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GCA Newsletter Settembre 2016 (n. 18) SOMMARIO ARTICOLI - Il leasing può concludersi per una sola rata saltata (tratto da “Il Sole 24 Ore”) - Il divieto di iniziare o proseguire azioni va fino alla chiusura (articolo tratto da “Il Sole 24 Ore”) - Concordato preventivo, annullamento più facile (articolo tratto da “Il Sole 24 Ore”) - Poteri limitati al liquidatore nel concordato preventivo (articolo tratto da “Il Sole 24 Ore”) - Alla lite avviata dagli ex soci partecipa anche il curatore (articolo tratto da “Il Sole 24 Ore”) 2 4 6 8 10 GIURISPRUDENZA DIRITTO BANCARIO - Gli interessi moratori, quali penali da inadempimento, non rilevano ai fini della l. 108/96 (Tribunale di Modena, sentenza del 07.09.2016, n. 1703) - Eccezione di inadempimento infondata in caso di uso legittimo della clausola risolutiva espressa (Corte d’Appello di Roma, Sez. III, sentenza del 25.08.2016, n. 5089) - Anatocismo e nullità per indeterminatezza (Tribunale di Milano, sentenza del 15/09/2016, n. 10121 – ottenuta da GCA) - Eccezione di prescrizione, onere di indicazione delle rimesse solutorie e indagine del ctu (Tribunale di Pavia, ordinanza del 08.09.16) 12 15 18 21 Giancarlo Catavello Avvocati Via San Calimero, 7 – 20122 Milano - Tel. (+39) 02.6595459 / (+39) 02.62695486 - Fax (+39) 02.65560008 Via Emanuele Gianturco, 6 – 00193 Roma - Tel.(+39) 06.45499440 E-mail: [email protected] - Internet: www.gcavvocati.it Il presente elaborato costituisce un documento informativo di sintesi e non un parere professionale; gli estratti proposti corrispondono a rielaborazioni personali e sono tratti da siti istituzionali o da banche dati di primaria rilevanza e diffusione. GCA declina, in ogni caso, ogni responsabilità in merito ad eventuali errori o inesattezze del testo o dei riferimenti, da qualsiasi ragione causati. Riproduzione riservata. 2 IL LEASING PUO’ CONCLUDERSI PER UNA SOLA RATA SALTATA (articolo tratto da “Il Sole 24 Ore” del 05.09.2016) Nato in origine per soddisfare l’esigenza delle società di disporre di beni necessari all’attività produttiva, lo strumento del leasing è stato “esteso” anche ai privati che incontrano difficoltà nell’ottenere un mutuo per l’acquisto della prima casa. Si tratta del «contratto di locazione finanziaria di immobile da adibire ad abitazione principale» (legge di Stabilità 2016, articolo 1, commi 76-84), attraverso cui la banca – o l’intermediario finanziario iscritto all’albo – si obbliga ad acquistare (o a far costruire) l’immobile su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore, il quale versa un corrispettivo periodico per tutta la durata del contratto e che tenga conto del prezzo di acquisto (o di costruzione). Come in un “solito” contratto di leasing, la casa viene concessa in locazione per il periodo di durata del contratto stesso, con l’utilizzatore che – alla scadenza – può scegliere se restituire il bene oppure diventarne l’effettivo proprietario, versando l’intera differenza ancora dovuta a saldo del costo dell’immobile, più gli interessi pattuiti con il finanziatore. La risoluzione del contratto Nel caso in cui l’utilizzatore smetta di versare i canoni nei termini previsti, il contratto si risolve e il concedente (banca o intermediario finanziario) ha diritto a veder restituito il bene per poterlo vendere o concedere in leasing a un altro soggetto. Va però corrisposto all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita (o da una sua diversa collocazione), al netto dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione e di quelli a scadere attualizzati, nonché del prezzo convenuto per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto. L’eventuale differenza negativa è a carico dell’utilizzatore, che deve versarla al concedente (legge 208/2015, comma 78). n. 18/2016 3 La ricollocazione del bene La vendita o la ricollocazione del bene concesso in leasing sono di competenza del solo concedente, che dispone di piena discrezionalità nell’eseguire le relative operazioni: sebbene dal buon esito di queste ultime dipenda il maggiore o minore importo che recupera l’utilizzatore (oppure, per converso, che si ritrova a versare). Nell’avviare la vendita o la ricollocazione, il concedente deve comunque attenersi agli obblighi generali di trasparenza e di pubblicità nei confronti dell’utilizzatore, al quale è però impedito di interferire nell’attività (ferma restando, in ogni caso, la possibilità di controllare a posteriori il buon operato in sede giudiziaria). Il procedimento di sfratto Le norme non approfondiscono, invece, quale sia l’entità dell’inadempimento da prendere in considerazione. A questo proposito, deve ritenersi valida la clausola che legittima il concedente a richiedere la risoluzione anche nel caso di mancato versamento di un solo canone, indipendentemente dal suo valore. L’utilizzatore può, in sostanza, correre il rischio di veder venduta la casa solo perché è incorso in una trasgressione di minima rilevanza, quale appunto può essere il non aver pagato una sola mensilità di locazione finanziaria. In seguito alla risoluzione del contratto, l’utilizzatore deve naturalmente rilasciare l’immobile nella piena disponibilità del concedente. In assenza di rilascio spontaneo, trova applicazione il procedimento di convalida di sfratto di cui agli articoli 657 e seguenti del Codice di procedura civile. Il protrarsi della sua permanenza nell’immobile, anche dopo la risoluzione del contratto, fa assumere all’inquilino la qualifica di occupante senza titolo. Come tale, è soggetto a riconoscere al concedente un’indennità per questa occupazione, oltre all’eventuale maggior danno da lui subìto per non avere potuto disporre dell’immobile. n. 18/2016 4 IL DIVIETO DI INIZIARE O PROSEGUIRE AZIONI VA FINO ALLA CHIUSURA (articolo tratto da “Il Sole 24 Ore” del 07.09.2016 – di E. Comparotto) La liquidazione del patrimonio del debitore in crisi, inteso quale procedimento alternativo rispetto all’accordo di composizione della crisi e al piano del consumatore, è disciplinata dagli articoli dal 14-ter al 14terdecies della legge 27 gennaio 2012 n. 3. Si tratta di un impianto normativo che, pur con le necessarie peculiarità, ripropone dinamiche e meccanismi propri della procedura fallimentare: una sorta di editio minor del fallimento, destinata a quei debitori che non posseggono i requisiti di fallibilità e che non sono in grado di formulare una proposta di composizione della crisi idonea a preservare, in tutto o in parte, il patrimonio personale. Va detto che alla procedura di liquidazione si può anche pervenire in una seconda fase quando, su istanza dello stesso debitore o di uno dei creditori, venga disposta la “conversione” di un accordo di composizione o di un piano del consumatore le cui aspettative di buon esito, per varie ragioni (annullamento o risoluzione dell’accordo di composizione, oppure cessazione degli effetti dell’omologazione del piano del consumatore), siano andate frustrate. Che il procedimento di liquidazione si ispiri al fallimento è questione di immediata percezione, tenuto conto che il liquidatore sarà chiamato a redigere lo stato passivo, così come dovrà procedere ad inventariare i beni del debitore e ad elaborare il conseguente programma di liquidazione. Al pari di quanto accade in caso di epilogo fallimentare, poi, si realizza lo spossessamento del debitore, posto che l’amministrazione dei beni che compongono il patrimonio viene per intero devoluta al liquidatore. In un assetto normativo così chiaramente orientato s’inserisce, in maniera del tutto distonica, la previsione contenuta nell’articolo 14quinquies, ove viene previsto che le azioni cautelari ed esecutive non n. 18/2016 5 possano essere iniziate o proseguite «sino al momento in cui il provvedimento di omologazione diventa definitivo». L’inciso disorienta perché, semplicemente, la procedura di liquidazione, così come quella di fallimento, non prevede alcuna omologa. Si tratta di un refuso in cui il legislatore è con tutta probabilità incappato assecondando una certa propensione reiterativa, se solo si considera che già nei precedenti articolo 10 e 12-bis l’arco di tutela dalle iniziative esecutive del debitore che abbia proposto un accordo di composizione della crisi o un piano del consumatore è individuato con la medesima locuzione. In ambito giurisprudenziale, per quanto consta, la discrepanza è tendenzialmente passata inosservata (il Tribunale di Monza, per esempio, ha a più riprese indicato la definitività del provvedimento di omologazione quale termine di protezione – si vedano le pronunce del 9 maggio 2013 e del 14 dicembre 2015) fino a quando, opportunamente sollecitato da un debitore attento, con un decreto del 4 luglio 2016 il Tribunale di Verona ha rilevato che, in effetti, la procedura di liquidazione non contempla alcun provvedimento di omologazione e che, per tale istituto, il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali dovrà essere esteso fino al decreto di chiusura della procedura, proprio come accade in caso di fallimento. n. 18/2016 6 CONCORDATO PREVENTIVO, ANNULLAMENTO PIÙ FACILE (articolo tratto da “Il Sole 24 Ore” del 15.09.2016 – di G. Negri) L’annullamento del concordato preventivo omologato è un rimedio concesso ai creditori in alcune situazioni. Cioè quando la rappresentazione dell’effettiva situazione patrimoniale della società è stata falsata per effetto di un passivo esagerato per l’omessa denuncia di uno o più crediti, in generale per atti di frode idonei a indurre in errore i creditori sulla convenienza e fattibilità del piano. Lo afferma la Corte di cassazione, con la sentenza n. 18090 della Prima sezione civile, depositata ieri. La Cassazione annulla la pronuncia della Corte d’appello con la quale era stata disposta la revoca del decreto di annullamento di un concordato preventivo. Nel giudizio della Corte d’appello, l’attività fraudolenta degli amministratori della società, che aveva provocato un aumento del passivo non rientrava nella tipologia che la legge prevede come «esagerazione del passivo» o «dolosa sottrazione o dissimulazione rilevante dell’attivo». Una lettura nel segno della tassatività alle indicazioni della fattispecie (articoli 137 e 138 della Legge fallimentare validi per il concordato fallimentare e applicabili in quanto compatibili a quello preventivo) che la Cassazione non condivide. La sentenza allora ricorda innanzitutto come, per quanto riguarda specificamente il concordato preventivo e la sua revoca, l’articolo 173 della Legge fallimentare richiama gli «altri atti di frode». Disposizione che è stata interpretata nel senso che gli atti frode vanno intesi «come le condotte volte ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori, aventi valenza potenzialmente decettiva per l’idoneità a pregiudicare il consenso informato degli stessi sulle reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione». n. 18/2016 7 Condotte inizialmente ignorate dagli organi della procedura e dai creditori e successivamente accertate. Per la Cassazione, poi, esiste un’evidente assonanza tra la revoca dell’ammissione al concordato e l’annullamento dell’omologazione, tanto più se si tiene conto che sarebbe di difficile spiegazione invece una distinzione sugli effetti dei medesimi atti di frode a seconda del momento in cui emergono. In questa direzione, del resto, di unificazione della disciplina del concordato preventivo, è andata la stessa Cassazione con sue precedenti sentenze. Nel giudizio di omologazione del concordato preventivo, così, il controllo della regolarità della procedura impone al tribunale di verificare la conservazione sino a quel momento delle condizioni di ammissibilità alla procedura già finite sotto esame nella fase iniziale, l’assenza di atti o fatti di frode e, nel caso di rispetto delle condizioni, l’autorità giudiziaria dovrà procedere al controllo delle modalità di formazione del consenso dei creditori al piano presentato. Nel caso di atti di frode, deve respingere la domanda di omologazione nonostante la mancata apertura del procedimento. n. 18/2016 8 POTERI LIMITATI AL LIQUIDATORE NEL CONCORDATO PREVENTIVO (articolo tratto da “Il Sole 24 Ore” del 19.09.2016 – di Giuseppe Acciaro e Roberta Campesi) I poteri dell’amministratore non si possono estendere al liquidatore della società. Infatti, mentre i poteri dell’amministratore derivano dalla legge e sono indicati nel Codice civile e nello statuto societario, il liquidatore trae il proprio potere esclusivamente dall’assemblea, che delimita e definisce il suo raggio d’azione. A distinguere chiaramente le due figure è stata la Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di estendere al liquidatore il potere, riconosciuto all’amministratore dall’articolo 152 della legge fallimentare (regio decreto 267/42), di deliberare la proposta di concordato preventivo. Ma la Suprema corte, con la sentenza 12273 del 14 giugno scorso (presidente Nappi, relatore Genovese), ha precisato che la presentazione della domanda di concordato preventivo deve necessariamente essere autorizzata dall’assemblea straordinaria. Non è possibile infatti riconoscere al liquidatore il potere di sottoscrivere autonomamente la domanda. La vicenda Il caso arrivato in Cassazione riguarda la domanda di ammissione al passivo del fallimento formulata da un avvocato. In particolare, il professionista ha presentato al Tribunale di Piacenza opposizione allo stato passivo per chiedere il riconoscimento in via privilegiata del proprio credito, calcolato in relazione all’attività prestata per la presentazione della proposta di concordato preventivo. L’incarico era stato conferito al professionista dal liquidatore della società e il concordato non aveva avuto successo, dato che la società era poi stata dichiarata fallita. Il tribunale ha dichiarato infondata l’opposizione, sul presupposto che il mandato per predisporre la domanda di concordato era stato conferito dal liquidatore senza alcuna delibera dell’assemblea straordinaria. I giudici hanno infatti evidenziato che la società era stata posta in liquidazione dall’assemblea straordinaria, ma quest’ultima aveva anche circoscritto i poteri del liquidatore, stabilendo che avrebbe solo dovuto n. 18/2016 9 «provvedere alla convocazione dell’assemblea straordinaria per deliberare sull’eventuale approvazione del concordato preventivo». Però l’assemblea straordinaria, convocata appunto per deliberare l’avvio del procedimento di concordato preventivo, era andata deserta e il liquidatore aveva ritenuto di deliberare unilateralmente la presentazione della domanda di concordato. L’avvocato ha impugnato in Cassazione il decreto del tribunale, sostenendo che il giudice avrebbe interpretato in modo restrittivo l’articolo 152 della legge fallimentare. Questa disposizione, letteralmente, prevede che «la proposta e le condizioni di concordato» nelle società di capitali e nelle cooperative siano «deliberate dagli amministratori»; ma, secondo il professionista, questa norma si dovrebbe estendere anche ai liquidatori, che quindi avrebbero, a loro volta, il potere di deliberare e sottoscrivere la proposta e le condizioni del concordato. La decisione La Cassazione ha tuttavia confermato la decisione del tribunale, affermando che il liquidatore non ha lo stesso ruolo né, quindi, i poteri dell’amministratore di una società. I giudici hanno citato la giurisprudenza della stessa Cassazione, che ha - si legge nella decisione «preso atto delle ordinarie limitazioni di poteri impresse ai liquidatori dall’assemblea» (si vedano le sentenze 12534 del 2002 e 3813 del 2016 della Cassazione), e hanno sottolineato come la riforma del diritto societario abbia, da un lato, consentito una più duttile attività da parte dei liquidatori, eliminando il divieto di nuove operazioni, ma nel contempo, abbia stabilito un penetrante ruolo conformativo del potere gestorio dei liquidatori in capo all’assemblea. Secondo la Corte, occorre perciò una deliberazione assembleare che stabilisca i criteri in base ai quali si deve svolgere la liquidazione sociale e che conferisca espressamente i poteri ai liquidatori. Pertanto, in materia di concordato preventivo, anche se liquidatorio, non basta l’atto di nomina per sottoscrivere la domanda, ma il potere dei liquidatori deve esser specificamente loro attribuito dall’assemblea. La Cassazione ha quindi respinto il ricorso del professionista perché, nel caso esaminato, il liquidatore, deliberando la presentazione della domanda di concordato senza alcuna delibera dell’assemblea straordinaria, ha agito in carenza assoluta di potere. n. 18/2016 10 ALLA LITE AVVIATA DAGLI EX SOCI PARTECIPA ANCHE IL CURATORE (articolo tratto da “Il Sole 24 Ore” del 19.09.2016 – di A. Porracciolo) La curatela di una società fallita è litisconsorte necessaria nei giudizi tributari promossi dagli ex soci contro gli atti impositivi emessi solo nei loro confronti per fatti che, comunque, coinvolgono la responsabilità del fallimento. Lo afferma la sentenza 4298/24/2016 della Ctr Lombardia (presidente Liguoro, relatore Candido). La controversia esaminata scaturisce dall’impugnazione di un avviso di accertamento relativo a Iva e Irap; l’atto aveva come destinatari tre soci (due accomandanti e un accomandatario) di una Sas dichiarata fallita. La commissione di primo grado aveva accolto il ricorso dei soci e l’agenzia delle Entrate aveva quindi presentato appello. Nel costituirsi in giudizio, i soci stessi, benché vincitori, hanno proposto gravame incidentale, affermando che nel caso in questione ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario. Ciò perché – hanno sostenuto i soci – anche il fallimento è responsabile della pretesa del fisco e dunque deve esser presente in giudizio per potersi difendere. Nel corso dell’udienza, i soci hanno insistito nell’eccezione preliminare, aggiungendo che la questione relativa al litisconsorzio può essere sollevata in ogni stato e grado del processo, trattandosi, peraltro, di profilo rilevabile anche d’ufficio dal giudice. Dal canto suo, l’agenzia delle Entrate ha chiesto il rigetto dell’eccezione. La Ctr accoglie l’impugnazione incidentale. I giudici d’appello richiamano l’articolo 14 del D.lgs 546/1992, per il quale, se l’oggetto del ricorso riguarda inscindibilmente più soggetti, essi devono essere parte nello stesso processo, sicché la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni di loro (comma 1). n. 18/2016 11 E se il ricorso non è stato proposto «da o nei confronti di tutti» quei soggetti, il giudice – come dispone il comma 2 dello stesso articolo 14, con una norma sovrapponibile a quella contenuta nell’articolo 102 del Codice di procedura civile – deve ordinare l’integrazione del contraddittorio mediante la loro chiamata in causa entro un termine stabilito a pena di decadenza. La sentenza ricorda quindi che, in base all’articolo 59, comma 1, lettera b), dello stesso D.lgs 546, la commissione d’appello deve rimettere la causa al giudice di primo grado che ha pronunciato la sentenza impugnata, quando riconosce che in quel giudizio «il contraddittorio non è stato regolarmente costituito o integrato». Si tratta di una disposizione che richiama, nella sostanza, la previsione contenuta nell’articolo 354 del Codice di procedura civile, che elenca le ipotesi di rimessione della causa al giudice di primo grado per motivi diversi da ragioni di giurisdizione. La decisione di primo grado è quindi dichiarata nulla «per la mancata integrazione del contraddittorio» del fallimento della società, nella persona del suo curatore. Così la Ctr rimette le parti davanti alla Ctp per la chiamata in causa dello stesso fallimento, ponendo il relativo onere a carico dei soci che hanno presentato l’appello incidentale. In conformità alla giurisprudenza della Cassazione (sentenza 16765/2010), la commissione si pronuncia anche sulle spese del giudizio, che compensa interamente tra le parti. n. 18/2016 12 GLI INTERESSI MORATORI, QUALI PENALI DA INADEMPIMENTO, NON RILEVANO AI FINI DELLA L. 108/96 (Tribunale di Modena, sentenza del 07.09.2016, n.1703) Gli interessi moratori non hanno funzione remuneratoria ma risarcitoria, disciplinando il danno da inadempimento, sono riconducibili al genus delle clausole penali e non sono soggetti alla disciplina dell’usura bancaria. L’espressione “convenuti a qualunque titolo” di cui all’art. 1 del d.l. 394/2000, convertito in L n. 24/2001 è circoscritta alla risoluzione del problema della cd “usurarietà sopravvenuta” e risulta analoga a quella che figura nel testo dell’art. 644 c.p. (“sotto qualsiasi forma”) per cui è da ritenere che il legislatore del 2000 si sia riferito agli interessi usurari per come già la norma incriminatrice aveva mostrato di qualificarli, cioè dati o promessi, sotto qualsiasi forma, purché “in corrispettivo”. L’esclusione degli interessi moratori dall’usura si può desumere implicitamente dall’art. 19, 2° paragrafo, direttiva 2008/48/CE relativa ai contratti di credito ai consumatori, il quale espressamente esclude dal calcolo del TAEG eventuali penali per inadempimento, dall’art.1284 comma IV c.c., che disciplina gli interessi legali di mora, nonché dalla legislazione sulle transazioni commerciali ove sono previsti interessi moratori superiori al tasso d’usura. Il caso La vicenda sottoposta all’attenzione del Tribunale di Modena e oggetto della sentenza n. 1703/2016 nasceva dall’iniziativa di una Società e dei suoi fideiussori, i quali avevano convenuto in giudizio una Banca lamentando la nullità della clausola relativa alla pattuizione degli interessi in un contratto di mutuo fondiario con la stessa intrattenuto, nonché l’addebito illegittimo di somme sul conto corrente intestato alla Società per anatocismo, tasso ultralegale, commissioni di massimo scoperto e usura soggettiva. Le domande di parte attrice possono così essere sintetizzate: (i) conversione del mutuo oneroso in mutuo gratuito per effetto della pattuizione di interessi usurari; (ii) rideterminazione del saldo del conto n. 18/2016 13 corrente e (iii) condanna alla restituzione di tutte le somme illegittimamente percepite in forza dei contratti previa eventuale compensazione. Secondo quanto asserito dalla Società e dai garanti, la gratuità del mutuo sarebbe dipesa, o dalla sommatoria dei due tassi contrattualmente previsti, o dall’utilizzo, come base di calcolo per gli interessi moratori, dell’intera rata scaduta, comprensiva di capitale e corrispettivi. Inoltre, essendo la Banca incorsa in usura soggettiva, in applicazione dell’art 1815 c.c., nessun interesse passivo sarebbe dovuto essere applicato. Infine, la commissione di massimo scoperto sarebbe stata erroneamente calcolata sulla somma utilizzata e non sulla somma messa a disposizione. La Banca si costituiva in giudizio eccependo: a) la prescrizione delle pretese restitutorie di pagamenti effettuati oltre i dieci anni dalla domanda, b) l’inammissibilità di domande restitutorie con riferimento a rapporti ancora in essere, c) l’irrilevanza del tasso stabilito per gli interessi moratori ai fini del superamento della soglia usura nel contratto di mutuo, d) l’adeguamento alla delibera CICR 2000 per la fase del rapporto di conto corrente successiva al 31 marzo 2000, e) la pattuizione contrattuale del tasso di interesse passivo, f) la comunicazione delle variazioni delle condizioni economiche, g) il difetto di allegazione delle singole operazioni per cui non sarebbe stata applicata la previsione contrattuale, di per sé legittima, sui giorni di valuta, h) l’assenza di superamenti del tasso soglia usura, i) il difetto di allegazione in ordine alla sussistenza dei presupposti della cd usura soggettiva. La decisione Con riferimento al rapporto di mutuo, il Tribunale ha osservato che la valutazione in termini di usurarietà del contratto deve essere effettuata con esclusivo riguardo agli oneri che costituiscono remunerazione della messa a disposizione del capitale e che gli interessi moratori non costituiscono una forma di remunerazione, in quanto la loro funzione è quella di sanzionare l’inadempimento del mutuatario sulla base di una previsione pattizia riconducibile al genus delle clausole penali. Il Giudice, consapevole dell’orientamento secondo cui anche gli interessi moratori rileverebbero ai fini del superamento del tasso soglia usura, osserva che lo stesso si basa su alcuni incisi, normativi o della n. 18/2016 14 giurisprudenza di legittimità, da cui discenderebbe la necessità di trattare gli interessi moratori “come se” fossero omogenei rispetto agli interessi corrispettivi, trascurando erroneamente l’analisi della natura di detti interessi. L’argomento che consentirebbe di escludere la valenza risarcitoria degli interessi moratori, sarebbe rinvenibile nello schema dell’art. 1224 c.c. “il creditore è assolutamente esonerato dal fornire la prova del danno e che per il debitore sarebbe impossibile dare una prova contraria”. Ad avviso del Tribunale, quando l’art. 1224 comma I c.c. stabilisce che, nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di denaro, dal giorno della mora sono dovuti gli interessi legali “anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno”, la norma si limita a dettare una presunzione iuris et de iure di sussistenza del danno, senza suggerire alcunché sulla natura (non risarcitoria ma) “remuneratoria” degli interessi moratori, che li renderebbe omogenei agli interessi corrispettivi. Con riferimento all’usura soggettiva, il Tribunale ha posto l’accento sul fatto che non erano stati allegati gli elementi da cui desumere l’usurarietà degli interessi ai sensi dell’art. 644 comma III c.p., relativamente al profilo della sproporzione rispetto alla prestazione, chiarendo, tra l’altro che un’eventuale sproporzione sopravvenuta, a causa del deterioramento delle condizioni economiche della correntista, non avrebbe potuto, in ogni caso, fondare la nullità della clausola sugli interessi. Sulla base delle suesposte considerazioni, il Tribunale di Modena ha rigettato le domande attoree e disposto la compensazione delle spese di lite n. 18/2016 15 ECCEZIONE DI INADEMPIMENTO INFONDATA IN CASO DI USO LEGITTIMO DELLA CLAUSOLA RISOLUTIVA ESPRESSA (Corte d’Appello di Roma, Sez. III, sentenza n. 5089 del 25.08.2016) Nella fattispecie di contratto di locazione finanziaria (leasing), allorquando il concedente, all’esito della comminata risoluzione contrattuale per inadempimento del lessee, lamenti la inesatta consegna della cosa, tale da consentirgli la eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., le valutazioni del giudice di merito sul fondamento o meno della eccezione sono rimesse al rispetto del principio di proporzione tra il preteso inadempimento di una parte e l’inadempimento all’obbligazione principale dell’altra, con la conseguenza che neppure l’ipotesi di esercizio di una cosiddetta “autotutela”, consistente in astratto nel pagamento tempo per tempo di un canone ridotto, per una quota percentuale pari alla porzione della cosa non consegnata, cede il campo alla legittima comminatoria di una risoluzione contrattuale, ove esercitata dal lessor nel rispetto del dettato di riferimento. Il caso. Nel caso di specie, l’appellante Società A impugnava in appello l’ordinanza emessa dal giudice di prime cure con la quale aveva dichiarato risolto il contratto di locazione finanziaria immobiliare intercorso con la controparte, la Banca B, causa l’inadempimento al pagamento dei canoni di locazione, condannandola quindi al rilascio dell’immobile concesso in leasing. L’intero atto d’appello era fondato sull’assunto che il Tribunale non avrebbe esattamente qualificato la difesa della convenuta come una eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. (per mancata consegna di una porzione dell’immobile) ma, piuttosto, come richiesta formulata ex art. 1578 c.c., di riduzione del canone per i vizi dell’immobile locato, che ne avevano diminuito in modo apprezzabile l’idoneità all’uso pattuito. I motivi. La Corte ha osservato che non risultava alcun errore commesso dal primo giudice, quanto alla individuazione esatta del modello di n. 18/2016 16 eccezione sollevata dalla appellante. Dall’esame, infatti, della comparsa di costituzione in primo grado, risultando che la difesa di parte convenuta eccepiva che per effetto della mancata messa a disposizione alla società utilizzatrice di una porzione di immobile di almeno circa 92 mq, rispetto ai 597 mq oggetto della locazione finanziaria, parte resistente, la Società A, aveva diritto ad una proporzionale riduzione del canone di locazione finanziaria, con obbligo di restituzione in capo alla concedente attrice, la Banca B, di tutte le somme aggiuntive ingiustificatamente versate dalla utilizzatrice, dall’inizio del rapporto contrattuale. Aggiungeva, ancora, la convenuta, che proprio in considerazione della lamentata eccezione, nessuna risoluzione contrattuale della locazione finanziaria in parola doveva ritenersi mai prodotta, in quanto nessun inadempimento al pagamento del canone risultava essere stato perpetrato dalla società utilizzatrice. In buona sostanza, alla data della comminata risoluzione, risultava che a fronte di un vantato credito scaduto di € 31.214,34 oltre interessi di mora, sussisteva un controcredito della società resistente di € 85.709,96 (oltre interessi già corrisposti), dovuto per proporzionale riduzione del canone conseguente alla mancata messa a disposizione di una porzione dell’immobile ceduto, pari almeno a mq 92. Ha, quindi, rilevato la Corte che l’utilizzatrice dell’immobile non aveva inteso difendersi con l’autotutela rappresentata dall’eccezione d’inadempimento, ma con l’eccezione di compensazione tra il credito per canoni della controparte e quello vantato a titolo di ripetizione d’indebito che, comunque, non riguardava una obbligazione contrattuale. Pertanto il motivo di appello si appalesava infondato. In ogni caso, precisava la Corte che, quand’anche l’appellante avesse sollevato l’eccezione di inadempimento, questa sarebbe stata comunque infondata, in quanto contraria a buona fede. Stando, infatti, al disposto dell’art. 1460 c.c., era evidente il difetto di proporzione tra il preteso inadempimento del locatore e l’inadempimento della appellante all’obbligazione principale del conduttore, che è quella di pagare il corrispettivo della locazione, essendo pacifico tra le parti che la medesima conduttrice aveva avuto la disponibilità dell’immobile per l’intero periodo. Era palese, infatti, la sproporzione tra l’assunto inadempimento del locatore all’obbligo di consegnare ulteriori 92 metri quadrati n. 18/2016 17 dell’immobile e quello del conduttore che, nonostante l’obbligazione principale di consegnare la cosa sia stata adempiuta relativamente alla superficie di 500 mq, non aveva corrisposto – per intero – alcune mensilità di canone. Diverso sarebbe stato se il conduttore avesse versato un canone ridotto in percentuale pari alla porzione d’immobile non consegnata, vertendosi in ipotesi di una consistenza che – seppure ridotta – aveva assolto la funzione per la quale era stata locata. Tale forma di autotutela riconosciuta al debitore della prestazione di un contratto, come quello in esame, a prestazioni corrispettive, non può quindi trovare applicazione al caso di specie, ai sensi dell’art. 1460 c.c. L’inadempimento del conduttore alla sua obbligazione principale, protrattosi per alcuni mesi, aveva importato correttamente la risoluzione del contratto, in presenza della dichiarazione del locatore di volersi valere della clausola risolutiva espressa. Il principio ricavabile dalla sentenza in commento si riferisce alla differenza sostanziale tra l’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., e quella di cui all’art. 1578 c.c.; nella seconda ipotesi, prevedendosi che se al momento della consegna la cosa locata è affetta da vizi che ne diminuiscono in modo apprezzabile l’idoneità all’uso pattuito, il conduttore può domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, salvo che si tratti di vizi da lui conosciuti o facilmente riconoscibili. Il locatore, in questo secondo caso, è tenuto a risarcire al conduttore i danni derivati da vizi della cosa, se non prova di avere senza colpa ignorato i vizi stessi al momento della consegna. In tal caso, l’azione di riduzione del corrispettivo della locazione di cui all’art. 1578 c.c. ha natura di azione costitutiva, in quanto tende a determinare una modificazione del regolamento contrattuale. In buona sostanza non può essere confusa l’eccezione di cui all’art. 1578 c.c., con l’eccezione di inesatto adempimento di cui all’art. 1460 c.c., la quale tende solo a paralizzare la pretesa di adempimento della controparte, alla prestazione ad essa riservata. La decisione. Per tali motivi, la Corte d’Appello: - ha rigettato l’appello e confermato la sentenza impugnata; - ha condannato parte appellante al pagamento delle spese di lite in favore della Banca. n. 18/2016 18 ANATOCISMO E NULLITA’ PER INDETERMINATEZZA (Tribunale di Milano, sentenza del 15/09/2016, n. 10121 – ottenuta da GCA) Il caso Nel caso di specie, la società A ha stipulato un contratto di locazione finanziaria (leasing) con la Banca B; successivamente A ha adito B dinanzi al Tribunale di Milano per far accertare, in via principale: - la nullità per indeterminatezza ex art. 1346 c.c.; - condannare la Banca B alla restituzione (in favore di A) delle rate indebitamente percepite in esecuzione del contratto nullo; ed in via subordinata: - la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici ed in misura ultralegale, con correlativa restituzione (in favore di A) delle somme indebitamente versate; - accertare la grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di B nella fase di esecuzione del contratto, con conseguente dichiarazione della risoluzione del contratto di leasing per inadempimento. I motivi La tesi di A è incentrata sulla sostanziale produzione di interessi anatocistici e comunque difformi da quelli contrattualmente previsti per via dell’ammortamento alla francese. Occorre premettere che la doglianza secondo la quale tale modalità di ammortamento nasconderebbe inevitabilmente una prassi anatocistica non pattuita è illegittima, in quanto contrastante con il dettato di cui all’art. 1283 c.c. nasce da un equivoco nella scomposizione della struttura dei contratti di mutuo con ammortamento alla francese, in quanto tale sistema matematico di formazione delle rate risulta in verità predisposto in modo che in relazione a ciascuna rata la quota di interessi ivi inserita sia calcolata non sull’intero importo mutuato, bensì di volta in volta con riferimento alla quota capitale via via decrescente per effetto del pagamento delle rate precedenti, escludendosi in tal modo che, nelle pieghe della scomposizione in rate dell’importo da restituire, gli interessi di fatto vadano determinati almeno in parte su se stessi, producendo l’effetto anatocistico contestato. n. 18/2016 19 In nessun punto dell’atto di citazione, del resto, si evidenzia 1) una prima produzione di interessi tale da fondare un credito del concedente, e 2) una successiva produzione di interessi sui primi; il che vuol dire che in realtà si è di fronte a interessi di eguale natura, tutti calcolati in modo unitario, e non alcuni già dovuti in prima battuta a titolo corrispettivo e i secondi parimenti dovuti allo stesso titolo e calcolati sui primi. Le parti, in sintesi, convengono un finanziamento, una restituzione rateale, e che parte della rata sarà imputata al capitale, e altra parte all’interesse; le rate successive alla prima vedranno la quota imputabile a interesse calcolata sul capitale iniziale meno la quota capitale già versata con la prima rata, e così via fino alla scadenza. Come si sia giunti a questa determinazione (in particolare, se applicando in sede di calcolo della rata la formula dello sconto composto) non determina violazione dell’art. 1283 c.c., solo che il tasso d’interessi sia poi applicato esclusivamente alla quota capitale (e all’intero capitale, nella prima rata). Non vi è quindi spazio alcuno per l’esecrato anatocismo, bensì per l’applicazione delle condizioni contrattuali. Né potrebbe parlarsi di anatocismo illegittimo con riferimento all’addebito di interessi moratori su rate scadute, ma non tempestivamente pagate, dal momento che con riferimento a tale addebito il contratto prevede espressamente che gli interessi moratori vadano calcolati sull’intera rata (e quindi anche sulla quota di essa imputata a interessi corrispettivi). Neppure è sufficiente semplicisticamente comparare l’ammortamento siccome praticato con un diverso modello di ammortamento astrattamente praticabile (circostanza che verrebbe in rilievo qualora si contestasse l’applicazione di un ammortamento diverso da quello contrattualmente dovuto), come avviene nella perizia di parte; si tratta di dimostrare, e il punto non è dimostrabile, che l’ammortamento alla francese comporta ex se la produzione di interessi anatocistici, da un lato, e dall’altro che le parti volevano in luogo dell’ammortamento alla francese quello italiano. Il Tribunale, inoltre, ha osservato che con riguardo alla presunta discrasia tra tasso convenuto e applicato, il contratto di leasing deve riportare il t.a.e.g., ai sensi del d. lgs. n. 385/1993, solo se stipulato con un consumatore. Negli altri casi, è sufficiente che il testo del contratto riporti (come nel caso di specie) il c.d. tasso leasing, ossia il tasso che consente in sostanza di realizzare l’equivalenza finanziaria tra capitale erogato all’inizio del rapporto e i successivi canoni. Ciò premesso, una difformità tra il tasso di leasing (espresso su base annua) e il tasso effettivamente praticato (la cui indicazione, si ripete, non è imposta dalla legge al di fuori dei contratti con i consumatori) dipende dal n. 18/2016 20 pagamento anticipato degli interessi, che avviene con cadenza inferiore all’anno. Ciò si risolve a vantaggio di Banca B, con un suo arricchimento di fatto, ma tuttavia non significa che vi sia stata applicazione di un tasso d’interesse difforme dal tasso annuo nominale (né tantomeno viene in rilievo un fenomeno di anatocismo, per i motivi già ampiamente indicati), tenuto conto che l’indicazione relativa al tasso leasing e alla cadenza infrannuale delle rate appare in contratto. In ultima analisi, la società A era a conoscenza del fatto che il contratto prevedeva un certo numero di rate mensili, di specificato ammontare. Di conseguenza, tenendo conto degli ulteriori dati di rilievo economico ai fini della stipulazione (in primis il tasso indicato nel contratto), la stessa era in grado di evincere che il meccanismo applicato sarebbe stato quello dell’ammortamento alla francese, il cui uso è assolutamente incontestato, almeno in via di fatto, nell’ipotesi di restituzioni rateali di un finanziamento. La decisione Il Tribunale ha respinto le domande della società A, ritenendole infondate. n. 18/2016 21 ECCEZIONE DI PRESCRIZIONE, ONERE DI INDICAZIONE DELLE RIMESSE SOLUTORIE E INDAGINE DEL CTU. (Tribunale di Pavia, ordinanza del 08.09.16) L’eccezione di prescrizione è inammissibile ove la Banca sollevi detta eccezione in maniera generica. E’ onere, infatti, di chi formula l’eccezione stessa di indicare puntualmente le rimesse aventi carattere solutorio, non potendo tale indagine essere affidata al CTU, posto che altrimenti la stessa avrebbe un contenuto esplorativo e ricercherebbe fatti costitutivi dell’eccezione che è onere dell’eccipiente dedurre nel processo In assenza di approvazione per iscritto da parte del correntista, la capitalizzazione degli interessi passivi non si applicherà anche successivamente all’entrata in vigore della delibera C.I.C.R.09.02.2000. E’ illegittimo l’addebito della Commissione di Massimo Scoperto ove non siano indicati in modo chiaro il tasso applicabile, i criteri di applicazione e di calcolo della stessa e la sua periodicità. Il caso A stipulava con la Banca B il contratto di conto corrente n. 342/1047 aperto il 31.01.1990 ed estinto il 30.07.2014. Sullo stesso risultava aperto un fido di fatto, in assenza di un contratto di affidamento. Nel contenzioso che nasceva in ordine a tale rapporto, la banca B sollevava l’eccezione di prescrizione. I motivi In primis viene rigettata l’eccezione di prescrizione in quanto la stessa decorre dalle singole operazioni solo quando le stesse hanno valenza solutoria e non ripristinatoria. Diversamente, nel caso di conto corrente con apertura di credito mediante affidamento la prescrizione decorre solo dalla chiusura del conto (Cassazione, Sezioni Unite n. 24418 del 02.12.2010). Inoltre l’eccezione formulata è assolutamente generica in quanto non indicante neppure uno dei versamenti del correntista avente carattere solutorio e non meramente ripristinatorio della provvista, limitandosi ad indicare che l’eccezione colpiva tutte le rimesse solutorie. L’eccezione di prescrizione, in quanto eccezione in senso stretto deve fondarsi su fatti specifici allegati dalla parte eccepiente non potendo i fatti costitutivi dell’eccezione essere individuati dal giudice tramite CTU. n. 18/2016 22 Fino all’entrata in vigore della delibera CICR del 25.02.2000 – 01.07.2000, le clausole che prevedono interessi anatocistici erano pacificamente nulle. Deve ritenersi che sia necessaria una specifica approvazione per iscritto di tale clausola, posto che comunque una eventuale corresponsione di interessi anatocistici, ancorché stabilita in modo paritetico sarebbe peggiorativa rispetto al periodo precedente che prevedeva la completa assenza di interessi anatocistici. Tutte le somme versate dal correntista alla banca a titolo di interessi anatocistici per tutta la durata del conto sono stati versati dallo stesso senza causa e per l’effetto gli interessi a debito del correntista devono essere calcolati senza operare alcuna capitalizzazione. Inoltre deve essere dichiarata la nullità dell’art. 7 delle Condizioni Generali del contratto nella parte in cui è previsto l’addebito in conto corrente di interessi in misura superiore a quelle legali. Essi erano pattuiti in modo assolutamente generico e indeterminato con un generico riferimento agli usi di piazza. Prima dell’entrata in vigore della legge 154/1992, l’eventuale pattuizione di interessi ultralegali con rinvio agli usi di piazza è nulla per difetto di univocità, ovvero per difetto di univoca determinabilità del tasso di interesse sulla base del documento contrattuale (Cassazione n. 23974 del 25.11.2010). Deve essere dichiarata la nullità della clausola contrattuale che provvedeva la commissione di massimo scoperto in quanto la stessa sarebbe stata valida laddove fossero stati stabiliti in modo chiaro il tasso di applicazione, i criteri di applicazione dello stesso e di calcolo, la periodicità dello stesso e la medesima fosse stata specificamente approvata per iscritto. Sulla scorta della mancata indicazione degli elementi sopra elencati, deve essere dichiarata la nullità dell’art. 7 delle Condizioni Generali del contratto che prevedeva per le spese di tenuta e chiusura periodica del conto, oltre a quelle relative alla decorrenza dei giorni valuta. Consegue l’accoglimento di domanda di restituzione dell’indebito del ricorrente e il rigetto della domanda riconvenzionale del resistente e l’accoglimento della domanda diretta ad ottenere la cancellazione e/o la rettifica della segnalazione inviata dalla banca alla Centrale Rischi della Banca di Italia stante l’insussistenza dei presupposti della stessa. n. 18/2016 23 La decisione Il Tribunale di Pavia, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa: 1. Accerta e dichiara la nullità della clausola di cui all’art. 7 delle condizioni generali del contratto; 2. Accerta e dichiara l’esatta somma del rapporto dare/avere di conto corrente; 3. Condanna la Banca B a restituire ad A la somma di € ____; 4. Ordina alla Banca B a cancellare e/o rettificare la segnalazione effettuata alla centrale rischi della Banca di Italia circa l’informazione negativa di inadempimento persistente di A; 5. Rigetta la domanda riconvenzionale del resistente; 6. Condanna la Banca B a pagare le spese di lite; 7. Pone definitivamente a carico della parte resistente le spese di CTU. n. 18/2016