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La medicina vestita di narrazione | 1
Andrea Lopes Pegna
La narrazione racconta la malattia, sia da parte dell’ammalato nei confronti del medico che
da parte del medico nei confronti dell’ammalato. La narrazione rappresenta così il ponte
indispensabile tra l’ammalato e il medico; la parola è lo strumento di comunicazione. Il libro
di Sandro Spinsanti colpisce perché con semplicità e chiarezza riesce ad entrare dentro i
problemi che riguardano la malattia, la cura medica, il rapporto medico/paziente e, in
profondità, il fine vita.
L’ultimo libro di Sandro Spinsanti, “La medicina vestita di narrazione”[1], piccolo
per le sue ridotte dimensioni ma grande per i suoi contenuti, ha un unico
protagonista: la “parola” che rappresenta il mattone che viene a costruire la
“narrazione”. La narrazione racconta la malattia, sia da parte dell’ammalato nei confronti
del medico che da parte del medico nei confronti dell’ammalato; la narrazione rappresenta
così il ponte indispensabile tra l’ammalato e il medico; la parola è lo strumento di
comunicazione. Questo libro colpisce perché con semplicità e chiarezza riesce ad entrare
dentro i problemi che riguardano la malattia, la cura medica, il rapporto medico/paziente e,
in profondità, il fine vita. Spinsanti riesce a centrare la problematica raccontando questo
viaggio nella malattia dall’angolatura di un attento e sensibile bioeticista quale egli è,
avvalendosi anche di citazioni tratte dal mondo letterario e artistico, mostrando così la
propria profonda cultura. Anche se non è un classico libro di medicina, rappresenta,
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comunque, per le tematiche che affronta, un indispensabile strumento non solo per i medici
e per i futuri medici, ma per tutti gli operatori sanitari e per tutti coloro, persone comuni,
che si ammalano e hanno contatto col medico.
Il primo capitolo inizia con lo spiegare cosa si intende per medicina narrativa e
quale sia l’importanza di raccontare la propria vita di malattia e leggere le
esperienze degli altri malati. Anche per il medico è importante conoscere la vita di colui
che si affida alle sue cure, non solo per fare la diagnosi, ma soprattutto per adottare una
medicina personalizzata che rispetti le esigenze del singolo, confezionata per lui su misura
come un vestito uscito dalla sartoria. «Narrando, infatti, si comprende: dalla nascita alla
morte, percorrendo i tortuosi sentieri della cura, le vicende del corpo acquistano il loro
completo spessore solo quando sono illuminate dalle arti narrative. Narrando si guarisce:
chi viene “delocalizzato” nella terra ignota della malattia trova nel racconto e nella
condivisione del suo vissuto una risorsa per accedere alla Grande Salute, condizione di
crescita complessiva (cioè la presa di coscienza e autonomia e responsabilità della persona
ammalata). Narrando ci si cura: la medicina che “conta” – quella di precisione – non è
l’antagonista di quella che si serve dell’ascolto e della comunicazione. Sono le due facce di
un’unica medicina: la sola che la cultura del nostro tempo riconosce come “buona
medicina”» (cit.).
Proprio per instaurare una “medicina sartoriale” cioè una medicina tagliata su
misura della singola persona è fondamentale l’ascolto dell’ammalato che esprime
così il suo consenso per quanto gli viene proposto, una volta però che sia stato
veramente informato con verità e onestà sul suo stato di salute e sulle cure più adatte a lui.
«Ascoltare la narrazione del paziente non è un optional. Non è questione di gentilezza
d’animo da parte del curante; e neppure è solo una strategia per arrivare con più sicurezza
a una diagnosi giusta. Senza ascolto non si può fare oggi una buona medicina, così come la
chiede la cultura del nostro tempo. Perché cercare di fornire al paziente le cure più
appropriate al suo caso non basta: è necessario che il malato dia il suo più esplicito
consenso ai trattamenti. Quand’anche ciò che le cure mediche forniscono fosse risolutivo
per la sua patologia, se è erogato senza il suo consenso non si può chiamare buona
medicina. Con una frase molto efficace, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha
sintetizzato la regola fondamentale della medicina della modernità come: “Niente su di me,
senza di me”» (cit.). «Non confondiamo il vero consenso con la sua caricatura, ovvero con la
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richiesta di apporre una firma in calce prima di un intervento diagnostico o terapeutico.
Succede spesso che questo momento non sia stato preceduto da nessuna informazione e
soprattutto da nessuna verifica di ciò che il malato ha capito di quanto eventualmente gli è
stato comunicato. Questa prassi merita di essere chiamata “consenso estorto” piuttosto che
“consenso informato”» (cit.).
Momento critico, come io penso, rappresenta poi per il medico o altro sanitario la
comunicazione di una cattiva notizia; quando dobbiamo affrontare infatti la discussione
sulle scelte che riguardano la malattia con la persona ammalata specialmente se di una
patologia che potrebbe portarlo a rischio della vita, occorre da un lato cercare di informarlo,
secondo i dettami del Codice di Deontologia Medica (vedi Art. 33 della versione del 2014),
sempre se da lui è richiesta l’informazione, non solo sulla diagnosi, ma soprattutto sulla
prognosi possibile, dall’altro lato occorre mantenergli però la speranza che non si troverà
mai solo e che verrà fatto di tutto per non fargli vivere sofferenze; questo per non causargli
la perdita della forza nell’affrontare il futuro, senza causare in lui uno stato depressivo, che
si potrebbe chiamare paradossalmente “iatrogeno”.
È solo attraverso l’ascolto e lo scambio reciproco che avviene tra medico e
ammalato già al momento della diagnosi, quando il paziente racconta la propria
malattia come lui la vive, con i sintomi, le emozioni, le fantasie… (in inglese si chiama
illness) e il medico che la rimodella nei termini del sapere medico (in inglese disease), che la
malattia può veramente entrare nella persona malata trovando così spazio nella sua vita. Ciò
diventa prioritario specialmente quando la patologia non può essere rimossa e bisognerà
imparare a conviverci. Solo se si viene a creare un rapporto di verità, di onestà, di
disponibilità, di fiducia reciproca sarà veramente possibile per il medico accompagnare la
persona ammalata che gli si affida, nel percorso della propria malattia. Specialmente questo
è vero per le patologie croniche e progressive, dettate da “perdite” continue e quindi da
“obiettivi” di cura che necessariamente si ridimensionano progressivamente. Solo con la
medicina narrativa che fa da ponte tra ammalato e medico sarà possibile da parte di
quest’ultimo conoscere veramente chi gli si presenta di fronte per potere così fare una
medicina che sì adatti a lui perfettamente, come un vestito che possa però anche
continuamente essere rimodificato in rapporto all’evolversi della patologia. L’ascolto e la
medicina narrativa richiede tempo e Spinsanti a questo riguardo ricorda quanto insegnava
ai suoi allievi Alberto Malliani, docente di Medicina Interna alla Statale di Milano: «Se un
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malato vi racconta la sua storia e non avete voglia di ricominciare da capo per chiedere
meglio, per ascoltare ancora, se non dimenticherete l’esatto trascorrere del tempo, se non
farete tardi è segno che non stavate facendo il medico».
Spinsanti afferma infine che anche la morte deve essere su misura e non di unica
taglia; nuovamente si rende però necessario l’ascolto reciproco tra l’ammalato e
chi si prende cura di lui. Ci viene così detto: «Per avere una morte che calzi come un
abito su misura abbiamo bisogno di un intenso, ripetuto e veritiero dialogo con chi fornisce
le cure. Ma la sartoria che ci fornirà il vestito appropriato è solo il capezzale: lì si devono
incontrare la parola del medico e quella del malato; l’uno per fornire informazioni sul
decorso della malattia e sulle possibilità dell’arte medica; l’altro per dar voce ai propri
auspici. È questa la narrazione che può dare un volto umano anche alla morte» (cit.).
Concludendo viene però spontaneo domandarmi se la strada per raggiungere
questa buona medicina che tutti noi auspichiamo, sia quella erogata da una sanità,
che tende sempre più a spersonalizzare le cure, che possono essere egualmente
erogate da un medico senza che questo abbia instaurato uno stretto rapporto con
l’ammalato, da un medico che può cambiare così continuamente come ad esempio vediamo
spesso accadere per gli ammalati di patologia oncologica quando questi si vedono di fronte
medici sempre diversi, siano medici specialisti oncologi o in via di specializzazione, che gli si
possono presentare alternandosi a rotazione in ambulatorio, una sanità indirizzata così
sempre più verso una organizzazione dettata da sterili rapporti tra medico e paziente dai
contenuti, tempi di visita ecc. standard (c’è chi ha accostato questa medicina con sterili
standard di qualità, luoghi, tempi ecc. a quella fornita dall’industria alimentare come quella
della rete dei Mc Donald[2]), una sanità con sempre più estesi tagli, che trova sempre più
risposte per gli ammalati solo nella struttura ospedaliera che è diventata spesso con il
Pronto Soccorso la sede per le cure di base, e che sempre più è diventata la sede, insieme
alle RSA, dove le persone vanno a morire, al posto della propria abitazione accanto ai propri
cari.
Andrea Lopes Pegna – [email protected], pneumologo e bioeticista.
Bibliografia
Sandro Spinsanti. La medicina vestita di narrazione. Pensiero Scientifico Editore, Roma,
2016.
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Ray Dorsey E. and Ritzer G. The Mc Donaldization of Medicine. JAMA Neurology.2016;
73(1):15-16
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