09/03/1996 - 9 - pubblicazione
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09/03/1996 - 9 - pubblicazione
Nome file 960309SC_AC3.pdf data 09/03/1996 Contesto ENC Relatore A Colombo Liv. revisione Pubblicazione Lemmi Banalizzazione Infanzia Moralismo Paternalismo CORSO DI STUDIUM ENCICLOPEDIA 1995-1996 «UNIVERSITÀ». RI-CAPITOLARE 9 MARZO 1996 9° LEZIONE BANALIZZAZIONE Alberto Colombo 1. Il lemma «banalizzazione» Ho già avuto occasione di menzionare il lemma «banalizzazione» trattando alcune settimane fa dell’errore, in quanto esso è quell’errore determinato che ha nome «sessualità». Avevo allora osservato che questo determinato errore si atteggia anche come una «banalizzazione», assumendo la parola nell’accezione definita nell’esposizione a essa dedicata in Lexikon psicoanalitico e Enciclopedia.277 Tale accezione, in sintonia tra l’altro con l’etimologia del termine, mette in risalto la valenza giuridica del concetto di «banalizzazione». Senza indulgenza al vezzo di ricercare la verità nell’etimologia, è utile in questo caso ricordare che «banalizzazione» è connesso con «bannalità», termine che a sua volta dipende dal germanico ban che significa «editto, decreto, proclama», particolarmente di un signore titolare di un feudo, donde anche il significato di «circoscrizione in cui si esercita la giurisdizione del signore». Delle prerogative di un signore feudale facevano parte le cosiddette «bannalità», cioè una serie di imposizioni aventi per oggetto le attività produttive delle signorie rurali che per la lavorazione dei propri prodotti avevano l’obbligo di servirsi di impianti e attrezzature del signore feudale dietro controprestazioni economiche e pagamento di certe tariffe. Gli impianti il cui uso era imposto dal signore erano per lo più forni, frantoi, talvolta anche magazzini. Rispetto a queste attrezzature era vietato ai produttori diretti, indipendentemente dal loro stato giuridico (fossero servi o anche proprietari allodiali cioè liberi) di provvedere in proprio, privatamente, attraverso libere 277 AA.VV., Lexikon psicoanalitico e Enciclopedia, Edizioni Sic Sipiel, Milano 1987, pp. 87-90. «Università». Ri-capitolare 218 iniziative. L’istituto delle bannalità sottraeva ai singoli la facoltà di autoorganizzarsi in determinate attività per imporre un regime comune, uniforme, vincolante per tutti i sottoposti alla giurisdizione signorile nella forma dell’obbligo comune di servirsi degli impianti del signore. Da qui il significato corrente della parola «banalità» che indica appunto una perdita di originalità o di peculiarità. 2. La doppia direzione del processo di «banalizzazione» Il tratto di uno spostamento da un campo di competenza − reperibile nell’antico istituto feudale della bannalità – a un altro, è ciò che si ritrova nella definizione di «banalizzazione» che il Lexikon propone come rigetto della legittimità propria a un fatto o a un’azione, spostamento di quel fatto o azione nella legittimità di una certa giurisdizione278 o ancora: spostamento di un fatto o di un’azione dal campo loro proprio al campo di un’opinione o cultura comune (o addotta come tale) tanto volgare (così fan tutti, così pensan tutti), quanto colta (è notoriamente il caso della cultura medica, come pure di quella creata dalla diffusione della cultura scientifica).279 Le due direzioni che la banalizzazione può prendere, quella volgare da senso comune e quella colta o scientifica, sono segnalate in Lexikon senza escludere il fatto che rispetto a uno stesso tema possono essere praticate sia una sia l’altra e che l’una e l’altra possono convergere e colludere in una medesima operazione di banalizzazione. Uno degli esempi capitali – perché ne va della 278 279 Ivi, p. 89. Ivi, p. 89. Banalizzazione 219 testa, del pensiero del soggetto – di questa convergenza possibile delle due direzioni della banalizzazione riguarda il Padre. Il suo concetto normativo, sottratto al campo della competenza elaborante del soggetto in ordine alla legge di beneficio, viene analizzato deviandolo sia nella direzione di una dramatis persona, di un personaggio, di un canovaccio familistico, in cui egli diventa il «papà», il «papi», il «babbo» sino a «Babbo Natale», e in cui l’aura del mito nordico è al servizio della grottesca bonomia di un ebefrenico scriteriato con compulsioni oblative,280 sia nella direzione variamente teorizzata dalla psicologia scientifica contemporanea della figura paterna, che il sussiego scientifico e il lessico colto con cui se ne parla non esentano dall’essere appunto figura, maschera, manichino teorico proposto per giunta come oggetto di imitazione o di identificazione. Nessuna meraviglia dunque alla fin fine se si scopre che il contenuto della figura paterna è il ritratto di Babbo Natale. In ogni caso la «banalizzazione», solo in quanto è esercitata sistematicamente e metodicamente, svela nell’una e nell’altra delle sue direzioni, che siano di volta in volta congiunte o non congiunte, il suo tratto di perversione con il proporsi come nemica del pensiero del soggetto e come mirante alla sua esautorazione sia con il subdolo tono di una disincantata saggezza esperienziale (che si esprime per esempio in consigli come: «Ma lascia perdere…», «Non ci pensare…»), sia con censure o divieti dell’esercizio individuale del pensiero, in nome di qualche superiore autorità. In Lexikon viene ricordato che secondo la prima modalità si comporta Giocasta, che al malcapitato Edipo suggerisce di mettersi il cuore in pace: «Già molti mortali si giacquero in sogno con la propria madre, ma chi non dà nessun valore a queste cose, vive più facilmente». Nello svilimento esercitato dalla banalizzazione, è evidente la sua funzione avvilente. Conformemente alla seconda modalità della banalizzazione, chi adduce il fatto che tutto è già 280 In una conversazione, Giacomo B. Contri mi suggeriva anche il neologismo presbifrenico, vista la vecchiezza di Babbo Natale «Università». Ri-capitolare 220 stato pensato da un’istanza superiore, per esempio dalla scienza, nega al soggetto la facoltà di natura di pensare. Spesso la banalizzazione mostra i suoi tratti inequivocabili di sublimazione in quanto legittimazione nella maniera o nella modalità in cui opera parlando in toni aulici, evocando alti valori, solennizzando o nobilitando ciò che introduce o dice. 3. Il moralismo, apice della banalizzazione In questo senso un apice della modalità aulica della banalizzazione è il moralismo. Esso è una concezione della morale secondo la quale, in merito a tutto ciò che è azione, condotta, comportamento, scelta, decisione, iniziativa, occorre determinarsi innanzitutto – e questo «innanzitutto» è ciò che definisce il moralismo – secondo principi, precetti, prescrizioni morali. L’allocuzione «innanzitutto» indica la tesi implicita nel moralismo: esiste sì una pluralità di ordini e ordinamenti normativi, di essi tuttavia il moralismo fornisce una rappresentazione gerarchica, almeno per il fatto che in tale pluralità il moralismo subordina a sé la validità di tutti gli altri, quale che siano poi le posizioni di ciascuno di essi rispetto ai restanti ordinamenti normativi, alla conformità o compatibilità di essi al piano dei principi e dei derivati dei principi morali, il cui primato normativo assiologico è il fondamento di legittimazione di ogni altro ordinamento normativo e delle prassi da esso regolate. In questo senso il moralismo coincide con l’affermazione del primato della morale e la morale, a sua volta, è considerata come una costellazione di prescrizioni che per statuto valgono per sé e dalle quali procede l’obbligo incondizionato, inderogabile, di osservanza, indipendentemente da qualsiasi altra 281 considerazione. 281 Ricordo, per esempio, la nota n. 84 del libro di GIACOMO B. CONTRI Il pensiero di natura (Edizioni Sic Sipiel, Milano 1994) che è dedicata strettamente a questo tema. Banalizzazione 221 Questa connotazione puramente tratteggiata del moralismo si ritrova in tutte le teorie e dottrine più o meno teoreticamente sofisticate; esse possono anche essere diverse, divergenti e antitetiche sotto una pluralità di aspetti, in particolar modo nelle procedure conoscitive utilizzate per adottare le prescrizioni o leggi morali, ma convergono in questo tratto comune. In termini più circostanziati va notato che la rivendicazione moralistica del primato della morale, della sua autonomia, della sua validità in sé, è una rivendicazione che viene addotta innanzitutto nei confronti della questione stessa della soddisfazione o del beneficio. Nella moralità moralistica non è pertinente il riferirsi a questi termini, la cui rilevanza è legittima su un piano inferiore a quello dell’ordine morale e purché a questo conforme. Ultimativamente il primato e l’autonomia della morale sono un primato su e un’autonomia da ciò che concerne soddisfazione e beneficio. La posizione moralistica è riassumibile nella tesi secondo la quale il bene, in quanto moralmente autonomo, è distinto, indipendente e condizione di liceità e legittimità del beneficio economico. La separazione tra morale ed economia, ovvero tra bene morale e beneficio, è ciò che caratterizza il moralismo in tutte le sue varianti più o meno immediatamente riconoscibili come tali. Dalla separazione tra bene e beneficio conseguono la separazione tra «voglia» e «volontà»282 e quindi «volontarismo», che è un tratto essenziale del moralismo. La deformazione della vita morale propria del moralismo è il regno della pura coscienza e della pura volontà, cioè della volontà senza voglia, disinteressata, puro rispetto della legge morale in sé. Dobbiamo essere grati a Kant (anche se egli non è il solo a essere compromesso con il moralismo, la cui diffusione nella storia del pensiero e della cultura è tutta da misurare), che questa concezione moralistica 282 Sulla coincidenza tra voglia e volontà si veda ancora Il pensiero di natura, op. cit., p. 142. GIACOMO B. CONTRI riprende questo tema nel suo articolo di apertura, Ricapitolare, in La città dei malati, vol. II, Edizioni Sic Sipiel, Milano 1994, pp. 11-34. 222 «Università». Ri-capitolare della morale ha trattato, esposto, scritto e argomentato con il massimo di rigore, coerenza e consequenzialità, offrendone una edizione esemplare. Quanto detto è sufficiente per riconoscere come nel moralismo la «banalizzazione», che in quanto inclusiva di un tratto di perversione è sempre direttamente o indirettamente ostile alla competenza del soggetto e al pensiero di natura, operi nei riguardi dell’esperienza delle relazioni dell’uomo secondo due indirizzi. Da un lato le trasporta, dando a credere di elevarle, assegnandole alla disciplina dei valori, dei principi inviolabili, delle sacre leggi dell’etica, della maestà degli imperativi categorici o del santuario della coscienza; dall’altro le relega – insieme con la questione della soddisfazione, del beneficio – con il campo dei moti del corpo umano, in uno spazio secondario, ristretto, residuato. Questa residualità può giungere fino a una tolleranza stentata come negli accenti stigmatizzanti della cultura del tradizionalismo moralistico che giudica la cura soggettiva individuale per la soddisfazione, per l’accadere del beneficio, come egoismo, grettezza, ottusa privatezza. Nella ristrettezza e secondarietà in cui nel moralismo viene relegato il moto del corpo per la soddisfazione, si palesano da un lato il diniego dell’universalità della competenza normativa del soggetto e del suo valere come istituente l’universo stesso, dall’altro appare il disconoscimento del fatto che ciò che si chiama «senso» appartiene al corpo pensante il proprio moto in quanto moto che si articola nei termini di eccitamento, soddisfazione e godimento e che proprio in questo senso la parola «senso» prende significato. Nel moralismo il senso è altrove: è il senso della volontà volontaristica che vuole la propria conformità al firmamento degli imperativi etici. Tutto il resto è accessorio. Nella misura in cui l’espressione «senso della vita» è compromessa – e solitamente lo è – con un significato esistenzialistico della parola «senso», essa è già un’insegna e un vettore del moralismo. Il moralismo è ubiquitario e variamente rappresentato nella psicopatologia, clinica e non-clinica, così come Banalizzazione 223 nelle modalità psicopatologiche correnti della vita quotidiana. In essa lo si ritrova confezionato, per così dire, nelle sue forme prêtà-porter, in atteggiamenti, modi di dire, proverbiali espressioni di presunta sapienza, in cui l’invidia, che del moralismo è compagna, trova il suo alloggio. Si pensi per esempio alla frase: «Mal comune, mezzo gaudio»: tra l’altro, con la presunzione di avere efficacia consolatoria, essa mette in valore una condizione che, se fosse, sarebbe di impossibilità per ogni terapia, in particolare psicoanalitica. Per uscire dai miei guai, a me nevrotico occorre quanto meno che ce ne sia uno che possa diventare il mio ϑεραπων e che non sia nel «mal comune». 4. Paternalismo e infantilismo Una figura del moralismo è il paternalismo, che, in quanto esito della corruzione banalizzante nel suo concetto, è a sua volta contagioso diffusore di banalizzazioni moralisticamente atteggiate. È nelle maniere paternalistiche di essa che tra l’altro è agevole cogliere la tendenza della banalizzazione a mascherare sé stessa attraverso una mossa di banalizzazione. Con essa nasconde la precisione, la portata e la mira della sua operazione, occultandone appunto la rilevanza.283 Si pensi quanto i padri sottomessi, interpreti del paternalismo, appunto nelle sue forme apparentemente innocenti, distratte e leggere, promuovano l’infantilismo dei figli. In questa condizione vi è poi agio per disconoscere che l’infantilismo del figlio, quando c’è, è provocato dall’infantilismo che alberga nel paternalismo adulto. In questa condizione di occultamento c’è agio di attribuire l’infantilismo all’infanzia come se fosse una sua qualità, mentre l’infantilismo è solo adulto. Quando non ci si lasci ingannare dalla sua presunta banalità, la banalizzazione mostra come nell’appropriarsi della 283 Ciò è annotato puntualmente nella voce del Lexikon dedicata a questo lemma, dove si osserva che, sotto questo profilo, la banalizzazione è affine alla rimozione, essendo questa un atto che non soltanto nasconde l’oggetto, il contenuto, la rappresentazione che rimuove, ma anche l’atto stesso del rimuovere. Cfr.: op. cit., p. 88. «Università». Ri-capitolare 224 coppia infantile-adulto, sotto l’apparenza di farne la coppia di una opposizione, ne fa invece la coppia di una confusione sino ad attribuire all’infanzia ciò che è una possibilità patologica dell’adulto, salvo ricaduta nefasta sull’infanzia stessa. Di tale attitudine confusiva della banalizzazione dà conto la trattazione di questo concetto in Lexikon, in cui si documentano le distorsioni banalizzanti della psicoanalisi, non a caso nella nostra cultura, uno dei bersagli elettivi delle insidie banalizzatrici. In particolare vi sono indicate le connotazioni banalizzanti delle trattazioni in voga circa i meccanismi di difesa. Sul finire sono inoltre portati altri esempi di banalizzazione e manomissione di scoperte freudiane, tra cui quello dell’antitesi infantile-adulto.284 Concludo leggendo proprio gli ultimi passi della voce di Lexikon: Gli esempi di banalizzazione nei confronti delle scoperte freudiane sono numerosi: dallo pseudo riconoscimento della sessualità infantile nel disconoscimento della sua razionalità; (teorie infantili come teorie in ordine a una pratica) [è questo a essere disconosciuto]; alla coppia di termini opposti infantileadulto, con disconoscimento del fatto che l’infantilismo è una qualità solo adulta, non infantile, se non nella misura in cui il bambino è contaminato dall’infantilismo adulto; alla riduzione psicogenetica dell’inconscio [cioè della competenza elaborante 284 GIACOMO B. CONTRI commenta: «È nella facoltà intellettuale del bambino lo svolgere queste considerazioni fino a esprimerle a voce alta. La critica precisa dell’infantilismo è stata fatta dal bambino di quattro anni il giorno in cui, non arrabbiato ma seccato, ha detto: “Non mi piace fare il bambino”. L’inferno sarà lastricato di psicologi che, come tutti sanno, sono animati da buone intenzioni. Per questo sono una catastrofe: la psicologia è il mondo delle buone intenzioni, come ci fanno vedere certi cognitivisti in cui traspaiono le cattive intenzioni coscienti. Lo psicologo direbbe: «Sarà anche vero che quel bambino ha davvero detto così e che dunque non sia solo il caso del bambino intelligentino che ha delle trovate che fanno sorridere gli adulti. Però si tratta di quel bambino, portami almeno numeri statistici riguardo alla totalità della popolazione infantile, magari per fasce d’età». In questo invito lo psicologo è un nemico. Nel suo proporsi nel caramello, è assolutamente male intenzionato perché va contro la benefica verità che se un bambino ha potuto pensare e dire questo, lo possono tutti. È una verità psicologica: se uno, allora tutti, l’universo. In un esempio come questo, risulta in modo vistoso che cosa sia la nostra psicologia». Banalizzazione 225 del soggetto in ordine alla soddisfazione], con disconoscimento del fatto che l’inconscio non è una tappa superabile in svolgimenti ulteriori, ma una premessa compiuta (elaborata nei primi anni di vita) che attende di concludersi. Non sembra difficile articolare la banalizzazione con superio, censura, resistenza.285 Ma proprio in relazione a questa articolazione mi è sembrato opportuno insistere sul tema del moralismo, che, nonostante non esaurisca la realtà del superio, ne rimane una componente più o meno cospicua a seconda dei tempi e delle mode. © Studium Cartello – 2007 Vietata la riproduzione anche parziale del presente testo con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine senza previa autorizzazione del proprietario del Copyright 285 Ivi, pp. 89-90.