Il Pianeta Ostile

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Il Pianeta Ostile
Siamo la Promessa
Published by Federico Negri at Smashwords
Copyright 2014 Federico Negri
Cover by Cristiana Mantenuto
Smashwords Edition, License Notes
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1
Prefazione
Questo romanzo è il primo volume della saga di Promise.
Ad oggi sono usciti anche:
Cuori D’Acciaio – secondo episodio
Il Pianeta Ostile – terzo episodio
che sono reperibili in tutti i principali ebook stores. Questi primi tre volumi sono distribuiti
gratuitamente su tutte le piattaforme dove ciò è ammesso, poiché io credo che la rivoluzione dei
libri digitali si combatterà su questo terreno. La mia convinzione deriva unicamente dalla mia
esperienza, senza ipocrisie, su cento ebook che ho letto, ne avrò comprati non più di dieci. Gli
altri li ho scaricati da internet, se erano in promozione, o li ho cercati su emule.
Shame on me, vergogna delle vergogne, però credo che molti, alla fine, ragionino così. Io
credo che abbia senso pagare il libro cartaceo, perché è un bell’oggetto, come pagare per andare
al cinema, o per andare a un concerto. Il resto sono bytes, brandelli di informazione vaganti nel
cyberspazio, pretendere di costringere le persone a pagarli è lo scoglio su cui si sono infrante le
speranze delle case discografiche, di quelle cinematografiche, a cui seguiranno anche quelle
delle case editrici. È come cercare di far pagare l’aria.
Poi una risata, una partita a pallone con gli amici, un abbraccio, twitter, le cose migliori della
vita sono gratis, se ci pensate bene.
Ciò non toglie che almeno una recensione o una menzione sul vostro social preferito potreste
lasciarmela, per ripagare il duro lavoro che sta dietro anche a un romanzetto come questo.
Grazie e buona lettura.
2
Questo romanzo è stato ispirato
dalla canzone “Hold it against me”
di Britney Spears.
L’ispirazione a volte proviene da fonti
alquanto inaspettate…
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Sommario
In marcia
L'agguato
Primo Interludio
Una fortuna inaspettata
La promozione
Verità
Ringraziamenti
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In marcia
Promise, terza luna del gigante gassoso Alcione.
Sistema Stellare di Tau Ceti, Anno 2528.
Ora.
«Mamma, non piangere».
Haria scosta la testa della madre dalla spalla, quel tanto che basta per poterla guardare negli
occhi chiari, pieni di lacrime. La vecchia singhiozza in silenzio e, a ogni sussulto, il mondo di
Haria trema.
«Ssshh», sussurra Haria, «tornerò presto, vedrai».
La donna si ravvia dietro l'orecchio una ciocca di capelli grigi e le accenna una carezza sul
viso. Il suo palmo è morbido e caldo, e fa vagare Haria lontana dalle sue certezze.
Povera inferma, cerca anche di illuderla con un sorriso, ma quasi subito strizza gli occhi, e le
lacrime riprendono a scendere.
Haria ignora le tentazioni di fuga e riprende a cullarla. «Non sarà pericoloso. Il professore è
pieno di premure con me ed è anche una persona estremamente prudente».
«Professore», sbuffa la madre, «bah, ne sa meno della cattedra che occupa».
Haria si irrigidisce nell'abbraccio materno e la vecchia continua: «Lo so, non vuoi sentire
parlare dei tempi andati, di come era tutto più avanzato. Tu sei solo una bambina e non hai visto,
non puoi capire».
«E allora», la figlia si stacca da lei, «se non posso capire cosa vuoi spiegarmii, no? Ognuno
ha avuto le sue opportunità, mamma. Questa è la mia e la sfrutterò, che colpa ne ho se i tempi
sono quello che sono?»
«Bambina mia», riesce ancora a borbottare la madre e si nasconde il viso tra le mani.
Haria si alza in piedi, non vuole vedere altro. «Ti farò avere mie notizie, in qualche modo».
Gira sui tacchi e si avvia fuori da quel bugigattolo pregno di odori di garze, pitali e erbe
medicinali. Sale le scale a due a due ed esce in strada, dove torna a respirare. Il cielo sta virando
al grigio scuro e Tau Ceti sbiadisce già dentro la plumbea coltre di nubi del gigante gassoso,
Alcione. L'aria fredda del mezzo-tramonto alza le foglie da terra. Haria si copre il naso con la
sciarpa e s'incammina curva, con il petto pesante, per quell'acrimonioso congedo, e gli occhi
pieni di vento.
Qualche settimana lontana da sua madre. Per la povera donna sarà durissimo, dovrà farsi
aiutare dai vicini e da quelle tre amiche che le restano, e che sembrano ancora più rincitrullite.
Come mai lei invece si sente così leggera? Forse perché qualche settimana senza piaghe sul
sedere da medicare, vasi da notte da lavare e piedi ritorti da massaggiare, aiuta il morale.
Le pastiglie di psicocola le pesano in tasca e la richiamano come un amante insaziabile.
Stringe i denti e respinge il desiderio. Deve restare lucida, non è il momento. Ricaccia le lacrime,
dandosi dell'egoista e dell'ingrata, e si concentra per non infilare un piede in una delle tante crepe
che ormai tormentano le opere costruite dall'uomo. Le radici delle piante s'insinuano tra le
smagliature, fagocitando strade, palazzi e muri.
La Città è ancora poderosa e ardita, da lontano. I due bracci dell'Antenna si scorgono a
chilometri di distanza, più alti di qualsiasi edificio. E più morti delle altre due lune di Alcione.
Haria ha percorso quel tragitto per anni, oramai riesce a muoversi senza una lanterna anche
durante le ore più buie.
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Gira un angolo e scorge la sagoma familiare dell'Università, con il suo portone di legno scuro
imbullonato al muro di biocemento. Giunta nell'atrio, una grande stufa di terracotta riscalda
l'ambiente e le lampade a olio spandono la loro luce morbida. Nuno, il guardiano, siede proprio
davanti alla stufa, con le mani tese davanti a sé, come in adorazione di un dio dimenticato. Si
volge appena, udendola entrare, e abbozza un sorriso di saluto sotto i baffi biondi, ispidi come
uno spazzolino.
Haria percorre i corridoi poco illuminati sino allo studio del professor Phinner, il suo tutor e
mentore. Spinge l'uscio sbeccato senza indugio, Phinner arriverà alle prime luci.
Accende la lampada a olio sullo schedario, la fiammella tremola e rivela un uomo seduto
sulla poltroncina nell'angolo che la sta fissando. Haria sobbalza e va a sbattere con un gomito
contro lo scaffale.
«Chi sei?» gorgoglia lei.
L'uomo non risponde e non muove muscolo. Ha una faccia squadrata, con la pelle slavata e
ripiegata in rughe profonde attorno agli occhi e alle labbra. Le iridi sono metalliche, mentre i
capelli biondi sono venati di grigio. Porta un paio di pesanti stivali scuri, con solide borchie di
ferro a rappezzare i buchi dell'usura. In mano ha un caschetto, coperto di liso tessuto nero, e
indossa un'uniforme polverosa. Un soldato o, come dicono tutti, un teschio.
Sarà una spedizione orchestrata dai militari, d'altronde. Haria riprende un po' di coraggio.
«Ok, ok. Sono la dottoressa Haria Gillia. Questo è l'ufficio del professor Phinner, non puoi stare
qui in sua assenza».
«Sto proprio aspettando Phinner. Arriverà a momenti, non ti preoccupare».
Si fruga nel taschino sino a estrarre una pipetta da fumo che accende con studiata lentezza,
osservando Haria di sottecchi.
«Quindi sei tu la dottoressa?», il soldato stringe un poco gli occhi, come se stesse cercando di
catalogarla nel suo archivio.
La bocca dello stomaco le si chiude. Non sarà mica che questo troglodita sia uno dei militari
che li scorteranno là fuori? Si è immaginata qualche prestante ufficiale, interessato alle sue
ricerche, con il quale discorrere di filosofia e di scienza dinanzi al fuoco del bivacco. Se quello è
un deputato dei personaggi che si accompagneranno a loro, le premesse sono pessime.
«Sì», sussurra lei. «Anche tu fai parte della missione?» chiede sperando di spostare il
mattone che sembra essersi materializzato sotto il suo sterno.
Il militare non pare disturbato dalla domanda e risponde convinto: «Io sono il comandante di
questa missione, bambina. Piuttosto», la squadra da testa a piedi, «sei sicura di essere
maggiorenne?»
Le guance le avvampano di calore. «Sono laureata».
La più giovane laureata della storia di Promise, per la precisione, ma se lo tiene per sé.
Incrocia le braccia e lo fissa con lo sguardo più carico di riprovazione che le riesce di imbastire.
Questo bifolco non saprà neanche cosa significhi essere laureati. Quante notti bisogna passare a
studiare, con i morsi della fame che ti distruggono la concentrazione, perché i buoni pasto per gli
studenti non bastano mai. Dato anche che ci hanno mangiato sia lei che sua madre.
«Sei già stata fuori la notte?» continua lui, noncurante.
«Ma che domanda è? Certo che no. È illegale andare fuori dopo il coprifuoco».
«Mi si dice che qualche figlio di papà si avventuri, di tanto in tanto...».
Haria si sforza di tenere lo sguardo fisso sul militare. I suoi amici gliene hanno raccontate a
pacchi di quelle corse notturne, braccati dai teschi. Le psicocole non crescono sotto i sassi,
bisogna contrabbandare le erbe da oltre il Muro. Meglio sviare il discorso, prima che l'uomo nero
inizi ad elencare tutti i vizi dei figli di papà, che sono illegali. E visto che lei ne è dentro fino alle
orecchie.
«Potrebbe davvero essere arrivato qualcosa dallo spazio, secondo te, comandante?»
«Questo me lo dovrai dire tu», il soldato spinge l'indice nella sua direzione, come se volesse
pigiare un pulsante invisibile. «Tu e Phinner. Io ho solo il compito di portarvi avanti e indietro
sani e salvi».
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«Quanto dista il luogo dell'impatto, o meglio del presunto impatto?», chiede la ragazza.
«L'informazione è top-secret, lo sai». Parla masticando la pipetta, sputando parole e fumo
assieme dai lati della bocca.
Haria muove un passo e appoggia i polpastrelli alla scrivania. «Io credo che sia un meteorite.
Da quanto mi ha detto Phinner, solo un bambino del popolo libero ha riportato di aver visto
l'oggetto rallentare in fase di discesa. È l'unico testimone diretto».
«Già. Comunque né io né te siamo qui per pontificare. Andremo fin là e cacceremo il becco
dentro la buca che quell'affare avrà fatto. E torneremo indietro, vivi possibilmente».
«Non vedo quali pericoli dovremo affrontare» Haria storce la bocca in una smorfia. «Gli
insediamenti del popolo libero sono sparuti, che interesse avrebbero a stuzzicarci?»
L'uomo sogghigna. «Non ho intenzione di farmi rompere le scatole da quegli straccioni.
Saremo silenziosi e veloci, non si accorgeranno neanche di noi».
La porta cigola sui cardini e Phinner interrompe il loro discorrere.
Porta una giacca pesante, in contrasto con il suo solito stile ricercato. Gli occhiali sono
calcati sul naso e fermati dietro la nuca con un laccetto elastico, che spunta tra i capelli color
ferro. Si muove con gentilezza, come un vecchio gatto, rispettato dalle belve del Direttorio grazie
alla sua infinita docilità e ubbidienza.
«Comandante», borbotta il professore e accenna un piccolo sorriso ad Haria, a mo' di saluto.
«Vi siete già presentati, vedo», aggiunge. Si gira verso la cassettiera e prende a rovistare
negli schedari, ficcando di tanto in tanto nella borsa a tracolla un documento che ritiene di
interesse.
Haria vorrebbe precisare che no, affatto, il buzzurro non si è presentato, ma le parole le
muoiono in bocca. Preferisce non metterlo in difficoltà, povero professore. Non ha neanche
l'ardire di guardare quel tizio con la riprovazione che si meriterebbe.
Il comandante si spinge sui braccioli e si mette dritto. Fissa la nuca del professore con un
mezzo sorriso e scandisce «Quattro zero zero. Qui sotto, e puntuali. Volevo solo dirti che ho la
conferma dalla staffetta, è positivo. Però sono molto più vicini di quello che credevamo,
dovremo correre».
Phinner interrompe la sua ricerca, restando con le mani immerse dentro il cassetto. Increspa
la bocca in una smorfia.
«Partiamo subito», propone. «Non possiamo rischiare che uno di quei selvaggi
accidentalmente la rovini»
«Alle quattro in punto. Prima non si può. Arrivederci professore. Dottoressa». Il militare si
muove verso l'uscita con passo leggero, come se avesse le suole degli scarponi ricoperte di
bambagia.
Non appena l’altro è uscito, Phinner prende a scuotere la testa come il batacchio di una
campana.
«Non è possibile, non è possibile», mugugna e rimesta nel cassetto. Haria non lo riconosce, il
professore è sempre molto affabile.
«Cosa ti preoccupa?» chiede lei.
Phinner la fissa con le pupille dilatate, spalancando i suoi occhietti castani. «Haria, questa è
la nostra possibilità. Quella navicella conterrà delle istruzioni, delle comunicazioni, dei materiali
dalla Terra. Qualcosa che ci permetta di uscire da questo buco. Un reattore, forse!».
Pensare che un segno sia arrivato dalla lontana Terra, dopo secoli di silenzio, potrebbe
portare a cocenti delusioni, quindi Haria sceglie le parole. «Sarà solo un meteorite. Non ci
avrebbero mai mandato una sonda senza tentare una comunicazione».
Phinner stringe le labbra sottili, annuendo con il capo. «Il nostro ricevitore sta acceso due ore
la settimana, quando c'è abbastanza legna per la caldaia. Il comandante Gianhosi ha avuto la
conferma dal nostro agente. È un artefatto, non è un meteorite.».
Un nodo si stringe attorno allo stomaco di Haria. «Ma allora andiamo subito, cosa stiamo
aspettando?»
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«Hai sentito Gianhosi. Alle quattro. Mancano poche ore. Prendi tutto quello che riesci a
trovare sui protocolli di comunicazione e sui sistemi di alimentazione. Deve avere una
interfaccia simile a quelle che avevano dato ai novemila».
Un dubbio la coglie. «E se non venisse dalla Terra?»
Il professore si acciglia, corrugando le sopracciglia folte. «Haria, per favore siamo seri. Ti
sembra che il primo contatto extraterrestre avvenga su una luna del sistema di Tau Ceti, dove
l'uomo è presente da meno di duecento anni? Cerchiamo di rimanere lucidi».
«Certo, certo professore. Io avevo preparato l'attrezzatura per prendere campioni».
«Lascia stare, portiamo i documenti. Una volta che saremo lì, non avremo altra risorsa che
questa», si porta un dito alla tempia, «e le poche carte che riusciamo a portarci».
Haria s'inginocchia accanto allo schedario basso, alla ricerca delle preziose trascrizioni
antiche.
I preparativi trascorrono febbrili e dopo poche ore Haria cammina in compagnia del
professore e del comandante Gianhosi verso l'esterno della Città.
I muri scabri e grigi delle ultime case sfilano ai lati della strada. A perdita d'occhio si
estendono solo campi coltivati, attraversati da un sentiero bruno, coperto in parte dalla
vegetazione. All'orizzonte, perso nelle brume della mezz'alba, s'intravede il Muro.
Gianhosi ha permesso loro di portare un solo zaino e hanno dovuto mostrargli di essere in
grado di metterselo a spalle con la massima disinvoltura. Hanno caricato una valanga di
trascrizioni delle antiche conoscenze, gocce nel mare delle possibilità.
Il contenuto dello zaino del comandante non sembra di origine promisiana. Spunta un arnese
di metallo brunito, foderato di plastica consunta. Un oggetto della cara vecchia Terra, che ha
attraversato indenne la Rivolta, nascosto in qualche scantinato del palazzo del Direttorio.
L'oscurità è ancora fitta e il contorno delle loro ombre al suolo si distingue appena. Il
comandante porta una lanterna, fioca fioca, con lo stoppino tutto ritirato per non consumare l'olio
prezioso.
Di tanto in tanto incrociano i cittadini che si sono già recati ai campi a quell'ora, i vestiti che
portano, l'olio combustibile, le poche medicine disponibili e il cibo stesso dipendono da quelle
piantagioni.
Haria passa i pollici sotto gli spallacci dello zaino per accomodarsi il carico. Già si scorge il
Muro, che li ripara dall'esterno, dai selvaggi del popolo libero e da quel muto mondo alieno. I
giovani spesso tengono i loro festini appena fuori dal suo perimetro, per sentire l'ebbrezza della
libertà, rientrando poi al coprifuoco. Lei invece non vi ha mai partecipato. Indugiare nelle terre
selvagge è tempo perso quando c'è una biblioteca piena di antico sapere da consultare. E poi
stare lontana dalla Città, anche se per poche centinaia di metri, la stacca dal barlume di civiltà
che ancora vi alberga. Ma ora, per andare a raccogliere il seme della speranza, dovrà attraversare
la barbarie delle terre senza legge.
La struttura incombe, a venti metri di distanza, enorme e innaturale. Tutt'intorno solo il cielo
azzurro e le montagne all'orizzonte. Come tutte le costruzioni cittadine, è stato forgiato dai nano
microbi cementiferi, che plasmano il biocemento a partire dal suolo inerte, interpretando le onde
elettromagnetiche trasmesse da un computer. O almeno così si legge nelle trascrizioni storiche.
Ma adesso non ci sono più computer e i microbi, in assenza di direttive, si sono diretti nel
sottosuolo, dove prosperano invisibili.
Quattro figuri li attendono. Sono emersi dalla nebbia, ombre tra le ombre. Due di loro sono
accucciati a terra, parlottano tra loro.
«La pattuglia ai miei comandi per questa missione». Gianhosi li indica una a uno, con la
mano guantata di nero: «Soldato Gerreld, soldato Fineri, caporale Gallajio e tenente Raportal».
Gerreld è in piedi. Un uomo di mezz'età, nato di sicuro dopo la Rivolta. Troppo giovane per
essersi goduto i vecchi tempi e troppo vecchio per farsi piacere quelli nuovi. Ha i capelli rasati
come uno spazzolino, altrettanto ispidi. Ha labbra umide e carnose e due braccia che paiono due
magli da falegname. Al suo fianco pende un lungo coltello in un fodero nero.
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Fineri è l'altro in piedi e svetta sui suoi compari di quasi una spanna. Un ragazzo con qualche
anno in più di Haria, che deve sempre aver mangiato due razioni a tavola, a giudicare dai
muscoli che gli gonfiano la giacca. Ha un viso da impunito, circondato da una corona di ricci
scuri e con due grandi occhi grigi dalle ciglia lunghe e folte. Le sorride e si apre uno spiraglio di
vita. Forse qualcuno di decente c'è, in quella combriccola.
Gallajio è una giovane donna, dai lunghi capelli biondi. Se ne sta acquattata come una molla
e la squadra con una faccia a punta. Ad Haria ricorda la volpe della fiaba, quella disegnata sul
libro consunto che sua mamma leggeva la sera per ingannare la fame, quand'era bambina. Su
Promise le volpi hanno sempre e solo vissuto nei libri. Gallajio, ha lineamenti fini e due enormi
occhi azzurri, tuttavia una cicatrice viola le deturpa la guancia. È fresca, poiché i lembi non sono
ancora saldati. La pelle attorno al taglio è rosso porpora e un livido pieno di venuzze scure si
allunga sin sotto la mascella. Uno zaino, con la patta semiaperta, riposa ai suoi piedi. Al suo
interno si indovinano arnesi cupi e antichi, che hanno attraversato i secoli all'ombra di Tau Ceti,
ancora pronti a vomitare morte.
L'ultimo, Raportal, si è frattanto alzato, con un movimento veloce e fluido. È il più basso di
statura e anche il più anziano della compagnia. Ha il viso pieno di rughe, gli occhi annacquati e i
capelli bianco latte. Raportal deve aver subìto un trattamento di ringiovanimento, prima della
Rivolta. La madre di Haria è stata una delle ultime a essere trattate quando c'era ancora energia,
eppure negli ultimi quattro anni ha avuto un tracollo, sino a diventare una vecchia invalida,
incapace di camminare e di pulirsi dai propri escrementi. Chissà quanto manca a Raportal.
Intanto, un coltello corto e uno lungo gli penzolano dalla cinta e a tracolla porta uno scudo
rotondo, segnato sul bordo da profonde sbeccature che non sembrano frutto di allenamenti.
«Il professor Phinner e la dottoressa Haria», conclude Gianhosi.
Gli uomini annuiscono a guisa di saluto. Anche la bionda si decide ad alzarsi in piedi e si
sistema una ciocca dietro l'orecchio. «Siamo pronti, comandante. Oltre il Muro è pulito, a otto
minuti dalla ricognizione». Ha la voce roca, come di chi abbia strillato per ore, e non è neanche
l'alba.
«Bene, caporale», dice lui. «Possiamo partire, ricordatevi che ci sono due civili, ma
dobbiamo essere veloci».
Ad Haria i piedi già dolgono, e la giornata deve ancora cominciare. Ma non ha intenzione di
farsi vedere debole, quindi assume un'aria risoluta. Il soldato Fineri le sta ancora sorridendo a
mezza bocca. Va in scena un veloce duello di sguardi, poi Haria si ravvia un poco i capelli e
guarda altrove, con quanta più disinvoltura le riesce di usare. Comunque, l’ha notata, non ci sono
dubbi.
La mano scivola in tasca, per tastare la magica scatoletta scura. Il contatto del legno la
rassicura e le pare quasi di poter sgranare le psicocole che farciscono quel piccolo contenitore. È
da due giorni che non prende niente, un po' per i preparativi e un po' perché oggi vuole essere
splendida al mille per mille, ma è bastato lo sguardo di quel bel ragazzo per farle venire voglia di
masticarne una. Si maledice per aver capitolato alla sua debolezza, doveva ripulirsi prima di
partire e lasciarle a casa. Ma è una solfa che si ripete ormai da troppo per prendersi sul serio.
I soldati fanno scorrere i chiavistelli del portone e ne spalancano i battenti, in un concerto di
cigolii e sbuffi di polvere. L'esterno è lì, ad aspettarla.
Si osserva i piedi. La polvere che imbianca la tela dello scarponcino è parte di Promise. Ma
del Promise che lei conosce sin da bambina, adesso inizia il mondo alieno.
«Allora è proprio vero, non vai mai fuori», il comandante Gianhosi la sta squadrando, con le
braccia incrociate.
Haria non risponde, ma s'incammina dietro agli altri. Il Muro diviene sempre più imponente
sulla sua testa, sino a coprire del tutto il cielo. Dopo pochi passi riemerge, dall'altra parte.
Davanti a lei s'intravedono le alture pallide all'orizzonte, un mare di roccia e polvere farinosa.
Sono usciti da una apertura secondaria, quindi non vi sono commerci del popolo libero nei
pressi.
9
La Gallajio li attende con le mani sui fianchi e il naso all'insù. Ha due occhi così azzurri che
sembrano aver rubato tutti i colori del mondo in quella vastità assolata.
«Civili», li apostrofa, «adesso dobbiamo correre, io chiuderò la fila. Forza».
I soldati iniziano a marciare a passo veloce, lasciando un cinque metri di distanza tra l'uno e
l'altro. Il professore va per quarto. Haria dà ancora un'occhiata alla Gallajio che le fa segno con
la testa di partire.
La schiena di Phinner le sobbalza innanzi, mentre i suoi piedi alzano qualche sparuta
nuvoletta di polvere.
Si incamminano verso un montarozzo alla loro sinistra, dove spuntano radi cespi di sorgo. La
flora di Promise non è un granché varia, solo una decina di specie vegetali crescono allo stato
libero. La maggior parte della superficie del pianeta è senza vita, le piante non hanno ancora
colonizzato la fascia sud equatoriale. Almeno così dicono i libri, ma le uniche informazioni
fresche provengono dal popolo libero, oltre il Muro.
La salita le aggredisce i polpacci dopo pochi metri. I soldati non accennano a rallentare, anzi
corrono chini sulla cresta della collina.
«Forza», gracchia Gallajio, da dietro.
Haria spinge più forte con le gambe, per cercare di recuperare la distanza che si sta creando
con il professore. I suoi muscoli urlano, ma lei continua risoluta a macinare un passo dietro
l'altro.
La salita digrada, ha raggiunto la sommità. Davanti a lei il professore si affretta giù da una
riva, ormai a più di dieci metri di distanza. Haria alza lo sguardo, le colline si estendono sino
all'orizzonte, in un sali scendi infinito come le onde del mare.
Una zampa di Gallajio le cala sulla spalla, facendola sobbalzare. «Devi tenere il passo, civile.
Ne abbiamo parecchia di strada da fare, la prossima pausa è tra due ore. Vai».
Haria si tuffa giù dalla scarpata, cercando di recuperare terreno. I piedi le scivolano sulla
polvere fine e rischia un paio di volte di ruzzolare. La discesa però le viene meglio della salita,
forse grazie alla sua corporatura esile, e si sente piena di orgoglio per aver riacciuffato il grosso
del gruppo prima di riprendere a risalire.
Le colline passano, tenta di contarle, poi si stufa e si lascia trascinare dalla fatica. I piedi
prendono a pungerle con una certa insistenza e la schiena a lamentarsi per il carico. Si forza di
distrarsi pensando alla matematica, il suo amore grande, per non farsi travolgere dalla fatica.
Posto uno spazio di Eulero...
«Ahi!», una pietra aguzza le buca il calcagno. Il professore davanti a lei quasi s'inciampa, ma
riprende subito il passo.
Posto che la funzione lineare nello spazio sia valida per ogni zero non reale…
Si passa le mani sotto le bretelle. È come portare un maiale sulla schiena che si diverte a
saltare a ogni suo passo.
In questo momento sua madre starà lottando per trascinarsi dal letto alla sedia a rotelle.
Molte volte, tornando dall'Università, l'aveva trovata stesa in terra incapace di alzarsi dopo
essere caduta ore prima.
… occorre applicare una trasformazione di Lagrange…
Ogni singola cellula delle sue gambe ulula disperatamente.
…la trasformazione di Lagrange… di Lagr... Sarà passata un'ora, no?
Gira appena la testa per dare un'occhiata dietro. La Gallajio sobbalza alle sue spalle, con lo
sguardo dritto davanti a sé e la faccia indurita in una smorfia. Il sangue le trasuda dalla ferita
sulla guancia e le è colato lungo il collo, sino a macchiarle la maglietta.
Volge di nuovo la testa avanti e i contorni dell'universo ondeggiano, il buio avanza ai
margini del suo campo visivo. Il sudore le si ghiaccia sulla schiena, mentre le gambe sembrano
impastarsi nel calcestruzzo. Non trova più il suolo, stende le braccia davanti a sé, ma le sue mani
non riescono a fermare il muro di roccia e polvere. La sua faccia ci riesce, invece. La bocca le si
riempie di sangue e terra dal sapore ferrigno.
«Ferma!», Gallajio urla dietro di lei.
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Gli spallacci mordono questa volta le ascelle, mentre qualcuno usa il suo zaino per metterla a
sedere.
«Civile, mi senti?». Un ciuffo biondo e mezza faccia rigata da lacrime color ruggine le
ballano davanti agli occhi, un palmo ruvido le ticchetta la guancia.
Haria sbatte un po' di volte gli occhi. La polvere le punge le palpebre.
«Sì sì», balbetta.
«Dieci minuti di pausa», dal comandante, in lontananza.
Gallajio le sta accovacciata davanti e guarda l'orizzonte. «Sei magrolina, sarà durissima per
te. Forse è meglio se torni indietro»
«No, non voglio, ce la posso fare. Quanti giorni di marcia?»
«Quattro giorni. Undici ore di marcia al giorno. Pausa ogni due ore. Questa è la prima», si
alza in piedi e abbassa lo sguardo sino a incrociare i suoi occhi. «Goditela».
«Haria», Phinner si sta avvicinando, soffiando come se dovesse accendere della legna umida.
«Sto bene, professore».
«Hai battuto la faccia. Aspetta», prende dalla tasca un fazzoletto e con un lembo le scosta
con gentilezza un po' di polvere dal viso.
«Non so cosa mi sia successo, devo essere inciampata», si giustifica Haria. Cerca di mettersi
a sedere, non vuole farsi vedere così debole.
«Stiamo andando parecchio veloci. Però il sito è in una zona remota, cento ottanta chilometri
a Nord, e ogni giorno che passa c'è il rischio che qualcuno possa deteriorare l'artefatto o
rovinarlo».
«Professore ha ragione, stiamo perdendo tempo. Conterrà attrezzature delicate...», prova a
rialzarsi, ma lui le appoggia la mano sul braccio. Stringe un poco le dita, muovendole quindi in
una carezza rassicurante.
«Lo so, lo so. Maledizione...», il professore stringe la mascella. Sentirlo imprecare, anche se
nel suo modo soft, è una vera rarità.
«Partiamo tra cinque minuti», conclude Phinner. «Più presto di così non potevamo fare».
Haria si afferra le caviglie cercando di sciogliere i nodi che le stringono le ossa. La mezz'alba
sta per terminare, ormai Tau Ceti occhieggia attraverso le nubi del gigante Alcione e tra breve
sorgerà a riscaldare il breve giorno di Promise.
«In marcia bambini» bercia Gallajio, proprio mentre Haria sta dando il primo morso alla sua
tavoletta di frumento..
Le colline si alzano e si abbassano, e una coperta di cupo piombo cala sulle spalle di Haria,
più pesante a ogni cima. Le pare di passare una vita intera a mettere un piede davanti all'altro,
corre tesa ad acchiappare la schiena del professore, che continua a fuggire davanti a lei.
Un paio di volte striscia il ginocchio a terra, perché ha perso l'equilibrio su qualche pietra. In
entrambi i casi, la mano pesante di Gallajio la risospinge sulle gambe. Nessuno parla più, si cerca
di mantenere ogni alito di fiato per quella corsa pazzesca.
Lo zaino sulla schiena di Phinner le ondeggia davanti agli occhi e sembra avvicinarsi, ormai.
Anzi si avvicina, velocemente. Troppo velocemente. Haria si inginocchia nella polvere per non
finirgli addosso.
Phinner l'aiuta a liberarsi dello zaino e le stringe piano la spalla. «Il comandante ha dato l’alt,
non ha sentito? Riposati, sei stravolta».
Haria rimane lì, inebetita. Non ha la forza neanche di parlare, deve bere, ma l'acqua è una
risorsa scarsa e il comandante si è raccomandato di consumarne il meno possibile.
Uno dei soldati si stacca dal gruppo e ondeggia verso di lei.
«Come stai, dottoressa?» Fineri se ne sta lì, ritto tra lei e Tau Ceti, una statua di muscoli. La
maglia gli si è appiccicata addosso e il petto si muove in larghi respiri mentre riprende fiato. Si
intuisce però che quelle quattro ore convulse fanno parte del suo allenamento giornaliero, perché
non ha segni di fatica sul viso. Anzi le regala subito un bel sorriso, con denti in mostra e fossette
sulle guance.
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«Se potessi staccarmi le gambe e sotterrarle lontano, forse riuscirei ad addormentarmi
qualche minuto», risponde lei, guardandolo un attimo solo, con un occhio chiuso per difendersi
dai raggi di Tau Ceti, e poi tornando a fissare l'orizzonte.
«Non ti preoccupare, dottoressa. Adesso passeggiamo un po', per riposarci. Ti piace qui?»
Haria lo guarda ancora, alzando un sopracciglio. Non è il tipo di domanda che ti aspetti da un
teschio. Rivaluta il paesaggio, poi si decide. «Qualcosa. Mi piacciono le colline che abbiamo
attraversato, sembrano un mare di terra. E poi mi piace il silenzio e la quiete. Meno questo
isolamento, mi aspettavo di incontrare parecchia gente del popolo libero e invece non abbiamo
ancora visto nessuno».
«In realtà», Fineri si gratta la barba lunga qualche millimetro, «secondo Galla poco dopo la
prima sosta ce n'erano un paio che ci osservavano. Però poi sono spariti e, se lei non li ha più
visti, vuol dire che non ci hanno seguiti».
«Lavorate spesso insieme?»
Fineri sorride. Perché quando lo fa le viene quel pizzicore alla pancia?
«Sicuro. Pane e burro, io e il caporale. Poi, sai, non siamo in tanti in Città. Voi civili pensate
sempre che ci sia l'esercito di Promise a proteggervi dai pazzi del popolo. In realtà siamo quattro
gatti. Per fortuna non ci sono stati disordini importanti negli ultimi anni. Comunque, io e Galla
facciamo soprattutto intelligence. Ci spostiamo qui fuori per cercare di capire che aria tira».
«Quindi siete voi che avete sentito dell'artefatto?»
Fineri non risponde, e la fissa piegando la testa di lato. Alza il dito e muove la punta a destra
e sinistra. «No comment, mi spiace».
«Oh, ma insomma» si spazientisce Haria. «Siamo nella stessa squadra. Come posso lavorare
se non mi date gli elementi!».
Fa per alzarsi, ma il peso dello zaino la sbilancia e ricade a terra, sul sedere. Non una grande
enfasi per la sua sfuriata. Il soldato porge la mano e, non appena le loro dita si intrecciano, lui la
tira su con forza, sino a farla arrivare a un palmo dal suo viso.
«Sei simpatica, dottoressa», commenta, mentre le buca gli occhi da dieci centimetri di
distanza. Una misura adatta per il sesso, non per scambiarsi convenevoli.
«Uhu», trova lei nel suo dizionario di emergenza per le situazioni complicate. Però riesce
almeno a fargli un mezzo sorriso, prima di voltarsi verso la testa della carovana. Gli altri si
stanno rialzando e si rimettono in marcia tra qualche mugugno.
Questa volta però procedono camminando e Fineri le marcia al fianco. Haria si osserva le
punte dei piedi e si ficca la mano in tasca. Se prendesse una psicocola adesso, l'effetto durerebbe
almeno quattro ore, quindi si godrebbe tutta la passeggiata e ne avrebbe ancora.
Però, se si riprendesse a correre, sarebbe sotto in pieno. Non è sicura di farcela, potrebbe
venirle un collasso. Si rigira in mano la scatoletta, una sirena che non si stanca mai di cantare.
«Dimmi di te, dottoressa», dice lui, dopo qualche minuto.
«Cosa vuoi sapere?»
Fineri scoppia a ridere, il crepitio di un ciocco di legno in una sera gelida.
«Ragazza, rilassati. Allora voglio… voglio sapere un segreto inconfessabile, che non hai mai
raccontato a nessuno».
Un altro giro della scatoletta nel palmo della mano. Ha voglia di fondersi non di parlare.
Però, Fineri è proprio belloccio.
Haria sorride. «Beh, se non l'ho mai raccontato a nessuno perché dovrei venire a dirlo a te?»
Segreti inconfessati ne ha parecchi, modestamente. Ad esempio, non sono in molti a
conoscere ciò che combina con Khalio e con gli altri suoi amici, di cui ha difficoltà a ricordare le
facce, ma non i gemiti. Tasta ancora il piccolo contenitore di legno.
«Infatti scherzavo» dice Fineri. «Ce l'hai un'amica del cuore?»
«Sì», mente Haria.
«E allora raccontami un po' di lei. Come si chiama, cosa fa?»
«Non sono brava a raccontare», e soprattutto a inventare. L'unica persona con cui di recente
ha avuto un rapporto di pseudo-amicizia è Neiva, ma è sei mesi che non la sente più. Neiva ha
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tentato in ogni modo di farla uscire dal suo tunnel di studio e alterazione di coscienza, ma lei l'ha
spinta sempre più lontano. Fino a quando non è tornata più.
«Raccontami invece di te e del caporale Gallajio», svia Haria.
«Galla è forte. È entrata nell'esercito da bambina. I suoi erano morti entrambi, nel crollo delle
miniere Sassi, così ha deciso di arruolarsi. Quando si è presentata al comando ha dichiarato due
anni in più di quelli che aveva. Hai visto che palo che è, sarà poco più bassa di me. Ovviamente
la scoprirono subito, però lei si buttò per terra e li supplicò, non voleva tornare in affido. C'era
Gianhosi a quell'epoca, al reclutamento. E lui la prese. Per lei è come un padre. Quando sono
entrato, sette anni fa, lei era già caporale».
Haria vorrebbe dirgli che anche lei è cresciuta senza un padre. Però chissà perché, le sembra
stupido puntualizzarlo ora, mica è una gara a chi ha più sfortune. Anche perché su Promise è una
bella lotta. Trastullandosi con quei pensieri, inserisce il dito sotto il legaccino e, tic. Apre la
scatola.
Fineri continua, gesticolando. Quando parla si volta continuamente verso di lei e fa delle
piccole pause, come se si aspettasse una replica. «Abbiamo iniziato a lavorare subito insieme e
mi ha insegnato tutto, mi ha anche salvato il culo un sacco di volte, sai?»
«Sembra una ragazza molto dura», commenta Haria per riempire il silenzio. Perché non le
viene da dire qualcosa di più spiritoso? Chi se ne frega di Gallajio, vorrebbe sparargli una
domanda più personale. Spiritosa e personale. Ma le parole non vengono mai al momento giusto.
Non riesce più a trattenersi, prende in mano una psicocola, e, fingendo un colpo di tosse, se la
caccia in bocca.
«Oh sì, lo è. Però…» il soldato continua a raccontare, mentre Haria sente l'amaro della
pillolina che si scioglie sulla lingua. Passano gli anni, ma ancora quel gusto le fa tornare alla
mente il giorno d'estate in cui ha preso la prima dose di quel veleno perverso. Tau Ceti era alto
nel cielo e la mano di Khalio era calda e asciutta nella sua. Lui aveva il mento ancora senza
barba, quasi femmineo, erano poco più che bimbi. Ma lui era già bello da fare male.
«…poi siamo andati fuori, era la mia prima uscita dopo l'addestramento, e lei...» Fineri
continua a tritare parole che si sciolgono al calore di Tau Ceti, prima ancora di giungere alle
orecchie di Haria.
Sente il suolo carezzare la pianta dei suoi piedi e spingerla verso l'alto. La luce si acuisce a
ogni passo, mettendo in risalto le mille venature delle pietre che indugiano sul fianco di quella
collina. La brezza l'attraversa da parte a parte, come una radiazione di raggi gamma penetra in
una torta di zucchero. Il vento le carezza le ossa, rinfrescandogliele, e le alza lo zaino, dando un
po' di sollievo alla sua povera schiena.
«…mi ha preso per la cinta dei pantaloni, e mi ha tirato giù, proprio mentre quel lurido stava
scagliando una pietra. Se non mi avesse aiutato, adesso avrei un bel sasso al posto dell'occhio
destro».
«Da come ne parli», Haria si sorprende sentendo il suono della sua voce che ha deciso di
intervenire di sua spontanea volontà, «sembri quasi innamorato di lei».
È comico che lei abbia proferito quella frase. Un po' perché non ci ha pensato minimamente e
in fondo non ha neanche ascoltato tutte le stramaledette parole che quell'altro mitragliava. E un
po' perché lui è rimasto lì secco a guardarla stupito.
«Beh», lui prova a rispondere, «siamo camerati. Però lei è come una sorella per me».
Bugiardo. Per fortuna questa volte la sua voce decide di tacere. Poi, qualche attimo di
silenzioso imbarazzo, conferma di quanto vicina alla realtà sia andata la sua vocina.
Tau Ceti viaggia felice nel cielo e splende come se non dovesse tramontare mai. Il professor
Phinner sorride insieme al comandante Gianhosi qualche passo più avanti, magari è nato un
amore tra i due.
Phinner è gay, deve esserlo per forza, non l'ha mai neanche guardata. O forse è lei che
dovrebbe farsi vedere meno bambina, meno studentessa, per fargli nascere qualche prurito. Ma
perché, poi? Phinner è un simpatico vecchietto, non le piace fisicamente, è secco e rugoso, e non
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ha nessun motivo per voler fare del sesso con lui. Adesso però quel pensiero le si è inchiodato in
mezzo al cranio.
«E tu? Hai un ragazzo?», prova Fineri, meno spavaldo di prima.
Phinner alla copula viene immediatamente lavato via da quella nuova questione.
«Sì e no. Mi vedo con uno, ogni tanto. Ma ci frequentiamo molto poco».
E mai se non sono strafatti. Ma questo decide di tenerselo ancora un attimo per sè.
Khalio si rifiuta di toccarla se non hanno preso le psicocole. Lui esce sempre prima dal trip,
lasciandola sola, o quando va male, con qualche sconosciuto. Nella sua testa si materializzano le
immagini sfuocate del loro ultimo incontro. Istantanee dipinte su un vetro, con una vernice con
troppa acqua. Ci sono colori e odori, ma non molto altro. E come souvenir di quell'incontro, una
simpatica ulcera anale che le ha impedito di sedersi per una settimana.
«Eccoli», dice Fineri, virando su un tono piatto.
Sulla cresta dell'altura che si apprestano a scalare si distinguono due sagome. Due girasoli
dalla testa piccola e il gambo largo. O due piume giganti di uccelli mai nati su Promise. O…
Haria si impone di snebbiarsi un attimo, sono due uomini. Lei è in acque profonde, nel
nucleo dell'effetto della psicocola. Adesso deve solo respirare e comporre un’espressione
intelligente, se la sbrigheranno i soldati.
Quei due sono del popolo libero. Ogni tanto qualcuno di loro viene in Città, ma passa per le
strade sempre scortato dai soldati, lasciando in giro solo occhiate feroci e un lezzo di selvatico.
I colpevoli. I figli di Scion il ribelle, il vero motivo per cui adesso tutti i Promisiani devono
vivere come bestie medievali, succhiando le pietre. Haria li odia dai visceri, lei avrebbe potuto
essere una stella, e invece è costretta a strisciare in mezzo al fango dell'era pre-tecnologica in cui
sono precipitati dopo i moti della Rivolta.
Un uomo e una donna, con uno straccio attorno al viso, che lascia loro scoperti solo gli
occhi,li attendono. La donna ha un lungo bastone acuminato, una specie di lancia. L'uomo invece
appare disarmato, ma sotto quei cenci si cela di sicuro qualche lama.
«Sono i Nordarni», mormora Fineri. «Vedi quella manica azzurra che hanno? È il loro segno
distintivo. Sono parecchio fuori dal loro territorio».
«I Nordarni sono quelli più isolati di tutti, vero?», chiede Haria.
«Oh no. Ci sono anche quelli che hanno attraversato il mare. Però nessuno è mai tornato
indietro, non sappiamo neanche se sono riusciti a navigare in mezzo alle onde giganti. Sui
Nordarni qualcosa sappiamo. Si sono allontanati dalla zona cinquant'anni fa, si stima fossero tre
o quattrocento unità».
La formula della dinamica demografica si presenta all'attenzione di Haria, come se uno
gnomo residente nel suo cranio l'avesse spinta in primo piano.
«Da cinquecentodieci a ottocentottanta unità, a oggi», dichiara la sua anima matematica.
«Alla fine sono sempre più di quello che crediamo. Quelli del popolo libero ci danno
dentro», dice piano Fineri, con uno sguardo furbetto.
Phinner fa segno ad Haria di avvicinarsi, per andare a parlare con quei due.
Fineri e Gallajio si appostano lì, uno acquattato nella polvere e l'altra vigile, dritta come un
palo, a scrutare l'orizzonte alle loro spalle. Lei, Phinner e Gianhosi si avviano su per la china,
preceduti di qualche passo da Raportal. Il vecchio soldato ha indossato sul braccio destro lo
scudo sbeccato e lo tiene davanti a sé proteggendosi il torace e il collo. Il quarto di loro, Gerreld
è sparito dietro qualche cespuglio.
Si avvicinano circospetti, con l'orecchio teso a individuare un fischio di freccia.
I due selvaggi se ne stanno fermi, ma Haria nota il ticchettare delle dita della donna,
sull'impugnatura del suo trucido arnese. Le sembra di proiettarsi dentro quel dito che picchietta e
picchietta.
Basta. Deve cercare di essere lucida. Si maledice per aver preso la roba e si forza a ritirare la
sua coscienza indietro, lontano da quei particolari paranoici delle dita della guerriera.
Si arrestano a qualche passo dal duo.
L'uomo sbraita. «Perché siete qui?»
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Raportal replica asciutto, «Promise è un mondo libero. Andatevene per la vostra strada e noi
andremo per la nostra».
«Dovete tornare indietro» dice l'altra, da sotto il velo. «Non vi permetteremo di
raggiungerlo».
«Raggiungere cosa?» interloquisce Gianhosi, facendo un mezzo passo avanti.
«Ci credete stupidi? Avete fatto troppe domande per passare inosservati», replica l'uomo.
«Vogliamo solo andare a vedere cos'è. Promise è anche il nostro mondo».
«La Città è il vostro mondo. Rintanatevi dietro al Muro, a lucidare le vostre reliquie terrestri
e lasciateci in pace».
«A nome di chi parli?» dice Gianhosi. «Chi sei per imporci di andare o di restare? Togliti di
mezzo, abbiamo già perso troppo tempo».
Muove due dita e Gallajio e Fineri prendono a salire la china dietro di loro. Quando arrivano
alla loro altezza, li superano allargandosi di qualche metro. Fineri si porta le mani dietro le
scapole e sguaina le sue lame, con un suono lugubre e vibrante.
Gallajio invece slaccia uno spallaccio e agguanta qualcosa nello zaino, senza estrarlo. Si
muovono come se fossero di mercurio liquido, veloci e silenziosi.
Raportal porta la mano alla cintura e snuda un breve coltello brunito. L'adrenalina inizia a
pompare. Haria ha i battiti del cuore impazziti e la visione periferica tendente al nero fumo.
Vuole scappare, ma muoversi in quella situazione significa prendersi il primo colpo.
L'uomo fugge giù dalla collina, mentre la sua compagna impugna la corta lancia con
entrambe le mani e allarga per bene le gambe. Lancia un urlo selvaggio, brandendo la sua arma
più in alto.
Ad Haria gela il sangue e si piegano le ginocchia. Invece, i soldati di Gianhosi sono più
avvezzi a quelle manifestazioni e continuano ad avanzare, cercando di accerchiare la donna.
Lei afferra la lancia per il legaccio di cuoio che ne orna l'estremità inferiore, e la fa roteare
verso i tre assalitori. Sono ancora distanti per essere colpiti, ma ottiene l'effetto voluto, poiché i
soldati si arrestano, sulla difensiva. Con un movimento sinuoso, la donna recupera l'impugnatura
della lancia e si butta giù dalla china, fuggendo.
Gallajio guarda il suo tenente. «No», dice lui. E così nessuno si muove all'inseguimento.
«Formazione serrata», ribadisce Raportal, senza rinfoderare il coltello. «E teniamo gli occhi
aperti».
Haria si volta ancora verso la valle, verso la Città in lontananza. Il quarto soldato Gerreld sta
strisciando fuori dal fosso dove si è occultato, per ricongiungersi alla carovana.
Si rimettono in cammino a passo svelto, ma comunque più lento della folle corsa della
mattina. Stanno tutti vicini e nessuno fiata. Il tramonto sta per arrivare e con esso il buio
profondo della notte Promisiana.
I ricordi dell'incontro precedente prendono a sfumare e a confondersi nella nebbia spessa in
cui le galleggia il cervello. La fase di carica della psicocola è finita e adesso è in planata piena,
ciò non è male visto che l'appannamento non le fa sentire la fatica e scaccia la paura per i brutti
incontri.
E allora un piede davanti all'altro e la confortevole sensazione che qualcun altro stia usando
la testa al posto suo.
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L'agguato
«Civile? Dottoressa?».
Haria si sveglia di colpo. È all'aria aperta e il suolo sembra aver scavato nel suo osso sacro,
tanto le duole. Una faccia bionda la scruta.
La missione. I ricordi emergono strisciando dalle profondità della sua scatola cranica. Si
mette a sedere, mentre Gallajio le passa una tazza di the e due biscotti. «Mangia, sei solo ossa».
Haria osserva a lungo le gallette che si inzuppano completamente nella tazza, e quando la
afferra i palmi delle sue mani ringraziano per quel calore intenso. Si sente il cervello come uno
di quei biscotti, così rammollito che basterebbe un tocco per farlo spappolare. La mezz'alba sta
per iniziare e loro si devono rimettere in marcia. Grazie, psicocole. Ha dormito come una
bambina, senza preoccupazioni, mentre i soldati si alternavano alle guardie.
Le istantanee della sera sono frastagliate. Ricorda di aver camminato fino a piangere dalla
stanchezza. E poi di essersi lasciata cadere quando qualcuno ha dato l'alt. Non ha neanche
mangiato, ma per fortuna la sua droga ha badato a non darle appetito.
«Tra cinque minuti partiamo», Gallajio mastica una galletta, incurante delle briciole che le
cadono agli angoli della bocca.
«Credi che ci cercheranno?», chiede Haria. Rabbrividisce per il freddo accumulato nella
notte.
«Io non sono pagata per pensare», lo sguardo fisso all'orizzonte. «Se vengono devo essere
pronta, tutto qua».
«Ok, ma avrai un'opinione tua, no? Fineri mi ha detto che siete stati tanto fuori», prova a
stuzzicarla la ricercatrice.
Le pupille della Gallajio si abbassano per qualche secondo su di lei, due spicchi di cielo
limpido.
«Già», risponde infine, tra una ruminata e l'altra di quell'insipida crusca. «Un sacco di
tempo...».
«Ti sei trovata già in situazioni rischiose, così lontana dalla Città?»
«Qualche volta. In effetti oggi andremo proprio al largo. Però è anche vero che abbiamo tanta
di quella ferraglia terrestre che non basterebbe un esercito di quegli straccioni a fermarci», dà
due colpetti affettuosi al suo zaino. «Il Direttorio ci deve tenere parecchio alla vostra ricerca, ha
tirato fuori i pezzi migliori».
«Ma sono oggetti modificati o sono terrestri al cento per cento?», chiede curiosa Haria
«Dottoressa, non sono oggetti. Sono armi» scandisce compiaciuta. «Non avere paura a
chiamarli con il loro nome. E quello che mi hai chiesto è segreto, lo sai».
Haria stringe le labbra. Per loro tra un po' pure la formula dell'equazione cubica sarà topsecret, casomai qualcuno volesse calcolare le curve balistiche di un proiettile. Matematica del
1600 dopo Cristo, senza considerare i cinesi, che c’erano già arrivati da secoli.
Si rassetta la giacca e si stringe i lacci delle scarpe. Oggi niente psicocole, questa è una delle
poche certezze che ha stamattina.
Si rimettono in cammino che Tau Ceti deve ancora sorgere. Si trovano in una zona più
accidentata rispetto al fondovalle dove sorge la Città. Nei fianchi delle colline si aprono crepacci
profondi e le alture sono punteggiate da pietraie, che paiono molto insidiose. Sono saliti di
qualche centinaio di metri e l'aria le rinfresca le gote. In questa zona crescono solo fusti di
bambù e l'onnipresente gramigna infestante, il primo abitante di Promise. I novemila avevano
liberato grandi palloni aerostatici carichi di semi per diffondere la vegetazione, per cui le zone
dove tirava poco vento erano state toccate marginalmente dall'inseminazione.
Haria ha la schiena rigida, ma la loro andatura è un pelo più circospetta rispetto al giorno
precedente e quindi riesce a tenere il passo abbastanza bene. La formazione di marcia è la
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medesima, così come il territorio che si trovano ad attraversare. Dolci collinette piacevoli alla
vista, ma che segano in due le gambe. Giunta al fondo dell'ennesimo avvallamento, si appresta a
riprendere la camminata, quando ode uno schiocco secco, seguito da uno scalpiccio di sassi che
rotolano giù dalla collina.
«Giù», la Gallajio, dietro di lei.
Si acquatta istantaneamente. Davanti a lei vede gli altri quattro, distanziati di pochi metri,
anche loro inginocchiati.
«Cittadini!», squilla una voce dalla cima della collina. «Tornate indietro. Queste sono le
nostre terre. Non procedete oltre o saremo costretti a fermarvi».
Gianhosi alza due dita e fa segno di proseguire. «Promise non è vostro! Noi avanzeremo,
provate a fermarci!», urla deciso.
Gallajio le sfreccia accanto, piegata in due. Fineri si sta intanto muovendo di lato. Raportal
ha indossato il proprio scudo.
«Come volete!», tuona la voce. «Popolo! Libero!»
Uno strillo agghiacciate si leva tutt'intorno a loro, ad Haria sembra che abbiano aperto le
porte dell'inferno. Il fianco della collina si anima, e una mezza dozzina di individui si alza dalla
polvere dove è occultata. Gli uomini brandiscono corte lance di legno, ma anche asce e qualche
coltello. Gridano forte, facendo cozzare insieme le loro armi.
Raportal si gira verso di loro: «Frecce!»
Haria non sa bene che fare, cerca di ripararsi la testa sotto lo zaino. Tutta accucciata e
nascosta non capisce cosa stia succedendo. Prova a sbirciare, ma i loro assalitori sono ancora a
debita distanza. A qualche metro da lei, vede una freccia di legno scuro con un piumaggio bianco
e nero, ben piantata nel terreno. Era destinata a lei, un po' più di mira e addio mondo malvagio. Il
terrore le si aggrappa alle spalle, un brivido selvaggio le fa sbattere i denti tra loro.
«Fuoco!», qualcuno grida.
Blam! Come se avessero tolto il tappo a una bottiglia piena di tuoni. Non ha mai sentito un
suono simile in vita sua.
Blam! Blam! Si volta verso i selvaggi sulla collina: ne sono rimasti solo tre, che ora si
guardano l'uno con l'altro indecisi sul da farsi.
Blam! L'assalitore al centro sobbalza come se l'avessero colpito con un invisibile ariete in
mezzo al petto. Liquido rosso e altro materiale molliccio schizzano dal suo petto, compiendo un
elegante arco aereo. Poi, l'uomo cade a terra con le braccia e gli occhi aperti, e i suoi due
compari scappano in fretta, inciampando e sorreggendosi a vicenda.
Il caporale Gallajio ha lasciato cadere a terra lo zaino, e regge con entrambe le mani un
arnese brunito con un calcio di legno. Non vi sono musei di armi antiche su Promise, ma Haria
non ha difficoltà a riconoscere un fucile terrestre. Gli organizzatori della prima missione avevano
messo anche armi da fuoco nella dotazione dei novemila coloni. Davvero previdenti, soprattutto
dopo che i più comuni fucili laser hanno smesso di funzionare, quando si è fermato il reattore.
«Frecce!», sente ancora chiamare. Stavolta nessuna atterra nei suoi pressi, ma un rantolo più
su l'avvisa che qualcuno è stato colpito.
«Addosso!» Gianhosi urla, come si gli si stessero strappando le corde vocali.
Haria tira su la testa da dietro lo zaino. Phinner è a terra, se ne sta accasciato in una posa
innaturale chino su se stesso. E anche il soldato Gerreld non è scattato dietro i suoi camerati, una
freccia gli ha trapassato una coscia e una pozza di sangue già inzuppa il suolo.
Ba-blam! Sente ancora il canto delle armi da fuoco, ma stavolta sparano in due, anche
Gianhosi ha impugnato una rivoltella chimica. Il meglio di due mondi, la meccanica di
precisione dei terrestri e l'arte di arrangiarsi dei Promisiani, per ovviare alla carenza di polvere da
sparo locale.
Fineri è il primo a raggiungere la cima, con entrambi i coltelli sguainati. Mena il fendente e
un urlo straziante segue subito. Anche gli altri arrivano sul cocuzzolo e scompaiono
all'inseguimento dei nemici. Urla, spari. I rumori si allontanano man mano. Haria si libera dello
zaino, la sua unica protezione. Si guarda intorno, ma tutto tace.
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«Aiutami», Gerreld la chiama.
La paura le mozza i movimenti, come a una marionetta cui abbiano tagliato i fili. Sale i pochi
passi che la separano da Phinner. Una freccia gli è affondata nel collo. La giacca è lorda di
sangue e gli occhi fissano la cima della collina, come un ultimo rimprovero a chi l'ha assassinato.
Gli mette una mano sulla carotide, ma il battito è assente. La ritrae grondante.
Il professor Phinner, con il suo fardello di impareggiabili conoscenze, disperso come acqua
sulla sabbia. L'uomo che le aveva fatto da padre e che le aveva perdonato tutto, con gentilezza,
senza mai approfittarsi delle sue debolezze. Una freccia tirata a caso da quei maledetti pezzenti,
un insipido stecco di legno appuntito, è stata sufficiente a portarselo via per sempre.
Un ansimo più in su la convince a staccarsi e a risalire verso Gerreld. Il soldato è steso a terra
e la fissa implorante. Haria cerca di accelerare il passo, ma le gambe le rispondono male.
«Sto perdendo sangue», dice lui.
«Vedo», mormora. Non pensava che un singolo essere umano potesse contenerne tanto. Il
pantalone è inzuppato e cola copioso lungo la freccia, come se vi fosse una bottiglia appoggiata
sopra. Sul terreno ce n'è già un lago, nonostante la terra secca lo assorba in quantità.
«Devo farti un laccio emostatico». Haria si sfila la cintura dei pantaloni e cerca un oggetto
adatto all'operazione. «Mi serve questo», e indica il coltello che lui porta allo stivale. Gerreld
non risponde, ma crolla la testa all'indietro con un lungo sospiro.
Sarà un sì, pensa Haria. Slaccia il fodero del coltello dalla sua caviglia e prende l'arnese. Non
ha mai eseguito un'operazione del genere, ma quando è diventata docente all'Università ha
seguito un corso obbligatorio di primo soccorso. In un'aula polverosa e buia dove un militare,
che pareva uscito dalla naftalina per l'occasione, ha burocraticamente declamato la sua lezioncina
sulle manovre essenziali. E dove lei ha preso uno dei migliori viaggi da psicocola della sua vita.
Tanto quando mai servirà, aveva pensato. Maledizione a lei.
Avvolge la cintura attorno alla coscia del soldato, il più vicino possibile all'inguine. Inserisce
il coltello e prende a girarlo. Uno, due, tre giri, il laccio inizia a stringere. Gerreld si lascia
sfuggire un altro rantolo. Il liquido rosso continua a ruscellare lungo la freccia. Un altro giro,
ancora un altro. Gerreld alza il capo di scatto.
«Cerca di resistere» dice Haria. Il flusso sembra aver rallentato. Ultimo giro, questo gli farà
male.
Pianta bene le ginocchia a terra e ruota il coltello. Gerreld grida, ma il sangue smette di
scorrere.
Haria assicura la punta del fodero sotto la cinghia. Sembra stabile. E adesso? Gerreld ha
un'arteria recisa o ferita, e lei non ha idea di come aiutarlo. Non si ricorda più ogni quanto deve
mollare il laccio, ogni venti minuti forse? È tutto superfluo, bisogna suturare l'arteria, ma lì in
mezzo al nulla c'è solo l'opzione del fuoco.
«Gerreld», prova.
«Uuunh...».
«Ho fermato l'emorragia. Tra poco il comandante sarà qui, e lui ti potrà aiutare».
«Ho perso... uhnnn... un sacco di sangue...».
«Sì, un po...'».
«Come… come ti chiami?»
«Io? Haria».
«Haria, senti io… Non so come dirtelo, ma … se non ce la dovessi fare…»
«Hei, tranquillo», Haria gli prende la mano. È fredda come una pietra.
«Ascolta, ti prego», sussurra il ferito. «Devi andare... in Città e cercare una donna. Si
chiama... si chiama Giuditt... Giuditt la mora, cercala.... al mercato e…», tossisce forte, sino a
sputare un rivolo di saliva dalla bocca. «Devi dirle che… Oddio, ma perché doveva capitare a
me, questo?...»
«Gerreld, ce la farai», Haria gli passa una mano sulla fronte.
«Sì, solo per scaramanzia, ok?», un debole sorriso gli compare sulle labbra emaciate. «Devi
dirle che... sono stato uno stupido... E che lo so benissimo che… la piccola è... mia figlia...».
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«Va bene, ma glielo dirai tu stesso».
Gerreld tossisce ancora. Lascia cadere il capo sul terreno. Haria avverte una strana
sensazione, come se qualcuno la stesse osservando. Si gira di scatto.
Un tizio, a pochi passi. È alto e magro, con lunghi capelli bianchi, e la scruta con due occhi
scuri come pozzi. Porta una tunica al ginocchio, con una manica blu notte. Al suo fianco sbuca
silenziosa una giovane donna con due lunghi coltelli ricurvi, uno per mano. Indossa la consueta
manica blu e poco altro. I capelli le fluiscono sciolti sulle spalle. Si è disegnata segni blu sotto gli
occhi che colano ormai sulle guance sudate. Ha il viso scavato e gli occhi stretti tra le palpebre
socchiuse.
Quindi oggi è anche il suo giorno e non solo quello di Gerreld. Il cuore le balza nel petto e un
crampo le stringe i visceri. Valuta l'ipotesi di prendere una delle armi del soldato ai suoi piedi,
ma è paralizzata dal terrore. La donna muove due passi silenziosi verso di lei, trafiggendola con
lo sguardo. Haria articola una frase, per prendere tempo. «P… perché ci avete... at... taccati?»
La donna avanza di un altro passo e fa roteare il coltello. Una ruga le attraversa la fronte.
«Avete sparso voi sangue per primi».
«Io sono solo una... ricercatrice. Non ho fatto male a nessuno», piagnucola Haria.
«Dì la tua preghiera, cittadina», sibila la guerriera, avvicinandosi ancora.
«Ricercatrice?» ripete il vecchio, e muove appena le labbra, come se non volesse sprecare
fiato.
«Sì, solo una ricercatrice», ripete Haria, sperando che sia la formula magica per la salvezza.
«Sei venuta per l'oggetto caduto dal cielo?», s'informa l'uomo, muovendo la mano verso
l'orizzonte con un gesto compassato.
L'altra donna ormai le è addosso. Si tiene a un mezzo metro di distanza e prende a girarle
attorno.
«Sì... Vogliamo solo vederlo, potrebbero esserci delle informazioni importanti per... tutti noi,
no?»
«Se fossi venuta tu, da sola, a chiederci di vederlo, io non avrei avuto nessun problema». I
capelli del vecchio sembrano fluttuare al ritmo stanco della sua lunga cantilena. «Ma perché siete
venuti armati, a seminare morte?»
«Ma … ma… voi ci avete…» balbetta Haria.
«Avete sparso voi il sangue, cittadina», ruggisce la ragazza. Le fa balenare il coltello così
vicino all'orecchio che ne sente il sibilo nell'aria.
«Uno di quelli» la guerriera indica in su, con il mento, «era mio fratello, cittadina». Le sputa
addosso, su una gamba. Ha gli occhi dello stesso colore della lama, e digrigna i denti come se
volesse mangiarsela a morsi.
«Mi spiace». Haria non trova altre parole. Perché tutto è andato così male?
La ragazza del popolo libero le passa dietro la schiena e le bisbiglia dietro la testa «Adesso
muori».
Una fitta di dolore al ginocchio destro la fa accasciare a terra, carponi. La guerriera l'afferra
per i capelli, esponendole la gola, come se fosse un melone da affettare. Le punta un ginocchio in
mezzo alle scapole, allungandole il collo oltre la soglia del dolore. La ragazza selvaggia è su di
lei, ne percepisce l'ansimo nelle orecchie e l'odore di erbe e di sudore addosso.
Davanti a lei l'uomo anziano fissa la scena, senza battere un ciglio.
«No...», riesce a bisbigliare Haria.
Si trova il coltello davanti agli occhi.
«Guardalo bene, cittadina. Questo ragazzo sta per fotterti. Dentro la gola, però». Haria vede
il riflesso dei suoi occhi sulla lama, due lampi di terrore.
«Kyra», dice piano l'uomo. Il vento gli fa fluttuare i lunghi capelli candidi. «Io credo che
oggi siano già andate distrutte troppe risorse. Siamo ospiti indesiderati su Promise. Ogni vita che
lasciamo è un'occasione persa per continuare la nostra permanenza qui».
«Hanno sparso loro il sangue per primi!».
19
«Vero. Però ti prego, ritorna in te. E lasciala vivere, è solo una ragazza. Andiamo Kyra,
prima che tornino gli altri teschi».
La presa delle dita intorno ai capelli di Haria si stringe sino a schiacciarle le nocche nel
cranio.
«Aaargh!», urla la selvaggia, poi le lascia la testa di colpo e la centra con un calcio selvaggio
alle costole, sotto il seno sinistro.
La mazzata è così violenta e ben assestata che ad Haria si tronca il respiro. Cade su un
fianco, con la faccia dentro la polvere di quella collina maledetta. Cerca di stringersi le braccia
attorno al petto, di ripararsi la testa alla meglio, temendo una seconda randellata, ma null'altro
arriva. Gira lo sguardo intorno a sé con circospezione, ma la riva è tornata tranquilla e silenziosa.
Il fianco le pulsa come se le avessero impiantato sotto le costole l'ago di una pompa, che a
ogni battito del cuore spinge dentro uno sbuffo di dolore. Un'ondata di nausea la pervade, cerca
di tirarsi a sedere, ma la testa le gira come una trottola impazzita.
«Gerreld!» Un grido secco in lontananza, dalla cima della collina. «Phinner!»
Il dubbio che i soldati la abbandonino la assale. Nessuno l'ha chiamata. Alza un braccio
verso l'alto, per mostrare che è ancora viva. Tiene il braccio alzato per quello che le sembra un
mese, ma alla fine uno scalpiccio si approssima e qualcuno le afferra il polso.
«Ehi, doc», Gallajio si inginocchia vicina a lei tenendole la mano. Nell'altra regge il fucile
nero, dalla cui bocca esce un soddisfatto filo di fumo. La canna scotta a tal punto che il suo fiato
mortale le scalda il viso. L'odore della cordite le punge le narici.
«Sei ferita?», Gallajio ha la faccia piena di sangue, in parte colato dalla sua cicatrice aperta e
in parte proveniente da qualche sfortunato opponente.
«No, no. Forse ho una costola rotta. Gerreld perde molto sangue. E Phinner è…» il respiro le
si mozza in gola.
Ora che il suo mentore se n'è andato, chi crederà in lei? Phinner era uno scienziato brillante,
capace di individuare le sue insolite doti matematiche e di insegnarle tutto, lavorando
instancabilmente giorno e notte, fino a dove era riuscito. Poi, da quando lei aveva compiuto
diciassette anni, non aveva avuto più bisogno di un maestro, aveva proseguito da sola, basandosi
solo sulle trascrizioni antiche. Eppure lui l'aveva guidata, senza invidie, tra le insidie
dell'Accademia Promisiana dominata dalla politica. Fino a nominarla dottoressa, la più giovane
laureata della breve storia di Promise, e di accoglierla nel suo gruppo di lavoro come assistente.
Eppure Phinner era così perso nei suoi studi da non accorgersi dei suoi vizi. O forse così sicuro
della sua scelta da girarsi dall'altra parte e accettarla così com'era.
«Cerca di rimetterti in piedi e contati le ossa per vedere se le hai tutte». Gallajio le strizza
l'occhio. Le lascia la mano e si dedica a Gerreld.
«Dove sono gli altri?», chiede Haria.
«Stanno ripulendo la zona. Ce n'erano ovunque. Mmh... Gerry è messo male. Adesso è
svenuto ma il battito mi sembra molto, molto debole. Però deve valutarlo Raportal, è lui
l'ufficiale medico di questa spedizione. Hai fatto tu il laccio?», un sopracciglio biondo si increspa
nella sua direzione.
«Sì. Perdeva così tanto sangue e…», oddio, come si chiama la donna da cui deve andare in
Città?
«Sei stata brava. Phinner è andato, mi spiace».
«Ma Gerreld ha una donna?», la incalza Haria, le sembra che quella questione le tolga
l'ossigeno dai polmoni.
«Una… non so, sì forse, perché?»
«Perché devo dirle una cosa, ma non ricordo bene il nome», ma si può essere più idiota? Uno
si confida in punto di morte e lei non si ricorda l'unico dettaglio significativo.
«Uh, non so», Gallajio la guarda piegando la testa un po' di lato. «Poi ci penseremo, non è
ancora stecchito il vecchio Gerry, no? Guarda, stanno arrivando gli altri».
Rumori di passi, seguiti da richiami secchi e frasi smozzicate, in gergo militare.
«Rapporto», la voce ferma di Gianhosi.
20
Gallajio replica col suo timbro roco. «Un civile caduto, Phinner. Un soldato ferito, Gerreld. È
grave, non cammina. Quindici nemici totali, mia stima. Ne ho abbattuti tre».
«Quattro nemici abbattuti», aggiunge Raportal, rinfoderando il proprio coltello.
«Tre nemici abbattuti», aggiunge Fineri. «Confermo quindici nemici totali. Sono ferito. È
solo un graffio, comandante». Il coltello lungo cola, sembra che sia stato usato per tagliare un
milione di barbabietole rosse. Ma vi sono anche frammenti biancastri sulla lama, viscidi e lucidi.
Una striscia rossa corre lungo il suo braccio sinistro, dal gomito sino a sotto la manica della
camicia. Fineri è una statua eretta a glorificare la morte, una fontana alla distruzione, intriso di
sangue, proprio e altrui.
«Bene», dice Gianhosi. «Io ho abbattuto due nemici, quindi se mi fido dei vostri conti, ne
restano ancora due, di quei bastardi. E i loro feriti credo siano tutti sufficientemente gravi da non
crearci problemi. Tenente, valuta i feriti, Gerreld e anche Fineri».
«Ci hanno attaccato in forze», continua il comandante, «e spero di averli spazzati via.
Credevo che ci lasciassero arrivare sull'obiettivo, ma evidentemente avevano programmi
diversi».
«Comandante», dice Gallajio, appoggiandosi il fucile sulla spalla. «Questa volta siamo stati
gentili. Al prossimo incontro prima spariamo e poi parliamo».
«Cambiamo strategia di marcia», replica Gianhosi. «Di giorno viaggeremo al minimo, con
circospezione. Ci muoveremo in un gruppo di quattro, con uno scout avanzato. Temo le loro
frecce. In un assalto all'arma bianca, possiamo anche respingerne cento, ma bastano poche frecce
di sorpresa per azzerarci. Di notte invece, grazie alla scarsa visibilità, potremo muoverci più
veloci».
«Comandante», interviene Fineri, «gruppo di quattro e scout. E Gerreld?»
Gianhosi guarda solo Raportal, che è chino sul soldato ferito. Il vecchio tenente scuote la
testa, piegando la bocca in una smorfia.
«Non possiamo lasciarlo indietro», dice Fineri.
«Maledizione! Lo so, lo so» ribatte Gianhosi. «L'unico scopo di questa spedizione è la
velocità. In questo momento un battaglione sta muovendo dalla Città. Però sono lenti e
arriveranno qui tra due giorni. Non possiamo stare qui con Gerreld due giorni, sono cruciali per
strappare l'oggetto dalle mani di quei maledetti selvaggi».
«Uno di noi deve restare indietro», una ruga solca verticalmente la fronte di Gallajio.
«Resterà la dottoressa», ordina Gianhosi. «E si riunirà al grosso della spedizione. Noi ci
terremo lontani da quell'affare sino a quando non ci raggiungerà qualche testa d'uovo mandata
dal Direttorio. E provvederemo anche che nessun altro lo tocchi».
«Sta bene», dice Fineri.
Un brivido scuote la spina dorsale di Haria. Avrebbe dovuto aspettare un paio di giorni
l'arrivo di una fantomatica spedizione, in mezzo a quel deserto, insieme a un morto e a un
morente? E se la spedizione fosse passata a qualche chilometro di distanza? Nessuno si sarebbe
accorto di lei e non sarebbe mai riuscita a ritrovare la strada per la Città, da sola. Gianhosi sa che
l'orizzonte visibile in piano su Promise è di soli tre chilometri? Basta conoscere il teorema di
Pitagora, per arrivarci.
«Ho una proposta alternativa». Raportal si alza in piedi per andare a medicare il braccio di
Fineri. «Starò io con Gerry. Secondo me non ha due giorni, ma poche ore. Chissà. Poi,
recupererò su di voi».
Gianhosi e Raportal si scambiano un lungo sguardo. Poi il tenente riprende la sua opera di
pulizia sul braccio del soldato Fineri, che mugola tra i denti per il dolore.
«Bene», dice Gianhosi. Si avvicina a Gerreld e gli si inginocchia al fianco. Dice qualche
parola tra i denti, forse un incoraggiamento al ferito o forse una preghiera. Si toglie con studiata
lentezza un guanto, tirando un sospiro per ogni dito che sfila.
Carezza il viso del ferito, quindi si alza e dice: «In marcia tra un minuto».
Io sto bene grazie stronzo, vorrebbe dire Haria. Invece si rizza sulle gambe e zampetta fino
da Raportal, che intanto ha terminato le sue cure.
21
«Grazie tenente di esserti offerto al mio posto».
«Non sono sicuro di averti fatto un favore», risponde l'altro. Però le fa anche un mezzo
sorriso e le dà una pacca sulla spalla.
«Ho visto che eri a terra, ti hanno colpita?»
«Qui sulla costola», indica Haria. «Ma riesco a camminare».
«Apriti la giacca», dice l'anziano tenente.
Lei esita un attimo. Insomma, che idiozia. Ha detto che è un ufficiale medico, Phinner è
morto, l'altro è morente, hanno sgozzato più persone qui che polli al macello il giorno di Natale,
e lei si preoccupa di fargli vedere le tette. Perché invece una briciola di quel pudore non si
manifestava mai quando prendeva la psicocola con Khalio, frenandole almeno gli istinti
peggiori?
Haria si slaccia giacca e camicia, fino a mettere a nudo la sua pelle chiara e il reggiseno
azzurro. Dove la ragazza-guerriera le ha dato l'addio, è fiorito un livido viola, con eleganti
striature rosse.
Raportal tira fuori un piccolo cornetto acustico e l'appoggia nella zona dolente. Ascolta un
po', poi sentenzia. «Il polmone per me è ok. Quindi puoi andare come una scheggia, non ti
preoccupare. Probabilmente la costola è criccata o rotta, e ti farà parecchio male. Ma, a parte
questo, non dovresti avere grandi problemi, almeno per i prossimi due giorni. Ti do un
anestetico».
Grazie ma ho il mio, pensa Haria, ma non dice nulla e accetta le pilloline azzurre di Raportal.
Altre munizioni, e gratis pure. Queste le deve provare subito. Se ne caccia due in bocca.
«Vacci piano» dice Raportal, con una smorfia tirata.
Haria sorride, senza dire niente.
Frattanto Fineri e Gallajio si stanno congedando alla loro maniera da Gerreld. Stanno lì,
tenendosi per mano, ritti e silenziosi, come l'atmosfera di morte che si respira.
E Phinner? Pensa Haria. Se ne sta ancora là, accasciato e solo.
«Dobbiamo seppellire il professore», biascica Haria, rivolgendosi a Gianhosi.
Il comandante sta scrutando l'orizzonte e forse non la sente.
«Non ti preoccupare», la rassicura Raportal, appoggiandole una mano sulla spalla, «ci
penserò io. Avrò del tempo qui».
«Allora soldatini alla maionese», sbotta Gianhosi. «Possiamo metterci in marcia adesso,
avete finito le vostre smancerie? Gerry se la caverà, andiamo».
«Prendo il mio zaino», Haria indica più in basso dove lo aveva abbandonato.
«Dottoressa», Gianhosi fa quattro passi e le si pianta davanti, inchiodandole le pupille
addosso. «Qui non si scherza più. Dobbiamo correre e sul serio. Lo zaino ti consiglio di lasciarlo
qui, perché sarà molto faticoso. I libri che ti sei portata, e che portava anche Phinner, mi auguro
che tu li conosca a memoria, altrimenti sei inutile. Se rimani indietro, ti mollo. Se cadi, ti mollo.
Se ti lamenti, ti mollo. Chiaro?»
Haria riesce appena a muovere su e giù il mento.
«Sono duro con te, ma da questa missione può dipendere il futuro di tutti noi, e forse anche
della Terra. Io mi immagino che i Terrestri pensino che qui su Promise abbiamo mantenuto un
qualche grado di civiltà e che andiamo d'amore e d'accordo. E non che ci siamo massacrati in una
guerra fratricida, che ha avuto come unico risultato tangibile lo spegnimento del reattore e il
ritorno al medioevo, no? Quindi non avranno mandato una sonda armata, penseranno che qui ci
sia qualcuno d'intelligente ad accoglierla e non quei selvaggi che non vedono l'ora di spaccarla
con le loro clave».
Gianhosi riprende fiato, come per aggiungere qualcosa, ma poi si volta e biascica un
«Andiamo».
E così un passo dietro l'altro si rimettono in marcia. Fineri presto sparisce più avanti mentre
lei, Gianhosi e Gallajio se ne stanno raggruppati. Ora sia la pistola chimica del comandante che il
nero cannone della Galla se ne stanno belli all'aria e non più nascosti in fondo alle loro oscure
fondine. Hanno guadagnato un posto al sole a suon di anime mandate alla redenzione.
22
La giornata trascorre cupa e una leggera pioggerella rende la marcia ancora più difficoltosa.
La sera, proprio mentre Haria sta pulendo, a occhi chiusi per la stanchezza, il fondo zuppa di
cipolle, un breve fischio annuncia l’arrivo di Raportal,
Giunto al loro piccolo accampamento, si inginocchia ansimando, alza un poco il capo per
guardarli in faccia e lo scuote come se pesasse una tonnellata.
Nessuno fiata, Fineri si alza in piedi e muove quattro passi verso l'esterno, guardando nel
nulla con un'espressione piena di disprezzo. Il comandante non contrae un muscolo e rivolge la
propria attenzione verso l'orizzonte.
Gallajio fa un sordo sospiro. Poi però sbotta «Potevi aspettare tenente. Che fretta c'era, che
cazzo di fretta c'era?»
Raportal si alza in piedi, come se gli avessero acceso un cerino sotto il sedere, e muove
quattro rigidi passi verso Gallajio.
«Ehi caporale, chiudi il becco. Se n'è andato, ok? C'ero io là e non tu».
«Mi credi scema?» Gallajio si tira in piedi, con le mani aperte lungo il corpo e le ginocchia
un po' piegate.
«Caporale!», abbaia Gianhosi.
«Comandante. Gerreld era forte. Non può essersene andato via così in fretta».
«Lo so», la interrompe Gianhosi. «Adesso stai zitta, siediti e dormi. Fino al tuo turno di
guardia. È un ordine».
«Raportal», sibila la donna, «prega di non essere ferito in battaglia. Sennò giuro che mi offro
volontaria io per tenerti la mano, mentre arrivano i soccorsi. Per tenerti la mano e tagliarti la…»
«Basta». Gianhosi si alza in piedi. Un coltello è balenato in mano a Raportal, da una delle
varie fondine che gli pendono dalla cintura.
«Gallajio, ricognizione a spirale, raggio dieci metri. Voglio dodici giri, vai. Adesso. Raportal,
siediti e dormi. Fineri, siediti e dormi, perdio. Questi sono ordini soldati, muovetevi».
Gallajio si mette in cammino, sfiorando Raportal, dalla parte del coltello. Lui sta immobile, a
fissare il vuoto davanti a sé, sino a quando lei non è passata ben oltre. Poi rinfodera il coltello e
prende il suo telo militare, dalla tasca posteriore del giubbino.
Fineri frattanto si avvicina al comandante e dice con un sussurro «Comandante, dodici giri di
ricognizione sono parecchi, Gallajio ci serve sveglia domani».
Il comandante lo fissa a braccia incrociate, senza dire nulla, sino a quando anch'egli desiste
dalle sue rimostranze e si cerca un posto dove sdraiarsi.
In piena notte Haria schiude gli occhi, con la sensazione di non aver riposato per nulla.
Qualcuno le sta scuotendo una spalla.
«Piano», farfuglia, le costole le dolgono parecchio.
Raportal le ficca in mano due gallette di frumento e una tazza fumante.
«In marcia tra cinque minuti», la informa.
Ha la nausea, e anche male all'ovaio destro. Ci manca pure quella, inghiotte altre due
pastiglie di antidolorifico. Desidererebbe prendere una bella psicocola, al posto di quelle insulse
pilloline, che la stordiscono solo un po', ma che non le fanno passare nessun dolore. Rimanda la
decisione a più tardi, nel pomeriggio.
Essere sotto la psicocola, mentre camminano, è positivo, non si sente la fatica e persino quel
triste paesaggio diventa piacevole. Ha però il terrore che un attacco li sorprenda mentre lei è in
pieno trip.
O forse pensandoci bene non è un'idea così malvagia, visto che almeno morirebbe con il
sorriso sulle labbra. Accarezza la scatolina, ma ormai ha preso l'anestetico, quindi decide di
rinviare la decisione.
Dopo molte ore Tau Ceti sorge, nascosto da Alcione. Si manifesta tra le nubi del gigante
gassoso, percorre la sua breve cavalcata, libero nel cielo, e quindi si rituffa nelle nubi di iodio e
metano del grande pianeta che occupa i due terzi del cielo. Si avvicina il tramonto del loro terzo
giorno quando il tenente Raportal leva il pugno, per comandare la sosta.
23
Haria si lascia cadere in ginocchio sul terreno. I piedi non li sente neanche più, come se le
avessero inchiodato due pezzi di legno all'altezza delle caviglie. In compenso il petto le duole
con costanza e, nonostante gli antidolorifici, a ogni sospiro, un martello le percuote le costole.
Si avvede però che gli altri non si sono seduti, anzi se ne stanno acquattati, con le armi in
pugno. Un altro attacco?
Raportal, che è in testa, avanza circospetto, a testa bassa. Fineri è in avanscoperta, invisibile
nelle brume del tramonto.
Il comandante se ne sta basso basso, con la grossa pistola chimica in mano, puntata verso il
terreno.
Haria si volge verso Gallajio. Lei la guarda e si porta l'indice sulle labbra carnose. Quindi c'è
pericolo.
Stanno così, inginocchiati e in silenzio per diversi minuti, che le paiono ore. Raportal si è
dileguato nel buio, restano lì solo loro tre. Sono a distanza uno dall'altro e con le tenebre ormai si
possono solo distinguere le sagome dei suoi compagni di quella sventurata spedizione.
Il comandante Gianhosi fa cenno con la mano e si alza per avanzare. Procede curvo, così
anche Haria si tiene bassa. Al suo fianco cammina Gallajio. La interroga con lo sguardo e lei
dice, piano «Ci siamo».
Sono arrivati sul luogo dell'impatto. Il cuore le batte così forte nel petto che teme le salti
fuori dalla cassa toracica, magari dal buco nella costola che le ha procurato quella maledetta
selvaggia.
Lei è tra i primi esseri umani a entrare in contatto con quello che i loro fratelli terrestri hanno
inviato.
Se hanno mandato questa sonda significa che credono ancora in loro. Avranno capito che
sono senza energia, avranno mandato una fonte. Magari hanno sintetizzato nuove reazioni
nucleari, ci sarà un reattore grande come una mela.
E se avessero mandato delle persone? Perché no? Dopotutto se anni fa hanno spedito i
novemila, perché adesso non mandare qualche decina di scienziati a farli uscire da questa
barbarie?
Superano l'ultimo dosso e dinanzi a loro, nel mezzo di una vasta spianata, riluce un oggetto
metallico. È piuttosto buio, ma i riflessi non lasciano spazio a dubbi. Si tratta di una navetta
spaziale.
Haria si lascia sfuggire un gridolino di gioia.
E così è vero. Gli scienziati terrestri hanno concesso loro un'altra possibilità. Hanno costruito
un oggetto, lo hanno riempito di tecnologia e lo hanno di nuovo affidato alla notte interstellare,
per fare giungere ai rozzi abitanti di Promise un nuovo messaggio di speranza.
Cent'anni fa quest'oggetto lasciava i cieli del pianeta di origine, la madre Terra, per giungere
sino a loro, con una precisione sbalorditiva. E pensare che quel viaggio era stato concepito da
uomini, proprio come lei e questi soldati, e non da Dei.
Corrono giù dall'avvallamento. Haria è esausta eppure le sembra di volare. Mentre si
avvicina intravede ai lati della sonda Fineri e Raportal, che stanno lì, rivolti verso l'esterno, con
le armi spianate, due angeli custodi del prezioso artefatto.
La sonda è grande pressappoco quanto un piccolo capanno. Dai lati spuntano quattro zampe
metalliche guarnite da poderosi ammortizzatori idraulici. Il corpo della sonda è liscio e nero,
tutto ricoperto da mattonelle lucide. Materiale refrattario, pensa Haria.
Gianhosi rotea un braccio, mimando un cerchio nell'aria. «Disponetevi a cinquanta metri,
occultati. Voglio un perimetro sicuro».
I tre si muovono all'unisono, anime nere nella notte. Dopo qualche minuto, appena hanno
preso posizione, Gianhosi estrae una piccola lanterna cieca. La accende e apre un poco il
coprifiamma. Un lama di luce illumina il fianco della nave.
La familiare bandiera nazionale sfavilla alla luce, come se l'avessero appena dipinta.
Gli occhi di Haria si riempiono di lacrime. Sono venuti a salvarli. Chissà perché hanno
aggiunto una grande "S" viola nel campo bianco della bandiera.
24
Compie un giro attorno alla nave, seguita da Gianhosi che porta la loro scarsa fonte di luce.
Le zampe metalliche sono affondate parecchio nella sabbia, creando tre avvallamenti.
In cima alla navetta si intuisce un bordo frastagliato. Ha lasciato il motore interstellare in
orbita, come d'altronde aveva fatto la grande arca spaziale che aveva portato lì i loro padri.
Le mattonelle sono così pulite e perfettamente incastrate l'una nell'altra, che sembrano
costruite su un mondo di ceramica. I tubi di metallo sono sottili, ma sostengono quel peso senza
alcuna fatica. Su Promise non sono stati in grado neanche di mettere in opera un altoforno degno
di quel nome e il poco acciaio che riescono a produrre è destinato alle spade e ai coltelli
dell'esercito.
La forma dell'astronave è elegante e slanciata, pare disegnata dalla matita di una fata. Vicino
allo sportello di apertura, dove la gamba metallica di sostegno penetra nei visceri della nave,
penzola un robusto nastro di plastica rossa.
Haria si avvicina circospetta. Alzandosi sulle punte dei piedi può afferrarlo. Lo sfiora con le
dita, ma si ritrae, incerta.
«Dottoressa», dice Gianhosi. «Che fai?»
«Beh, siamo venuti sin qui, forse possiamo provare a scoprire qualcos'altro».
«Aspettiamo il grosso della spedizione. Saranno qui in un paio di giorni». Gianhosi parla con
un tono di voce più basso del solito, intimorito da quella enorme presenza estranea, di metallo e
scienza.
«Tanto l'oggetto è troppo grande per essere trasportato subito in Città». Haria prova a
portarlo a ragionare. «Dovranno costruire un carro e intanto passerà il tempo. Mica vogliamo
aspettare dei mesi per aprirlo?»
«Mesi no, però magari possiamo aspettare che arrivi qualche esperto dalla Città».
Haria si mette una mano sul fianco «Phinner era l'esperto. Io ero la sua assistente e ho
studiato insieme a lui. Nell'Università ci sono altri due professori di scienze applicate. E nessuno
di loro può insegnarmi qualcosa sui sistemi complessi».
«Ma tu non hai l'autorità per compiere questo gesto. È un oggetto che viene dalla Terra,
capisci? Il Direttorio…»
«Phinner aveva l'autorità, no? Il Direttorio l'aveva mandato apposta, si fidavano di lui». Tutti
si fidavano di Phinner, perché lui si fidava di tutti. Povero professore, rimugina Haria, mentre la
mascella le si stringe involontariamente.
«Sì, l'aveva», ammette il comandante, con aria pensosa.
«Phinner è morto. Io sono l'articolo più simile a Phinner che esiste su tutta Promise». Haria
apre entrambe le mani e indica il proprio petto. «Fidati comandante. Posticipare l'apertura
potrebbe avere effetti deleteri. L'astronomia è una scienza esatta. Per quanto sia passato un
secolo da quando questa sonda è stata lanciata, gli scienziati terrestri sapevano che la settimana
scorsa sarebbe atterrata su Promise. E se magari fosse importante aprirla rapidamente, perché
dobbiamo rispettare qualche allineamento planetario o qualche evento cosmologico?»
«Non prendermi per il culo», Gianhosi stringe entrambi i pugni e arriccia il labbro superiore.
«Io non sono un professore, ma l'unica cosa che possono averci mandato, che abbia un minimo
senso, è un reattore. Per poter attivare l'Antenna e comunicare con loro. E un paio di settimane
non penso facciano differenza. Punto».
«Comandante», ad Haria viene da piangere. Perché tutti sono così ottusi? «Ascoltami. Al
Direttorio hanno l'ansia dell'Antenna. In effetti siamo stati mandati su Promise per quello, quindi
mi sembra logico che aver fallito in questo semplice compito non sia un fatto positivo. Però
ragiona, anche se attiviamo l'Antenna, che razza di comunicazione sarebbe, un dialogo con pause
di vent'anni tra una battuta e l'altra? È troppo tardi ormai, la Terra sarà sull'orlo del collasso
climatico. L'unico motivo per cui possono aver mandato la sonda, è per aver conferma che
questo mondo sia abitabile. Che noi siamo sopravvissuti».
«A che pro?»
«Per dirigere qui le loro navi, con tutte le persone che riescono a caricare. È ovvio. Io credo
che negli ultimi secoli loro abbiano preparato l'esodo. Però se fossi io al comando, prima di
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dirigermi su in nuovo mondo, vorrei essere sicuro di garantire la sopravvivenza della specie,
andando in un sistema dove possa fiorire la vita».
«Questa penso fosse l'idea di fondo, dottoressa, a patto di essere riusciti a costruire arche con
milioni di persone a bordo, problema che quando sono partiti i novemila era insoluto. Comunque
sarebbero già dovuti partire. Al posto di questa piccola sonda dovrebbero esserci già le navi. La
Terra non aveva tutto questo tempo. A meno che…» si copre la bocca con una mano. «Che le
navi siano già per strada. Magari stanno per arrivare tutti».
«Esatto». Forse è riuscita a far entrare un filo di luce in quella scatola cranica in divisa
militare. «Pensa se la flotta fosse già in viaggio e dovesse riaccendere i motori per iniziare la
decelerazione. Io non credo che abbiano possibilità di decelerare e poi riaccelerare, soprattutto se
le navi sono grandi. Probabilmente hanno mandato un avamposto per avere una conferma. E se
la conferma non arriva, non rallenteranno e passeranno oltre. Avranno un'alternativa a Tau Ceti,
no?»
«Ma … un'alternativa a Tau Ceti…», l'uomo spalanca gli occhi, come se gli avessero detto
che da domani si sarebbe camminato sui gomiti.
«Comandante, che ne sappiamo di cosa sia successo sulla Terra, sono passati tre secoli da
quando è partita la spedizione dei novemila. Magari vent'anni dopo esser partiti hanno mandato
un'altra spedizione, hanno scoperto un mondo abitabile, che so, su Beta Cigni. E hanno mandato
altre novemila persone là. Che magari sono riuscite a far funzionare la loro benedetta antenna.
Possono aver deciso di mandare parte della popolazione lì e parte qui. Ma faranno decelerare le
navi solo se sono sicuri che qui ci sia ancora qualcosa. Che la vita sia possibile. Sennò li faranno
andare avanti, verso un'altra destinazione».
«Il sonno freddo non può durare così a lungo, già si dice che fossimo al limite qui »,
Gianhosi si gratta una tempia ingrigita.
«La scienza fa continui progressi, quello che è il limite quando sono partiti i nostri nonni,
adesso sarà una battito di ciglia. Comandante, entriamo nella capsula», Haria cerca di usare il
tono più professionale e accademico che le riesce di sfoderare. Ma la voce le trema e suona
ingenua alle sue stesse orecchie.
«Non sono sicuro che sia la scelta giusta».
«Nessuno è più qualificato di noi. Questa signora», Haria batte la mano sul metallo, «ha
viaggiato per oltre cent'anni e più di tre parsec. Non facciamola aspettare oltre. L'hanno lanciata
per noi, comandante. Per noi».
Gianhosi si passa la mano sui capelli rasi e la fissa per qualche lungo secondo. I suoi occhi
sono due puntini che scintillano nelle tenebre. Chiude il pugno un paio di volte, poi dice: «Va
bene. Ma stiamo attenti».
Ce l'ha fatta. Ma adesso inizia la parte difficile. Non si potrebbe perdonare in quel frangente
un qualsiasi errore che possa recidere il filo esile che ora li collega alla loro civiltà di origine.
Haria si alza in punta di piedi e afferra la striscia di plastica rossa. La tira con tutta la
dolcezza di cui è capace. Con un movimento fluido, senza alcuno sforzo apparente, una scaletta
di plastica scende dalla zampa metallica. Un piccolo pannello si sblocca silenzioso, in cima alla
scala stessa. Haria afferra l'estremità inferiore. È il primo essere umano a metterci mano da
quando è stata lanciata negli spazi interstellari. Sale gli scalini con deferenza sino ad affacciarsi
al portello.
Nella nicchia vi è una maniglia rotonda, rossa anch'essa, con su disegnata un eloquente
freccia, in senso antiorario. Sotto la maniglia, incisa sul metallo lucido, vi è anche una rozza
scritta, incisa con un punteruolo.
Purtroppo si è sbagliata, non è la prima a salire quella scaletta. Il popolo libero l'ha preceduta.
«Sono già stati qui», comunica a Gianhosi.
«Ne sei sicura?»
«Qui c'è scritto "Scion vive"».
«Maledetti», mormora lui. «Forse non sono entrati», aggiunge.
26
«Forse», sussurra Haria. Ma chiunque fosse giunto sin lì non avrebbe avuto molti dubbi sul
da farsi, non occorre essere professori universitari per capire che bisogna girare la maniglia.
Pone la mano sul metallo e ruota. Sembra oliata di fresco tanto scorre liscia. Lo sportello si
schiude, senza nessuno sbuffo d'aria. L'hanno aperta.
Haria sospira e si spinge attraverso la stretta apertura. Dentro vi è una soffusa luce azzurra.
Come se avessero rubato l'anima di mille lanterne e l'avessero nascosta in fondo al mare. Haria
non ha mai visto una luce come quella, dolce, salda, perfetta, creata su un mondo perfetto.
Il portello sbuca nel pavimento di una galleria circolare, che corre tutt'intorno allo scafo della
nave. Al centro di questo corridoio troneggia il nocciolo della navetta, su cui spiccano cinque
grandi pannelli di vetro, alti circa due metri. Haria si issa dentro il corridoio e si mette in piedi.
Fa due passi intorno e nota che uno dei vetri posti sul corpo centrale è dischiuso. Si avvicina e,
con la massima cautela, apre un poco di più quell'uscio. L'interno è vuoto, ma sul pannello di
fondo vi è disegnata una sagoma umana. Inoltre vi sono delle cinghie all'altezza del petto e dei
polsi, del bacino e delle gambe. È una bara per il sonno freddo. Si scosta, stupita da quella
scoperta.
Sono venuti, di persona. Ma dove…
Si volge verso una delle ante chiuse. Schiaccia il naso contro il vetro, cercando di scorgere
cosa vi sia dentro. La sagoma di un viso umano addormentato le si palesa davanti.
Haria si stacca dal vetro, portandosi una mano alla bocca per frenare un grido di stupore.
Conta le ante vetrate. Quattro su questo lato, più una già aperta.
Fa il giro della nave, ma sull'altro lato non vi sono bare. Vi è invece la postazione di
comando, o meglio un seggiolino con davanti un gigantesco schermo virtuale.
Passa da una vetta di stupore all'altra, le gira la testa come se avesse la febbre alta.
È come se l'aria stessa si disponesse in forme luminose e tridimensionali. Non riesce a vedere
nessuno strumento di proiezione, quelle figure si formano magicamente nel vuoto, immacolate e
piene di dettagli, come se un invisibile pennino le vergasse con un inchiostro di mille colori.
Quali tecnologie possono nascondersi in quei muri lisci e specchiati? Lei è una professoressa
universitaria, insomma quasi, eppure quei segreti le appaiono insondabili. Osserva ammirata le
forme comporsi e scomporsi davanti a lei. Potrebbe prendere una psicocola e stare qui tutto il
giorno a guardare questi giochi di luce. E a cercare di immaginare il mondo pulito e raffinato in
grado di concepire questa meraviglia.
Si siede allo sgabello. Le forme sullo schermo assumono una foggia più ordinata e si
dispongono a formare parole e immagini. Una tastiera virtuale si materializza nell'aria, sopra le
sue ginocchia.
Sullo schermo vi è un'elegante scritta viola, su sfondo blu.
Dice "Violazione primaria alla scatola di stasi".
Accanto alla scritta vi è uno schema, la rappresentazione tridimensionale dell'interno della
nave. Il seggiolino, lo schermo e sulla sua sinistra la struttura che collega il centro della nave con
lo scafo. Nel bel mezzo del quale lampeggia uno sportello rosso.
Haria sposta lo sguardo e intuisce dove si trova l'apertura segnalata, per quanto nella realtà
sia tutto molto tranquillo e per nulla lampeggiante.
Sullo schermo, in basso a destra, vi è una scritta verde, con su scritto "Inizio". E altri riquadri
con delle mezze frasi, tipo rapporto anomalie, rapporto sonno freddo, rapporto atterraggio, e così
via.
È un'idea folle pensare di interagire con quella sonda. Chi ha mandato quel vascello deve
aver previsto che qualcosa su Promise sia andato storto. Quindi non può aspettarsi che ci sia
qualcuno lì, ad attivare chissà quali comandi.
A cosa servono sennò i passeggeri di quella nave? Che però non si sono svegliati dal loro
sonno. Sui libri di storia si studia l'arrivo dell'umanità su Promise e molte persone erano state
svegliate ben prima dell'atterraggio, per monitorare le attività.
È vero che le intelligenze artificiali già allora erano in grado di gestire situazioni complesse,
ma se hai a disposizione l'intelligenza umana, perché non usarla?
27
Uno degli occupanti però si è svegliato e questo le dà da pensare. Forse si è deciso di far
uscire dal sonno una sola persona, e poi questo solitario pilota è stato rapito dal popolo libero
prima ancora di poter scongelare gli altri.
O forse si è nascosto lì intorno o dentro la nave stessa.
Possibile che non abbia preso nessuna precauzione, prima di aprire il maledetto portello?
«Dottoressa», la voce ovattata di Gianhosi la chiama da fuori.
Si alza a malincuore dallo sgabello e va ad affacciarsi al portello esterno. Gianhosi l'attende
sotto, saltellando da un piede all'altro.
«Allora?» chiede lui.
«La situazione è ambigua. Il popolo libero molto probabilmente è entrato. Nella navicella vi
sono quattro persone in stato di sonno freddo, sulle cui condizioni fisiche al momento non ho
informazioni. I sistemi della nave sono funzionanti, ma non ho ancora provato a interagire. Vi è
anche una quinta persona, di cui però al momento non ho trovato traccia, né vestiti, né il corpo,
nulla».
«Ma quindi ci sono persone vive?»
«Credo che siano vive, ma per avere conferma bisogna interrogare il computer di bordo.
Attualmente segnala un problema, sembra che vi sia stato un accesso non previsto a una zona
della nave».
«Ok, adesso salgo anch'io». Gianhosi si inerpica sulla scaletta, fino a issarsi dentro la
navicella. Quando si alza in piedi ha un'espressione spaurita, come quella di un bambino entrato
in casa con le scarpe piene di fango.
«Qui», dice Haria e scosta l'apertura della bara vuota.
Lo porta in giro per la nave, sino a mostrargli il computer di bordo. Poi rifanno il giro
dall'altra parte. Si arriva dall'altro lato del grande tunnel di acciaio che collega la parte centrale
della nave con lo scafo esterno. Sporgendosi un pochino, si nota l'apertura che i sistemi
segnalano come inopinatamente violata. All'interno vi è un vano, di un mezzo metro di lato, con
cavi e cavetti, che però non hanno nessun significato per loro.
Girano in tondo due o tre volte, guardano in su e in giù alla ricerca di altre aperture o nicchie,
ma tutto è levigato e sigillato.
Tornano ancora alla cavità anomala.
«Vedi il portellino che la chiude?», Haria indica con il dito esile l'apertura.
«Sì certo. Cos'ha di strano? È alzato».
«Se ti immagini di vederlo chiuso non riusciresti a intuire l'apertura sottostante. Sarebbe
allineato con le pareti, un pannello come tanti altri. Vedi che non ha segni di riconoscimento
dipinti sopra? Sarebbe stato invisibile».
«Quindi chi è entrato qui lo ha trovato già aperto?»
Haria può quasi udire le rotelline nel cranio del soldato faticosamente girare. «Io credo di sì.
Secondo me la persona che stava in quella bara vuota si è svegliata prima dell'atterraggio e ha
permesso agli abitanti del popolo libero di entrare. E inoltre ha aperto quello scomparto».
«Cosa ci può essere lì dentro?», Gianhosi ha un aria spaventata che gli allunga il viso in una
smorfia tirata.
«Dobbiamo provare ad attivare il computer. Forse ci può dare informazioni utili».
«Tu sei in grado?»
«Nessuno su Promise è in grado. Però ci posso provare». Haria non vede l'ora in realtà.
Vuole provare ogni cosa di quella nave.
«Non mi piace. E se danneggi la sonda?», si oppone lui, scuotendo il capo.
«Tieni presente che qui dentro ci sono già stati i selvaggi. Per giorni, forse. Quindi non credo
di poter fare più danni di quanti ne abbiano fatti loro».
Gianhosi si morde l'interno della guancia, poi la guarda fissa negli occhi per qualche
secondo. «Proviamo», capitola.
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Haria va a posizionarsi sullo sgabello. Lo schermo riprende forma e definizione. I comandi di
interfaccia all'epoca dei novemila funzionavano al tocco, così si studia sui libri. Non c'è motivo
per cui questi altri debbano funzionare in maniera diversa.
Sporge un dito verso lo schermo, sino a sfiorare la parola "Inizio". Gianhosi si muove
nervoso da un piede all'altro. Sta per parlare, ma sospira in silenzio.
Quando la punta del dito affonda nel verde dell'ipotetico tasto, un raggio luminoso saetta sino
a colpirle l'iride. Dura meno di un battito di ciglia. Però lo schermo cambia, assumendo una
colorazione di un rosa smunto. "Accesso Vietato", c'è scritto in lugubri lettere nere.
Il rosa dello schermo sbiadisce sino a scomparire e a lasciare di nuovo spazio alla schermata
precedente, dove si rileva la violazione occorsa alla misteriosa camera di stasi.
Haria gira la testa verso il comandante, con una smorfia.
«Forse bisogna riprovare diversamente», dice lui. «Sei sicura di stare usando le procedure
giuste?»
«Non vedo cosa potremmo fare di diverso. Proviamo qualcos'altro».
Schiaccia uno degli altri bottoni virtuali, dove c'è scritto "Rapporto Sonno Freddo".
Questa volta si apre una finestra scura, dove sono indicati cinque nominativi. Vicino a
ciascuno di essi vi è un cuore rosso pulsante e dei numeri. Parametri vitali. L'unica eccezione è il
secondo nome dove accanto vi sono dei punti interrogativi. "Fuori portata", c'è anche scritto. Il
fuggitivo si chiama G. Harris.
Quindi le persone sono ancora vive, almeno a giudicare da quegli allegri cuoricini. E G.
Harris se l'è data bellamente. Se infatti si nascondesse lì nella nave, questo intelligentissimo
computer non se ne uscirebbe con un insulso "fuori portata".
Accanto ai nominativi vi sono anche delle freccioline verdi. Haria prova a sfiorarne una.
La familiare videata rosa si materializza davanti ai suoi occhi. Accesso vietato, anche qui.
Attende qualche secondo che il rosa sbiadisca e prova a pigiare la grassa X rossa che si trova
in fondo al rapporto sul sonno freddo.
Lo schermo torna alla visualizzazione con cui l'ha trovato.
Ha ancora due possibilità, "Rapporto Anomalie" e "Securvideo #3".
Il primo si apre senza sforzo. È una lunga lista di termini tecnici e codici numerici. Ci
saranno almeno cento voci. Haria si ripromette di riesaminarlo dopo con più calma. Quante
anomalie per una nave così piccola.
Richiude il "Rapporto Anomalie" e prova il "Securvideo #3".
Si materializza davanti ai suoi occhi un filmato. Haria sobbalza sulla sedia. È la prima volta
in vita sua che vede una ripresa video. Il comandante fa due passi indietro, mormorando qualcosa
di inintelligibile.
Si vede la zampa meccanica appoggiata al suolo promisiano. La scaletta pende verso il suolo.
Un piede e quindi una gamba spuntano dall'interno della nave. Una persona inizia a percorrere la
scala, sino a raggiungere il terreno con un breve saltello. Uno straccione, armato di un arco di
legno a tracolla.
Dietro di lui un altro uomo, che ad Haria pare il vecchio che ha incontrato durante l'agguato.
Scende piano piano, poiché riesce a reggersi con una sola mano. Nell'altra infatti regge un
involto sudicio, che deve essere piuttosto pesante, a giudicare dai suoi movimenti goffi.
Esce un terzo uomo, dai capelli rosso fuoco, che si arresta ai piedi della scaletta.
Dall'apertura calano due piedi scalzi, poi le gambe avvolte in un tessuto lucido e il corpo
dell'astronauta. Ha la testa riversa all'indietro, non si capisce se sia vivo o morto. L'uomo già a
terra se lo carica in spalla e si avvia fuori dall'inquadratura. Dalla scaletta scende ancora una
donna, che può benissimo essere quella che le ha rotto una costola. Man mano escono tutti dal
campo, muovendosi veloci e circospetti. L'ultima spinge la scaletta sino a farla ritirare, dà
un'ultima occhiata ai dintorni e si dilegua, lasciando la scena vuota.
"Replay?" Compare sul fermo immagine, a tutto schermo.
Haria si volta verso Gianhosi «Hai visto comandante? Hanno portato via un astronauta. E
anche qualcos'altro».
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«C'è poco da immaginare. Quei bastardi senza nome ci hanno fregato», Gianhosi stringe i
pugni. «Non ci credo, mandano una nave per salvarci e quelli la depredano, neanche fosse loro
proprietà».
Haria ha un nodo alla gola. Vedere quel poveretto nella sua lucente tuta spaziale portato via a
spalle da quegli arraffoni, è un'ingiustizia. Anzi tutto quell'affare è una colossale ingiustizia. La
navetta non poteva atterrare più vicina alla Città?
Sarebbe bastato poco per metterla in sicurezza, qualche chilometro in meno e loro
l'avrebbero vista dalla piazza del mercato. E non se la sarebbero fatta sfuggire.
«Quand'è atterrata?» chiede Haria.
«Quattro giorni fa».
«Guarda qui», dice Haria. Preme il testo "replay" e l'azione riprende a dipanarsi, come
l'hanno vista in precedenza. In basso a destra dei numerini bianchi si rincorrono all'angolo dello
schermo, divisi da due puntini.
«Vedi», continua Haria. «Secondi. Minuti e ore. Quando è stata effettuata la ripresa, questo
orologio contava novantanove ore e una manciata di minuti,. Io non credo che il cronometro sia
partito così a caso, ma avrà iniziato a segnare zero da un evento significativo. Siccome non può
essere dalla partenza, sarà dall'atterraggio».
«Novantanove ore… quindi tre o quattro ore fa quei bastardi erano qui».
«Dipende quanto sono precisi i vostri dati sull'atterraggio».
«Abbastanza precisi, devo confrontarmi con il tenente».
Fa per andarsene, ma si volge ancora verso di lei e stira le labbra in un sorriso stanco, quasi
umano. Aggiunge, «Vieni dottoressa. Hai fatto un buon lavoro, ma adesso dobbiamo decidere
cosa fare».
Scendono uno dopo l'altro dalla scaletta. Ai piedi della navicella sembrano soli in mezzo al
deserto ma Haria sa che i soldati sono attorno a loro a proteggere il perimetro.
«Rapporto!» grida Gianhosi, con la mano a portavoce.
I soldati della truppa si alzano dai loro appostamenti, e corrono chini verso il comandante,
imbracciando le loro armi letali.
«Soldati», dice Gianhosi, «il popolo libero è già stato qui. E hanno portato via qualcosa dalla
nave, unitamente a un membro del suo equipaggio».
I tre l'ascoltano a occhi sgranati, ma non lo interrompono. Gallajio addirittura ha la bocca
aperta come un forno, per lo stupore.
«Sì, soldati. Avete capito bene, c'è un equipaggio della vecchia Terra qui dentro. E sono
ancora vivi».
Raportal leva un pugno verso il cielo e muggisce: «Uh! Uh! Teschi!»
«Nessuno ci avrà!» gli fanno eco in coro gli altri, alzando le mani.
«Però», continua Gianhosi, «temiamo che quei merdosi straccioni abbiano portato via
qualcosa di importante». Sporge una mano verso di lei e continua. «La dottoressa se l'è cavata
bene là dentro. Ma non abbiamo ancora vinto. Tra un giorno, due al massimo, la squadra di
supporto sarà qui. E di sicuro noi dobbiamo tenere il campo sino al loro arrivo».
«Comandante», Gallajio fa un passo avanti. «I nemici possono venire anche in mille, non
riusciranno ad avvicinarsi di nuovo a questa nave».
«Ci conto, caporale. Abbiamo un'altra informazione. Quei maledetti sono andati via da qui da
poche ore. E stanno trasportando un uomo ferito, quindi sono lenti. Io devo lasciare un presidio
qua perché dobbiamo tenere la posizione. E dev'essere abbastanza solido da resistere a un attacco
in forze. D'altro canto mi piacerebbe mandare un commando per cercare di recuperare quanto si
sono presi».
«Mi offro volontario», si propone Fineri.
«Anch'io», aggiunge Gallajio.
«Grazie ragazzi. Però io manderò solo uno di voi. Tenere la nave è troppo importante. Andrai
tu Fineri. Ma non sarai solo. Dottoressa, andrai con lui».
«Ma …», balbetta Haria, «la nave…»
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«L'unica cosa che serve a questa meraviglia è che nessun selvaggio ci metta più le sue sudice
mani sopra. E per difenderla tu non servi dottoressa, senza offesa. Invece Fineri potrebbe aver
bisogno di una staffetta e tu puoi farlo bene. Sei magrolina, ma hai resistenza fisica, per essere
una scienziata».
Una missione suicida con Fineri. Perché proprio adesso che stanno per riaffacciarsi alle
soglie della civiltà? Che l'oggetto più pazzescamente interessante della storia è atterrato su
Promise?
Con Fineri andrebbe pure in capo al mondo, però prima vorrebbe annusare ogni centimetro di
quella nave. Cercare di carpirne i segreti, immaginare i dettagli, scoprirne i misteri.
Il comandante Gianhosi le poggia una mano sulla spalla. «Riposatevi un'ora. E poi andate.
Nel frattempo noi cercheremo le tracce».
Fineri le fa uno dei suoi ampi sorrisi, per quanto la stanchezza ormai faccia capolino anche
sul suo viso.
Haria sente le costole pulsare e la testa dolerle all'unisono. Tutte le giunture si lamentano e
una leggera vertigine la coglie al pensiero di riprendere quella folle corsa. Forse la cosa più
sensata è cercare di sfruttare quell'oretta senza ulteriori discussioni.
Si va a posizionare sotto la navicella e lì si sdraia. Sopra di lei la nave pare enorme, eppure è
un granellino di sabbia rispetto all'immensità spaziale che ha affrontato. Uomini e donne della
sua stessa specie hanno ideato quella spedizione, forgiato il metallo e i circuiti, e acceso il
motore nucleare che a forza di impulsi sequenziali ha spinto quello scafo a una frazione di c
sufficiente a superare il golfo tra le stelle in un tempo accettabile su scala umana.
Cosa stanno pensando ora quegli uomini o quelle donne? I primi coloni avevano ancora
goduto di procedure di allungamento vita, addirittura sua madre, in giovane età ne aveva
approfittato, prima della Rivolta, quando c'era ancora energia. Quindi sulla Terra chissà quali
procedimenti esistono per prolungare la vita umana, forse sino all'infinito.
E chissà quali altri segreti hanno quei quattro silenziosi ospiti, addormentati nelle loro bare
sopra la sua testa. Si sogna durante il sonno freddo? E quali incubi si possono mai sognare,
sospesi in un guscio di acciaio, scagliato a velocità inumane, nel gelo dei -273 gradi sotto zero
dello spazio?
Quei pensieri la conducono lontano, però gira e gira, alla fine un solo desiderio attrae la sua
attenzione. «Dio, come vorrei una psicocola» sussurra tra le labbra.
Fa scivolare una mano in tasca e accarezza la familiare scatolina. Vorrebbe prenderne una e
sdraiarsi dentro quello scafo, liscio e tranquillo. Si toglierebbe i vestiti, per sentire l'effetto di
tutto quel metallo sulla pelle. Potrebbe stare ore a osservare la magia di quello schermo
luminoso, sospeso nell'aria come un arazzo tessuto nella luce stessa.
Tuttavia alla fine la stanchezza ha il sopravvento e il sonno sopraggiunge a portare un po' di
pace al suo corpo sfinito.
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Primo Interludio
Sistema stellare di Tau Ceti, Anno 2160, orbita del gigante gassoso Alcione.
Invictus apportò una piccola correzione sub orbitale. Le correnti di marea gravitazionale
non erano uno scherzo in questo sistema, ma per fortuna lui non aveva il senso dell'umorismo.
Era stato progettato per prendere decisioni istantanee in carenza di informazioni critiche.
Insomma il volo spaziale in un sistema alieno richiedeva anche un minimo di improvvisazione. E
di fortuna.
La capsula che avvolgeva il delicato cervello elettronico stava per affrontare la propria
prova più severa, stava per entrare nell'atmosfera di un pianeta sconosciuto, la terza luna di
Alcione.
Invictus aveva avuto un tempo quasi infinito per prepararsi a questo contatto. Ottant'anni
terrestri, ma per lui si trattava di 6,3 cicli. Con diciotto zeri dopo.
E tutto si sarebbe risolto nei prossimi dieci minuti. Quella dura carcassa doveva riuscire a
trasportarlo sino al suolo senza danni significativi e quindi aprire le proprie viscere, per far
fuoriuscire la lunga antenna a microonde. Altrimenti tutto sarebbe stato vano.
L'impatto con l'atmosfera fu peggio del previsto. C'era una piccola deformazione sullo scudo
che produsse un surriscaldamento di dieci celle di memoria. Invictus le svuotò prima che
diventassero inaccessibili, usando il quarto e ultimo back-up. Il tremolio causato dalla
resistenza dell'aria lo preoccupava, poiché poteva danneggiare i suoi componenti meccanici. La
natura della sua memoria e del suo processore erano quantistici, però per comunicare con
l'esterno e con la capsula, cavi e connettori erano ancora necessari. E poi la pila nucleare
doveva restare stabile. Se si fosse disattivata prima di arrivare aveva una sparuta riserva di
energia per tentare di mandare comunque la preziosa trasmissione. Tuttavia il programma di
ricerca sarebbe stato ridotto all'osso e soprattutto avrebbe potuto inviare un singolo fascio di
microonde verso la Terra. Come colpire un piattello, lanciato in aria novant'anni prima,
sparando da cento dodicimila miliardi di chilometri di distanza.
Il tremolio diminuì. Partì un brevissimo conto alla rovescia, tre, due, uno. Invictus si mise in
stasi, per evitare che il contraccolpo del paracadute potesse danneggiare un circuito impegnato
in una qualsiasi operazione.
Al termine del periodo di stasi i sensori gli comunicarono che la temperatura del guscio
galleggiava entro i parametri e la velocità rientrava nella curva di atterraggio.
All systems go, recitava il mantra dei sottosistemi. Stavano planando verso il suolo del
satellite di Alcione e tutto funzionava a meraviglia.
Invictus aprì lo sportellino della telecamera e valutò le immagini ottiche. Sapeva già tutto di
quel mondo, perché nella fase di avvicinamento lo aveva scandagliato a dovere, però le
fotografie valevano più di qualsiasi dato. Una distesa di acqua liquida, intervallata da
frastagliate terre emerse riluceva sotto il suo scafo. Il cielo era azzurro, le nubi chiare e
vaporose. Colonne di spuma bianca si alzavano per decine di metri, dove onde poderose si
frangevano contro le scogliere.
Lo avevano trovato.
Invictus non conosceva l'esultanza, però qualcosa sembrò incastrarsi meglio nei suoi
circuiti, come se avesse appena finito una lunga, lunga salita.
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Una fortuna inaspettata
Ciò che Haria si è negata la sera, se lo concede dopo tre ore di marcia. Le membra le dolgono
troppo e le gira la testa. Fineri si piega ogni venti passi a esaminare le tracce, per poi riprendere
subito a correre. Tutto quel procedere a strattoni le ha provocato una gran nausea.
È partita dalla nave con la morte nel cuore e un gatto nello stomaco. Ha mangiato qualche
boccone di frumento pressato, ma dopo poco ha vomitato tutto, compreso l'analgesico che aveva
buttato giù insieme alla colazione.
Il dolore alle costole è diventato così insopportabile che alla fine ha ceduto alle sue voglie di
psicocola.
E il mondo è virato su colori più tenui. La nave è al sicuro con i soldati pieni di muscoli e di
pallottole, e se ne starà lì tranquilla ad aspettare il suo ritorno. Quei quattro scalzacani della
seconda spedizione non ci capiranno un'acca e quindi dovranno aspettare il ritorno della grande
Haria Gillia prima di metterci le mani sopra.
Fineri sembra un pollo che di tanto in tanto deve becchettare il suo mangime, chinandosi con
il viso vicino a terra.
Questo trip la sta prendendo un pochino troppo, ma nelle sei ore di vantaggio che hanno quei
selvaggi l'effetto sarà bello che passato. Guarda come salta il buon Fineri.
Le sembra di saltare anche lei, ha le gambe leggerissime e i piedi pesantissimi, quindi ogni
passo le riesce veloce e preciso. Molto più elegante di Fineri.
Tau Ceti viaggia felice nel cielo e la sabbia abbaglia, come se la navicella avesse sparso al
suolo un po' di magia al suo passaggio.
Macinano chilometri che è un piacere, l'unica cosa che la infastidisce è il gran prurito che
avverte alle labbra, ma è una effetto della psicocola.
Si trova a sorridere a Fineri, che le restituisce il sorriso.
Che denti perfetti ha. E pensare che il calcio di cui sono costituiti ha caratteristiche atomiche
diverse dal calcio terrestre, si è formato su stelle distanti dal sistema solare. Eppure il nostro
DNA lo ha assimilato, creando un essere umano e non umano. Un Promisiano vero.
Forse quei pensieri la portano a sorridere un po' troppo, perché sente una goccia colarle lungo
il mento. Si porta la mano sul viso e la trova umida e calda.
«Ti si è spaccato il labbro», dice Fineri.
Le si avvicina ed estrae da un tasca interna del suo giubbotto una salvietta. Haria fa per
prenderla, ma lui si avvicina ancora e le asciuga il sangue.
«È imbibita di un'essenza vegetale che dovrebbe aiutarti a cicatrizzare. Roba militare».
«Grazie», dice Haria. Cerca di non sorridere, ma proprio non ci riesce. Le sembra di essere
nel bel mezzo di un salto mortale, senza riuscire ad atterrare.
Fineri sta qualche secondo con la salvietta premuta sul suo labbro e ne approfitta per fissarla
ben bene negli occhi. Haria avrà le iridi come due ventose, lui non può non accorgersene.
«Da quel che vedo per terra, non dovrebbe mancare molto a prenderli», dice lui, ma non
guarda per terra.
«Cosa pensi di fare quando li raggiungeremo?», tanto per dire qualcosa.
Fineri scosta con delicatezza la salvietta dal suo labbro, la ripiega e se la infila in tasca.
«Dovremo essere scaltri. Io ho un arma», fa segno con il pollice dietro la schiena, «che può
colpirli a distanza. Conto di metterne fuori gioco due o tre, prima di attaccarli in uno scontro
diretto».
Il vento soffia leggero tra i capelli di Haria e sembra portarsi via tutto il calore di Tau Ceti.
È già morto. Non può pensare di farcela contro tutti quegli uomini.
33
Si ricorda il sibilo del coltello della ragazza guerriera. Chi dei due sarebbe caduto per primo,
lei o Fineri? Comunque uno dei due dovrà bagnare con il proprio sangue l'arido suolo di
Promise. Che enorme spreco.
Potendo scegliere comunque, meglio lei. Fineri è così dolce, ha una piccolissima cicatrice
sopra il labbro sinistro, due sopracciglia folte ed espressive e uno sguardo che scioglie il cuore.
«Tutto a posto doc?», domanda lui.
«Certo. È che sono delle bestie».
«Ehi, anch'io sono un osso difficile da spolpare. Galla mi dice sempre che siamo immortali».
Ad Haria scappa uno sbuffo di risa. Ma lui insiste, scuotendo i ricci. «Lei lo crede veramente,
dice che su Promise non è ancora nato qualcuno in grado di farla fuori. Che scema, eh? Però è
quello il motivo che prima l’ha fatta infuriare con Raportal».
«Gerreld era messo molto male», dice Haria.
«Lui era ai comandi di Galla. È difficile perdere qualcuno che prende ordini da te. A me
invece», fa una smorfia, «ha fatto male vedere come mentiva Raportal. Per coprire Gianhosi».
«Cioè?», ad Haria frullano i pensieri in testa come foglie secche in una tempesta, la psicocola
sta pompando forte adesso.
«È Gianhosi che gli ha ordinato di sistemare Gerreld. Gli è bastato uno sguardo. Però io l'ho
capito e anche Galla. Raportal doveva dire la verità, al campo. E invece s'è inventato quella
storia. È una brutta sensazione vedere uno come Raportal che ti dice una bugia, per me è come
un padre. Ti viene freddo dentro».
«Freddo dentro?», chiede Haria.
«Sì, quando qualcuno ti dice la cosa sbagliata, quella che ti muove qualcosa dentro e che poi
non torna più a posto». Fineri dà un calcio a un ciottolo. «Per farti capire, quando mio padre se
n'è andato di casa, mio fratello ha dato di matto. Il vecchio aveva lasciato mia madre, noi,
eccetera. Un giorno, eravamo io e lui in giro e l'abbiamo incontrato. Mio fratello è più grosso di
me e lo ha messo contro un muro. Insomma hanno battibeccato un bel po', poi a un certo punto
mio padre si è come afflosciato. E mi ha chiesto, con un filo di voce: secondo te, sono stato un
buon padre? Ecco, è una di quelle domande che ti fanno venire freddo dentro, che sono sbagliate.
E vedere oggi Raportal mentire in quel modo mi ha fatto la stessa, identica sensazione».
Ad Haria sembra che tutte le domande più strane del mondo le stiano sfrecciando accanto,
senza che riesca ad identificarne neanche una. Chiude gli occhi, per rifocalizzarsi un secondo, e
gli dice «Quando hai bisogno di un po' di calore, sono qui».
Si sente arrossire per la frase audace che le è scappata, ma Fineri invece cambia ancora
espressione e il sorriso rispunta tra le nubi. Scosta una mano dal fianco e le carezza la guancia.
«Sei un bel tipo dottoressa. Bella tosta, anche se sembri delicata come un pulcino».
«Grazie. Ma chiamami Haria, basta con 'sta storia della dottoressa».
«Ok», lui sorride ancora, e il mondo splende sempre di più. «Hai preso le tue pastiglie?»
Haria trasalisce. Ma no, scema, sta parlando degli antidolorifici.
«Sì, certo», risponde.
«Non esagerare, ti vedo un po' strana» dice Fineri.
«Cioè?»
«Niente, niente. Dai andiamo».
Fa scivolare la sua mano lungo la spalla di Haria sino a prenderle le dita. Intreccia le sue
nocche forti e dure con quelle diafane di lei, e stringe convinto.
Dopo una stretta di mano così, Haria vorrebbe solo stenderlo a terra, saltargli sopra e
strappargli tutti i vestiti, lì, in mezzo alla polvere. E se le sue armi non fossero così infallibili e li
portassero a schiattare come due tacchini allo spiedo?
Lei trattiene la sua mano per qualche secondo, continuando a guardarlo. Ma lui ha già
cambiato espressione, di nuovo affamato della sua rincorsa. Così lo lascia andare e si rimettono a
correre lungo la pista.
Quando Tau Ceti tramonta dietro la linea dell'orizzonte, il buio diviene troppo fitto per
continuare a seguire le tracce.
34
Si sistemano alla meglio, vicino ad alcune rocce aguzze. Il paesaggio sta cambiando e le
dolci colline si stanno trasformando in rilievi più accentuati. I fuggitivi stanno seguendo il corso
di un rigagnolo, che s'insinua tra due rive secche.
«Che strano, eh?», dice Fineri.
Sono seduti l'uno di fronte all'altra. Uno spicchio di Alcione illumina a malapena i loro
profili.
«Cosa?», bofonchia Haria. Sta masticando un pezzo di galletta al frumento, intinta nella salsa
di ceci e cipolla che si sono portati come condimento.
«Che sia successo davvero, proprio a noi. Intendo dire la navicella»,
«Già. È pazzesco. Non capita molto qui su Promise, vero? E tutto a un tratto siamo di nuovo
sulla cresta dell'onda».
«Io non ho idea di come possa essere un mondo con le luci, l'elettricità, i computer. Secondo
te riusciranno a far funzionare il reattore?»
«Beh, sarà difficile, ma sì, ci riusciremo. Io credo che gli scienziati terrestri abbiano previsto,
tra le varie eventualità, che anche noi avessimo delle avversità. Avranno inserito da qualche
parte un manuale d'istruzioni, no? Ce la faremo, vedrai».
Fineri striscia un po' verso di lei.
«Tu farai parte del gruppo che ci lavorerà, no?»
«Sì. Cioè, penso di sì. Sono brava, sai?»
«Davvero», Fineri si stende di fronte a lei e le appoggia la testa sulle caviglie. Haria siede a
gambe incrociate e si ritrova il suo viso a meno di una spanna dal naso. Non riesce a indovinare
la sua espressione, ma sente molto bene i suoi capelli ricci sui polpacci e il suo odore di soldato.
Corrono da giorni, senza lavarsi, e anche lei deve avere un lezzo, però quella puzza di sudore è
quasi piacevole adesso, qualcosa che li unisce.
«Raccontami dei viaggi spaziali, Haria», allunga le mani sopra la testa sino a intrecciarle con
sicurezza attorno alle sue gambe. «Fammi sognare», sussurra ancora.
Haria si appoggia al masso dietro di sé. Le mani di Fineri le stringono le caviglie, e si
muovono accarezzandole la pelle.
Lei gli sfiora la guancia con la mano. È ruvida per la barba incolta e impolverata.
Vorrebbe abbassare la testa e baciarlo, è troppo bello per essere vero. Dopotutto basterebbe
muovere il mento verso il basso di qualche centimetro per sentire il calore del suo respiro sulle
labbra. E poi il resto verrebbe via senza alcun imbarazzo. Eppure l'effetto della psicocola è
tramontato insieme a Tau Ceti e Haria si sente nuovamente spersa in quella vastità desolata. Se
Fineri ridesse del suo tentativo, come potrebbe poi guardarlo di nuovo in faccia, l'indomani?
Vorrebbe lasciare parlare i loro corpi, però lui ha proprio toccato uno dei suoi argomenti
preferiti, così lascia la lingua sciogliere qualche parola, mentre cerca il coraggio dentro di sé: «Il
volo spaziale è una storia tormentata. Da sempre gli uomini hanno ambito a raggiungere i sistemi
stellari più prossimi, ma ci si è sempre scontrati con le enormi distanze coinvolte».
Muove le dita sul suo viso, ripassando il profilo della mascella. La pancia le formicola da
morire e un calore confortante le invade le membra.
«Verso la fine del ventiduesimo secolo si è arrivati vicini alla soluzione delle equazioni di
Gauss-Bonnett, per la curvatura dello spazio tempo. A un secolo esatto dalla loro formulazione».
«Ehi», la interrompe Fineri. «Hai una bella voce, sai? Molto calda».
«Uh, grazie. Anche tu».
«Continua, ti prego. Ma parla che ti capisco, nel pratico. La teoria non è mai stata il mio
forte». Le liscia le caviglie con la punta delle dita, ripassandole il malleolo con un gesto
circolare, che le fa salire un'onda di piacevole euforia dai piedi sino alla gola.
«Certo, scusa. Volevano creare un cunicolo spazio-temporale, una porta tra due luoghi
dell'universo», Haria cerca di trattenere il tremolio nella voce.
«Una porta?»
35
«Sì, per passare ad esempio da qui alla Terra, bam, istantaneamente. Si perse un mare di
tempo a inseguire questa tecnica, sprecando risorse. Invece la Lega Panamericana Meridionale
sviluppò un progetto alternativo, con un motore a impulsi nucleari».
Haria prende ad accarezzargli i capelli. Sono crespi e secchi, le sembra di cercare i chicchi
d'avena in mezzo alle spighe. Quanto devono essere dolci quei chicchi.
«Un'idea vecchia», continua lei, arricciolandosi i suoi capelli tra le dita, «che richiede
pazienza, perché si parla di viaggi lunghi secoli. Tuttavia la scoperta della stasi dell'antimateria
accelerò questa soluzione. La propulsione a impulsi nucleari poté essere accoppiata a un innesco
ad antimateria, un metodo che permette a ingenti masse di essere spinte a frazioni significative
della velocità della luce. Tutto ciò…»
Gli appoggia una mano sul petto. Movimenti regolari. Non riesce a vedergli gli occhi
nell'oscurità.
«Fineri?», bisbiglia.
Perfetto, si è addormentato. Lasciandola così appesa, con quell'eccitazione addosso. Gli alza
la testa con delicatezza e la appoggia a terra.
Lui mugola qualcosa, ma Haria mormora «Shhh, è tutto a posto. Dormiamo».
Si stende accanto a lui. Gli prende un braccio e se lo porta sul petto: è caldo e solido, e
sembra in grado di difenderla da qualsiasi paura.
Sopra di lei le stelle lontane punteggiano il cielo nero. Fineri si avvicina, stringendola
appena.
E quella notte Promise assomiglia a un posto dove si possa anche passare una vita decente.
Il mattino seguente riprendono la camminata. Quando si è alzato Fineri le ha sorriso, ma il
suo sguardo era di nuovo torvo e metallico, proiettato all'inseguimento delle loro prede.
Si sono rimessi in marcia trottando veloci, non appena la luce ha permesso loro di
individuare le tracce al suolo. L'altopiano digrada verso un orizzonte più aperto, formando dei
ripidi gradoni di roccia. È una zona più umida e ruscelletti torbidi scendono nelle gole che si
aprono verso valle. La vegetazione qui è più fitta, anche se buona parte del terreno è roccioso e
aspro.
Dopo aver superato l'ennesimo salto, Fineri sale su un costone, per perlustrare. Subito però si
accuccia e, voltatosi verso di lei, sussurra «Eccoli».
Haria si avvicina alla posizione di osservazione, alzandosi in punta di piedi. In fondo alla
valle si scorgono dei puntini grigi, quasi indistinguibili. L'unico che spicca è vestito con una tuta
traslucida, che balugina alla luce mattutina di Tau Ceti.
«Sono fermi», dice Haria.
«E sono anche meno di quando sono partiti».
Fineri estrae un cannocchiale telescopico di legno. «Sono solo in tre, più l'astronauta
terrestre. Sono fermi lì».
«Forse l'altro è qui intorno. Vuole prenderci in trappola».
«Forse. Però vorrebbe dire che si aspettano che noi li abbiamo seguiti. E che sanno anche che
li abbiamo quasi raggiunti».
«Mi sembra normale che temano di essere seguiti».
«Già. Però non mi convince». Fineri ruota il cannocchiale intorno, e rimane a osservare per
qualche minuto le alture circostanti.
Poi porge l'attrezzo ad Haria. «Tu cosa vedi?»
Haria lo punta verso il gruppetto. «Sono molto statici. Uno di loro sembra sdraiato a terra, gli
altri seduti, o stesi. Però li vedo immobili. Si staranno riposando o avranno mandato avanti il più
in forma per cercare rinforzi ».
«E si sono fermati lì ad aspettare?» Fineri si pizzica compulsivamente il mento. «In mezzo al
niente, in bella vista? Qui ci sono un sacco di posti dove ripararsi, perché fermarsi lì?»
«L'ipotesi dell'esca l'abbiamo già scartata?»
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«Mi sembra una tattica stupida». Passa a tormentarsi la punta del naso. «Noi potevamo essere
solo l'avanguardia, con il grosso delle truppe in arrivo».
«Beh avranno i loro informatori, ai confini della Città».
«Sicuro, però qui siamo in campo aperto. Far arrivare le informazioni dalla Città non è
agevole. Devi averne parecchie di staffette e devono correre veloci come fulmini. No, non mi
convince».
«Quando sono usciti dalla navetta erano in quattro», Haria alza le sue dita sottili, per contare,
«più l'astronauta. Su questo non ci piove, ho visto il video con questi occhi».
«Magari il video non era chiaro».
«Fineri, era chiaro come è chiaro che tu mi vedi adesso», Haria scuote il capo. «Un filmato è
una cosa da non credere, un'esperienza pazzesca, ma non c'era ombra di dubbio».
«Si saranno divisi per qualche motivo. Non riesco a spiegarmi però perché se ne stiano lì,
stecchiti. Ma c'è solo un modo per scoprirlo».
Scende dalla roccia con un agile salto e le si para davanti.
«Tu stammi dietro» continua lui, «cento metri. Usa il cannocchiale, per guardarti intorno. Se
vedi qualcuno, fai un grido, poi scappa. Non ti voltare indietro, non cercarmi, scappa e basta. Ti
troverò io. Se invece mi sorprendono devi strisciare via, cercando di ritrovare la strada da cui sei
venuta. Ormai i nostri avranno preso il controllo della navetta e il comandante sarà già partito per
cercarci. Sarà a un giorno o due di cammino dietro di noi, quindi devi stare viva, se io dovessi
cadere. Nasconditi qui intorno e muoviti quando fa buio».
«Se è una trappola?», Haria si morde il labbro.
«Se è una trappola è importante che tu non ci cada dentro. Perché devi raccontare agli altri
dove sono andati quei bastardi, dopo. Il fondovalle è pieno di rigagnoli e far perdere le tracce
diventa sempre più facile».
«Stai attento», gli fa un sorriso incerto.
«Anche tu». Fineri si china e le da un bacio forte sulla guancia.
Poteva baciarla sulla bocca, sapeva benissimo che non aspettava altro. Però l'ha baciata sulla
guancia. Che abbia voluto rimandare il momento di quel bacio, per gustarselo meglio, per non
sprecarlo in un momento così disperato? Dovevano farlo la sera precedente, Haria si dà della
stupida per non aver approfittato dell'opportunità che il destino aveva loro offerto.
Ma lui si è già voltato e corre chino giù dalla scarpata.
Haria conta ottanta passi del suo compagno e poi si incammina cauta dietro di lui. Le sembra
che tutto il mondo la stia osservando, come una formica su un muro bianco. Da un momento
all'altro si aspetta di vedersi arrivare addosso un nugolo di frecce o un energumeno del popolo
libero, ansioso di tagliarle la gola.
Fineri invece si muove veloce e sembra imprendibile tra le frasche.
Pian piano la distanza tra loro aumenta, poiché Haria si controlla anche le spalle. Si ferma
anche un paio di volte a scrutare con il cannocchiale, ma il petto le si muove a un ritmo così
affannoso che non riesce a mantenere abbastanza fermo lo strumento per metterlo a fuoco.
Ormai il soldato è a qualche decina di metri dal gruppetto. Adesso ha rallentato parecchio e si
muove circospetto, cercando di avvicinarsi inosservato.
Haria si forza a controllare il respiro e appoggia il cannocchiale al tronco di un alberello. Lo
punta sul gruppo in fondo alla valle.
Adesso è più vicina, riesce a distinguere i particolari. L'astronauta è fermo, steso al suolo.
Può benissimo essere morto. Accanto a lui il vecchio, accasciato su un fianco. Si puntella sul
gomito, per sorreggersi.
Riversa a terra vi è la ragazza guerriera. Sente il dolore alle costole acuirsi. Se quella
stracciona le avesse rimesso le mani addosso, questa volta si sarebbe accertata di sfondarle la
cassa toracica, a furia di calcioni e randellate. Adesso sembra inanimata, ma il lampo omicida dei
suoi occhi, su quella collina disgraziata, è ancora bene impresso nei ricordi di Haria.
Più in là vi è un altro uomo, ma è steso in una posizione innaturale, con il viso rivolto verso il
terreno e un braccio piegato dietro la testa.
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Punta il cannocchiale verso la macchia di arbusti dove è acquattato Fineri. Lui la sta
guardando.
«Non c'è nessuno, porca miseria», sussurra tra sé e sé Haria. «Sveglia, lui confida in te».
Scandaglia i dintorni, scrutando tutte le rocce dietro cui possono nascondersi degli assalitori,
o in mezzo ai cespugli più fitti. Niente.
Rivolge lo sguardo indietro, da dove sono venuti, su per la scarpata. Le rocce grigie la
fissano silenziose.
Abbassa il cannocchiale e guarda Fineri senza muovere un muscolo. Se non gli fa cenni,
capirà che non ha niente da segnalare.
Infatti Fineri subito si affretta verso il gruppetto. Haria deve resistere alla tentazione di
precipitarsi verso di lui. Si concentra invece sull'ambiente circostante, nel tentativo di
individuare qualsiasi movimento sospetto.
I minuti si dilatano, scanditi dai battiti del suo cuore che sembra ben deciso a esploderle nel
petto da un minuto all'altro. Tutto è silenzioso e tranquillo.
Alla fine un sibilo lieve proviene dalla zona dove si trova il gruppetto. Fineri le sta facendo
segno di venire innanzi. Gli altri tre tizi giacciono sempre a terra, immobili. Haria si precipita giù
dalla collina, saltando tra i cespugli carichi di foglie appuntite.
Il vecchio e la ragazza sono sdraiati a occhi chiusi. Un'espressione di tremenda sofferenza
storce il viso dell'uomo in una smorfia. Il terzo selvaggio è immobile, sempre con la faccia
affondata nel terreno. «Allora?» l'interroga Haria.
«Sono messi male. Quello», indica l'uomo più giovane, «è stecchito. Niente battito. Il
vecchio era cosciente prima, ma non sembrava molto lucido. Mi ha chiesto chi ero, poi mi ha
farfugliato qualche parola e si è coricato lì, senza più muoversi. La ragazza è svenuta, ha battito e
respiro, ma la pupilla è fissa».
«E l'astronauta terrestre?», le loro voci risuonano nella piana, accompagnate solo dal fruscio
del vento.
«Sembra cosciente, ho provato a interrogarlo, ma non mi risponde. Non ha aperto bocca per
la verità. Forse è paralizzato, non ha mosso né mani né piedi, solo leggermente la testa. Adesso
ho legato questi due furboni, giusto per evitare che ci facciano scherzi quando si riprendono».
Non ci sono segni di lotta sul terreno, né residui di qualche accampamento o di falò. Le armi
del drappello sono ancora tutte dentro i rispettivi foderi. L'unico oggetto curioso presente sulla
scena è un tubo metallico lungo una cinquantina di centimetri. Ha un cartellino con delle scritte
sopra e un piccolo rettangolo nero su un lato.
«Cos'è quello?», chiede Haria, indicandolo.
«Non so», Fineri muove le sopracciglia e una piccola smorfia gli piega le labbra all'ingiù.
«Però se dovessi scommettere la mia ultima settimana di paga, direi che è l'oggetto che si sono
portati via dalla nave terrestre. L'ho esaminato e non mi sembra una roba promisiana».
Ad Haria balza il cuore in petto. L'hanno trovato. Adesso possiedono tutti i pezzi necessari a
ricomporre il puzzle che gli scienziati terrestri hanno loro inviato.
«Prendiamolo e scappiamo», dice lei.
«E questo terrestre?»
«Dovremmo cercare di portarlo con noi».
Fineri si guarda intorno, corrugando le sopracciglia. Tau Ceti è basso sull'orizzonte e sta per
tuffarsi nelle nubi di Alcione. Le ombre sono lunghe e i nemici sembrano celarsi dietro ogni
pietra.
«Non so, Haria. Portarsi un uomo sulle spalle è molto dura. Il terreno è accidentato e
quest'uomo non è proprio un peso piuma. Inoltre prima di muovermi vorrei capire cosa è
successo qui. Magari può esserci utile».
«Il pezzo terrestre», Haria indica il tubo con un dito, «ha la priorità. Dobbiamo portarlo alla
zona della navicella. Potrebbe essere indispensabile per far funzionare il reattore della nave o
potrebbe contenere informazioni essenziali alla riuscita della missione. Piuttosto prendiamo
quello e filiamocela».
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«Già. Tu ragioni da scienziata» Fineri piega un po' la testa di lato, sottolineando quella parola
come se fosse un attività esoterica. «Datemi l'ingranaggio che mi serve per far girare la
macchina. Io invece penso a quello che mi ha detto il comandante. Dobbiamo recuperare il pezzo
e l'astronauta. Perché? Perché potrebbero essere ugualmente importanti. Se il nemico si è
disturbato a portarsi a spalle questo individuo vuol dire che ha capito qualcosa che noi non
abbiamo ancora capito. Quest'uomo è molto importante. Quindi non possiamo abbandonarlo qui,
senz'acqua morirebbe in un paio di giorni ».
«Ma la spedizione principale è dietro di noi di un giorno, no? Di acqua ne abbiamo a
malapena per noi».
Fineri liquida il problema con un cenno della mano. «Qui ne scorre in abbondanza, siamo in
una posizione di relativo vantaggio. E i soccorsi potrebbero aver avuto i loro contrattempi. La
cosa migliore, secondo me, è aspettare».
Ovunque Haria posi lo sguardo vede solo terra bianca. I dintorni sono più deserti dello spazio
nero e così polverosi da far tossire anche l'anima. Il cielo, enorme su di loro, non è turbato dal
minimo rumore. Sono parecchio lontani da casa lì. E le sembra una follia aspettare, le pare molto
più sicuro battersela a rotta di collo. «Ma… e se tornano?»
«Vado a cercare un nascondiglio tra quelle gole, tu non toccare niente. Soprattutto stai
lontana dai selvaggi, anche se sono legati».
Haria sospira, ma non trova nulla da ribattere. Non ha nessun appiglio logico per difendere la
sua tesi, fuga a gambe levate e Fineri sembra davvero così sicuro.
Si ravvia un ciuffo dietro l'orecchio e si dirige verso il tubo opaco.
Il metallo splende al sole, è satinato, con una finitura porosa. Le estremità del tubo sono in
leggero rilievo, come se fossero due tappi, avvitati al cilindro principale. Si avvicina con gli
occhi al talloncino, per leggere la scritta. Dice:
'Temperatura utilizzo: 74 – 410 F. I cartorifici di Sinopoli ringraziano il nostro Pastore per
averci conferito di costruire il contenitore della verga di Saar'.
Haria non ha idea di dove sia Sinopoli o chi sia Saar. Il significato di quella scritta è piuttosto
oscuro, sembra un oggetto quasi religioso.
Accanto a questo talloncino vi è un rettangolo nero, di plastica lucida, incastonato nel
metallo.
Non toccare niente, ha detto lui. Al momento sembra una buona idea.
Haria si avvicina con il naso all'oggetto per osservarlo da vicino. Il pezzo di plastica è
levigato come la superficie di una tazza colma d'olio e i bordi annegano nel metallo con una
precisione micrometrica. Osserva il tubo per lungo. È dritto come una spada e non presenta il
minimo rilievo o scalfittura.
Sì, i cartorifici di Sinopoli possono essere orgogliosi. Ma contenitore, per cosa? E poi se c'è
un contenitore, dove esserci anche un contenuto.
Un sospiro sfugge all'uomo più anziano. Haria si stacca a malincuore dal cilindro e si porta
verso di lui.
I lunghi capelli candidi giacciono scomposti al suolo. Fineri gli ha legato le mani dietro la
schiena e così l'uomo non riesce a tirarsi a sedere. Si muove con movimenti a scatti, come se
stesse compiendo una fatica immane. Ha gli occhi socchiusi. Guarda Haria con un sguardo vacuo
e opaco, ma non dice nulla.
«Vecchio», lo interpella Haria. «Non vogliamo farvi del male», almeno lei no di certo. «Cosa
è successo qui?»
L'uomo smette per un attimo di agitarsi e la fissa con i suoi occhi di carboncino.
«Chi sei?», alla fine biascica.
«Sono la ricercatrice, della Città. Ci siamo già incontrati, l'altro ieri sulla collina, ricordi?»
«Uhhhnnn…», il vecchio lascia cadere la testa all'indietro, sul terreno.
Haria decide che non sembra così pericoloso e si avvicina ancora. Si inginocchia accanto a
lui e gli sorregge il capo.
«Cosa è successo qui, dimmelo per favore. Forse è importante che io lo sappia, no?»
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«Haria», Fineri la chiama con la sua voce squillante, facendola sobbalzare. È a pochi metri
da lei, di ritorno dalla sua ricognizione. «Sai che uno di questi tizi era stato fatto prigioniero, una
volta. Sussurrava sempre e, alla fine un soldato si era avvicinato per sentire. Il selvaggio gli ha
staccato il naso con un solo morso. Se ti dico di non avvicinarti, non avvicinarti, per favore».
Haria lo lascia andare. «È solo una storia. Qui è successo qualcosa e dobbiamo cercare di
scoprire cosa».
«Ok. Però adesso mettiamoci al riparo. Ho trovato il posto che fa al caso nostro. È un po'
impervio, quindi mi dovrai aiutare a trasportarli, uno alla volta».
Haria afferra le caviglie della giovane e Fineri la prende per le ascelle. Ha gli occhi chiusi ed
è inerte nelle loro mani. Si inerpicano su per la salita e Fineri la guida sotto i cespugli. I rami le
sferzano il viso, ma non può proteggersi, avendo le mani impegnate nel trasporto.
«È qui» dice Fineri. «Arrampicandosi là in cima», indica con il mento la sommità di un
pietrone, «vi è una buona visibilità. Andiamo a prendere gli altri».
E così ridiscendono e risalgono per portare i loro ospiti. A ogni giro Haria affonda sempre
più in un mare di cupo dolore. Le persone sono pesanti e le colline ripide. Quando posano il
vecchio a terra nello spiazzo, Haria s'accascia, abbandonandosi su un fianco. Ha le ginocchia e le
caviglie sbucciate da quelle rocce aguzze.
Fineri le tende la mano, con un debole sorriso. Anch'egli deve essere allo stremo delle forze.
Scendono così per l'ultima volta la china. Fineri agguanta il morto per gli stracci e lo trascina
all'ombra di un cespuglio. Prende poi a raccogliere dei massi, per ammonticchiarglieli sopra.
Haria appoggia la mano sul cilindro. È tiepido. Prova ad alzarlo con una sola mano, ma non
riesce a spostarlo. Facendo leva con entrambe le braccia riesce a caricarselo. Pesa quanto un
sacco di cemento.
Un piede dietro l'altro, si avvia ancora su per la collina. Ogni passo è un tormento e a metà
della salita deve fermarsi. Le ombre del mezzo-tramonto hanno lasciato posto all'oscurità della
notte.
È la direzione giusta?
«Ehi», sente sussurrare. Il cuore le balza in petto, ma è solo Fineri, che l'ha raggiunta.
«Ancora qui sei?»
«È pesantissimo», risponde lei. Comunque Fineri prende l'oggetto da un capo e lei dall'altro,
e riescono a raggiungere il loro rifugio.
Haria si stende a terra rannicchiandosi nel suo dolore. Forse Fineri le butta sopra un telo,
mentre scivola in un sonno ottuso e profondo.
«Acqua».
Haria schiude gli occhi. Vi è una debole luminosità, anche se lì, nel fitto del fogliame, le
ombre sono ancora lunghe.
«Acqua, ti prego».
Si rizza a sedere e conta le persone stese a terra. Fineri non c'è. Il vecchio socchiude le labbra
e rantola ancora «Acqua».
Dove si è cacciato Fineri? Prende la borraccia e la scuote. Ancora un paio di sorsi, poi si
dovranno servire delle polle della zona, sperando che siano potabili.
Si avvicina all'uomo, non troppo, come le ha detto Fineri e gli sporge il contenitore. L'uomo
apre un po' gli occhi e la guarda con sguardo assente.
Idiota, pensa Haria, ha le mani legate dietro la schiena.
Si avvicina ancora un po' e, prendendolo per una spalla lo rizza a sedere. Si accerta che abbia
la stabilità necessaria e gli accosta la borraccia alla bocca. Ha la pelle del viso piena di polvere,
le labbra crepate per l'arsura. Ingolla tre avidi sorsi.
«Grazie» mormora. E poi, «Devo pisciare».
Già. Anche lei, effettivamente. «Aspetta un attimo», risponde Haria.
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Deve trovare Fineri. Ha detto che dal masso qui in cima c'è una visuale decente. Haria gira
un po' intorno alla roccia, sino a trovare un appiglio. Un piede dopo l'altro riesce a issarsi di
qualche metro, rompendosi nel frattempo un'unghia.
Di Fineri in cima al masso non vi è traccia. Sale comunque su, per dare un'occhiata nei
dintorni. Il vento soffia leggero, portando un odore secco e fresco, di montagna. Le cime dei
cespugli ondeggiano tranquille e non vi è il minimo segno di movimento o di pericolo. Haria
tende l'orecchio, ma si ode solo lo stormire dei rami e il sussurrare dei ruscelletti che traversano
quella terra.
Torna al loro piccolo accampamento e di Fineri neanche l'ombra. Stizzita, si rivolge
all'uomo, «Va bene. Io non posso slegarti, per cui dovremo arrangiarci. Riesci a camminare?»
«Forse. Però di sicuro non con questi», si indica con gli occhi i piedi.
Fineri ha stretto un legaccio anche attorno alle sue caviglie.
Haria si inginocchia accanto a lui e inizia a sciogliere il nodo. Suda freddo. Liberare i piedi di
quell'uomo può essere un'imprudenza. Può mettersi a scalciare come un matto, o lanciarsi in una
corsa disperata. Decide di riannodarlo tenendo mezzo metro di spago tra le caviglie.
Finita quell'operazione lo tira con tutte le sue forze sino a rizzarlo in piedi, in un equilibrio
piuttosto instabile, in verità. Altroché scappare, è già tanto se riesce a fare quattro passi.
«Dai», dice Haria, infilandogli un braccio sotto l'ascella. È uno spilungone e non è semplice
aiutarlo. Fanno passi piccolissimi eppure lui piega le ginocchia a ogni appoggio.
Dopo due o tre metri Haria è già in un bagno di sudore. Può andare bene lì. C'è un alberello
con i rami un pochino più radi e Haria spinge l'uomo ad appoggiarsi a quel tronco.
«Aspetta», ansima. Per certo non ha nessuna voglia di reggerglielo mentre piscia, e non può
sciogliergli le mani, quindi deve scegliere la strada più faticosa.
Gli scosta la palandrana sudicia che porta, sotto ha un paio di pantaloni di fibra spessa e
cruda, sostenuti da un legaccio in vita. Haria si affanna a sciogliere il legaccio e gli cala le brache
alla bell'e meglio. Non porta mutande. Lei arriccia il naso, non è che sia proprio profumo quello
che si sente. L'uomo mugola qualcosa, poi cerca di inarcare la schiena, e infine inizia il suo
dovere.
«Come ti chiami?» chiede il vecchio, mentre lei è inginocchiata a rivestirlo. Un'operazione
ancora peggiore della precedente, visto che la mira non è stata perfetta.
«Haria Gillia. E tu?»
«Chiamami Sariso. Sei gentile Hariagillia».
«Uh, grazie. Vieni», Haria lo prende sottobraccio e lo trascina a sedersi vicino agli altri.
«Hariagillia, dovresti dare un'occhiata anche agli altri tuoi prigionieri», suggerisce l'uomo.
«Chiamami Haria e basta. Cosa dovrei fare secondo te?» . Haria si sente la testa vuota come
una brocca. Le questioni pratiche non sono mai state il suo forte.
«Beh, un corpo senza acqua muore. Dovresti cercare di farli bere un poco. Magari farli
mangiare qualcosa».
«Cosa vi è successo? Perché il vostro compagno è morto e voi siete così malmessi?»
«Ci sarà modo per rispondere alle vostre domande. Non perdere altro tempo adesso, prima
che la vita abbandoni quei due corpi, ascolta un vecchio», l'uomo strascica le parole come se le
avesse spalmate sulla lingua.
In effetti far morire il primo terrestre che mette piede su Promise da trecento e passa anni a
quella parte, non sembra una mossa particolarmente sagace. Haria si dedica quindi all'astronauta,
guardandolo per la prima volta con attenzione. Ha un viso scavato, pieno di rughe. I capelli sono
castani, con alcuni fili di grigio. Sembra pazzescamente vecchio, ha una pelle diafana e piena di
macchie. Però i capelli ancora del colore naturale e le labbra piene ne rendono indecifrabile l'età.
Deve essere un effetto del sonno freddo.
Pare glabro e sotto la pelle grinzosa ha lineamenti delicati. Un dubbio fulmina Haria: gli
tocca l'inguine. È una donna. Quella tuta flaccida, i capelli corti e la sua estrema magrezza li
hanno ingannati.
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Nella borraccia vi è ancora un sorso d'acqua. Con tutta la delicatezza che le riesce, le prende
la testa e la reclina all'indietro. Cerca di schiuderle le labbra, ma ha i denti serrati.
«Harris», prova a chiamarla, ma lei non reagisce.
Riesce infine a farle scendere alcune gocce in gola. Attende per qualche istante, sino a che la
vede muovere la trachea per deglutire.
Ripete l'operazione, sino a quando non esaurisce la scorta d'acqua nella borraccia. Le
appoggia il capo al suolo. La tuta che indossa è di un materiale a lei alieno, lucido e poroso allo
stesso tempo. Come se avessero colato olio su una spugna a grana finissima, ma la superficie al
tocco è calda e gommosa. Una cerniera nera le attraversa il petto e Haria decise di vedere come è
fatta la terrestre, giusto per essere sicuri che nel frattempo sulla Terra non si siano inventati le
branchie e che bisogni metterla sott'acqua per farla respirare.
Apre la cerniera, sotto il suo corpo è avvolto in un tessuto bianco, sottile come una calza.
Non vi è nessun segreto celato dentro quella tuta, nessuna arma o marchingegno. Il tessuto è
molto spesso, forse per tenere il calore, e ha nascosto bene l'estrema magrezza della sua
occupante: le si possono contare tutte le costole e le ossa del bacino. Le infila una mano intorno
al braccio e il bicipite le sta tra il pollice e l'indice.
Richiude la tuta. Quella donna sta morendo, ha urgente bisogno di assistenza medica.
«È debole, vero?», mormora l'uomo.
«Già. Spero che presto arrivino i rinforzi, sennò mi sa che è spacciata».
«Devi cercare di introdurle in bocca del cibo».
«Adesso ci provo», Haria sospira. Ci mancava pure quella, nutrizione forzata non l'ha
studiata all'Università.
«Prima puoi controllare mia nipote, Kyra. Sono molto preoccupato per lei», si lagna Sariso.
«Chi, quella?», Haria si volta verso di lui come se l'avesse punta con uno spillo. «Quella che
voleva mandarmi al creatore appena due giorni fa? Quella Kyra che mi ha spaccato una
costola?»
«Ti prego. Avevate appena ucciso suo fratello».
«Io non avevo ucciso proprio nessuno. Ero troppo impegnata a ripararmi dalle vostre frecce»,
sibila Haria, tra i denti.
«Per favore, ti supplico», il vecchio sfodera il suo tono più compassionevole, accompagnato
da occhi lucidi e tremolio del labbro. «È solo una ragazza, avrà pochi anni più di te».
Haria si avvia di malavoglia verso la guerriera. Sembra ancora svenuta. Le alza la palpebra.
Una lieve contrazione della pupilla.
«Comunque non ho più acqua, devo cercarne altra».
Haria si porta ai piedi del vecchio e fa un nodo tra le caviglie dell'uomo in modo da
impedirgli di fuggire. Quindi si dirige verso i cespugli, per cercare il ruscello più vicino.
Tau Ceti dove ancora sorgere da Alcione, ma la luce della mezz'alba è già sufficiente a
muoversi con disinvoltura. Scende giù da un costone, dove le pare di ricordare di aver visto un
corso d'acqua.
«Ssst» si sente chiamare. Tira su il capo. A una ventina di metri scorse la sagoma di un
uomo. Fineri.
Haria attende che lui copra la breve distanza. «Dove…» inizia, ma lui la interrompe.
«Che ci fai in giro? Perché non stai con i prigionieri?»
Haria stringe le labbra e non risponde. L'ha lasciata sola, e lei odia stare da sola.
Fineri guarda di lato, poi si gira di nuovo verso di lei e le sorride. Un po' tirato per la verità,
ma meglio di prima. «Ok, ok. Tutto bene?»
«Certo. Davvero gentile da parte tua sparire, lasciandomi addormentata con due selvaggi nei
pressi, desiderosi di farmi la pelle. Potevi svegliarmi», ribadisce Haria, piccata.
«Scusa, ma volevo controllare i dintorni. Mi innervosisce starmene lì nascosto senza sapere
cosa succede in giro. Mi sono allontanato solo per una mezz'oretta».
«Sono venuta a prendere un po' d'acqua. Dobbiamo anche dare da mangiare ai prigionieri».
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«In questa stagione i ceci non producono ancora. Però abbiamo ancora un po' di gallette».
Fineri si guarda i piedi. Poi aggiunge «Comunque i nostri gentili ospiti possono anche tirare la
cinghia, un paio di giorni resisteranno».
«I due selvaggi, forse. L'astronauta non credo. È magrissima. A proposito, è una donna», lo
informa Haria.
«Caspita, delle vere bellezze dalla Terra. Manco riusciamo a distinguerle dagli uomini», i
denti gli lampeggiano magnetici tra le labbra.
«Cretino. Hai trovato qualcosa?»
«Niente. Dobbiamo torchiare i selvaggi, c'è qualcosa in questa storia che non mi torna».
Indugia ancora un minuto con lo sguardo nei suoi occhi, poi si dirige verso le rocce più in
alto.
Haria si sente le gambe molli, se Fineri continua così lei muore di fame prima che arrivino i
rinforzi. E non è fame da cibo.
Si tocca la scatolina in tasca, piena di psicocole. Oggi la giornata sembra tranquilla. Però
sono in una situazione troppo rischiosa, è meglio stare con le antenne dritte. Anche se…
Gratta con l'unghia il contenitore dei desideri. Dopotutto che devono fare, se non stare lì ad
aspettare? No, adesso no. Stasera. E giunta a quel compromesso si rimette alla ricerca del corso
d'acqua.
Le ore trascorrono senza grosse emozioni. Haria ha cercato di far trangugiare qualcosa alla
terrestre, ma è riuscita a spingerle in bocca solo qualche briciola di frumento dopo averla
inzuppata nell'acqua. La ragazza guerriera è ancora soporosa però, dopo averla fatta bere, ha
emesso un sospiro lamentoso. Non molto su cui sperare, ma forse si sta un pochino riprendendo.
Il vecchio al contrario è stato sottoposto al continuo interrogatorio di Fineri.
La routine della giornata è stata snervante. Fineri sveglia il vecchio con degli schiaffi sul
viso, o spruzzandogli in faccia un po' d'acqua. Inizia le domande, prima gentile, poi arrogante,
poi ancora gentile. Quell'altro risponde a monosillabi e sospiri, così lui minaccia, poi blandisce,
poi prega e quindi minaccia ancora. Quando il selvaggio scivola di nuovo nel torpore, Fineri gli
da un calcio, o una sberla sulla testa, si alza come una furia e le dice che va a fare una
ricognizione, tutto torvo.
Stessa scena per tre o quattro volte. Tau Ceti ha compiuto tutto il giro del cielo, il vecchio ha
fatto il pieno di ceffoni e loro non hanno guadagnato un centimetro sulla strada della conoscenza
di quanto è successo.
Inoltre tutta quella aggressività rende Fineri inavvicinabile. Ad Haria piacerebbe che lui
l'abbracciasse almeno una volta, per darle un indizio che dormire stretti l'uno accanto all'altra,
sull'altopiano, ha significato qualcosa anche per lui.
Fineri è il tipo di ragazzo che lei mai si sarebbe immaginata di desiderare. È così sicuro di sé,
così deciso. Ben diverso da Khalio, con le sue paranoie e i suoi giochetti. Khalio è un
manipolatore, Haria sa che in fondo in fondo è una presenza negativa nella sua vita. Non sa dire
se lui l'ami o meno. A volte le pare che sia così superiore che gli schemi normali non si debbano
applicare ai suoi comportamenti e alla loro relazione. Altre volte lo detesta e basta, per le
umiliazioni a cui la sottopone, mai lei è schiava della sua mente brillante e contorta.
Fineri invece dà l'idea di uno che difenderebbe la sua donna davanti a tutti, e che la
metterebbe su un piedistallo. Molto convenzionale forse, ma Dio solo sa quanto senta il bisogno
di una relazione del genere. Giusto per disintossicarsi un po' da Khalio e dal suo mondo
perverso.
Alla fine della giornata, proprio quando sta cercando in tasca la sua agognata pillolina, Fineri
torna dall'ennesima ricognizione e le batte sulla spalla, con un tocco delicato.
«Vieni?» dice.
Haria lo segue attraverso gli arbusti sino a quando lui le fa segno di sedersi in un piccolo
spiazzo.
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È un posto strategico, poiché sono ancora coperti dai cespugli e possono tenere d'occhio i
loro prigionieri, nonostante siano a una ventina di metri da loro.
«La cena», Fineri tira fuori dalla tasca che ha sul davanti del giubbotto tre piccole
barbabietole.
«Wow, dove le hai trovate?»
«Ce ne sono parecchie sulla cresta di una collina, là dietro». Abbassa il tono della voce di
una tacca «Ti ho fatta venire qui perché volevo parlarti e non mi va che sentano. Il vecchio
stasera sembra esausto, ma non mi fido di quel volpone e tanto meno dell'amica sua».
«Certo. Dimmi», Haria piega la testa e le esce un timbro roco. Le vorrà confessare qualcosa
sul loro rapporto. Che ancora non esiste, ma che domani, chissà.
Fineri alza un sopracciglio «Volevo solo chiederti come vedi il nostro ritrovamento».
«Ah, certo», scema cubica, che si credeva? Sente le guance avvamparle, ma per fortuna è già
parecchio scuro. «Beh, l'enigma è l'oggetto tubiforme. Diciamo che non sarebbe la primissima
cosa che mi verrebbe in mente di prendere da un'astronave appena atterrata».
«E perché allora hanno scelto di portarlo via?», Fineri giocherella con le stringhe della
giacchetta.
«Deve esserci stato qualcosa che ha attirato la loro attenzione in quel tubo. Credo che quella
donna, l'astronauta, abbia avuto un ruolo in tutto questo». Haria cerca di concentrarsi sugli
eventi. E di scacciare i pensieri maliziosi, su quelle dita forti e nodose.
«Dici che è dalla loro parte?», chiede lui.
«Frena. I terrestri non ne sanno nulla di come sono andate le cose qui. Loro hanno spedito
novemila scienziati secoli fa e, forse, hanno ricevuto una sola trasmissione, inviata dal vettore
che ci ha trasportati, che ha indicato loro che il carico è arrivato a destinazione. E non ne siamo
nemmeno sicuri. Poi non siamo mai riusciti a far funzionare l'Antenna a terra, quindi loro sono
completamente ignari di come vadano le cose qui».
«Ok, ok, però riprendiamo questo ragionamento». Fineri cerca le parole per qualche secondo,
come se dovesse recuperare un'àncora perduta nelle profondità del mare. Poi prova a ipotizzare
«Diciamo che la donna terrestre è arrivata sul pianeta e nulla ne sa del Direttorio, della Città.
Però perché atterrare così lontano?»
«Possono esserci mille ragioni. Innanzitutto i terrestri della morfologia di Promise conoscono
assai poco. Le uniche notizie attendibili sono quelle che mandò Invictus, ma stiamo parlando di
quasi cinquecento anni fa. La loro nave potrebbe aver sbagliato le coordinate, o aver avuto un
malfunzionamento in fase di discesa. Inoltre», Haria conta un secondo punto sulle dita,
«potrebbe anche essere stata una scelta».
«Che cazzo di scelta è attraversare un milione di un miliardo di chilometri e andare a stare un
pochino più in là di dove ci sono i tuoi fratelli, lanciati nello spazio secoli prima?»
«Non sappiamo come ragionano i terrestri», Haria teme che un secolo di barbarie abbia
ottuso le loro capacità di ragionamento. Però qualche affinità, nel profondo, deve ancora esserci..
«Magari temono un'epidemia. Cos'è che può provocare la morte di massa di novemila persone?
Un virus? A me l'idea di mandare cinque persone qui sa tanto di mossa disperata. Dato il nostro
silenzio in tutti questi anni, non credo si aspettassero di trovare una civiltà ad accoglierli. Devono
essere un avamposto di un atterraggio di massa. Per sondare il terreno».
«Quindi secondo te sta per arrivare il grosso?», il ragazzo sembra avere un punto
interrogativo disegnato in mezzo agli occhi.
«Che senso ha mandare cinque persone? Perché devono preparare la strada per qualcun altro,
ovvio».
«Ehi», Fineri si alza in piedi. «Ma questo è… è fantastico», gli occhi gli brillano.
«Certo che lo è. Ma ci pensi, se arrivassero qui i terrestri, con le loro tecnologie. A noi
sembrerebbero magiche: l'energia elettrica, poter vedere e lavorare anche in piena notte, poter
comunicare all'istante a distanza. Vivere talmente a lungo con le loro terapie mediche da stufarsi
della vita stessa».
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«Già. Però restiamo concentrati sul problema». Fineri si siede di nuovo di fronte a lei. «I
cinque sono in avanscoperta e la prima cosa che vedono sono i selvaggi. E che fanno?
Consegnano loro il tubo?»
«Tu corri troppo», puntualizza Haria. «Innanzitutto c'è un'anomalia. I cinque non sono in
cinque. Quattro dormono per certo e la quinta non sappiamo. Io credo che sia sveglia, perché non
penso che la nave si sia aperta da sola».
«Mmh, ok. Continua».
«La donna decide di fare entrare i selvaggi», prova Haria. «È allo stremo delle forze. La
domanda è: perché non ha svegliato i suoi compagni? Perché invece ha preferito aprire la porta
ai selvaggi?»
«L'hanno convinta, raccontandole delle balle colossali?», Fineri si gratta la testa, perplesso.
«Possibile. Però io penso che le persone scelte per questa missione siano delle specie di geni.
Cinque persone selezionate su una popolazione di miliardi di individui. Devono essere speciali,
unici, terribilmente intelligenti. Mi sembra strano che uno sia in grado di progettare un viaggio
del genere, per poi farsi fregare da quattro straccioni. E comunque non ha motivo di non
svegliare i suoi compagni».
«Però», Fineri porta avanti un dito a sostegno della sua obiezione, «tu dici che la donna è
arrivata allo stremo delle forze. Io ragiono in termini di logistica di missione. La prima cosa sono
sempre i rifornimenti. Vuol dire che qualcosa non ha funzionato, se questa donna non aveva a
sufficienza da mangiare. Qualcosa è andato storto».
«Giustissima osservazione», Haria alza l'indice e va a toccare per scherzo il suo polpastrello,
teso nel vuoto. «Qualcosa è andato storto. Forse lei aveva bisogno di aiuto urgente. Non aveva
più cibo, magari l'aveva finito da giorni, così non ha avuto altra scelta che aprire subito il
portello».
«E non ha svegliato gli altri per non avere altre bocche da sfamare». Fineri sta al gioco e
spinge l'indice contro il suo.
«Possibile. Fineri, mi piace la tua teoria. Ma com'è che ti chiamano i tuoi compagni? Non hai
un nome di battaglia? Posso chiamarti con un nomignolo. Finn? O con il tuo primo nome?»
Lui si mette a ridere. «Non lo fa nessuno, tutti mi chiamano Fineri. Se inizi a chiamarmi in
un altro modo, gli altri della truppa mi prenderanno per il culo a vita, penseranno chissà che».
Haria deglutisce a secco e non aggiunge nulla, mentre avverte i denti serrarsi sempre più,
fino a stridere tra loro. Ritira il suo ditino in buon ordine.
«Senti, Haria, non intendevo quello».
«Vado a dormire». Haria si alza e spazza la polvere dai pantaloni, con movimenti così rigidi
che le sembra di essere il manico di una zappa.
«Haria, ascolta».
«Non c'è problema. Davvero», tenta di fare un sorriso, ma ha l'impressione che le esca una
smorfia.
«Ehi». Il soldato si alza in piedi e allunga una mano per appoggiargliela sul braccio, ma lei si
ritrae.
«Haria, scusa non intendevo quello che hai capito. È solo che tu non sai come funzionano le
cose nell'esercito, è come essere all'asilo. Tu mi piaci, davvero».
«Senti, facciamo così. Ne riparliamo quando siamo fuori da questo casino, ok?»
«Va bene. Io…»
Ma lei gli volge le spalle e si avvia verso il masso presso cui riposano i loro prigionieri. Si
prende il suo telo senza guardarsi indietro e si raggomitola il più possibile. Sente qualcosa
bagnarle una guancia.
Solo una stupida come lei può piangere per una cosa del genere. Dovrebbe compatirsi per la
sua stupidità, perché non riesce mai a capire quello che le succede intorno. Come poteva pensare
che lui fosse davvero interessato a lei? Che lui fosse davvero quello giusto per dimenticare
qualcuna delle sue miserie?
Però, proprio mentre quel chiodo le fruga nel cuore, un corpo si stende vicino a lei.
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«Posso stare qui con te?», dice lui.
«Uh, sì».
«E posso abbracciarti Haria?»
«Sì, per favore».
Il suo braccio la cinge, mentre il suo petto si alza e si abbassa contro la schiena. Lui affonda
il naso nei suoi capelli, dietro la nuca, scaldandole il collo a ogni respiro.
«Tom. Mia mamma mi chiamava così. Solo lei», le sussurra il soldato.
Forse non si è sbagliata, non di troppo almeno.
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La promozione
Il mattino seguente si svegliano insieme, alle prime luci. Sorrisi e carezze, è da stupidi tenersi
il muso in una situazione del genere, mentre stanno rischiando la vita. E poi la frase infelice del
giorno precedente si è sciolta nella notte, dieci parole cretine, o poco più.
Ha detto che gli piaccio e io gli credo, pensa Haria. A volte anche a lei succede di dire cose
che non pensa al cento per cento.
Si prodigano per dar da bere a tutti i loro ospiti e Haria stavolta riesce a far trangugiare quasi
un'intera galletta alla donna terrestre. Sia lei che la ragazza guerriera si sono sporcate nella notte
e così passano tutta la mezz'alba a pulire deretani. Fineri bestemmia ciascun santo del calendario
per tutto il tempo, ma almeno non interroga oltre Sariso, il vecchio selvaggio. Vedere quel
poveraccio preso a sberle non è un bello spettacolo, e poi quel tizio le ha salvato la vita in
qualche modo.
Non appena Tau Ceti sorge in tutto il suo splendore, Fineri dice che vuole andare a osservare
sulla cima del sasso. Gli pare di aver udito dei rumori in lontananza.
Haria sta riordinando il bivacco, quando un lungo richiamo, seguito da tre "o", secchi e brevi,
risuona dalla roccia sopra di loro, dove poco prima è salito Fineri.
Ode ancora quel segnale, poi Fineri che la chiama, «Haria, Haria. Arrivano».
Scende dalla roccia con un gran sorriso e la stringe convinto. Haria schiaccia il suo corpo
contro i suoi muscoli, pelle contro acciaio, da far bollire il mare.
Nel giro di qualche minuto arrivano i rumori degli uomini, scarponcini chiodati e ferri che
sbattono dentro i foderi. Poi compaiono le avanguardie, quattro uomini, con in testa una
raggiante Gallajio.
«Ehi, soldato», lo apostrofa lei.
Si avvicinano e si abbracciano, battendosi rumorose pacche sulle spalle. Sorrisi e sguardi che
rovistano nel profondo degli occhi uno dell'altro, petto contro petto.
Haria si sforza di non guardarli, non vuole sembrare stupida, ma è davvero difficile non
notare il loro entusiasmo e soprattutto quanto gli occhi di Fineri brillino.
Non potrà mai competere con una così. Questa considerazione la fa precipitare nello
sconforto, sembra che il mondo sia diventato di una tonalità più buia. Le viene una gran voglia di
farsi una psicocola.
D'altronde che senso ha stare così male, quando con una sola, singola pillolina può essere di
nuovo splendida? Sorride e si caccia una mano in tasca.
In quel mentre dalla collina emerge il comandante Gianhosi. Accanto a lui sciamano i
soldati, Haria non ne ha mai visti tanti tutti insieme. Devono aver chiamato anche i riservisti, si
domanda se nella caserma in Città ci sia ancora qualcuno.
«Fineri, ottimo lavoro», abbaia il comandante Gianhosi.
Il soldato si impettisce e dichiara: «Il pezzo dell'astronave terrestre è stato recuperato,
signore, e anche l'astronauta. Le sue condizioni sono critiche, anche se non sembra ferita. Non
cammina e non è cosciente. Due nemici catturati, uno caduto».
«Non c'era un quinto soggetto?»
«Nessuna informazione, signore».
«Dottoressa», Gianhosi si rivolge verso di lei, muovendo un passo nella sua direzione. «Stai
bene?»
«Sì certo. Grazie comandante».
«È stato difficile sopraffare il nemico?», chiede Gianhosi.
Haria guarda Fineri, che però ha gli occhi fissi all'orizzonte.
«Beh, no, in realtà era successo loro qualcosa, erano già tutti K.O. quando siamo arrivati».
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Gianhosi sporge il mento verso Fineri «Sei un soldato fortunato. Mentre torniamo indietro mi
dovrai raccontare per bene com'è andata».
«Certo comandante», risponde lui.
Gianhosi continua, rivolgendosi ad Haria, «L'astronave è sotto il nostro controllo e ora
abbiamo recuperato anche il pezzo mancante. Lo porteremo alla nave, per dirigerci in Città con
un convoglio il più possibile nutrito. Non sono stati previsti consulenti scientifici nella missione
di supporto, Phinner è caduto, quindi tu sei il membro scientifico di riferimento».
«Ah, grazie».
«Accertati che il manufatto sia trasportato e custodito in modo consono. Gallajio!»
La donna soldato fa due passi avanti, «Signore?»
«Assegna due uomini alla dottoressa, per il trasporto del pezzo».
«Sissignore. Dottoressa, vieni con me».
E così Haria si trova a seguire Gallajio, alla ricerca dei due soldati più scarsi di tutto il
contingente. Alla fine Gallajio recupera un uomo di mezz'età e una ragazzina, che sembra ancora
più giovane di lei.
Haria li porta presso il tubo e spiega loro, «È molto pesante. Ritengo che in qualche misura
sia delicato, quindi cercate di non fargli prendere colpi. L'unico punto al quale vi consiglio di
fare attenzione è quel rettangolo nero lucido, che vi è sul fianco, vicino al bordo. Se il tubo vibra,
inizia a fare rumori, qualsiasi cosa, chiamatemi. Ok?»
«Sissignore», dicono i due, facendola un po' sorridere.
Fa due passi più in là, si gira verso la valle come per studiare il panorama e prende una
pastiglia dalla scatolina. Proprio mentre se la sta ficcando in bocca, nota che il vecchio straccione
la sta fissando.
Mica sarà il tipo da andare a spifferare una cosa del genere? E poi lei è il membro scientifico
di riferimento, chi può dubitare della sua parola contro quella di un prigioniero? Ma sì, può
essere di tutto, un antidolorifico, qualsiasi cosa.
Il familiare sapore amarognolo le invade la bocca e subito le calma il respiro. Ancora qualche
minuto e sarà in botta piena e al diavolo Fineri, Gallajio e le sue paranoie.
Un paio di giorni dopo raggiungono il sito dell'atterraggio. Sul posto sono sopraggiunti così
tanti soldati che è tutto un brulicare di persone e di attività. Vi è un perimetro di sentinelle con un
raggio di un chilometro almeno dall'astronave e un secondo perimetro più interno.
Vicino all'astronave i soldati stanno costruendo una gigantesca slitta per trasportare la
navetta. I soldati dovranno spingere l'astronave sino in Città, ma le braccia non mancano.
Hanno inoltre montato tende e tendoni come loro alloggi, e una robusta cucina da campo
fuma ai margini dell'insediamento.
Quattro soldati sorvegliano il cumulo di approvvigionamenti ammonticchiato nell'area del
refettorio. Le provviste alimentari sono un incubo su Promise, non vi sono animali allo stato
libero e le piante selvatiche producono pochissimi frutti, essendo impegnate più che altro a
sopravvivere. Quando ci si sposta bisogna portarsi il panino da casa.
Gianhosi è accolto con salve di esultanza e Fineri non la finisce più di stringere mani e
ricevere complimenti per l'esito brillante della missione.
Haria è condotta insieme al suo tubo in una piccola tenda chiara, eretta a pochi metri
dall'astronave. È tessuta con fibra di frumento e cerata a dovere, per resistere alle piogge.
All'interno della tenda cinque sedie vegliano un tavolo di legno chiaro. Su un altro tavolo da
lavoro troneggia un microscopio immacolato. Deve venire dal Direttorio, poiché lei conosce
bene i due microscopi dell'Università e sono molto più consunti di quell'esemplare, che sembra
costruito per l'occasione.
C'è anche uno scaffale, vuoto. Nel compartimento inferiore qualcuno ha buttato il suo zaino e
quello del professor Phinner, con il loro prezioso contenuto di libri. Su quello di Phinner vi è una
macchia, vicino allo spallaccio. Le viene una pesantezza allo stomaco, come un boccone troppo
grande per poter essere digerito.
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«Appoggiatelo lì, su quello scaffale», dice ai suoi due accompagnatori, latori del prezioso
tubo.
Un lembo di tendaggio divide a metà lo spazio interno. Haria si avventura nella stanza
posteriore, dove vi è un telo militare steso a terra e coperte ruvide. Il suo giaciglio.
Torna nell'altra stanza. I soldati l'hanno lasciata sola. E adesso? L'unico strumento di cui
dispone è il microscopio, forse non quello che lei avrebbe scelto per esaminare un'astronave
grande quanto una casa.
Stende una coperta marrone sul tavolo da lavoro. Afferra il tubo e lo appoggia sopra, con
tutta la delicatezza possibile. Lo riesamina con più calma. Saggia con la mano i tondini ai lati,
cercando di girarli in un senso o nell'altro. Niente, paiono saldati alla struttura.
Fa un sospiro e si dedica allo schermo nero. Appoggia il dito al centro del rettangolo. Una
debole luce blu compare sotto il suo polpastrello.
Haria lo ritrae sorpresa. La luce svanisce non appena lei lascia il contatto. Riprova la
procedura. La luce si ripresenta fedele.
Certo che i terrestri conoscono più trucchi di un mago da circo. È ovvio che non basta un
tocco per attivarlo. Sennò accidentalmente qualcuno potrebbe accenderlo. Prova a pigiare
ancora. Compie un cerchio con il dito. Niente.
Haria si gratta la testa. Forse bisogna rimetterlo al suo posto sulla nave.
Deve ragionare come un terrestre. Hanno mandato una navicella spaziale su un mondo
lontano, del quale non hanno notizie. Perché non prevedere direttive, di modo che qualsiasi
sopravvissuto su questo avamposto remoto possa in qualche modo utilizzarla? Giusto in caso
qualcosa vada storto e le persone che hai mandato non siano in grado di prendere il controllo.
Forse perché sanno già che, senza quelle persone, nessuno sarebbe in grado di far funzionare
quella nave, progettata in un'altra epoca rispetto alle tecnologie note ai novemila, con chissà
quali diavolerie. Forse perché se gli astronauti non si svegliano la missione non può che fallire.
Le viene in mente un libro che ha scorso tempo fa. Si reca agli zaini e cerca il volume in
questione.
È un trattato dalla rigida rilegatura bruna, di medicina, una materia che lei ha studiato poco.
Un testo ostico, che dà per scontate conoscenze ormai perdute nel tempo.
Quando il reattore aveva cessato di funzionare si era cercato in ogni modo di recuperare
l'energia sufficiente per lo meno ad accedere alle memorie di massa, in modo da poter salvare le
informazioni contenute nell'immensa biblioteca di bordo. Quel compito però si era scontrato con
la scarsità di legna da ardere per alimentare la caldaia a vapore, e con la vastità delle
informazioni da portare in salvo. Vi erano milioni di volumi digitalizzati, perché si era ritenuto di
attrezzare i coloni con tutto lo scibile umano. Si trattava quindi di scegliere i testi più
rappresentativi e di estrarne i passi salienti per riportarli su carta. All'epoca i Promisiani erano
ancora scienziati veri. I criteri da loro usati e le sintesi compiute sui testi, a un centinaio di anni
di distanza, appaiono ora oscuri.
Nel volume in questione vi è un passo a riguardo del sonno freddo. Haria si siede a gambe
incrociate e si immerge nella lettura.
Dopo un paio d'ore deve alzarsi, tutta incriccata, perché non vi è più luce sufficiente.
Animazione sospesa, stasi crio-indotta, percentuali di acido solfidrico, soglia di sangue da
mantenere in circolo, temperatura di non-ritorno. Un turbine di concetti e di numeri si
accavallano nel cervello di Haria.
Un gran mal di testa per capire che se tentassero di aprire quelle bare a forza, senza prima
effettuare le procedure previste dal protocollo, i quattro terrestri schiatterebbero con certezza
quasi assoluta.
Quindi si ritorna al punto di partenza. Si strofina gli occhi a lungo. Ha bisogno di una
passeggiata per schiarirsi le idee. Più che altro ha bisogno di nuove idee.
Esce dalla tenda. Tutti sono impegnati a costruire l'imponente slitta che deve portare la nave.
La maggior parte della struttura è formata da funi di fibra intrecciate, ma renderle resistenti e
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stabili richiede un lavoro estenuante. L'arrivo di quella nave in Città avrebbe portato una sferzata
di novità nella vita dei cittadini. Lei avrebbe trascinato sua madre fuori dal bugigattolo dove si
era rintanata e avrebbe spinto la sua carrozzella fino a farle toccare con mano la superficie
levigata della navicella. Per dimostrarle che qualcosa di buono può sempre succedere, che i
giorni d'oggi possono essere ancora meglio dei fasti pre-Rivolta. Che si può ancora vincere,
anche quando tutto sembra perduto.
Si avvia verso la nave senza un'intenzione precisa, solo per gioire qualche minuto di quella
vista così spettacolare, di quell'oggetto così perfetto e avanzato.
Arrivata lì incontra Gallajio, che le si fa incontro e gracchia «È un po' tardi per andare a
spasso dottoressa. Ti consiglio di rientrare nella tua tenda».
«Non ho sonno. Ho troppe domande che mi frullano nella testa. I prigionieri dove sono?»
«Perché?»
«Devo parlare con loro».
«Io credo che Gianhosi li abbia interrogati tutto il giorno. Non penso che abbiano bisogno di
un'altra ripassata», Gallajio sorride. La cicatrice si piega, sinistra, sulla sua guancia.
«Ma infatti non devo interrogarli, devo parlare con loro. Dov'è Gianhosi?»
Lei la guarda come si guarda un pazzo, poi le fa cenno con la testa di seguirla.
Attraversano un breve spiazzo, allontanandosi dalla nave. Le tende sono montate a schiera,
l'una accanto all'altra, tutte alla stessa distanza. Ogni tre tende vi è un passaggio custodito da una
sentinella con una piccola lampada cieca. L'ultima tenda in fondo è rivolta verso l'astronave. È
più grande delle altre, e non ha le pareti su tutta la sezione anteriore, ma solo la copertura.
Quattro lampade a olio appese ai pali di sostegno, grandi quanto un secchio, illuminano la scena
a giorno.
In quella specie di patio hanno montato un tavolo nero, con sei zampe metalliche, che lo
fanno somigliare a un grande ramo secco.
Gianhosi e altri due uomini hanno dispiegato diverse mappe militari su cui stanno tracciando
degli ipotetici percorsi, servendosi di barrette di legno scuro. Le mappe militari sono una delle
poche cose che i coloni avevano stampato dai loro computer prima dello spegnimento del
reattore e Haria ne ammira le linee delicate, di diversi colori e spessori, con le annotazioni
altimetriche e i disegni precisi ed eleganti.
Gallajio si ferma di colpo, a tre passi di distanza dal gruppo.
«Comandante», gracchia, guardando fisso davanti a sé.
Gianhosi solleva appena lo sguardo dalle carte, mentre gli altri due uomini continuano a
parlare, con una certa animazione. Sono in disaccordo su quale lato di una certa collina prendere.
«Caporale, spero che sia un'emergenza. Vedi che sono impegnato adesso».
«Non è un'emergenza, signore. La dottoressa vuole vedere i prigionieri».
Gianhosi gira attorno al tavolo e si porta di fronte a Gallajio. Haria li osservava, nessuno pare
fare caso a lei, le sembra di essere trasparente.
«Gallajio», sibila Gianhosi, «ma ti sei rincoglionita? Ti sembra che stiamo giocando, qui?
Quali sono i miei ordini?»
«Nessuno si deve avvicinare ai prigionieri, signore».
«E allora eseguili, perdio!» fa per voltarsi, ma Haria lo blocca.
«Comandante. Ti prego, lasciami vedere i prigionieri. Devo chiedere loro una cosa
importante».
«Ho già chiesto io tutto quello che c'è da chiedere a quel vecchio bastardo. E la donna non si
è ancora svegliata».
«Posso vedere il verbale dell'interrogatorio?», chiede Haria.
«Certo. Il verbale dell'interrogatorio è un foglio bianco. Non ha detto una parola. Adesso
posso?», indica con un sorrisino ironico il tavolo, dove gli altri due continuano a discutere.
«Fammi provare. Solo dieci minuti. Mezz'ora al massimo», insiste lei.
50
«Ma che …», borbotta il comandante. Poi si volge verso Gallajio «Va bene. Portala dai
prigionieri, ma voglio che tu stia sempre con lei. Togliti dalle palle», liquidandola con un gesto
della mano.
«Sissignore», si impettisce lei. «Vieni dottoressa».
Gallajio s'incammina su per il corridoio tra le tende.
Va così veloce che Haria deve quasi mettersi a correre per starle dietro. Gallajio borbotta
ogni tanto tra i denti e, quando sono uscite dal perimetro delle tende, scalcia con il suo pesante
stivale chiodato un ciottolo, scagliandolo lontano dal suo furioso incedere.
Compiono un semicerchio attorno alla nave, sino ad arrivare in una zona un poco più elevata.
Si stanno dirigendo verso una lucina, sospesa in lontananza.
A una ventina di metri un soldato le ferma per la parola d'ordine. Sullo spiazzo alle spalle
delle sentinella hanno montato tre lunghi pali, formati da canne di bambù strette tra loro da corde
vegetali. I pali hanno l'estremità superiore unita e le basi più distanti, sino a formare un alto
tripode, con una lanterna appesa all'apice. In mezzo vi sono i due rappresentanti del popolo
libero, catturati da lei e Fineri.
Gallajio scambia qualche pacca amichevole col suo commilitone e attaccano subito a
cianciare. La conversazione presto prende una piega di battute a sfondo sessuale, ma Haria li
lascia volentieri indietro per avvicinarsi ai due prigionieri.
Entrambi hanno i polsi legati a un ceppo piantato nel terreno. La donna è stesa a terra con le
mani sopra la testa, giunte. Ha gli occhi chiusi, con il corpo riverso in una posizione scomposta.
L'uomo è appoggiato al ceppo. Le unghie delle sue mani sono piene di sangue. La palpebra
dell'occhio destro, blu e gonfia come una zucca, gli impedisce di aprirlo. I lunghi capelli candidi
sono impiastrati di croste nere. Gliene hanno anche strappati, lasciandogli la pelle del cranio a
nudo, con mille puntini viola. Ha il labbro inferiore spaccato e sembra respirare a fatica.
Gli hanno tolto la palandrana, quindi solo uno straccio gli difende il torace dal freddo. Le
spalle nude tremano a intermittenza, scuotendogli con violenza le braccia. Alza appena la pupilla
dell'occhio sano, per poi riprendere a fissare il vuoto.
Haria non riesce ad aprire bocca. Vorrebbe correre via da quell'orrore. Sente il cuore pulsarle
sordo nelle tempie e il respiro corto.
Si volta verso i soldati. Vuole chiedere perché, chi è stato, che è sbagliato quello che hanno
fatto. Ma loro continuano a conversare tranquilli e le parole le muoiono in gola.
Per certo Gianhosi non sa quello che è successo. Un ufficiale dell'Esercito, un membro del
Direttorio, che ha giurato sulla bandiera dell'Unione di difendere la Nuova Costituzione, la
Legalità e la Missione.
A ogni anniversario della Rivolta, in Città si radunano i membri dell'esercito per la loro
parata. Sfilano per la via principale e si schierano di fronte ai muti tralicci dell'Antenna, il
monumento al fallimento dei novemila. E ripetono ad alta voce il giuramento, inguainati nelle
loro uniformi lucide e scure: "Io sono lo scudo della civiltà, sono il difensore della legge". Haria
si ricorda tutte le parole di quella dichiarazione, dopo aver compiuto i sei anni è obbligatorio
partecipare alla cerimonia. E sua madre non è il tipo da contravvenire alle regole, per quanto
sbuffi come un bricco sul fuoco durante quelle parate militari.
Ma non è proprio per non ricadere in barbarie come questa, che è stato costituito l'Esercito?
Come può il Direttorio sopportare quei metodi?
Haria scansa i pali e si inginocchia nella polvere, accanto al vecchio. «Sariso».
L'uomo la fissa come se fosse trasparente e accenna un rantolo.
Haria vuole dirgli qualcosa, ma di nuovo non trova le parole.
Il vecchio muove le labbra e guarda di lato. Segue la direzione del suo sguardo, sta
adocchiando un secchio d'acqua, con un mestolo appoggiato dentro.
«Vuoi acqua?»
Lui annuisce con un minimo movimento del capo.
Haria si alza in piedi e va verso il secchio. Non appena lo prende in mano Gallajio
l'apostrofa: «Che fai dottoressa?»
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«Gli do da bere», risponde lei con tono piatto.
Gallajio si volta verso l'altro soldato, il quale alza le spalle e dice: «Meglio se lo fa lei,
almeno mi risparmia di dargliene dopo».
Haria sposta il secchio vicino all'uomo e immerge il mestolo. L'acqua è abbastanza
trasparente, ma il secchio non è chiuso, quindi dentro vi sono anche polvere e pezzettini portati
dal vento.
Porta il mestolo ricolmo alle labbra dell'uomo che se lo tracanna in pochi sorsi.
Sposta il contenitore vicino alla ragazza. La solleva un po' per le spalle, cercando di tenerle la
testa dritta. Puzza di piscio peggio di una latrina, non hanno avuto molta cura di lei per tutta la
giornata.
Prende il mestolo e con qualche acrobazia riesce a versaglielo tutto in bocca.
La prima volta che le aveva dato da bere nelle terre selvagge aveva fatto una fatica immane a
farle trangugiare poche gocce, mentre ora se ne è ingollata un mestolo intero senza batter ciglio.
Prova a prendere un altro mestolo d'acqua e glielo accosta alle labbra. Gliene versa un sorso
in gola, e poi un altro e un altro ancora sino a svuotare tutta la porzione.
Le appoggia la testa a terra e fa per aprirle la palpebra.
«Ricercatrice», sussurra il vecchio. «Perché sei qui?»
Haria lascia perdere la guerriera e gli si avvicina. Ha appena mosso la bocca, sembra di
ascoltare il soffio del vento.
«Ho bisogno di farti delle domande».
«Domande», il vecchio chiude entrambi gli occhi. «Me ne hanno fatte parecchie oggi. A
sufficienza direi».
«E tu hai tenuto il becco chiuso. Perché Sariso? Non credi che sarebbe ora di trovare delle
risposte? Questa navicella è stata mandata per tutti noi, non solo per i primi che la trovavano».
«Non ho nulla da dire ai teschi».
«E a me Sariso? Di' qualcosa a me», lo incalza Haria, sforzandosi di tenere basso il tono della
voce.
«Tu sei il loro burattino. Ti tirano un filo e fai un inchino».
«Non è vero. Io sono una ricercatrice, una civile. Non devo ubbidire a Gianhosi».
«Ah no? Ricercatrice, sei un'ingenua», un sorriso carico di sofferenza si disegna sul volto
dell'uomo.
«Io sono una scienziata, ho studiato per raccogliere l'eredità dei nostri progenitori, i
novemila. L'unica cosa che mi interessa è riguadagnare un filo della conoscenza che avevamo un
tempo, che ci aveva permesso di solcare l'oceano interstellare. Che ci può ancora permettere di
uscire da quest'epoca oscura e senza speranza».
«Io non sono senza speranze», ribatte Sariso, con una smorfia sulle labbra martoriate. «E
molti dei miei fratelli del popolo non lo sono. Siamo felici là fuori. Non abbiamo nostalgia della
tecnologia, anche perché non l'abbiamo mai conosciuta. Leggere tutti quei libri sui tempi andati,
secondo me, confonde da matti le idee».
«Sariso, dimmi della terrestre che vi siete portati dietro. Cos'è successo? Era già sveglia
quando siete arrivati?», Haria cerca di scandire le domande, di focalizzare la sua poca attenzione.
«Sei un burattino Hariagillia. Un burattino gentile, ma pur sempre un burattino».
«Decido io cosa dire e cosa non dire a Gianhosi e all'esercito, non sono un burattino»
bisbiglia Haria, avvicinandosi ancora di più al suo orecchio. «Tu mi devi aiutare però, i prossimi
passi potrebbero essere fondamentali per non commettere errori e rovinare l'ultima possibilità
che abbiamo».
Il vecchio sospira. «Mi spiace, ma non ti credo. E poi ho la testa così pesante che non ricordo
più quello che è successo».
«Ah sì? Adesso te la schiarisco. E ti dimostro anche che non mi sento in obbligo di spifferare
tutto ai militari. Io sono una scienziata».
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Si alza in piedi e si porta di nuovo accanto alla donna. Con un gesto veloce e sicuro le apre la
palpebra. Lei è brava, ma non a sufficienza. La leggera resistenza della palpebra ad aprirsi e un
lievissimo movimento della pupilla la tradiscono.
Haria si va a sedere accanto al vecchio. Lo guarda, senza aprire bocca, ma muove di un paio
di centimetri la testa di lato e alza le sopracciglia, con aria di sfida.
«Ti prego», dice lui. «È ancora molto debole. Se capiscono che è cosciente la
interrogheranno, come hanno fatto con me».
Haria si limita a guardarlo.
«Ti supplico Hariagillia. La tortureranno e lei non può reggere a lungo. La violenteranno per
spezzarne la volontà».
Haria avverte un brivido dietro la schiena. Non vuole voltarsi per non dare l'impressione di
avere le mani nel sacco. D'altronde non sente più i soldati chiacchierare ad alta voce. Il vecchio
ha sussurrato per quasi tutto il tempo, però nello stato in cui è non si rende bene conto di cosa gli
sta intorno.
«Tutto bene dottoressa?», Gallajio la fa sussultare. È un metro dietro di lei e il suo viso
appuntito trasuda diffidenza.
Haria si alza in piedi. «Sì, tutto ok».
«Il vecchio ha parlato? Ho visto che muoveva le labbra».
«Solo qualche frase inconcludente. È troppo stanco stasera. Però mi ha promesso che
domattina alla mezz'alba mi dirà qualcosa di interessante. Vero?»
Haria guarda l'uomo negli occhi, lui annuisce.
Per qualche secondo Gallajio studia ora l'uno ora l'altra. Poi, con tono caustico «Beh
dottoressa, hai fatto progressi. Noi iniziavamo a pensare che fosse muto o che il cervello gli
fosse andato in pappa. Sembrava un vegetale».
«Sì, l'ho convinto, a una condizione».
«Gli straccioni ci dettano le condizioni, adesso?», Gallajio sgrana gli occhioni azzurri e batte
le palpebre, parodiando stupore.
«Portami dal comandante, ne discuterò con lui», ribatte Haria, fredda.
Ma Gallajio non pare impressionata. Tira su col naso e si gratta la guancia sana.
«La strada la conosci, dottoressa».
Haria ribadisce: «Lasciate in pace i prigionieri, per stanotte».
«Sicuro», risponde Gallajio, annuendo esageratamente con il capo. «Hai sentito Guimar?
Lascia in pace la prigioniera. Tieniti la foia per domani».
I soldati ridono sguaiati.
Haria si muove, un po' rigida sulle gambe. Passa vicino a Gallajio, per dirigersi giù dalla
bassa collina. Ha appena affiancato la soldatessa che sente una fitta alla tempia destra.
Si fa sfuggire un urletto e si volta di scatto. Gallajio le sta tenendo tra le dita una ciocca di
capelli.
Apre il pollice e l'indice, e gliela lascia andare. «Ah civile. Dimenticavo. Non provarci a
darmi degli ordini. Mai più, ok?»
Haria sente un groppo esploderle in gola. Le sembra di avere ingoiato una cipolla intera, che
le blocca il respiro e le impedisce di parlare. Si volta e si mette a camminare a passo svelto,
lasciandosi alle spalle i due soldati.
Fatto un centinaio di metri il buio è così fitto che non riesce a vedersi i piedi. Il cielo è
coperto di spesse nubi e il chiarore notturno di Alcione è offuscato. Cammina veloce verso i
puntini luminosi che delimitano l'accampamento, ma proprio mentre sta pensando di rallentare
un poco, non trova più il suolo e ruzzola a terra.
La caviglia le pulsa come se le avessero infilato una spada tra lo stinco e il collo del piede.
Sente affiorare le lacrime per quella storta colossale e anche per la rabbia della conversazione
precedente.
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Stronza, insulsa e stupida, la insulta Haria, dentro di sé. Ti faccio vedere io chi ha le palle
qui. Credi che avere un coltello addosso ti dia il diritto di mandare tutto in malora? Credi che io
non abbia il coraggio di andare da Gianhosi? Lui ha bisogno di me!
Perché le parole giuste spuntano sempre con qualche minuto di ritardo? Le viene quasi voglia
di tornare su a cantargliene quattro, ma certe cose funzionano solo se dette a caldo.
Si rimette con una certa fatica in piedi, si asciuga le lacrime e, tutta dolorante, zoppica verso
la tenda del comandante.
Gianhosi è seduto nel patio, da solo. Fuma, guardando verso la navicella. Il tavolo è
ingombro di carte, tenute ferme da una ponderosa calcolatrice meccanica di metallo brunito.
Quanti libri importanti si sarebbero potuti portare al posto di quello strumento. Anche perché
Gianhosi di sicuro lo usa per fare somme e sottrazioni e non calcolo differenziale. Non a tutti
però riesce bene calcolare all'istante operazioni complesse.
«Dottoressa», mormora Gianhosi.
«Ho ottenuto un risultato con il prigioniero. L'ho convinto ad aiutarci», Haria ha il fiato
mozzo e accavalla le parole.
«Notevole. E cosa gli hai promesso?»
«Niente», mente Haria. «È allo stremo delle forze e ha accettato di darmi una mano. Ha solo
posto una condizione».
«Questo è ancora più interessante. Secondo la Nuova Costituzione chi aggredisce un membro
dell'Esercito, può essere processato da un ufficiale militare. E gli ufficiali militari, secondo la
procedura hanno piena discrezionalità sulle condanne. Io pensavo di condannarli entrambi a
morte. Quindi trovo divertente che pongano condizioni». Accompagna l'affermazione con una
lunga tirata dalla sua pipetta, che balugina nel buio.
«Nessuno è più stato condannato a morte dopo la Rivolta», si oppone Haria, ma la sua voce
suona lamentosa alle sue stesse orecchie.
«Gerreld. Ti dice niente questo nome? Era un mio uomo ed è stato ammazzato come un
porco».
Haria rivede per un attimo le pupille scure di Gerreld, attraversate dal dolore, che la fissano
mute, nel suo ultimo giorno di vita.
«Phinner, se per te non è abbastanza. Anche Phinner è stato falciato da quei bastardi»,
continua Gianhosi. «Comunque sentiamo la condizione».
Haria si muove da un piede all'altro. Si mette una mano in tasca e tasta la familiare scatolina.
Ha solo più voglia di prenderne una e dimenticarsi la faccia di Gerreld. Ma poi pensa al vecchio
che urla sotto i ferri dei suoi aguzzini in nero, e si impone di insistere.
«La condizione è che io parli con lui da sola. Domattina mi dirà tutto, ma vuole che me ne
occupi io».
«Perché?»
«Forse i tuoi uomini hanno usato la mano troppo pesante con lui».
«Lui è convinto di poterti prendere in braccio», conclude Gianhosi.
«Comandante, io sono l'unica di questa spedizione che può capire qualcosa di ciò che è
successo qui. Quanti dei tuoi soldati hanno una minima conoscenza di fisica, di ingegneria
aerospaziale, o di scienze informatiche?»
Gianhosi si caccia in bocca la pipa e tira due copiose boccate, fulminandola con lo sguardo.
Non dice nulla però, forse, ha colpito nel segno. Si schiarisce la voce e continua: «Proviamo.
Lascia dormire i prigionieri questa notte e alla mezz'alba avremo la conferma. Se il vecchio è di
parola, ne sapremo un pezzo in più, magari quello fondamentale per comprendere questo
enigma. Se invece fallisco, tu sarai esattamente nella posizione precedente, non avremo perso
nulla, e potrai disporre dei prigionieri come credi».
«Va bene. Avrai un giorno solo, però. Dalla mezz'alba al tramonto. Manderò qualcuno dei
miei a starti appresso».
«Basta che stia a un passo di distanza. Un giorno, una condizione: io e lui».
54
Gianhosi le punta l'indice contro. «Non fare cazzate dottoressa. Questa è una missione
militare, non dimenticartelo».
«Non me lo dimentico, comandante».
Haria si congeda da Gianhosi e la sentinella la riaccompagna alla sua tenda.
Mentre cammina per l'accampamento, le pare di essere leggera come una canna di bambù,
ma altrettanto dura e resistente. Ha convinto Gianhosi, e domani riuscirà dove tutti hanno fallito.
Se troverà uno spunto per risvegliare le persone dal sonno freddo o per far funzionare la
navicella prima che la portino dai vertici del Direttorio, il suo nome brillerà come un fuoco nella
piccola comunità scientifica di Promise. E nessuno la potrà più allontanare da quell'oggetto così
carico di promesse, lo strumento mandato dai loro fratelli per farli riemergere dalle tenebre.
La mezz'alba successiva la sorprende mentre è ancora sprofondata nel mondo dei sogni. Non
è riuscita ad addormentarsi subito, così ha deciso di prendere l'ultima pastiglia di anestetico che
le ha dato Raportal. È scesa in un sonno cupo come gli abissi che li separano dalla Terra,
macinando sogni altrettanto misteriosi e confusi.
Tra uno sbadiglio e l'altro trova la strada del refettorio, dove riesce a placare la sua fame con
un numero spropositato di gallette di frumento e polpette di cipolle dolci. Il tutto condito dalla
brodaglia di cicoria che tutti si ostinano a chiamare caffè. Mentre divora la colazione si ricorda
che il giorno precedente ha quasi digiunato. Deve cercare di migliorare il proprio sostentamento.
Se non inserisce nel suo corpo una frazione sufficiente di amidi e zuccheri il suo cervello non
funzionerà a dovere e lei diventerà un'inutile appendice a quella spedizione militare.
Si tasta le cosce. Tutto quel camminare l'ha prosciugata fino alle ossa. Ha il culo secco come
una pannocchia e le ossa spuntano impietose sul bacino e sul torace.
Non è abituata a mangiare così tanto al mattino, e adesso lo stomaco le brucia come se avesse
ingoiato un tizzone. Spera almeno di tenere tutto dentro. Chissà che tipo di donna interessa a
Fineri?
È una giornata decisiva e Haria si sente elettrizzata ed euforica. Il pensiero sul suo aspetto
scheletrico, che di solito la cala in un pozzo di depressione, passa leggero come un soffio di
vento.
Aggredisce la china della collina dove sono custoditi i prigionieri con passo deciso, senza
curarsi troppo dei soldati che la radiografano coi loro sguardi inquisitori.
Arrivata in cima, trova ad accoglierla una faccia conosciuta. Se ne sta piantato lì, con le
braccia incrociate, i bicipiti in bella vista e un mezzo sorriso stampato sul viso aperto.
«Ciao», lo saluta lei.
«Ehi, doc», risponde Fineri. Il vento gli scompiglia i ricci. «Come stai?»
«Bene. Freschino eh?», si sfrega la mano sul braccio.
«Ti ho vista ieri nella tua tenda, tutta assorta, con il naso nei libri. Volevo venire a trovarti,
ma mi sembravi occupata».
Haria piega un po' la testa di lato. «In effetti lo ero. Però potevi passare. Comunque adesso
sei qui».
«Già». Fineri si mette le mani ai fianchi e si allarga in un sorriso pieno, riempiendo quel
mondo grigio di nuovi colori. «Il comandante mi ha detto di tenerti d'occhio, sai?»
«Non si fida di me».
«Io credo che si fidi molto. Ti ha dato un incarico bello delicato, trattare con questa gente»,
allarga il braccio per indicare i prigionieri, «non è per nulla facile. È solo che sei così giovane, e
lui vuole che tu abbia tutto il supporto possibile».
«Non si è mai troppo giovani, troppo magri o troppo ricchi. E tu, sei ancora giovane?»
«Io lo sarò per sempre», Fineri prende dalla cinta il suo machete, chiuso in un lungo fodero
scuro, e se lo appoggia sulla nuca, accavallando i polsi su ciascuna estremità.
«Allora dovrai spiegarmi il tuo segreto», Haria indugia con la mano sul fianco, dondolandola
appena. «Così governeremo il mondo».
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Stanno così, a soppesarsi per qualche secondo. Haria sorride, lui sorride di rimando, e tutto
sembra perfetto.
«Andiamo?», dice infine il soldato.
Percorrono i pochi metri che li separano dai prigionieri. Il vecchio è sveglio e li studia con
sguardo appuntito. La donna gioca ancora a fare la svenuta. Una cospicua chiazza di umidità
bagna la terra sotto il suo sedere.
Che diavolo vorrà mai dimostrare, fingendosi incosciente sino a pisciarsi addosso? Haria ha
un moto di disgusto, che porche bestie sono questi selvaggi?
Ormai lei ha preso in mano la situazione, ha spiegato al vecchio che se ne sarebbe occupata.
Comunque se vogliono continuare quel trucco da quattro soldi, facciano pure. Almeno ha un
appiglio per convincere il prigioniero a confessare.
«Sariso», lo chiama, «voglio che tu venga con me, sino alla nave».
«Ehi!» si irrigidisce Fineri. «Questi non erano i patti».
«Quali patti? Io ho accesso alla nave come membro scientifico della spedizione. E quindi
posso anche decidere chi ci sale e chi no. Comunque non ho intenzione di portarlo su, tranquillo.
Voglio solo essere lì, in caso serva».
Fineri la guarda di sbieco, ma poi si avvicina al vecchio e si china per scioglierne i lacciuoli.
«Andiamo», soggiunge lei e si avviano giù dalla collinetta.
Giunti alla tenda bianca, la sua base operativa, Haria decide di condurlo all'interno, più che
altro perché gli sguardi dei soldati stanno diventando piuttosto insistenti. Molti di quei giovani
non hanno mai partecipato a operazioni militari contro individui del popolo libero, e la smania di
vendetta per i compagni caduti pulsa dietro i loro cipigli.
Fineri porta l'uomo dentro la tenda e lo fa sedere a terra, con le mani legate. I soldati che
passano fuori rallentano l'andatura quando passano di fronte all'apertura. Chi butta l'occhio, chi
bisbiglia un commento con il compagno.
Lui se ne avvede e dice «Chiamami se hai bisogno».
Si piazza fuori dalla tenda, a gambe larghe e braccia incrociate, rifilando sguardi truci ai suoi
commilitoni che vogliono curiosare.
«Allora, vecchio», inizia Haria, cercando un lato da cui attaccare il discorso. «La notte ti ha
portato consiglio?»
L'ombra di un sorriso attraversa la faccia dell'uomo, ancora gonfia per le botte subite, ma
subito la inchioda con il suo sguardo acuto. «E a te?»
«Non ne avevo bisogno. Senti, non abbiamo tutta la vita. Un giorno, forse due. Poi il
comandante si spazientirà e riprenderà con le maniere forti. Con te e con lei», indica con il
pollice nella direzione da cui sono venuti.
«L'unico modo di uscirne è portare dei risultati», continua Haria. Coi numeri va forte, con le
parole un po' meno. Cerca di impostare comunque un ragionamento che possa far presa su quella
vecchia pellaccia. «Se gli facciamo vedere che riusciamo a lavorare insieme, forse ci darà la
possibilità di continuare. Forse potrebbe concedervi un indulto, chissà».
«Sicuro», risponde l'uomo, sporgendo le labbra in avanti e annuendo con vigore. «Che cosa
vuoi raccontare al comandante?»
«La verità. Cosa è successo qui?»
«Dimmi la tua teoria», ribatte lui, imperturbabile.
Haria si trova a stringere le dita, sino a serrare il pugno.
«Ma che… Vecchio, cazzo! Non ci siamo capiti, per niente. Tu adesso spiattelli tutto, sennò
devo farti riaccompagnare alla tua prigione».
Vorrebbe urlare, ma è costretta a sussurrare per non attirare l'attenzione di Fineri. «Quanto
pensi di resistere là, alle cure dei soldati?», continua. «Ancora un giorno? Due? Ti piegheranno o
ti ammazzeranno, è sicuro».
«Tutti dobbiamo morire Hariagillia».
«Haria staccato Gillia», sillaba lei. «È il mio cognome. Ormai non lo usa quasi più nessuno,
ma in ambiente accademico ci si chiama per cognome. Dottor Tale e dottoressa Talaltra».
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«Io non conosco il mio cognome. Mi chiamo Sariso e basta», commenta con un'aria
compiaciuta.
«Già. Scusa Sariso, non voglio essere scortese, ma chi se ne frega! Il comandante potrebbe
arrivare tra un minuto e, se io non avessi niente da mostrargli, ti riporterebbe nell'inferno da cui ti
ho tirato fuori».
«Prima avevamo un giorno o due, e ora solo più un minuto?», l'uomo alza le sopracciglia,
come se fosse sinceramente meravigliato.
Haria sente il fumino che le esce dalle orecchie. Come può essere così stupido quel maledetto
selvaggio? Lei sta cercando in ogni modo di salvargli le corna, perché non lo capisce?
Si volge verso Fineri. Forse deve chiamarlo e dirgli di fare un po' di pressione. Di stare al
gioco, di far finta di riportarlo all'accampamento. Però non ha concordato quella parte con lui e
improvvisarla non sembra una buona idea. Avrebbero dovuto prevederlo prima, anziché stare lì a
sorridersi come due decerebrati, avrebbero dovuto elaborare una strategia con il vecchio furbone.
«È un bel tipo quel soldato. È il tuo uomo?», chiede lui, abbassando la voce.
Haria sente le gote pizzicare per il caldo. «No. Ma che dici?»
«Ah, scusa. Pensavo lo fosse. Ti guarda in un modo particolare».
«Cioè?», e subito si odia. Che caspita sto facendo? Sto qui ricamare con 'sto tizio, sono
patetica, pensa.
«Quando si volta verso di te i suoi occhi assumono una luce diversa», il vecchio accenna un
sorriso.
Haria scuote la testa, per schiarirsi i pensieri da quelle distrazioni così pericolose. «Ok.
Torniamo a noi. Inizia. Siete arrivati qua e cosa avete trovato?»
«Siamo arrivati qua, e il vecchio Tau era quasi arrivato a fine corsa. Le prime ombre della
sera già scurivano le alture, e io avevo una fame dannata. Nonostante questo avevo una gran mal
di pancia e quindi…», fa una pausa a effetto, spalancando gli occhi, «mi sono fatto una cagata».
Haria si accorge di avere la mascella aperta. Richiude la bocca e sta per partire con un fiume
di improperi, quando l'uomo riprende: «Non sono bravo a raccontare. Fammi una domanda».
«La donna spaziale. Lei era già sveglia quando siete arrivati?»
«Sì».
«E cosa vi ha detto?»
L'uomo tossicchia e, di colpo in colpo, la tosse si trasforma in una rauca risata.
«Diavolo, mi piacerebbe saperlo. Quella tizia non era mica tutto nel suo, si capiva una parola
ogni quattro. Quella è stata parecchio nello spazio da sola, credo. E la cosa deve averle dato alla
testa».
«Ma avrà detto qualcosa di sensato», lo incalza Haria.
L'uomo si raspa la tempia. «Secondo Halfly Rosso sì. A me invece pare che stesse dicendo
un mucchio di cose strampalate».
«E secondo il Rosso cos'ha detto?»
«Halfly Rosso. Non il Rosso», puntualizza, serio.
«Eh, appunto, cosa cambia. Quindi?»
«Al vecchio Halfly Rosso mi sa che non puoi più chiederlo. E io non è che me lo ricordi poi
così bene». L'uomo cambia faccia, assumendo un'espressione triste.
«Cosa è successo a Halfly Rosso?»
«Che ti importa? Non volevi sapere della donna terrestre?»
«Certo, ma tu rispondi alle mie domande».
Il vecchio si gratta ancora la cocuzza. «È che tutte queste questioni mi fanno scoppiare la
testa. Io sono un uomo semplice, neanche più nel pieno degli anni. Non mi ricordo più le cose.
Poi tutte le botte che mi hanno dato non aiutano. Vorrei dirti di più, ma inizio a confondermi le
idee. E poi ho una fame fottuta. Hai da mangiare?»
«Sì. Però prima rispondi alla mia domanda».
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«Il vecchio Halfly è morto. Almeno credo. Ma perché invece di farmi queste domande che
non portano a niente non mi spari la domanda diretta, quella vera, quella che proprio ti sta a
cuore». L'uomo alza l'indice e le indica lo sterno.
«Vedi Sariso, il problema che le domande sono troppe». Haria si passa la mano sulla fronte,
cercando di riordinare i pensieri. «Mi preme svegliare quei quattro astronauti. Con il loro aiuto
potremmo agevolmente cambiare le cose su Promise, dovrebbero sapere come far funzionare la
pila nucleare della navetta. Per piccola che sia, potrà ridare energia ai nostri vecchi computer.
Potremo di nuovo accedere alla conoscenza andata perduta». Haria attende qualche secondo
cercando un appiglio nei suoi occhi neri. Poi aggiunge, «Ripartire».
«Beh, su questo non credo di poterti aiutare. Se dovessi decidere io, aprirei le loro casse.
Credo che potendo di nuovo respirare l'aria pura, si riprenderebbero presto».
«Per fortuna che io non sono te, perché da quello che ho letto quello sarebbe il modo sicuro
per ucciderli. Ma non divaghiamo. Eravamo arrivati alla donna terrestre. Hai detto che sembrava
un po' svarionata. Perché allora avete deciso di portarla via?»
«Lei ce lo ha chiesto», borbotta Sariso. «E poi voi stavate arrivando, assetati del nostro
sangue».
«E il tubo cilindrico?». Haria lo indica con il dito.
«Io vi ero venuto incontro, per capire che intenzioni avevate. Con il grosso della nostra
spedizione. Qui all'astronave erano rimasti Halfly Rosso e Garibolco. Loro hanno parlato con la
donna terrestre. Quando siamo tornati io e Kyra, gli unici sopravvissuti alla vostra rabbia
omicida, siamo dovuti scappare in gran furia. E loro sostenevano che la donna li avesse convinti
a portare via il tubo».
«Perché proprio il tubo?»
«E che ne so? Come ti ho detto la terrestre parlava in una maniera quasi incomprensibile.
Chissà cos'hanno capito il vecchio Halfly e l'altro socio. Magari ha detto prendete il cubo e quelli
non hanno capito e hanno preso il tubo».
«Non prendermi in giro, Sariso. Non ci provare. Quando sono arrivata alla nave il computer
diceva che c'era stata una violazione di sicurezza sullo scafo. Il tubo in questione era ben
nascosto dentro la chiglia della nave. E dubito che, anche volendo, lo si sarebbe potuto prendere
senza l'aiuto della donna. Quindi l'indicazione era proprio quella».
«Se lo dici tu. Senti ho un male pazzesco alla faccia. Mi dai qualcosa che mi calmi il
dolore?»
«Dopo vediamo. Ritorniamo al tubo. A cosa serve? O almeno cosa vi ha detto la donna?»
«Non ce l'ha detto. Erano momenti concitati, voi stavate arrivando. I miei soci avevano
cercato di interrogarla per due giorni, ma, niente, si capiva proprio poco di quello che diceva.
Alla fine sembrava volesse prendere il tubo e così abbiamo fatto. Fine della storia».
Già. Haria si sente scivolare su un terreno viscido. Quello parla e parla, ma non dice nulla di
utile, o meglio nulla da dare in pasto al comandante. «Uno dei vostri manca all'appello. Dov'è
finito?»
«Non lo so».
«Vecchio, senti. Dammi qualcosa. Dammi qualcosa, porca miseria. Qualcosa con cui possa
lavorare».
Fineri si volta verso di loro. Forse lei ha parlato a voce troppo alta. Gli fa un sorrisino-tuttoa-posto.
«Torniamo al tuo compagno. Vi ha abbandonato? Tradito? È andato a chiamare rinforzi?»
Il vecchio fissa il terreno e si passa una mano sulla guancia, ma non risponde.
Haria si alza e prende il tubo dal tavolo. Con un po' di fatica lo appoggia per terra, a circa un
metro dall'uomo. Lui fa un mezzo sobbalzo all’indietro.
«Cosa può fare questo oggetto? O meglio cosa vi ha fatto?» domanda lei.
Sariso non risponde, ma stringe i muscoli della mandibola, mettendo in evidenza due nervosi
rigonfiamenti sulle guance.
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«È stato questo vero? Questo tubo ha causato il problema che vi ha fatto perdere conoscenza,
vero?»
Ma l'altro si ostina a tenere i denti stretti.
«Guarda cosa ho scoperto», Haria appoggia il dito sullo schermo nero, facendo apparire la
debole luminosità.
«No!», esclama l'uomo, tendendo una mano nel vuoto che li separa.
Lei stacca il dito dal riquadro. «Perché no?»
«Promettimi che non lo dirai al comandante», la prega l'uomo, piegandosi in avanti.
«Ehi, io posso anche non dirglielo, ma qualcosa gli devo concedere, no? Cos'è che dovrei
esattamente "non dirgli"?».
«Tu sei una scienziata. Hai studiato. Forse hai studiato anche la storia. Io non ne ho avuto
modo. I miei insegnanti sono stati i miei genitori e i miei nonni. Non abbiamo libri nelle terre
libere, conosciamo solo quello che ci tramandiamo a voce. Però sappiamo che il Direttorio ama
le armi. Da sempre, da quando siamo arrivati qui su Promise».
«Questo tubo è un'arma?»
«Promettimi», insiste lui.
«Non posso. Lo capisci che trattenere informazioni essenziali, in un caso come questo,
sarebbe tradimento. Quest'oggetto è terrestre. Lo hanno mandato per noi».
Il vecchio prende a osservarsi la punta del piede e si richiude in un cupo silenzio.
«Ma non useremo mai questo oggetto contro la vostra gente», Haria cerca di usare un tono
convincente, ma la battuta suona un po' stonata
«E perché no?», attacca Sariso. «L'altro ieri avete usato i fucili, cioè lo strumento più letale
che ancora esiste su questo mondo disastrato. Quindi domani, se avrete un nuovo gioco, userete
quello».
Haria si alza in piedi e muove quattro passi, sino ad appoggiarsi con le mani alla scrivania
chiara.
Quel tubo è un pericolo. Forse è un'arma. Se venisse fuori che la navetta è carica di armi, la
missione diventerebbe di esclusiva pertinenza dei militari. È vero che il Direttorio ha l'ultima
parola su tutto, però l'Università è l'unica istituzione che può in qualche modo tener loro testa.
Deve riuscire a trovare il modo di portare la navetta dentro l'Università, in modo da poterla
approcciare nella maniera appropriata, insieme ai suoi colleghi più brillanti.
E confessare che contiene armi letali non sembra un'idea vincente.
«Ok, va bene vecchio. Me lo terrò per me, promesso».
«Mi scoppiano le tempie. Dammi qualcosa per il dolore ti prego», il vecchio socchiude
l'occhio sano, come se non riuscisse più a sopportare neanche un minuto di quella conversazione.
«Non ho niente. Dovrei andare all'infermeria».
«Andiamo. Ho visto l'altro giorno che ti mettevi qualcosa in bocca».
«Erano pastiglie antidolorifiche, è vero. Ma ora sono finite».
«Davvero? Dopo avevi le pupille che sembravano due padelle».
«Erano solo antidolorifici», puntualizza Haria, stizzita. Che lingua lunga questo pezzente. Dà
un occhio a Fineri, ma sembra fuori dal tiro dalle sue parole.
«Sai, anche noi del popolo prendiamo quella roba», il vecchio si accorge del suo nervosismo
e abbassa la voce, con una nota confidenziale. «Da noi non è vietata, come invece lo è da voi. È
una sostanza di uso comune, quando uno ha un po' di mal di testa, o la malinconia ne prende un
po'».
«Non so di cosa tu stia parlando».
Il vecchio abbassa ancora il volume, sino a sussurrare «Ti prego, dammene una. E poi io ti
dirò quello che vuoi».
Haria deve trattenersi per non infilarsi una mano in tasca. Forse può essere una buona idea, la
psicocola scioglie la lingua. Senza contare che quelle pasticche sono potenti come una
martellata. Sono stati proprio i selvaggi a scoprire l'alcaloide che si forma negli equiseti
impiantati sul suolo Promisiano. Li masticano e lo estraggono per infusione, ma di sicuro non
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riescono a completare la riduzione con lo iodio e l'ipofosfito per sintetizzare la metanfetamina.
Quella è una specialità dell'Università, modestamente.
Lancia ancora uno sguardo veloce a Fineri. Se ne sta lì immobile, fuori dalla tenda, dandole
le spalle.
«Ok. Una sola. E poi tu canti come un gallo».
«Non ti preoccupare, ti racconterò tutto», la rassicura lui.
Haria si mette la mano in tasca e, con consumata perizia, fa scattare l'apertura della scatolina.
Fineri non muove muscolo, così sgrana una pillola e la sporge al vecchio.
Lui la prende con due dita e sorride. «È così piccola. Dammene un'altra».
«Non ti preoccupare, ti basterà», bisbiglia Haria. «E mettitela in bocca, su».
«Ho visto come vi sbirciate».
«Eh?»
L'uomo indica con il mento Fineri. «Secondo me gli piaci parecchio. Si vede da come ti
guarda. Da come ti protegge».
Haria si sofferma sulle spalle quadrate e le braccia muscolose del soldato. Se solo fosse un
briciolo più sicura di sé stessa. Avrebbe dovuto baciarlo mentre erano là fuori, durante la loro
missione. Quando Gallajio era lontana e le sue insicurezze pure. Magari una psicocola avrebbe
aiutato, però prima deve capire quel rompicapo.
Si volge di nuovo verso il vecchio. «Allora?»
«Quando siamo tornati alla nave tutto era silenzioso, sembrava abbandonata. Ci siamo messi
a chiamare a gran voce Halfly Rosso e Garibolco, i due che erano rimasti lì. Dopo un poco il
vecchio Halfly ha fatto capolino dal portello e mi ha detto "oh, non ci crederai.". Lui diceva
sempre così, "non ci crederai". Comunque mi disse che avevano trovato il modo di comunicare
grazie a una specie di tela luminosa, su cui si formavano messaggi e disegni. Dovevamo
andarcene però, perché voi stavate arrivando. Lui allora tornò su dalla scaletta. Io e Kyra
eravamo a pezzi, per la battaglia e la corsa. Eravamo anche tristi, tutti i nostri compagni morti.
Così ci siamo abbracciati e siamo rimasti lì sotto, a piangere l'uno sulla spalla dell'altra. Dopo un
bel po', Halfy Rosso si è riaffacciato e ci ha detto "Dobbiamo portare via un oggetto. La donna
spaziale ci ha spiegato come adoperarlo. È magico"»
«Sì, magico», sbuffa Haria. «Mi aspetti che io ti creda?»
«Solo voi sciocchi cittadini credete che la magia non esista», replica secco l'uomo.
«Vabbè, lasciamo perdere. Poi?»
«Ci ha fatto salire. La donna era esausta, ma mi sorrise quando arrivammo. Halfly mi mostrò
il tubo. Era dentro il contenitore. Cercammo di prenderlo, ma sembrava inchiodato nel metallo.
La donna terrestre disse qualcosa alla nave e il tubo si liberò dal suo contenitore. Io presi il tubo.
Gli altri presero la donna, per quanto sia così magra che forse pesava uguale».
«Aspetta, aspetta. Quindi la donna spaziale vi ha aiutato a prendere l'oggetto?». Questa è
l'informazione chiave, riflette Haria.
«Certo. Te l'ho detto è stata lei a suggerirci di portarlo via. Come avremmo potuto sennò?»
Già, non fa una grinza. L'enigma s'infittisce.
«Ok, ma lei non era dispiaciuta di lasciare i suoi compagni da soli?»
«Mah, non so. Era talmente debole che parlava a fatica».
«Non mi raccontare storie», si spazientisce Haria. «Se riusciva a sorridere, vuol dire che
comunque poteva esprimere la sua volontà. Almeno a cenni. Quando l'avete portata via,
sembrava disperata? Contenta?»
«Senti, mi puoi fare un favore?»
«Eh no. Mi sembra di averti già dato quello che volevi».
«Sì e ti ringrazio, adesso va molto meglio. Però vorrei chiedertene un altro. Non è per me, ma
è per Kyra. Io sono qui, al sicuro e al caldo con te. Mentre lei è laggiù stesa a terra, esposta ai
quattro venti, in balia dei soldati. Ho paura che scoprano che è cosciente e che le facciano del
male».
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Haria scuote la testa. «Torniamo alla donna spaziale. Per me è cruciale capire se lei volesse
scappare dalla nave o volesse restare».
«Non lo ricordo», dice Sariso, piatto. «Però ricordo bene quando Kyra e suo fratello
giocavano a rincorrersi davanti alla soglia della mia capanna. Kyra aveva due anni in più e
riusciva quasi sempre a scappare. Però era in quel "quasi" il bello del gioco».
«Ci avete attaccato».
«Mi spiace, ma voi avete fatto scorrere il sangue per primi. Noi volevamo solo spaventarvi,
non vi avremmo mai fatto del male».
«Non ci credo, ci avete tirato le frecce», Haria ricorda ancora il rumore della freccia col
piumaggio bianco e nero mentre si conficcava al suolo, a un metro da lei.
«E tutte hanno mancato il bersaglio al primo colpo. Voi invece non avete avuto remore a
massacrarci con i vostri cannoni».
«Ehi, frena. Io sono solo una scienziata, non ho massacrato proprio nessuno».
Il vecchio allunga una mano nodosa, sino a sfiorare il suo avambraccio. Le stringe piano il
polso.
«Ti prego, aiutami a salvare Kyra. Quando tornerò da sua madre, almeno non arriverò a mani
vuote. Lei non resisterà un altro giorno e un'altra notte imbelle, farà una follia. Portala qui, in
modo che io possa tenerla d'occhio».
«E scommetto che questo favore ti farà tornare la memoria, sui particolari che adesso non
ricordi».
La ruga di un sorriso attraversa il viso segnato dalle botte. «Forse».
«È meglio che sia un 'sì'. E voglio anche sapere cosa è successo dopo, quando i tuoi due
compagni sono spariti».
«Porta qui Kyra e ti dirò tutto. Te lo giuro», l'uomo reclina il viso, segnato dalle ecchimosi.
Haria si alza in piedi. Adesso viene la parte difficile, bisogna andare in scena.
Si avvicina a Fineri e, giunta a tiro, gli tocca la spalla. Lui si volge di scatto, ma poi le
sorride. «Ehi. Come va?»
«Insomma. Il vecchio qualcosa dice. Penso di essere vicina a capire un po' meglio cosa è
successo qui».
«E cioè?» chiede Fineri.
Haria gli fa scivolare la mano un po' più in su, dalla spalla al collo. Mentre la mano passeggia
sui suoi muscoli, sente le guance tingersi di rosso, ma tira su il mento e cerca di apparire
spavalda.
«Ho bisogno di te, Fineri».
«Quello che vuoi, bimba», replica lui, dal profondo dei suoi occhi grigi.
«Quel tizio è un dannato mercante. Però sinora ha tenuto fede a quanto detto. Si sta
sbottonando. Ma vuole avere un altro segno di fiducia».
«E quindi?»
«È preoccupato per la sua compagna. Sono legati da parentela», una piccola bugia, «almeno
credo. E quindi prima di continuare a parlare vorrebbe poterla vedere».
«Quindi dobbiamo imbracciarcelo sino in cima alla collina solo per fargli vedere quella
stronza della sua amica?», si adombra il soldato.
«Ehm, non esattamente. L'idea è quella di portare la donna qui».
Fineri si scosta di un mezzo passo. «Che sciocchezza è? Perché dovremmo portarli qui, nel
cuore del campo?»
«È una richiesta sciocca è vero. Però, che ci costa? Possiamo mettere qui il treppiede con il
piolo nel terreno e tutto quanto. Starebbero legati qui, come lo sono in cima alla collina. Se
facciamo contento il vecchio potremmo scoprire qualcosa di fondamentale».
«Dovrei chiedere a Gianhosi».
«Chiediamoglielo. Però», Haria si sforza di guardarlo dritto negli occhi, per quanto le sembri
di bruciare viva, «ho bisogno del tuo aiuto».
«Cosa dovrei fare?»
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«Sostienimi», Haria stringe le dita attorno al suo avambraccio. «Tu sei l'eroe della giornata».
«La giornata di gloria è passata. Sono un semplice soldato», Fineri balla da un piede all'altro.
«Ho visto come ti guardano gli altri. Scommetto che presto diventerai un ufficiale».
«Ehi, non sono neanche caporale», replica lui, ma si vede che tentenna.
«Vedrai. Gli altri ti ascoltano e ti rispettano, è evidente qui al campo. Mi aiuterai allora?»
«Va bene. Se però è un errore cadiamo in due, lo sai vero?»
«Stai tranquillo. Sei in ottime mani», e Haria solleva entrambi i palmi davanti al suo viso
sino a sfiorargli la punta del naso con i polpastrelli, apposta per provocargli ancora una volta
quel terribile sorriso.
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Verità
Il soldato Guimar ghigna di sbieco, osservando con distacco le loro evoluzioni. Haria
appoggia le spalle di Kyra a terra e impreca tra i denti. È sudata marcia e ha i polmoni in
fiamme, in particolare proprio dove quella selvaggia maledetta ha affondato la punta del piede.
Fineri commenta: «Per quanto mi riguarda, è l'ultima volta che mi carico questo sacco di
merda. Quindi nonno, vedi di farla svegliare in qualche modo. Guimar pianta il piolo e legala».
«Ehi campione», biascica Guimar, facendo roteare uno stecchino tra i denti scuri, « perché
invece non lo fai tu?»
«Esegui e basta. Gianhosi mi ha detto di occuparmi della questione. Punto. Se hai dei dubbi
vai a chiedere a lui».
Si rivolge ad Haria, «Lo riportiamo dentro?»
«Sì», risponde lei. Non le va di interrogare l'uomo lì fuori e soprattutto in presenza di
Guimar. La sentinella non ha perso occasione per manifestare la sua contrarietà a quel trasloco.
Convincere Gianhosi non è stato semplice e l'ha prosciugata di ogni energia. Alla fine il
comandante ha scaricato la responsabilità in gran parte su Fineri, con il risultato di renderlo
astioso nei suoi confronti.
Proprio un bell'effetto, accidenti a quel vecchio straccione e alle sue fisime.
Fineri agguanta l'uomo e lo costringe ad alzarsi. Strascicando i piedi e biascicando qualche
lamentela, Sariso viene trascinato comunque un'altra volta dentro la tenda.
…
Il racconto continua nel volume “Cuori d’Acciaio”, reperibile nello stesso store dove hai
scaricato questo ebook.
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Federico Negri è uno scrittore della domenica, torinese, prossimo ai 42 anni e facile
all’insofferenza. Però qualcos’altro ha pubblicato, se ti incuriosisce segui il blog
www.federiconegri.info oppure puoi ascoltare i suoi cinguettii sul tuitter @sonounalieno
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Ringraziamenti
Ringrazio la scrittrice Alexandra Merizzi, che ha riletto i miei rigurgiti e mi ha pungolato con
utili consigli, che potete trovare qui, al suo blog. Ringrazio inoltre la web-writer ed editor
wannabe Cristiana Mantenuto, che ha letto e riletto questo romanzo e ha preparato anche le
copertine per l’intera serie. Seguitela su Twitter, chissà dove vi porterà. Gli errori ovviamente
restano i miei.
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