe
l’assassino e per la sua coscienza, un muto, implacabile atto d’accusa: «Non lo aveva egli g
strappato una volta quel maledetto numero? Chi si divertiva a impastarglielo davanti? Oh
che bisogna credere agli spiriti? Anche il 4 aveva la figura del cappello».
Si aggiunga che nella primitiva redazione appendicistica l’immagine stilizzata e iconica d
cappello del prete è disseminata qua e là tra le colonne del giornale per sollecitare, attravers
l’occhio, l’immaginazione del lettore a inseguire il misterioso cappello che appare, scompar
si sdoppia, ora nella realtà, ora nel sogno.
Nelle varie fasi di svolgimento della storia delittuosa la distanza che separa la vita scritta
inventata da quella reale e vissuta, l’immaginazione dalla realtà, la pagina dalla strada, vien
quasi di colpo annullata. Gli strilloni in carne e ossa che per le strade di Milano vanno ogn
giorno annunciando, fra il giugno e il luglio 1887, l’uscita di una nuova puntata del «romanz
originale italiano» non sono diversi da quelli, siano pure di carta, che nella nzione d
romanzo trascorrono di buon mattino i vicoli e i chiassi di Spaccanapoli annunciand
l’inaspettato ritrovamento dell’eponimo, emblematico cappello, mentre l’ignaro assassino
dopo una giornata «lunga e piena di scosse», dorme tuttavia «di un sonno greve e senz
pensieri», con l’equivoca certezza di aver nalmente distrutto la prova più vistosa e resistent
del delitto:
La mattina seguente […] i ragazzi strilloni correvano per le vie di Napoli a gridare coi foglietti in mano: – U cappiello
prevete. – Grande scoperta, il cappello del prete. – U cappiello du prevete Cirillo. – A un soldo il cappello del prete. La gen
specialmente il popolino, comperava i foglietti e innanzi agli acquaioli e ai ca eucci si formavano dei crocchi. Uno leggeva
gli altri ascoltavano, e tutti ripetevano poi la storia del cappello […], con quella naturale immaginazione della gen
fantastica, che quando trova un bel caso vero, cerca di consolarsi in qualche maniera del dispiacere di non averlo inventato
I quotidiani – sono due le testate, entrambe non ttizie, citate più spesso nel romanzo, «
Piccolo» e «Omnibus» –, con i loro accattivanti e menzogneri articoli di cronaca, con i tito
stampati in caratteri cubitali, con uno «stile a scatti, ad asterischi, a virgolette» che ricorda d
vicino proprio la rinnovata «Italia» di Dario Papa, contrappuntano e diventano essi stes
elementi costitutivi dell’intreccio (che appunto ne incorpora spesso pagine intere, non senz
talora, intonazioni caricaturali), concorrendo a costruire in un ossessionante crescendo, nel
fantasia accesa e agitata del protagonista non meno che nella complice curiosità del lettor
quel «fantasma del cappello», uno e multiforme, che è poi il vero, originalissimo protagonist
e filo conduttore della storia. Valga la citazione di tre distinte sequenze:
«U barone» prese il foglio, lo aprì, e proprio in prima pagina vide scritto in testa a un articolo queste precise parole
carattere maiuscolo: PRETE CIRILLO. […] Che cosa provasse dentro di sé l’assassino a leggere stampato in lettera di scato
un nome ch’egli credeva d’aver cancellato dalla faccia della terra, è di cile dirlo. Se non fosse stato nelle braccia del
poltrona, sarebbe caduto miseramente a terra.
Nel bel mezzo della pagina a grossi caratteri vide stampato: IL CAPPELLO DEL PRETE […] Lesse solo per curiosità le prim
righe, e per un giramento del capo gli si mescolarono le parole in una broda nera e sanguigna. […] «U barone» si senti
schiacciato in mezzo al petto, mentre la testa si squagliava, volava. Al disotto del gran fumo usciva tratto tratto la gros
scritta nera, segnata da altre righe nere in cui spiccava il nome di prete Cirillo, il cappello, il cappellaio, Santafusca,
scatola… Non ne capiva il senso, ma un atomo di coscienza restava come in lzato su uno spillo a so rire atrocemente
tutto quel diavolìo di gerogli ci. So ava grossi sbu
fronte divenuta pallida e fredda.
di fumo, ansando, sudando d’un sudor freddo che gl’imperlava
Provava a scuotere il foglio bianco e nero che teneva in mano. Lo sentiva stridere, cantare, e la scritta maiuscola pare
diventata ancor più grande; così: IL CAPPELLO DEL PRETE. Certo era un sogno, un delirio, un incubo del vino e del pasticc
d’oca […]. Quello stupido foglio nominava anche lui insieme a don Antonio. Vedi il sogno! vedi la stravaganza! vedi
romanzo di Saverio Montépin! […] Una forza più potente della ragione e del caso si pigliava burla di lui. Sentì un otto
sangue montare precipitosamente alla testa seguito da un otto di bile che gli fece amara la bocca. Diventando ad un trat
frenetico, lacerò rabbiosamente il foglio, se lo cacciò in bocca, lo morse, urtò e ruppe i vetri della nestra e andò a rotolar
ruggendo come una bestia feroce, sotto la tavola.
Per l’assassino le parole dei giornali, ogni volta che per caso o per necessità l’occhio v
scorre sopra, si trasformano davvero in pietre; quelle «inchiodate dalle parole sulla carta
sono «cose» che nessun raziocinio, nessun postulato della ragione positiva, nessun aforism
del fantomatico materialista e anarchico dottor Panterre alle cui dottrine egli si è convertit
riescono a far sparire. La lettura dei giornali, oltreché costituire un principio strutturale d
romanzo, diventa per l’assassino – come anche, di ri esso, per il lettore, trascinato con forz
a esercitare no in fondo il suo ruolo di lector in fabula – un’occasione ricorrente, un
strumento necessario per l’altalenante ma progressivo sviluppo di quell’esame, anzi di qu
«rimorso di coscienza», come s’intitola il capitolo undicesimo della prima parte, che l
condurrà, passo dopo passo, alla confessione nale e alla follia: «Tutti i giorni leggeva
giornali e si consolava nel vedere che, dopo il piccolo episodio del terno, il suo pret
rientrava tranquillamente nell’ombra»; o ancora: «Comprò tutti i giornali del giorno prim
compreso il Popolo Cattolico, e corse a casa colla voglia smaniosa di leggere quel che dicevan
del suo prete».
L’inclusione nella trama del romanzo non sottrae per altro il mondo del giornalismo a un
critica incessante e spietata, come lucida, quasi sempre, minuziosa, mai pregiudicata
l’attenzione che De Marchi narratore riserva a tanti aspetti sociologici della realtà italian
postunitaria. Nessuna meraviglia, naturalmente, circa il giudizio, al riguardo, del barone d
Santafusca. I giornali, dopo che essi avevano cominciato a occuparsi del delitto
semplicemente «gli facevano nausea»:
– Maledetti i giornali! – diceva «u barone» sdraiato nell’angolo della carrozza a due cavalli, che volavano verso la città.
Maledette le ciarle stampate! se io fossi il padrone, vorrei a ogarli tutti i giornalisti! Il sentimento feudale dei vecc
Santafusca ribolliva in lui, e il sangue ribellavasi con furore a questo sistema detto di democrazia che consiste nel raccoglie
su un foglio stampato i pettegolezzi, che le pescivendole sparpagliano sui loro usci. Colla scusa di un «si dice» si stampan
cose che nessuno dice, che nessuno vorrebbe dire, e nemmeno sentire a dire.
Gli fa eco, da una prospettiva radicalmente diversa e dichiaratamente ideologica, u
comprimario come il «grande paglietta o avvocato dei preti e dei poveri, uomo no, tenac
nemico dei giornali liberali e dei tempi scellerati», don Ciccio Scuotto: «ma voi non credete
giornali che hanno il gusto di ingannare la gente. Leggete il Popolo Cattolico, l’unico fogli
autorizzato dall’arcivescovo. Là troverete la verità». L’oltranza macchiettistica con cui la su
gura è rappresentata («era piccolo, con una pancia asciutta come un’assicella, stizzoso
uncino, nervoso come un campanello elettrico, e portava sempre un cilindro bianco col pel
arru ato»), non esclude, tuttavia, che su di essa converga talora, almeno in parte, se non
punto di vista, almeno la benevolenza dell’autore. Il quale, vale la pena di aggiunger
proprio a don Ciccio Scuotto, non senza qualche intenzione polemica, assegna il ruolo, s
pure de lato, di impostare da solo, con una «stringente istruttoria», su base indiziari
l’indagine sul delitto, anche in contrapposizione alla «piramidale» asinità dei giudici, del
giustizia u ciale, impersonata dal procuratore del re, il mondano cavalier Martellini.
all’ispido e dispettoso paglietta l’autore sembra imprestare, a un certo punto, la propria voc
per una critica tanto ferma e radicale quanto ideologicamente orientata nei confronti d
metodi investigativi della scuola positiva e della nascente criminologia scientifica:
Ci vuol altro che parlare di delinquenti nati, di forza irresistibile, di lipemania, di pazzia ragionante, di scuola positiva e
scuola classica; ciarle! bisogna che i bricconi siano pigliati e che lo spavento del malvagio sia conciliato colla sicurez
dell’innocente. Ecco quel che bisogna a questi liberaloni del codice penale, pei quali Romagnosi, se vivesse, non sarebbe c
un cretino ragionante.
Non so se anche don Ciccio Scuotto possa essere collegato, in qualche misura, a qu
processo di demitizzazione del detective che caratterizzerà, nel corso del Novecento,
vicende del genere poliziesco e del giallo italiano in particolare. La sua dispettosa alterigia g
avrebbe forse impedito di riconoscersi in una «grama sostanza», ma certo egli non è privo d
«un no istinto delle cose e delle condizioni loro». Ed è di cile sfuggire alla tentazione d
ipotizzare che Carlo Emilio Gadda non si sia limitato a mutuarne il nome, ma ne abbia anch
trasferito qualche minimo tratto distintivo nell’omonimo protagonista del Pasticciacci
conservando magari memoria di una pagina come questa:
Don Ciccio Scuotto, per quanto abile e zelante avvocato, non era né un uomo superiore ai tempi suoi, né un uomo miglio
de’ suoi simili. Alla fascinazione, al mal occhio, alle impressioni credeva sì e no, secondo i casi, come si crede tutti un poco
sogni e magari anche alla cabala del lotto. Egli non conosceva il barone di Santafusca che per averlo veduto un paio di vo
di passaggio: ma non per nulla un uomo si fa l’occhio medico e filosofico.
(Mentre l’assassino «era un uomo superiore ai pregiudizi». Se avesse credut
coll’ammazzare un uomo di commettere un delitto contro la natura o contro un padrone su
superiore diretto, non l’avrebbe fatto […]»).
Non meno critica nei confronti dei giornali e dei giornalisti risulta, all’occasione, la voc
stessa del narratore: «Sull’alba, un reporter più svelto degli altri ne sapeva già abbastanza pe
inventare il resto e per confondere le idee». E il procuratore del re, di rimando: «Un briccon
può esser sicuro di salvarsi dalle mani del giudice, ma non un galantuomo da quelle d
giornalista». Così come manifestamente caricaturale e sgradevole è la rappresentazione d
Cecere, il «grosso cronista-impressionista dell’Omnibus» dalla «faccia molle di fratacchion
sbarbato» e dai «denti grossi e bianchi come quelli di un ruminante», con il quale il baron
nel quinto capitolo della seconda parte, si intrattiene a tavola in una pausa del concors
ippico. «Mentre si ravvolgeva nel tovagliolo e cominciava la pulitura dei piatti e delle posat
che il cameriere gli metteva davanti», accingendosi «a consumare il pranzo in salsa grati
o ertogli da Santafusca, eccolo compendiare con sbrigativa spregiudicatezza, con tono d
«allegria fatua e volgare», l’etica professionale del giornalista:
Regola generale, per un giornalista, un misfatto esiste sempre, e specialmente quando si accorge che non esiste. Ques
processo del prete ha troppo interessato i nostri buoni lettori perché si possa ora disgustarli con un non farsi luogo
procedere. Noi abbiamo bisogno di galvanizzare il nostro morto, di farlo vivere oggi per ammazzarlo dimani, seppellirlo dop
esumarlo più tardi e ciò almeno no alle prossime elezioni politiche, cioè no a nuovi assassini politici. E perché non farem
tutto ciò con un morto, se lo facciamo sempre coi vivi?
E «quell’animale di Cecere» ancora prosegue: «Chi manda al diavolo un giornalista, l
manda a casa di suo nonno. Il divino poeta ha detto che il diavolo è il padre della menzogn
e noi siamo i figli della figlia… capite».
La scelta felicissima di collocare al centro della trama e di esibire nel titolo l’element
simbolico più vistoso e rappresentativo della condizione ecclesiastica costituisce, d’altr
canto, una premessa essenziale per la promozione e la di usione del romanzo, se pensiam
anche al signi cato emblematico che il nero tricorno presbiteriale assumeva nell’immaginari
popolare, di usamente anticlericale, dell’epoca. Appartiene, per esempio a quest
immaginario l’assimilazione del «cappello del prete» a un uccellaccio del malaugurio
parallelo non sconosciuto, per esempio, alla irridente sonetteria, in dialetto e in lingua, di u
proverbiale «mangiapreti» come Lorenzo Stecchetti. Ma qui l’immagine è ripresa non senz
astuzia da parte di un clericale, ancorché spregiudicato, come De Marchi, per rappresentare
ossessioni e le inquietudini dell’assassino, diviso fra le ognora più vacillanti certezz
positiviste e scientiste e l’appello intermittente e irresoluto di una coscienza tuttav
implacata. Nelle ricorrenti visioni a occhi aperti del barone di Santafusca quel «maledetto
cappello di prete Cirillo, la sua moltiplicazione o il suo fantasma, diventano ben presto un
«macchia nera sul sangue, tristo uccellaccio accusatore. […] Comunque fosse, il cappello d
prete si alzava dal mucchio, grande, nero, sozzo, peloso come un osceno pipistrello, come u
fantasma accusatore». Quanta forza di vita in quel «cencio mortuario»: pareva che lo spirit
del prete «vi si dibattesse dentro con impeti e convulsioni di uccellaccio agonizzante
L’assassino arriva al punto
che più non distingueva chiaramente tra il morto ed il cappello. Di queste due gure torve e nemiche, non era prete Cirillo
più cattiva. Il prete – sentiva in modo confuso il peccatore – il prete avrebbe potuto, nella sua misericordia perdonare;
cappello, no.
E quando, salito alla Falda sotto le mentite spoglie di un cacciatore, nell’osteria del Vesuv
è sul punto di recuperare il supposto cappello della vittima, l’assassino continua a esser
tuttavia agitato dal dubbio e dalla paura:
Quel sinistro uccellaccio avrebbe cessato di svolazzargli intorno? Rideva gelidamente, ma nello stesso tempo il cuore mala
picchiava forte. Nel cappello era rimasto un brandello dell’anima del prete, e in fondo egli aveva paura d’incontrarsi anche
questo spauracchio.
Nella primitiva redazione appendicistica De Marchi aveva scritto: «d’incontrarsi coll
spauracchio». Se la tradizione a stampa in volume presenta un numero alquanto limitato d
varianti, quasi tutte dislocate nel passaggio dalla prima edizione alle successive, molto pi
ampio e scrupoloso è il lavoro di revisione che il romanzo subisce nel passaggi
dall’appendice giornalistica al volume. Propongo, per concludere, alcune manciate di esemp
che potranno magari interessare anche da un punto di vista più generale.
Senza tener conto delle correzioni puramente gra che o della punteggiatura, alcun
interventi riguardano, prima di tutto, la struttura che, pur conservando la canonic
bipartizione propria di tanti romanzi dello scrittore (però con le signi cative eccezioni d
Demetrio Pianelli e di Arabella), registra una sensibile riduzione del numero dei capitoli (da 2
a 16 nella prima parte, da 13 a 9 nella seconda, con la perdita, talora, di titoli sensaziona
come, per esempio, Il prezzo del sangue o Il terno del prete), come anche non poche di ormit
nella paragrafatura e nella distinzione tipogra ca, mediante asterischi, dei blocchi narrativ
all’interno dei singoli capitoli (aspetti, questi, non irrilevanti nella prosa di romanz
ottocentesca).
Sotto l’aspetto formale, un certo numero di correzioni investe, intanto, un principi
consolidato, quasi una norma della prassi variantistica, l’eliminazione di ripetizioni. Così, pe
esempio: con l’alacrità di dieci braccia / con alacrità di dieci uomini (braccia ritorna nella rig
seguente); passate / trascorse (nella riga seguente, passassero); inchiodato / immobile (du
righe dopo, inchiodati); volentieri / con simpatia (volentieri ricorre nella riga precedente
pensò / ri etté (un altro pensò, due righe dopo); L’idea del romanzo richiamò l’idea / L’ide
del romanzo richiamò l’altra; forza / necessità (per evitare un impossibile «per forza creder
alla forza»); disprezzo / dispetto (il primo termine ricorre poche righe prima); avviluppando
/ stringendosi (due righe sopra, avviluppate); a are / contratto (subito dopo, un altro affare
ecc.
Un’altra tipologia di correzioni interviene nel discorso prosastico per speci carne meglio
caratteri di proprietà, determinazione, concretezza, sostituendo per esempio all’espression
generica o sintetica quella più distintiva e analitica, o magari tecnica:
avevano esposto il suo nome / avevano pubblicato il suo nome; pensato al modo / studiato il modo; cappello / tricorn
intronato / sconquassato; dire / raccontare; egli / il prete; davanti / accanto; soave / ridente; Prese un altro viottolo traversa
/ Prese un altro viottolo di traverso; l’edi cio della sua difesa / l’edi cio della sua coscienza (con la sottolineatura di u
termine chiave del romanzo, esibita anche altrove nel processo correttorio: le ultime sue visioni / le ultime visioni della su
coscienza; Dio, una capocchia di spillo puntato sul cuscino del cielo / La coscienza è il lusso, l’eleganza dell’uomo felice.
Dio? Dio una capocchia ecc.: dove Panterre trasferisce a Dio l’immagine famosa che Marco Aurelio aveva riferito alla terra
tempi andati / tempi antichi; sguardi / occhi; un mezzo giro / una mezza volta; un piccolo mugghio / un sordo mugghio; c
entra verso i monti / che sale verso i monti; sedendosi / mettendosi a sedere; si fece a raccontare / si mise a raccontare; e
stato / era disceso; sonno / letargo; abiti / vestiti; portare su un foglio / raccogliere su un foglio; rimasto col foglio in mano
rimasto colla mano sul foglio; fanno / sparpagliano; prese a salire / cominciò a salire; far rilevare / far nota; far loro il torto
disgustarli; di buona ragazza / di bella bestiolina; terribile / orribile; parlare / aprir la bocca; la bacchetta / il bastone; com
una biglia / come una palla da bigliardo; giornata / giornataccia: con un tono di trionfo / con un mezzo sorriso di trionf
pranzo / desinare (riferito agli umili abitanti della villa) ecc.
Altrimenti, per non dire dell’eliminazione di veri e propri errori (un piccolo eco / u
piccolo suono), o improprietà (titoli circolativi al suo nome / titoli legati al suo nome), l
scrittore sembra voler ridurre ugualmente, sia, abbassandolo, il tasso di letterarietà d
dettato (ei / egli; non vale / non è buono; poggi / colli), sia, innalzandoli, usi e vocaboli pi
scopertamente dialettali, milanesi (un ometto / un uomo / lo scherzava (transitivo) / l
beffeggiava) ecc.
In linea generale, nell’elaborazione del Cappello del prete, di norma motivata da un attent
scavo realistico piuttosto che da ragioni puramente retoriche o esornative, sembra di gra
lunga prevalere la preoccupazione di aggiungere, piuttosto che di levare. Aggiungere, pe
esempio, un aggettivo. Ma il signi cato di interventi si atti, di rilievo anche più generale, v
valutato alla luce delle ben note riserve dello scrittore nei confronti dell’aggettivazion
coloristica, impressionistica che egli riprovava, come moda d’oltralpe, in tanti prodotti deg
ismi contemporanei.
In Pensare e sentire (1888), denunciando «l’abbondanza strabocchevole di una forma, che s
è destinata a meglio determinare e a dar colore e rilievo ai corpi, non dovrebbe m
sopra are e ingombrare la linea e la prospettiva del pensiero», scrive a questo riguardo D
Marchi:
Sia un aggiuntivo, non un assorbente, una parte del tutto, non una parte maggiore del tutto. Un altro difetto, che si colle
con un vizio organico della mente di molti scrittori moderni, è l’uso capriccioso, la scelta ricercata o, per dirla alla frances
preziosa, di questi benedetti aggettivi, che non sembrano mai belli e
ni abbastanza e che invece di illuminare e
determinare non fanno che involgere il pensiero in una nebbiosa e trascendentale indeterminatezza. Questa tendenza a tira
non solo gli aggettivi, ma i nomi e i verbi fuori del loro signi cato materiale per obbligarli a dire, non già ciò che essi dicon
da un pezzo, ma ciò che piace a noi di far loro dire, produce un genere tutto nuovo di scrivere, che resterà come una de
caratteristiche viziose della seconda metà del secolo XIX.
Ecco qualche esempio:
gli stimoli / gli stimoli eccitanti; un’idea troppo confusa / un’idea molle e confusa; alle donne / alle belle donne; lunga / lun
e frettolosa; Dal terrazzo / Dall’alto terrazzo; lieto d’una falsa ilarità / lieto ed ebbro di una falsa ilarità; un dilemma p
razionale / un dilemma più razionale e utile; quell’occhio aspirante / quell’occhio avido, assorbente; del caciocavallo / d
vecchio caciocavallo; sul cappellaccio / sul brutto cappellaccio; gioia amara / gioia amara e piena di spavento; spiagg
deserta / spiaggia aperta e deserta; quei canali / quei tanti canali; cappello incriminato / cappello rosso incriminato;
bagliore azzurro del mare / il bagliore azzurro e tremolante del mare; colla storia di un cappello / colla storia famosa di u
cappello; la storia / la vera storia; sollevato / sicuro e sollevato; maggiore consistenza / maggiore e reale consistenza; tram
oscura / trama lacera e oscura; allegria fatua / allegria fatua e volgare; l’edi cio ch’egli aveva edi cato del suo delitto
l’edi cio arti ciale che egli aveva edi cato del suo delitto; sulle orme d’un delitto / sulle orme sanguigne di un delitto; un
snervante fatica / una snervante fatica cerebrale; quella razza di avvocati / quella razza balorda di avvocati; sulla tavola
sulla tavola polverosa; la voce segreta / la voce prudente e segreta ecc.
Ma l’aumento, compresa l’iterazione, può ugualmente riguardare i sostantivi:
un ammasso informe di erbe / un ammasso informe di frasche o di viluppi; lasciarla morir di fame? / lasciarla morire in ca
di fame e di solitudine?; per ore / per ore e ore; per gente / per la gente o pei liberalastri; un cane nero / un cane: un ca
nero; Era stata una grande giornata / Era stata una grande giornata, e un gran viaggio; uno spavento, un tormento / un
spavento, un castigo, un tormento; un momento di riposo / un momento di raccoglimento e di riposo; dei tilbury, delle be
signore / dei tilbury, dei coupés, dei breaks, delle belle signore; un’ora di riposo / un’ora di tregua e di riposo; con parole / co
moti e con parole;
o i verbi:
lo faceva saltare / lo faceva saltare e ballare; per confondere le idee / per inventare il resto e confondere le idee; Si sforzò
ridere anche lui / Si sforzò dunque di ridere anche lui, di ridere, sì; distruggere / tagliuzzare e distruggere; la virtù
rinnovare sé stesso / la virtù di rinnovare sé stesso e di moltiplicarsi; non avrebbe fatto che ingentilirlo / non avrebbe fat
che ingentilirlo e farlo soffrire di più ecc.
Appartengono alla stessa fenomenologia procedimenti ampli canti, non già di stamp
retorico (salvo minime concessioni, qua e là, al colore locale: si appendevano corone di fiori
si appendevano corone di ori, come davanti a San Gennaro e alla Madonna Santissima;
alla convenzione del paesaggio: biancheggiava nella luce del sole / biancheggiava alla luc
tersa dell’alba piena di caldi e uvi ecc.), ma intesi, piuttosto, a una de nizione sempre pi
puntuale, precisa, determinata, del tipo:
una gran voglia di godere / una gran voglia di godere la vita; per la scienza / per amore della scienza; con istudio e freddez
/ con istudio e freddezza di cuore; faceva acqua / faceva acqua da tutte le parti; strappargli una procura / strappargli con
unghie una procura; facendo conca con le mani / facendo conca alla bocca con le mani; un luogo alto, lontano / un luo
alto, sui colli, lontano; dalle corrose ardesie del terrazzo / dalle corrose ardesie del terrazzo, a far beate le lucertole; Sedet
sopra un mucchio di pomici / Dopo aver gironzolato un pezzo, si pose a sedere sopra un mucchio di pomici; adoperare
fuoco / adoperare contro di loro il fuoco; e tutti lo fuggivano / e poiché non paga più i debiti di giuoco, tutti lo fuggivan
ritrovare in casa / ritrovare, tornando in casa; Era un fatto od era un sogno? / Era un fatto vero od era stato un sogno di u
uomo ubbriaco?; [una risatina] morì nel ventre / morì nel ventre col tintinnio d’un campanello; dietro la gente / dietro que
folla di contadini; a guardare l’uomo / a guardare l’uomo con piccoli occhi gialli; di non potersi fare una ragione / di no
poter fermare quel fantasma, di non potersi fare una ragione; colla debolezza umana / colla debolezza della natura uman
per quanto si sforzasse / per quanto si sforzasse di pensarci; non le risveglia / non le risveglia d’un colpo e le fa saltar fuori;
cuore si faceva sentire / il cuore, quel benedetto cuore già malato, si faceva sentire; degno d’inglesi / degno di nobili ingle
lo vedrete / lo vedrete questo bel cappello; cantò alleluja / con voce sguaiata, si mise a cantare alleluja, alleluja; Il cacciato
trasalì / Il cacciatore a quella vista grottesca trasalì; Ma per il cacciatore era un’occasione / Passata la prima impressione, e
per il cacciatore un’occasione; Giorgio prese / Quel go o ragazzotto, che rideva nel gozzo, prese; Tutti risero […
dell’uccellaccio / Tutti risero […] dell’uccellaccio chiuso nel carniere; salutò e prese la sua strada / salutò i buoni amici
prese la sua strada; sfuggito alla morte / sfuggito a un duro cimento di morte; sarebbe stata poca vendetta una fucilata
sarebbe stata poca vendetta per la sua rabbia una fucilata; da farne scomparire la traccia e l’ombra / da farne scomparire
traccia e l’ombra per sempre; Una volta riuscì a decifrare anche questa / Dopo un grande e faticoso sforzo di mente una vol
riuscì a decifrare questa; si abbassò / si abbassò con tutta la persona; non osò / non osò buttar via il carniere; camminava n
buio / camminava nel buio gesticolando come un forsennato; mandava un ampio bagliore / nella notte mandava un al
bagliore; ridendo nel buio / ridendo gelidamente nel buio; nuovi ordini / nuovi ordini da Napoli; notò anche / notò n
processo verbale anche; u ciali / u ciali nelle splendide divise; Gli parve / Strada facendo, gli parve; gli parve di ravvisar
/ gli parve improvvisamente di ravvisarlo; sul letto / sul letto, col capo e con una mano fasciata; accomodando i pezzi
accomodando i pezzi sul letto; era già troppo / era già troppo, al punto in cui si era arrivati; e addio / e addio suonatori; ne
mano / nel palmo della mano; ripiombava nella dolorosa contemplazione / ripiombava ora più gravemente nella doloro
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