Alla scoperta di Abdelilah Benabdesslam, militante da una vita

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Alla scoperta di Abdelilah Benabdesslam, militante da una vita
Alla scoperta di Abdelilah Benabdesslam, militante da una vita
Intervista ad Abdelilah Benabdesslam, vice-presidente dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti
dell’uomo) dal 2007. Uno sguardo illuminante e privo di reticenze su alcuni tra i passaggi più cupi della
storia passata e presente di questo paese. L’intervista è divisa in due parti.
La prima parte dell’intervista prende in esame la figura di Abdelilah Benabdesslam. Ne ripercorre la
vita e la militanza, politica e sindacale, nelle sue fasi salienti, fino all’arresto e poi al passaggio
dall’attivismo politico a quello in difesa dei diritti umani.
Jacopo Granci: Nell’articolo pubblicato da Le Journal Hebdomadaire (1), Aziz El Yaakoubi racconta
parte della sua vita, dalla militanza nella sinistra radicale marocchina, fino a quella nel campo dei diritti
dell’uomo. Volevo cominciare l’intervista proprio da qui, dalla militanza come scelta di vita. Quali sono
le tappe fondamentali che hanno segnato il suo cammino e la sua coscienza?
Abdelilah Benabdesslam: Sono molti gli elementi che mi hanno aiutato a capire cosa fosse e cosa
significasse la lotta per la libertà, la democrazia e l’instaurazione di uno Stato di diritto. Sono nato e
cresciuto in un quartiere povero della capitale, nella medina. La situazione economica e sociale del
Marocco era difficile ed io, fin da piccolo, partecipavo alle colonie organizzate dall’Azione Popolare,
un’associazione creata dal martire Mehdi Ben Barka. In questo modo ho cominciato ad aprire gli occhi
attorno a me, a farmi delle domande. Era la fine degli anni sessanta, più o meno. In più mia madre fa
parte della famiglia di Ben Barka, con la quale ha sempre mantenuto un legame molto stretto. Ed io,
da che ho memoria, ho sempre sentito parlare nelle discussioni di famiglia dell’omicidio di Mehdi,
dell’esecuzione voluta da Hassan II e realizzata nel 1965 dai sicari del generale Oufkir a Parigi. Tutto
questo a fatto sì che nella mia testa fosse ben chiaro il cammino da percorrere. Come se non
bastasse, in quegli anni per le strade di Rabat, e di tutte le altre città marocchine, c’erano continue
manifestazioni di protesta contro la disastrosa situazione in cui versava il paese, o anche
manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese. Spesso mi ritrovavo nel mezzo delle
manifestazioni, e per me era naturale, seppur fossi ancora piccolo, prendere parte alle proteste, che
ritenevo legittime. Quando sono arrivato al liceo, i movimenti di sinistra erano forti e dominavano le
attività all’interno dell’istituto. Io avevo già compiuto la mia formazione politica, attraverso le letture che
sottraevo a mio fratello più grande. La scelta fu facile. Fin dall’inizio ho preso parte alle attività
politiche dei movimenti clandestini, sia al liceo sia poi all’università, durante tutti gli anni settanta.
J. G. : Quanto ha contribuito l’esperienza fatta nelle campagne di Settat, come insegnante, nella sua
maturazione politica e nella sua presa di coscienza?
A. B. : Avevo già raggiunto una buona maturità politica. Almeno a livello di riflessione. Ed ero già
membro del movimento. Tuttavia, quella di Settat è risultata una esperienza determinante, che ha
rafforzato le mie convinzioni. Ero insegnante nella circoscrizione scolastica di Beni Meskin. Le
condizioni dei contadini che vivevano in quelle campagne, lontane quasi cento chilometri da Settat,
era disastrosa. In me cresceva il desiderio di cambiamento. La necessità di una rivoluzione sociale
diveniva sempre più forte e imprescindibile. Il cambiamento doveva interessare non solo le città, la
classe operaia, ma soprattutto i contadini e gli abitanti delle campagne. Laggiù ho iniziato a portare
avanti le prime lotte sindacali. Sono diventato membro del sindacato nazionale degli insegnanti.
All’epoca, parlo dell’anno 1876, non esisteva ancora la CDT (Confederazione Democratica dei
Lavoratori), creata nel 1978. E proprio l’azione di questo piccolo, ma molto combattivo, sindacato di
settore contribuirà negli anni seguenti alla fondazione della CDT stessa. Allo stesso tempo ero
divenuto membro di una associazione, chiamata l’AMEJ (Associazione marocchina per l’educazione
della gioventù), anch’essa creata da Mehdi Ben Barka.
J. G. : Lei ha detto “ero membro del movimento”. A cosa si riferisce precisamente?
A. B. : Mi riferisco al movimento della nuova sinistra radicale cresciuto negli anni settanta. Un
movimento che si componeva di più anime, di più partiti, se così vogliamo chiamarli, tutti
rigorosamente clandestini. Le nostre attività erano vietate e perseguite dal regime. Il primo gruppo di
questa nuova sinistra radicale a cui ho aderito era Ilal Amam, dopo di ché sono passato al Movimento
23 marzo. A causa della mia appartenenza politica, oltre che della accanita lotta sindacale condotta in
seno alla CDT tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, sono finito in carcere. Sono
stato arrestato nel 1984. Ho passato i primi due mesi nel centro di detenzione segreta di Derb Moulay
Cherif, dove la DST (Direzione per la Sicurezza del Territorio) operava indisturbata. Poi sono stato
trasferito in un altro centro, sempre della DST, poco lontano da Marrakech. Non era la prima volta che
venivo arrestato. Mi era già capitato in altre occasioni, ma dopo il passaggio in commissariato ero
sempre stato rilasciato. Questa volta, invece, sono rimasto in carcere e sono stato giudicato dalla
sezione criminale del tribunale di Rabat. Accusato di attacco alla sicurezza dello Stato, sono stato
condannato a otto anni di carcere.
J. G. : Mi parli della sua esperienza nelle prigioni marocchine. Ha appena citato il tristemente celebre
centro di Derb Moulay Cherif..
A. B. : Derb Moulay Cherif non era una prigione, ma un centro per gli interrogatori gestito
clandestinamente dalla DST. Un centro di tortura per essere più precisi. Là dentro sono rimasto quasi
tre mesi bendato e con le manette ai polsi, subendo ogni genere di tortura conosciuta, sia fisica che
morale: simulazioni di annegamento, l’aereo, le scariche elettriche, tutte le sevizie che lei conosce.
Durante la mia detenzione, poi, ho avuto la malasorte di passare per numerose carceri del regno.
Laalou, Kenitra, Salé, Meknes, Casablanca.. la lista è lunga. Laalou, dove sono rimasto sette anni, era
una prigione ufficiale, non più segreta, situata a Rabat, ma i trattamenti che ci erano riservati non
cambiavano poi molto. Al tempo girava una voce tra i detenuti: “chi entra a Laalou è perduto, e chi ha
la fortuna di uscirne vivo, è come se rinascesse per una seconda volta”. Era un calvario. Noi detenuti
politici cercavamo lo stesso di combattere, di lottare, portando avanti degli scioperi della fame. Proprio
a Laalou abbiamo iniziato uno sciopero, rimasto ancora celebre, che è durato nove mesi. Ci
imponevano l’alimentazione forzata, ma ogni volta strappavamo l’ago dal braccio e riprendevamo la
nostra protesta. Al sessantacinquesimo giorno di sciopero abbiamo perso un compagno e, ancora
oggi, molti altri si portano dietro delle gravi conseguenze fisiche dovute a quella storica dimostrazione.
Un compagno, per esempio, è rimasto paralizzato e tuttora non riesce a camminare da solo né a
parlare correttamente, dato che il cervelletto ha subito le conseguenze maggiori della mancanza di
alimentazione.
Sono uscito di prigione nel 1991. Come le ho detto, ero stato condannato a otto anni di carcere, più un
anno e otto mesi supplementari che mi furono inflitti durante la detenzione. Nell’ultimo periodo ero
stato trasferito alla prigione centrale di Casablanca, e poi a Kenitra, dove ho ritrovato alcuni dei vecchi
compagni di Ilal Amam, del movimento Servire il popolo e del Movimento 23 marzo, tra cui Serfaty, El
Harif e Benzekri.
J. G. : Quando è iniziata la sua militanza in difesa dei diritti umani?
A. B. : Già prima di essere arrestato, avevo partecipato alla creazione dell’AMDH, di cui sono stato
membro fin dall’inizio. Alla fondazione, avvenuta nel 1979, contribuirono in maniera determinante i
militanti dell’USFP, del PPS e dei movimenti della sinistra radicale degli anni settanta, quindi Ilal
Amam e il gruppo 23 marzo. Gli indipendenti erano pochi, il grosso apparteneva all’USFP. C’erano
anche alcuni elementi della famiglia Belafrej. Belafrej era il rappresentante personale di Hassan II, ma
durante gli anni settanta suo figlio, ingegnere e professore alla scuola di ingegneria di Mohammedia,
fu arrestato in quanto militante della sinistra radicale. Da quel momento Belafrej ha abbandonato il suo
ruolo di rappresentante reale e alcuni membri della sua famiglia si sono uniti alla lotta in difesa dei
diritti dell’uomo.
Militare in difesa dei diritti umani, per me come per molti altri, era una conseguenza naturale al nostro
impegno politico. E viceversa. Ammetto che forse, a quell’epoca, tendevamo a confondere le due
cose. Quando sono uscito dal carcere la situazione è cambiata. Come del resto il contesto in cui
dovevo reinserirmi. La prima cosa che ho fatto è stata distinguere la militanza politica dall’impegno in
difesa dei diritti dell’uomo. O meglio l’appartenenza politica dai diritti dell’uomo, perché se si parla di
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politica in senso lato, allora bisogna riconoscere che anche la difesa dei diritti umani segue una sua
politica, fatta di norme specifiche, come le convenzioni internazionali, che vanno osservate con stretto
rigore. Non accetto il discorso propagandato dalle autorità, e difeso dalla maggior parte delle
formazioni politiche, secondo cui i Marocchini, in quanto musulmani, avrebbero delle specificità che
devono essere conservate e salvaguardate anche quando contrastano con le leggi internazionali in
difesa dei diritti umani. Un attivista non può accettare specificità, riserve o indecisioni. Deve difendere i
diritti umani sopra ogni altra cosa, che siano le leggi dello Stato o i precetti religiosi. Il cammino della
sua militanza è ben marcato, non c’è spazio per i dubbi o gli equivoci.
J. G. : Non ho ben capito una cosa. Appena uscito di prigione, quale fu esattamente la direzione che
intraprese? Dedicò il suo impegno ancora alla politica o alla difesa dei diritti dell’uomo?
A. B. : Uscito di prigione nell’agosto del 1991, per prima cosa ho cercato di lavorare, assieme ad altri
vecchi compagni, al raggruppamento e alla consolidazione di una vera sinistra marocchina. Era
questa la mia prima intenzione. Pur restando un membro dell’AMDH, preferivo impegnarmi
concretamente nell’azione politica. Nel 1995 ho lasciato perdere, vedendo che non c’era la possibilità
di ottenere dei progressi concreti. Dei risultati. Da quel momento ho ripreso la militanza permanente
nel campo dei diritti dell’uomo.
Non fu la repressione del regime, dopo l’uscita dal carcere, a far fallire il nostro progetto politico.
Furono le divergenze tra i militanti, vecchi e nuovi. Divergenze sul progetto di trasformazione sociale
auspicato. C’erano quelli che credevano ancora nel vecchio progetto rivoluzionario, secondo cui la
trasformazione sociale era realizzabile solo attraverso la mobilitazione delle masse lavoratrici, operaie
e contadine, e attraverso la creazione di uno Stato autenticamente rivoluzionario. C’erano invece altri
che, pur condividendo l’aspirazione di fondo, non credevano ci fossero i mezzi per attuare questo tipo
di cambiamento, né che fosse il momento adatto. Il contesto internazionale era cambiato e anche
quello marocchino sembrava offrire nuove opportunità. Preferivano approfittare del margine di
apertura politica concesso dal regime, per ottenere come prima cosa l’instaurazione di uno stato
democratico. Il lavoro di aperta opposizione politica, almeno in apparenza, sembrava ora possibile,
mentre prima doveva essere svolto in condizioni di clandestinità. Quindi, c’era chi diceva
semplicemente “approfittiamo di questo margine e lavoriamo assieme alla società civile, ai sindacati”.
L’obiettivo era quello di uscire dalla logica elitaria che aveva in parte condannato i movimenti di
sinistra degli anni settanta.
J. G. : Lei a quale delle due “correnti” apparteneva?
A. B. : Io cercavo di lavorare all’unità, non alla divisione. Per questo cercavo di mediare e dare risalto
ai punti in comune, più che alle differenze. Tuttavia, mi sentivo più vicino alla seconda “corrente”.
Preferivo lottare per la democrazia come primo obiettivo imprescindibile. La strada da seguire, per me,
era il coinvolgimento delle masse e la propagazione delle idee di cambiamento su vasta scala. Cosa
che non era stata possibile in passato. Se accompagnati dal sostegno delle masse, anche i piccoli
cambiamenti sarebbero potuti diventare determinanti. Preferivo l’idea di un accumulo di progressi
graduali, ma condivisi, ad una nuova militanza radicale e rivoluzionaria distante dall’interesse comune
contingente. Ritenevo il marxismo un mezzo ancora assolutamente utile per capire la realtà e per
riflettere a livello ideologico. E lo penso tuttora. Ma, a mio avviso, il cambiamento doveva avvenire dal
popolo, doveva essere una scelta del popolo.
J. G. : Presa coscienza delle nuove divergenze, perché militare per la difesa dei diritti umani piuttosto
che in uno dei partiti di sinistra che ancora sono presenti nel panorama politico marocchino?
A. B. : Credo che un impegno nel campo dei diritti dell’uomo possa dare maggiori risultati e benefici,
in termini di progressi sociali e acquisizioni, al popolo marocchino. Risultati maggiori che un impegno
sul piano politico. E’ stata questa constatazione a farmi desistere dall’impegno politico, in cui faticavo
a ritrovare il mio posto a causa delle divergenze di cui le ho parlato.
Nel campo dei diritti umani, il riferimento che guida l’azione di un militante è ben chiaro e preciso,
codificato da trattati e convenzioni. Non ci può essere disaccordo su questa base e in tal senso il
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lavoro prodotto diventa più concreto. Un esempio, la pena di morte. Non si può essere difensori dei
diritti umani senza schierarsi apertamente contro la pena di morte. Non c’è spazio per l’ambiguità.
Stessa cosa per la tortura: non ci sono pretesti possibili o ammissibili per difendere una simile pratica.
Nessun timore o pericolo può autorizzare un simile provvedimento. Neanche la minaccia di un attacco
terrorista. Questo significa rispettare i diritti dell’uomo, e questo dovrebbe essere alla base di ogni
stato democratico.
Dopo cinque anni di discussioni ho cominciato a dubitare della scelta fatta una volta uscito dal
carcere. Ho capito che non sarei mai stato utile alla mia gente proseguendo in quella direzione,
cercando di sanare dei contrasti sempre più sterili ed egoistici. In molti casi, nel settarismo che si
andava formando, vedevo più la difesa del singolo interesse che la ricerca del bene comune, la cui
aspirazione da sola, secondo me, sarebbe dovuta bastare a far nascere una strategia di azione
condivisa.
J. G. : Può descrivermi in breve la composizione dello scacchiere politico in quegli anni?
A. B. : Il panorama politico dei primi anni novanta comprendeva i partiti del Makhzen, detti
comunemente “partiti amministrativi”, come l’Unione Costituzionale, il Movimento Popolare o l’Unione
degli indipendenti, creati esclusivamente per difendere gli interessi della monarchia. C’erano poi i
partiti che definirei “tradizionali”, quelli con una reale base politica, tanto di destra, come l’Istiqlal,
quanto di sinistra, come l’USFP (Unione socialista delle forze popolari), il PPS (Partito del progresso e
del socialismo) o il PADS (Partito dell’avanguardia democratica e socialista). E infine i partiti usciti dai
movimenti marxisti degli anni settanta, come Annhaj Democrati, l’OADP (Organizzazione per l’azione
democratica e popolare) e il PSU (Partito socialista unificato), che pur avendo un progetto sociale e
politico, rifiutavano di prendere parte alle elezioni per evitare ogni sorta di compromesso con la
monarchia.
J. G. : Alla fine, lei non ha optato né per i nuovi partiti diciamo “radicali”, né per i partiti della sinistra
tradizionale.
A. B. : Per cinque anni ho viaggiato di città in città per tutto il Marocco, assieme ad altri compagni,
facendo un grande sforzo per far emergere un terreno comune di lotta e per arrivare ad una strategia
condivisa che potesse evitare la dispersione e il frazionamento. Credevo che una grande aspirazione
comune potesse bastare per superare le divisioni. Ma mi sbagliavo.
Così ho deciso di dedicare il mio impegno all’attività dell’AMDH. Le lotte che stava portando avanti in
quei primi anni novanta mi apparivano ben più solide e concrete. Ho iniziato a lavorare con le famiglie
dei prigionieri, vecchi e nuovi, con le vittime dei processi iniqui e con i migranti che transitavano nel
nostro territorio senza nessuna copertura legale. Ed ho capito che attraverso queste battaglie era
possibile ottenere quei progressi, quelle acquisizioni anche minime, ma costanti, che avevo cercato
attraverso la politica.
Una delle prime grandi battaglie fu quella a sostegno dei detenuti sopravvissuti a Tazmamart, che nel
1991 avevano ritrovato la libertà. Lo Stato li aveva lasciati senza il minimo aiuto e la minima
assistenza. Non aveva nessuna intenzione di elargire indennizzi per le atrocità che aveva inflitto a
quella gente. Io non li conoscevo, all’origine erano dei militari, non dei militanti politici, ma ho
sostenuto subito la battaglia in favore dei loro diritti, di quelli violati per vent’anni e di quelli che gli
spettavano una volta tornati in libertà. Ben presto sono divenuti parte della mia famiglia, tanto che,
spesso, ci riunivamo a casa mia.
J. G. : Come lei, molti militanti della sinistra degli anni settanta hanno abbandonato la politica ed
hanno scelto il campo dei diritti dell’uomo come terreno di lotta.
A. B. : La mancanza di prospettive e di risultati credo abbia pesato su molti dei vecchi militanti.
Quando dei partiti che si definiscono democratici arrivano a dividersi, per futilità o interessi privati, e a
farsi la guerra tra di loro, la strada del cambiamento politico diventa impossibile. Senza contare poi
che l’apertura del regime cominciava a farsi sempre più incerta e fragile. Questo pone il problema
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della cultura democratica che, secondo me, è ancora debole nella classe politica marocchina, anche
nella sinistra.
J. G. : Nell’articolo pubblicato da Le Journal Hebdomadaire viene riportata una sua affermazione, in
cui lei si definisce ancora come “un militante della nuova sinistra degli anni settanta”. Può spiegarmi
meglio cosa significhi?
A. B. : No, credo ci sia un’imprecisione. Oggi mi considero un militante indipendente. Sono dell’idea
che per arrivare al cambiamento in questo paese serva l’impegno e la militanza assidua di tutte le
forze realmente democratiche. Comprese le associazioni per i diritti umani. Detto questo, conservo
ancora oggi le mie aspirazioni politiche. Non ho rinunciato, in cuor mio, al progetto di quella sinistra,
definita radicale, uscita dai movimenti marxisti degli anni settanta. Ancora oggi aspiro all’instaurazione
di uno stato dove alla base ci sia il rispetto e la garanzia dei diritti civili, politici, sociali ed economici
dei cittadini e, a mio avviso, il solo stato capace di garantire tutto questo resta lo stato socialista. Di
certo non quanto visto in Unione sovietica o nei suoi paesi satelliti, dove di fatto non vi era il rispetto
dei diritti individuali e in molti casi nemmeno di quelli collettivi. Se devo cercare degli esempi
preferisco guardare all’America latina.
La seconda parte dell’intervista si concentra sul ruolo rivestito dall’AMDH all’interno della società
marocchina, sui suoi rapporti con il regime e sulle battaglie portate avanti dall’associazione, in
particolare quella a sostegno dei detenuti islamici.
J. G. : L’AMDH è stata creata nel 1979. Quali erano gli obiettivi che portarono alla sua creazione e
quali furono le sue prime attività?
A. B. : Negli anni settanta e poi negli anni ottanta la repressione del regime raggiunse il suo apice.
Alle sparizioni, agli arresti e alle torture si aggiungevano le violazioni dei diritti di base, quali la libertà
di opinione, di riunione, e la violazione dei diritti sindacali come quello allo sciopero. Nei mesi che
precedettero la creazione dell’AMDH c’era stata una feroce repressione contro gli insegnanti, ben
organizzati a livello sindacale, e contro gli operai delle industrie dei fosfati, arrestati e torturati a
centinaia. Questo era il contesto dell’epoca. I militanti politici hanno reagito, in solidarietà alle famiglie
e alle vittime di quest’ennesima ondata repressiva, con la creazione di un’associazione finalizzata alla
difesa universale dei diritti umani, non più focalizzata solo sul contesto politico. L’AMDH ricevette il
riconoscimento legale, ma la sua attività veniva comunque ostacolata dalle autorità. Ricordo che
all’inizio lavoravamo nella sede dell’Unione degli scrittori marocchini. Nel paese si erano formate
diverse sezioni e si erano subito costituiti dei sottocomitati, incaricati di seguire dei dossier specifici,
come l’assistenza ai detenuti o il sostegno ai diritti delle donne. Nonostante le difficoltà l’adesione era
forte, molto più di adesso. Oggi nelle sezioni si contano al massimo due o trecento attivisti, anche in
quelle di Rabat o di Casablanca, mentre al tempo ogni sezione aveva quasi un migliaio di aderenti. In
più c’era una presa di coscienza maggiore; come le ho detto c’era la repressione. Anche solo militare
nell’AMDH, significava rischiare il carcere e la tortura. Ma eravamo tutti pronti a pagare questo prezzo.
All’inizio degli anni ottanta stavamo cercando di organizzare il nostro secondo congresso, dopo quello
costitutivo, ma le autorità ce l’hanno impedito. Da quel momento, di fatto, le attività dell’associazione
sono state vietate e l’AMDH ha potuto riprendere il suo lavoro soltanto nel 1989, quando ha finalmente
tenuto il suo secondo congresso. (Da allora l’AMDH ha continuato la sua battaglia, rispettando tutti gli
appuntamenti con i congressi nazionali, che si svolgono ogni tre anni. Il prossimo, il nono congresso,
è previsto nell’aprile 2010).
J. G. : Cosa significava lavorare nell’AMDH all’epoca di Hassan II e cosa significa lavorarci nell’era di
Mohammed VI? Per la difesa dei diritti dell’uomo, rappresentano davvero due epoche differenti?
A. B. : Il cambiamento che ha conosciuto la società marocchina, per quanto debole e insufficiente, è
iniziato sotto Hassan II, nei primi anni ’90, quando è avvenuta la liberazione dei prigionieri politici, le
prime modifiche al codice di procedura penale e al codice della famiglia. La creazione del CCDH
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(Consiglio consultivo per i diritti dell’uomo) e il primo governo “di alternanza”, con il socialista Youssufi
come Primo ministro, sono i primi frutti tangibili. E tutto questo è avvenuto quando ancora c’era
Hassan II sul trono. Era obbligato ad avviare la strada dell’apertura e del cambiamento, come in teoria
è obbligato a proseguirla adesso Mohammed VI. Le pressioni delle organizzazioni internazionali, che
insistevano sul rispetto dei diritti, sono state determinanti. Le richieste dell’ONU e dell’Europa hanno
giocato un ruolo fondamentale. E’ stato questo a fare la differenza, non una semplice successione
monarchica. In questo senso credo si possa parlare più di continuità che di cambiamento. Dopo le
aperture degli anni novanta, non è stato fatto nessun vero passo in avanti.
Per essere più chiaro le farò alcuni esempi, legati strettamente al lavoro portato avanti dall’AMDH.
Prima le “sparizioni” potevano durare degli anni, e in molti casi non si è più saputo niente di compagni
finiti nella morsa della repressione. Oggi, le “sparizioni” durano dei mesi, dopo di ché il disparu vede
ufficializzata la sua posizione di detenuto. Qual è la conclusione? La pratica degli arresti illegali e delle
“sparizioni” forzate esiste ancora. Un altro esempio, la tortura. Mentre prima eravamo noi, i militanti
marxisti e i sindacalisti ad essere coinvolti, adesso tocca agli islamisti. Ma la tortura come strumento
illegale utilizzato negli interrogatori è ancora là. I processi iniqui lo stesso. Tra i detenuti islamici, tra i
salafiti, ci sono centinaia di casi la cui innocenza è più che evidente. La maggior parte di loro non sono
affatto dei criminali e la loro colpa è di avere un’idea della religione differente da quella del regime. I
prigionieri di opinione ci sono ancora. Dunque, nella sostanza, niente è cambiato.
Quando si parla di diritti umani, poi, bisogna anche comprendere i diritti economici, sociali e culturali,
che tuttora non sono garantiti. Mi riferisco al diritto del popolo marocchino all’autodeterminazione. Il
diritto a beneficiare di un dibattito politico vero e di una competizione elettorale corretta. A tutt’oggi le
elezioni sono falsate dai brogli e dalla compra-vendita dei voti, e il Parlamento è più che altro una
mascherata. Se il partito di El Himma, il PAM (Partito dell’autenticità e della modernità), voluto dalla
monarchia per assicurare ancora di più il suo controllo sulle istituzioni, è riuscito a diventare il primo
partito del Paese, allora niente è realmente cambiato. Con il PAM la monarchia cerca di arrivare allo
strapotere del partito unico, come è il caso della Tunisia, dell’Algeria o dell’Egitto. E’ un altro segnale
forte, che ci fa capire come il Marocco di Mohammed VI resti più che mai legato alle pratiche di
governo a cui eravamo abituati sotto Hassan II. Vale a dire: la monarchia detta la legge e gli altri fanno
da contorno.
Se vogliamo fare una valutazione globale, possiamo prendere in esame ancora degli altri esempi,
come la stampa. I giornali indipendenti, negli ultimi anni e negli ultimi mesi in particolare, stanno
avendo dei gravi problemi con il regime. Se oggi riprendiamo in mano alcuni giornali pubblicati negli
anni settanta, possiamo notare come le libertà concesse allora, sotto diversi aspetti, erano maggiori di
quelle di cui beneficiano oggi i giornalisti. Al tempo, quando i giornalisti venivano arrestati, era prima di
tutto per le loro appartenenza politica, per la loro attività di opposizione. Adesso la repressione si
abbatte su questa categoria poiché, nel libero esercizio della loro professione, lo Stato vede una
minaccia diretta ai suoi interessi, economici e politici. Non è più la militanza e l’opposizione ad essere
temuta, ma la pericolosità generata dalla diffusione di un pensiero libero.
Il regno di Mohammed VI, per tutte queste ragioni, si iscrive nella piena continuità rispetto all’epoca di
Hassan II. Una continuità di fondo che si manifesta a volte con altri mezzi e sotto altre forme, ma pur
sempre una continuità, chiara e innegabile. In Marocco non è ancora possibile parlare di transizione
democratica, abbiamo ancora la stessa costituzione di sempre, quella voluta da Hassan II: una
costituzione che sancisce il potere assoluto del sovrano. D’altronde, secondo me, nessuna monarchia
potrà mai essere pienamente democratica. In una monarchia viene meno, alla base, l’uguaglianza dei
cittadini di fronte alla legge. Quindi, viene apertamente violato l’articolo 1 della dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo.
J. G. : Nel suo lavoro all’AMDH ha parlato di risultati concreti. Quali sono state le vostre vittorie?
A. B. : Se cerchiamo delle “vittorie”, possiamo trovarle nel quadro delle aperture politiche e sociali di
cui abbiamo parlato poc’anzi, per esempio. Per quanto restino delle aperture e dei progressi parziali,
sono state comunque importanti per il paese. E l’AMDH è stata tra gli attori principali che hanno le
hanno rese possibili. Anche la riforma della Moudawwana (il Codice della famiglia), pur voluta dal re, è
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stata possibile grazie al lavoro e alle pressioni della società civile, tra cui l’AMDH. Lo stesso vale per
l’Istanza di Equità e Riconciliazione (IER). Sono iniziative monarchiche, d’accordo, ma se le abbiamo
ottenute è stato grazie al lavoro e alla pressione della gente comune che ha iniziato ad organizzarsi.
Nel caso dell’IER, il lavoro dell’AMDH, coordinato con quello dell’OMDH e del Forum Verità e
Giustizia, è stato evidente. Nel 2001 si era tenuto il “Simposio”, promosso dalle associazioni appena
citate, a seguito del quale fu nominato un Comitato incaricato esclusivamente del dossier sulle gravi
violazioni dei diritti umani vissute dal Marocco durante l’era di Hassan II. Del Comitato facevamo
parte, tra gli altri, sia io sia Driss Benzekri, futuro presidente dell’IER. L’IER è stata una risposta alla
nostra mobilitazione e le raccomandazioni contenute nel suo Rapporto finale, se applicate,
costituirebbero da sole la base per un vero cambiamento.
Altri buoni risultati li abbiamo ottenuti nel campo dell’immigrazione definita “clandestina”, in quella che
noi chiamiamo la battaglia per il diritto alla libera circolazione. Un lavoro di cui si incaricano soprattutto
le sezioni situate nel nord del Paese. E poi la liberazione dei prigionieri di Tazmamart e di tutti i
detenuti politici all’inizio degli anni novanta.
J. G. : Quali sono i dossier su cui è concentrato attualmente il lavoro dell’AMDH?
A. B. : Tutto quello che riguarda le violazioni dei diritti umani, perché il lavoro da fare è ancora molto.
Parallelamente stiamo portando avanti una campagna di sensibilizzazione sul rispetto dei diritti
dell’uomo e di educazione alla cultura di tali diritti. Abbiamo concluso varie convenzioni con istituti
scolastici, dove teniamo dei seminari periodici. In più abbiamo un accordo di partenariato con il
Ministero dell’Educazione nazionale, in vigore dal 2003. Anche l’OMDH e la sezione marocchina di
Amnesty International sono impegnate assieme a noi su questo fronte. Grazie all’appoggio di alcuni
paese scandinavi, poi, portiamo avanti delle sessioni di formazione all’interno delle università, dirette
sia ai professori che agli studenti.
Per quanto riguarda i dossier specifici, posso elencarne alcuni, come quello relativo ai detenuti
islamici, quello relativo ai migranti, alla libertà di espressione e quindi alla libertà di stampa. La lista da
fare sarebbe ancora una volta troppo lunga e forse non esaustiva.
J. G. : Quali sono attualmente i rapporti tra l’AMDH e il regime? Il vostro lavoro viene ancora
ostacolato? In che modo?
A. B. : I rapporti tra l’associazione e il regime non sono più tesi come durante gli anni ottanta. La
nostra attività non è pubblicamente ostacolata, del resto le ho fatto l’esempio poc’anzi della
convenzione con il Ministero, ma resta ancora oggi una ambiguità e un’incertezza di fondo. I nostri
rapporti possono deteriorarsi improvvisamente a seconda delle rivendicazioni o delle denunce che
presentiamo. A seconda delle tematiche toccate dalle nostre campagne. E questo dipende anche
dalle singole persone, che di volta in volta rappresentano il regime, con cui ci relazioniamo. Per
esempio, nel 2007, alcuni militanti dell’AMDH sono stati arrestati e condannati per aver pronunciato
degli slogan durante le manifestazioni del 1° maggio. In seguito alla nostra mobilitazione sono stati
liberati, ma il regime ha voluto far passare un messaggio. La settimana scorsa, invece, io e la signora
Riyadi, presidente dell’AMDH, siamo stati ricevuti da Hafid Benhachem, il responsabile della
Delegazione delle carceri, che, interpellato sulle attuali condizioni di detenzione dei prigionieri islamici,
ci ha risposto in modo arrogante e minaccioso. “Se non siete d’accordo sulla linea seguita dal
Marocco riguardo al rispetto dei diritti umani non vi resta che lasciare questo Paese, che continuate
tanto a criticare”, sono le esatte parole che ha pronunciato il Delegato.
J. G. : L’AMDH, assieme a Ennassir, è la sola associazione a battersi perché ai detenuti islamici sia
fatta giustizia. Perché?
A. B. : Tutte le altre associazioni che si battono per la difesa dei diritti dell'uomo hanno preferito non
addentrarsi nel dossier dei detenuti islamici. A parte Ennassir, certo, che pur con risorse scarse sta
portando avanti un lavoro eccezionale, a livello di documentazione e di assistenza. Questo è un
dossier ritenuto scomodo, che mostra il vero volto della attuale politica securitaria del paese. Nel
prenderlo in mano è più facile farsi dei nemici, anche importanti, piuttosto che trovare sostegno.
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Noi non facciamo distinzioni tra i detenuti islamici, chiamati anche detenuti salafiti, e i detenuti comuni.
In ogni caso i diritti umani vanno rispettati, qualunque sia il reato imputato al prigioniero. La maggior
parte degli attivisti dell’AMDH sono dei militanti di sinistra, vecchi e nuovi, ma questo non ci porta a
fare delle differenziazioni. Anche se le idee di chi si trova in carcere attualmente, e per di più
ingiustamente, possono non piacerci o non essere condivisibili, noi sosteniamo la battaglia in difesa
dei loro diritti. Ripeto, i diritti umani valgono per tutti e in ogni momento.
J. G. : Ma i detenuti islamici sono dei prigionieri politici o dei criminali comuni?
A. B. : Una piccola parte dei detenuti salafiti ha commesso azioni riconosciute criminali dalle leggi in
vigore. E ad un crimine corrisponde una pena. Su questo non si discute. Ma anche in questo caso gli
imputati hanno diritto ad un equo processo e al rispetto dei loro diritti di essere umani. Cosa che è
venuta completamente meno dopo gli attentati del 16 maggio 2003. La maggior parte dei detenuti
coinvolti nelle raffiche di arresti seguite agli attentati di Casablanca sono, invece, completamente
innocenti. Sono vittime di arresti arbitrari, di violenze fisiche, di processi iniqui e di trattamenti
degradanti. Vittime quindi di gravi violazioni dei loro diritti.
Amnesty International ha pubblicato un rapporto completo su questa vicenda, dove vengono descritti i
trattamenti riservati ai prigionieri nel centro di detenzione segreta di Temara. Mi correggo, non ai
prigionieri, ma ai sospetti, prelevati e condotti fin lì in segreto. Questo centro, attivo dal 2003, è tuttora
in funzione. Anche gli ultimi casi di “sparizioni”, i 27 casi denunciati in settembre dall’AMDH, sono
passati per Temara, prima di ricomparire misteriosamente nelle prigioni di Salé e di Kenitra.
J. G. : Cosa succede a Temara?
A. B. : Temara è un centro gestito dalla DST. Si trova nella “cintura verde”, la foresta che circonda
Rabat, creata negli anni ottanta per assicurare un buon clima alla capitale. In questa struttura
transitano le vittime degli arresti illegali, delle “sparizioni”. Qui gli agenti della DST eseguono gli
interrogatori. Per estorcere informazioni o per ottenere confessioni di colpevolezza si servono della
tortura, sia fisica che psicologica. La permanenza in questo luogo può durare da pochi giorni a dei
mesi. Poi la detenzione viene “ufficializzata” e i prigionieri trasferiti in un carcere regolare, in attesa
dell’inizio del processo.
J. G. : Quali sono le condizioni di detenzione dei prigionieri islamici?
A. B. : Le condizioni sono gravi, e non solo per i detenuti islamici. Il sovrappopolamento delle celle
colpisce indiscriminatamente tutti i detenuti, in tutte le carceri del Paese. Non vengono garantiti gli
standard minimi prescritti dalle leggi internazionali. Mediamente i detenuti hanno a loro disposizione
uno spazio di un metro quadrato, massimo un metro e mezzo, quando le convenzioni internazionali
fissano lo standard minimo a otto metri quadrati per ogni prigioniero. Nella maggior parte dei casi i
detenuti islamici non hanno diritto a visite regolari, non beneficiano dell’assistenza medica e, per i
malati gravi, è impossibile ottenere il ricovero ospedaliero. Ma queste condizioni lamentabili e
vergognose, ripeto, affliggono in generale anche le altre categorie di prigionieri. I salafiti, in più, non
beneficiano dei provvedimenti grazia e dei permessi temporanei.
(1) Benabdesslam, una vita al servizio dei diritti dell’uomo, art. pubblicato da Le Journal Hebdomadaire, n.
412, 10-16 ottobre 2009, in italiano, url :
http://rumoridalmediterraneo.blogspot.com/2010/01/benabdesslam-una-vita-al-servizio-dei.html
Fonte : (r)umori dal Mediterraneo, il blog di Jacopo Granci, 7 gennaio 2010
url : http://rumoridalmediterraneo.blogspot.com/2010/01/alla-scoperta-di-abdelilah-benabdesslam.html
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