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LE ISOLE
DELLA PORPORA
A poca distanza dall’Africa, da Alegranza fino allo scoglio di Arrecife del
Griego all’estremo Ovest di Fuerteventura,
si naviga in vista di terre vicine.
Quello spazio marittimo simile al Mediterraneo
era già frequentato dai fenici alla ricerca della tintura di porpora.
Oggi gli isolotti periferici sono deserti.
La popolazione si distribuisce fra Lanzarote,
l’isola nera dai trecento vulcani;
Fuerteventura, un pezzo di Sahara nell’oceano;
Graciosa, il regno del silenzio.
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l merito della riscoperta dell’isola nel tardo Medioevo spetta al nostro
Lanzarotto Maloncello. La sua determinazione è premiata dal ricordo
impresso nel nome: Lanzarote. Ci piace credere alla leggenda, che di là
passò Lancillotto, l’eroe della tavola rotonda insieme con il saggio Parsifal
alla ricerca del Sacro Graal. Un sentire ardente di violente passioni nella
dimensione cosmica dell’isola del fuoco e del suolo che brucia.
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Sabbia, cenere, scorie; sui versanti delle montagne non c’è un albero, anche le sorgenti sono rare e gli isolani non hanno altra acqua
oltre a quella delle cisterne e dei pozzi, dove s’accumula un liquido
salmastro e insalubre.
Il disegno tratteggiato alla fine dell’Ottocento da Elisée Reclus nella sua
Nouvelle Géographie universelle è scabro. Il paesaggio desolato, l’ambiente
duro sono ingredienti del fascino espresso dall’isola inquietante.
Il Nord
Le alture si organizzano in una vera e propria catena soltanto a Nord.
Punta Fariones, la falesia che termina il capo settentrionale, continua a Ovest
con le abrupte balze del Risco de Famara, dominate a Est dalla caldera del
Monte Corona. A oriente del vulcano, nei campi lavici del malpaís, si aprono
pozzi e tunnel un tempo popolati da stuoli di piccioni selvatici.
Il sottosuolo è cribrato da un dedalo di gallerie generate dal rapido scorri-
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mento di lave molto fluide. Troviamo labirinti simili nelle vicine Azzorre e
nelle lontane Sandwich, i più complessi del mondo. Sono il prodotto di eruzioni vecchie di 3-4000 anni. Il tunnel più lungo si estende dalle pendici del
Corona fino al mare per 7 chilometri, e prosegue sotto il fondale per una lunghezza esplorata di altri mille metri. La grotta tortuosa, nerissima, con le
gocce di lava rapprese sulle pareti convesse, raggiunge in molti punti il diametro di oltre dieci metri. In un tratto del tubo attrezzato per le visite, la
Cueva de los Verdes, si riconoscono vari episodi vulcanici con oscillazioni in
ascesa e in discesa della corrente di lava. Le tracce di passaggio del magma
sono impresse nelle pareti in lunghi solchi paralleli, cornici in rilievo, terrazze laterali derivate dai crolli imposti da ogni eruzione.
È difficile risalire all’etimologia del nome. Perché è la “Grotta dei Verdi”?
LANZAROTE
Grac iosa
Strade
Orzola
Porti
Ad uso misto
Peschereccio
Turistico
Porto storico
Caleta del Sebo
La Caleta Haria
Arrieta
670
Aeroporti
Peñas del Chache
Internazionale
Teguise
Puerto de los
Mármoles
Arrecife
Puerto del
Carmen
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Playa Blanca
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Forse per il muschio che ne tappezzava le pareti, o più probabilmente dall’antico appellativo degli ebrei, i “verdi”, che vi si nascondevano durante le
ricorrenti persecuzioni. La volta della caverna a tratti è caduta creando vaste
conche oblunghe che a Lanzarote sono chiamate jameos. Ne esiste tutto un
rosario nelle grotte del Corona: Jameos de Arriba, Jameos de la Gente,
Jameos de la Puerta falsa, Jameos de los Lagos. Nel Jameos del Agua il
cabildo dell’isola ha creato un’installazione turistica, un auditorium dalle
volte basaltiche e gli edifici della Casa de los Volcanes contenenti un’esposizione didascalica della storia naturale delle Canarie.
Un tratto dei Jameos del Agua è depresso in un bacino naturale che ospita un
laghetto, dimora di una fossile vivente, un granchio diretto discendente di
una specie ora scomparsa. I crostacei minuscoli sono bianchi, resi albini
dalla scarsa luce dell’ambiente. Piccoli oblò aperti nella volta da frane sporadiche, il riflesso del cielo sulla superficie della laguna sotterranea creano
giochi segreti di ombre e di luci, contrasti fra fresche oscurità e spazi esposti
ai roventi raggi del sole, un habitat del tutto esclusivo.
A Sud, fra il vulcano Corona e la Peñas del Chace, di 671 metri, la cima più
alta dell’isola, il versante si scava in un’ampia, dolce insellatura.
L’acqua di falda, raccolta nel sottosuolo dell’impluvio, alimenta la verdissima oasi di Haria, la più vasta del paese
Il Centro
La parte mediana dell’isola è una vasta piattaforma ondulata, sabbiosa e scoriacea, inarcata a schiena d’asino in senso longitudinale. Dalla tenue dorsale
al centro parallela alla costa il plateau discende lentamente verso il mare: a
Sud è dominato dall’anfiteatro della Montaña Blanca, a Nord è butterato da
altri coni basaltici, quasi sempre coronati da caldere. In questo tratto dell’isola si elevano i vulcani dall’eruzione del 1824. L’attività durò dal 31 luglio
al 25 ottobre con periodi di calma intermedi. Si sollevarono tre coni:
● il Vulcan de Tao o Montaña del Clerigo Duarte, fra gli abitati di Tao e
Tiagua, al baricento di Lanzarote, oggi molto deteriorato dalle costruzioni
che si inerpicano sui suoi fianchi;
● il Vulcano el Chinyero o Montaña Negra, all’interno del comprensorio
protetto delle Montañas de Fuego;
● il Tinguaton o Vulcano Nuevo, vicino al villaggio omonimo. Dopo l’eruzione vera e propria fu scosso da altre violente esplosioni per la deflagrazio-
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ne di sacche d’acqua di falda trasformate in vapore dal forte calore sotterraneo Questi parossismi idromagmatici, come sono chiamati in termini più tecnici, squarciarono la crosta lavica appena solidificata fendendola con orridi
crepacci bui, gli “abissi del diavolo”.
L’Ovest
Verso Ovest il paesaggio si tinge d’un colore nero carbone, e risale verso le
Montañas del Fuego, un massiccio gruppo di vulcani ormai affacciati alla
costa occidentale. Sono il focolaio dell’eruzione del 1730-1736, un insieme
di 25 crateri dai quali fu eruttata la lava che coprì 174 chilometri quadrati
dell’isola, i terreni più fertili.
La quantità di magma emesso ammontò a circa un chilometro cubo. Le colate progredirono fino a dodici chilometri di distanza dai punti di uscita. I flussi di lava s’intercalarono a violente esplosioni che proiettarono in aria grossi
volumi di piroclasti. I cumuli di blocchi, bombe e lapilli raggiungono spessori di oltre 50 metri; le sabbie vulcaniche creano ondulati campi di dune
nere percorse da colonne di cammelli oggi al servizio del turismo.
Il parco è rigidamente protetto. Il visitatore arriva allo Islote d’Hilario attraverso campi di basalti taglienti. Secondo un racconto popolare lì visse un
pastore eremita da solo con la sua cammella per quindici anni. Dall’altura si
gode una bella vista panoramica sul paesaggio circostante.
Le anomalie geotermiche del sottosuolo sono trasformate in attrazione al
ristorante El Diablo. In pochi minuti costate e pollastri sono cotti a puntino
in buche non più profonde di un paio di metri: il calore è fornito gratis da
madre natura. Si tratta delle ultime manifestazioni di un fenomeno ben più
diffuso in passato. Ancora un centinaio d’anni fa, quindi un secolo e mezzo
dopo le eruzioni, il suolo era tanto caldo da trasformare la pioggia appena
caduta in vapore
Di qui parte la ruta de los volcanes. La strada percorre per un lungo tratto il
fondo di un alveo scavato dai torrenti di lava e attraversa un paesaggio lunare fatto di scorie, hornitos, coni di cenere, calderas, ammassi di piroclastiti,
vulcani esplosi e tante altre forme scolpite nella lava consolidata.
L’itinerario non è percorribile con mezzi propri, né è possibile avventurarsi
al di fuori delle vie segnate, a meno di non possedere un raro permesso a
scopo di ricerca. Le navette a disposizione dei visitatori attraversano il territorio in un silenzio religioso, rotto da suggestive musiche in sordina.
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Il Sud
A Sud-Ovest delle colate del 1730 esiste un “isolotto”, un’area appartenente
alle eruzioni di età preistorica. È El Golfo, un antico cono costiero, che si era
infarcito di acqua oceanica. L’aumento della temperatura endogena, probabilmente in coincidenza con gli episodi del XVIII secolo, provocò un’esplosione che lo aprì rivelandone l’intima natura interna. Oggi all’occhio del
visitatore si espone la rara immagine di una struttura eruttiva vista da dentro,
una parete verticale intessuta dei letti policromi della lava rappresa, orlata
alla base da un charco, una minuscola laguna di smeraldo. Una lingua di
nera spiaggia sassosa la divide dal blu cupo dell’Atlantico.
Occorre arrivare a El Golfo di pomeriggio, quando il sole al tramonto illumina gli anfratti segreti della montagna squartata. La strada sterrata percorribile a piedi è presidiata dai venditori di olivina. I nuclei verdi, infarciti di piccoli cristalli, sono un po’ artefatti, lucidi come li sanno rendere le resine
spalmate con ingenua sapienza. Non importa: i prezzi sono tanto bassi da
valere un acquisto.
A Sud le Montagne di Fuoco e l’Atalaya de Femés fanno da quinte alla
depressione intermedia di Yaiza. Come nell’impluvio di Haria al Nord, vi
torna a subaffiorare la falda freatica che disseta un altro ricco palmeto.
Da Femés la vista spazia lontano. Verso Est sciami di barrancos scoscesi
scendono diritti nell’oceano. Il gigantesco rastrello fatto delle valli profonde
scavate dall’acqua in corsa verso il mare manca di qualche dente nell’ansa di
Playa Quemada, la spiaggia bruciata, altro toponimo che la dice lunga sull’origine dell’ambiente.
Verso Sud-Ovest Lanzarote finisce con la piatta superficie basaltica di El
Rubicón, termine che ricorda il castello omonimo costruito da Bethencourt a
presidio della sua conquista, oggi scomparso distrutto dal tempo.
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Eppure ci vivono 60.000 abitanti. Nonostante le sterili coperture laviche, le
precipitazioni avare, Lanzarote è popolata ancora in prevalenza da agricoltori, anche se i servizi turistici offrono sempre più occasioni di lavoro.
Il contadino, il mago, e la sua compagna infaticabile, la maga, combattono
una lotta titanica contro la natura.
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Nei primi due secoli di storia isolana lo spazio rurale era idoneo alla coltivazione. I basalti delle antiche colate, decomposti dai processi chimici e fisici,
avevano creato una spessa coltre di suolo ricco d’argilla e di sali minerali;
poi, l’eruzione del Settecento ha cambiato l’ambiente sigillando di lava i
suoli più fertili. Sul resto del territorio si accumularono le piroclastiti, limitando severamente l’uso del terreno.
Il mago e la maga non migrarono altrove. L’uno con il suo berretto di feltro
nero a fianco dell’altra con il capo protetto dal fazzoletto bianco sperimentarono nuovi metodi di coltura e insieme costruirono un paesaggio. Dove il
letto di magma indurito era troppo potente per essere frantumato, lo coprirono con un terreno artificiale di cenere vulcanica trasportata a dorso di cammello. La polvere fine è ricca di allòfane, un minerale composto di microscopici granuli vetrosi. All’origine erano minutissime gocce di lava scagliate
in aria dal vulcano, rese subito solide dal contatto con l’aria fredda, tanto in
fretta da non avere il tempo di cristallizzare. Il materiale amorfo è molto
igroscopico: di notte assorbe l’umidità atmosferica. Anche nelle annate più
secche il suolo allofanico creato dall’uomo trattiene acqua a sufficienza per
le verdure, i legumi, le patate e le altre colture intensive. Naturalmente le
rese aumentano a dismisura se vi arriva l’irrigazione.
I risultati più lusinghieri sono raggiunti con la viticoltura. Le ceppaie della
malvasia vengono impiantate dove le coperture di sabbia vulcanica sono
abbastanza spesse, oppure in larghi pozzi conici scavati a mano nelle coltri
laviche sottili. Non basta. L’aliseo può disturbare la crescita. Il mago interviene ancora. Sul margine delle fosse erige ripari di pietra costruiti con
muretti a secco semicircolari, orientati secondo il vento.
L’opera ostinata di secoli ha rimodellato il territorio. Tutta la fascia centrale
dell’isola, protetta dai coni circostanti, lungo la dorsale mediana è trapunta
da migliaia di piccoli anfiteatri di pietra, disposti a gradinata in regolare salita verso i cercini a caldera della Montaña Roja o del Vulcano Nigro. È la
Geria de los Vinos, un’oasi fatta dall’uomo, una “architettura senza architetto”, secondo la definizione coniata all’Esposizione Internazionale di New
York. Il mare di lava nera con le sue coltivazioni a imbuto, il verde tenero
delle viti, quello cupo dei fichi, è disseminato dei cubi bianchissimi delle
case coloniche, alcune delle quali raggruppate in centri di produzione dove
si può gustare il Tinto e il Blanco del Rincón. Ne parla - e molto bene Shakespeare, quando gli inglesi non si erano ancora convertiti al Porto.
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Insieme con il mago e la vigna, la terza colonna dell’agricoltura isolana è il
dromedario. Sempre più di frequente sostituito nei campi dal mezzo meccanico, oggi il frugale ruminante è stato arruolato come trasporto turistico. Con
i due sedili di legno ai lati della gobba la nave del deserto solca le dune nere
delle Montagne di Fuoco in lunghe carovane silenziose. Altre mandrie si
riposano nei recinti sulla strada in attesa del loro turno di lavoro.
Le città
L’attuale capitale è costruita su una vasta piattaforma basaltica lentamente
degradante verso il mare, protetta alle spalle dalle gentili protuberanze di
alcuni piccoli coni arrotondati. Il suo nome, Arrecife, significa “scogliera”. È
difesa dall’Atlantico da corone di scogli aguzzi capaci di opporsi all’urto di
qualunque onda oceanica. È una bella città di 25.000 abitanti, con linde stradine affiancate da case candide. L’unico palazzone a più piani sul lungomare
ha avuto il buon gusto di incendiarsi, anche se in ritardo, e ora attende di
essere demolito. Al centro dell’abitato El Charco, una laguna interna, ha
suggerito l’appellativo peregrino di “Venezia dell’Atlantico”.
A mare la passeggiata fiorita fa da basamento al pettine di ponti che collegano alla costa una fila di isolotti edificati. L’Islote del Frances separa i porti
di Arrecife e di Naos. Sull’Islote de los Ingleses è costruito il castello di S.
Gabriele, incendiato dalla pirateria nel 1586, fatto ricostruire da Filippo II al
solito architetto Leonardo Torriani. L’isoletta è unita alla riva dal puente de
las Bolas, sorvegliato sulle due colonne da altrettanti palloni di pietra
Il molo di Los Marmoles conclude la facciata a mare verso Est. Sul viale che
lo collega con Porto Naos è costruita la fortezza di S. José, il “castello della
fame”, eretto da Carlo III nel 1779 per dare lavoro ai disoccupati del tempo.
L’edificio e il lungomare sono stati di recente ristrutturati da Manrique.
La bella parrocchia di San Ginés in stile coloniale, l’armoniosa piazza del
mercato sono il nocciolo del quartiere centrale, povero di case padronali e di
edifici importanti.
Arrecife nacque come porto e presidio militare. Solo dopo venne promossa a
capoluogo. Il diritto di capitale storica spetta a San Miguel de Teguise, o
semplicemente Teguise. Porta il nome della moglie guancia di Maciot de
Bethencourt, figlio di Jean, il “re delle Canarie”. Il passaggio del testimone
fra Teguise e Arrecife ricorda l’analogo spostamento di capitale avvenuta a
Fuerteventura fra l’antica Betancuria e Puerto del Rosario, e a Tenerife fra
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La Laguna e Santa Cruz de Tenerife. L’abbandono delle parti centrali delle
isole (dove sorgono Teguise, Betancuria e La Laguna) e l’allocazione sulla
costa testimoniano l’evoluzione geopolitica dell’arcipelago.
Al tempo dei pirati le isole erano chiuse ciascuna in se stessa, un po’ come
durante il periodo guancio. La popolazione risiedeva lontano dal mare pericoloso, viveva di agricoltura e allevamento. Raggiunta la pace, con la sicurezza delle rotte i commerci si moltiplicano. Il baricentro geoeconomico
passa nelle località portuali e gli insediamenti interni, poveri d’acqua, perdono la loro funzione iniziale. Nel caso di Lanzarote alla rivoluzione dell’organizzazione territoriale contribuì pure l’eruzione del XVIII secolo.
La Real Teguise è un’enciclopedia dell’architettura andalusa, estremegna,
ispano-americana. È dominata dal castello di S. Barbara, sulle pendici del
vulcano spento Guanepy. La fortezza è il risultato della ristrutturazione di un
antico presidio del XV secolo, opera di Torriani.
Sull’isola si addensano altri piccoli centri storici. Haria e Maguez al Nord,
sepolte fra ricchi palmeti, custodiscono grotte vulcaniche un tempo abitate
dagli aborigeni e monoliti basaltici, luoghi di riti sacrificali.
Femés, all’estremità opposta dell’isola, occupa una balconata sullo stretto
della Bocaina, l’isolotto di Lobos e Fuerteventura. Tahiche è uno dei tanti
“T” dell’isola, con Timanfaya, Teguise, Teseguite, Tinajo, Tingueton, Teoyo,
Tao, e così via. Il prefisso è forse un articolo dell’antico lessico dei guanci.
Yaiza e Uga, gli eleganti villaggi gemelli ai piedi delle Montagna di Fuoco,
gli appagati paesoni contadini di St. Bartolomé e Mozaga al centro completano il panorama della Lanzarote di carne e di pietra.
Sulla costa c’è la Lanzarote di plastica, dove all’urbanistica tradizionale si
contrappongono le recentissime marine, prodotto turistico di consumo, falsocaliforniano-pseudo-ispanico non canariota.
Costa Teguise a Nord-Est di Arrecife è il centro vacanziero rampante, con
uno smisurato campo da golf. I suoi prati consumano più acqua di quanto non
ne beva tutta insieme la Repubblica Mauritana in Africa appena dirimpetto.
A Sud-Ovest della capitale Puerto del Carmen è la spiaggia elegante, più
Florida da telenovela che non Cancún casereccio.
A Playa Blanca approda il traghetto per Fuerteventura. Di lì procedendo
verso Nord si arriva alle saline di Janubio, colorate delle tinte più delicate: i
rosa e i lilla degli amarissimi sali di magnesio, i verdi tenui delle alghe tossiche che rivestono il fondo delle vasche di evaporazione.
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C ÉSAR M ANRIQUE
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César Manrique nasce a Lanzarote nel 1919, nel 1945 si trasferisce a Madrid dove studia alla
Scuola delle Belle Arti di San
Ferdinando. Si occupa di architettura e di cinema, compie le sue
prime esperienze di pittura non
figurativa proponendosi come uno
dei migliori artisti spagnoli.
Nel 1965 si trasferisce a New
York dove lavora intensamente per
tre anni e acquista notorietà intenazionale. Nel 1968 torna a
Lanzarote. Qui inizia la sua opera
per la salvaguardia dell’ambiente.
Concepisce, consiglia e fa adottare idee innovative di organizzazione del territorio, di architettura e
scultura nella sua linea di stile
popolare e naturalistico.
Alterna il lavoro nell’isola, nel
resto dell’arcipelago e in Spagna
con lunghi viaggi in tutto il mondo,
sovente al seguito delle sue esposizioni.
Muore per un incidente stradale
presso la sua casa di Tahiche, ora
sede della Fondazione a lui dedicata.
Così parla l’artista di se stesso e
della sua concezione esistenziale:
L’arte non ha limiti. Creare è infinito.
È molto più importante essere un
artista che un pittore. Ne è prova
evidente il fatto che tutte le grandi
opere dell’umanità, dalla Caldea,
all’Egitto, all’Assiria, al Rinascimento fino a oggi sono state ottenute da artisti capaci di creare
insieme disegni e edifici: Leonardo
da Vinci, Michelangelo (non era
architetto, e creò la cupola di S.
Pietro, che è l’opera più coraggiosa della storia dell’architettura).
Mi hanno chiamato architetto,
creatore di giardini, scultore, pittore. Sono un artista con una sensibilità plastica abbastanza grande da
poter applicare tutte le mie esperienze allo spazio naturale e, nello
stesso tempo, continua a piacermi
molto dipingere perché mi rendo
conto che lo scoprire le cose è
un’avventura.
Credo ci sia un’intelligenza superiore che risiede nella magnificenza dell’universo. Questo enorme
mistero che l’uomo non smette mai
di cercare, di sforzarsi di comprendere è l’eternità, lo spazio, il
tempo. L’uomo non potrà mai capi-
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re il concetto spazio-tempo...perché abbiamo un cervello con la
capacità di intendere solo ciò che
all’intelligenza del cosmo interessa
che sappiamo, e ci limita del tutto
la conoscenza dell’insieme.
Allora la conoscenza razionale è
sostituita dall’intuizione per la
natura che vive e si riproduce: tutta
la creazione è sommersa nel piacere.
Non è panteismo quello di
Manrique, che ha ben presente il
limite di se stesso, e riconosce alla
morte il merito di dare significato
all’esistenza:
la morte mi pare una cosa meravigliosa; il sapere che morirò mi permette di creare l’attimo. La morte è
la grande evasione che ti autorizza a essere audace nel corto spazio della vita, a poter fare le cose
più temerarie e divertenti. Sono
molto coraggioso perché so che
potrò evadere attraverso la morte.
L’arte deve essere in armonia con
la vita, che è creatrice, è natura
naturans.
L’arte ne è rappresentazione simbolica, il suo fine è di esaltarla in
tutti i modi.
Nella pittura attraverso l’uso di figure metonimiche. Una parte dell’orografia di Lanzarote è riportata nel
quadro come riferimento a tutta l’isola e al suo paesaggio vulcanico.
Nell’architettura attraverso il
gioco, che concepisce l’edificio a
imitazione dell’ambiente, produ-
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cendo l’illusione che l’abitazione
ne sia una parte.
È evidente che per raggiungere un
tale obiettivo, per credere in quel
risultato, occorre ricorrere all’artificio e all’immaginazione.
Alla fine quello che conta è la sensazione del piacere che proviamo
all’interno di uno spazio organizzato come imitazione scenografica
del creato. Non è una percezione
spirituale, trascendente, ma immediata, sensitiva.
Ogni opera di Manrique sprigiona
una felicità, una forza primordiale
che ci ricorda come anche noi facciamo parte della natura, siamo
natura, siamo vivi.
Il suo processo creativo è un’attività sperimentale, non un prodotto
puro dell’intelletto o un esercizio
teorico slegato dalla vita.
Ovviamente l’intuizione creatrice
che deriva dall’osservazione empirica richiede il sacrificio dell’elaborazione mentale. Ma - sta qui il
merito - la percezione, pur impiegando il sostegno della ragione,
non perde forza.
L’albero della vita è verde, la teoria è grigia.
Nella sua pittura è il colore a stabilire il contatto, a mettere lo spettatore dentro il sentire.
Nella scultura cinetica è l’immagine, la funzione del movimento:
è importantissimo che, mobile,
possa catturare l’aria. Deve avere
la capacità di muoversi. L’oggetto
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che si muove è un cacciatore di
vento (A. Caldér).
Nell’architettura è la dote di estrarre i propri edifici direttamente dal
paesaggio fisico. Da questi scaturisce la retroazione che permette di
reinterpretare, se si vuole, lo spazio naturale circostante.
L’arte di Manrique non è isolata. È
una delle espressioni più versatili
della creatività spagnola nel
Novecento. Insieme con Manrique
ci sono Gaudí, Caldér, Miró, Picasso,
c’è il grande passato iberico che
lo guida alla propria intuizione.
La “natura logica” presente nelle
costruzioni di Antonio Gaudí,
come nella Sagrada Familla in
Barcellona, a metà fra le torri gotiche e le guglie dolomitiche, è l’immagine rovesciata della “natura
intuita” di Manrique.
L’uso della materia e dell’energia,
l’alfa e l’omega della scultura di
Alexander Caldér, nel paese dell’aliseo diventa la rappresentazione del vento. L’atmosfera crea l’arte. Questa per essere non può fare
a meno di un elemento primo
come l’aria.
Il colore di Joan Miró, la sua gratuità creativa, la comunicazione
dell’incanto delle cose attraverso
un occhio puro è, nella dimensione
di Manrique, la gioia densa, sensuale del gran ventre fertile, della
matrice universale nella quale
viene concepita l’esistenza.
L’irruente metamorfosi di Pablo
Picasso, la sua continua ricerca di
nuove espressioni, mezzi, idee per
trasmettere in una volta sola tutte le
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realtà dei soggetti, diventa metonimia assunta come metodo del rapporto con il bioma circostante.
Il ricordo della lunga esperienza
americana non è dimenticato dall’artista di Lanzarote. È viva la tentazione di accostare i suoi tormentati monoliti di lava desolati alle
avvolgenti figure squallide di
Henry Moore.
L’opera di Manrique si radica nel
territorio e lo modella. Non può
non essere vista, né può essere
ignorata la proposta alternativa
che vi è insita. Nell’isola l’ambiente naturale, che si esprime con il
bell’orrido di una delle sue facce
più brute, è aggredito dagli edifici
del turismo speculativo, rischia di
esserne sommerso, distrutto: la barriera del cemento avvolge ormai
buona parte dei litorali dell’arcipelago. L’archi-tetto propone il suo
spazio geografico, inteso come
prodotto culturale e sociale. Il suo
paesaggio non esclude l’uomo. Il
suo mondo è abitato, ma in modo
che ne siano conservate le radici e
l’aspetto. Diventa una risorsa trasmissibile nel tempo alle generazioni future, non più prodotto di
consumo effimero.
Questo lavoro mastodontico permea ogni angolo dell’isola.
La gran parte delle pitture sono
conservate nella casa-museo della
Fondazione César Manrique a
Tahiche; molte si trovano nello studio dell’artista a Arrecife, la capitale dell’isola, e al museo internazionale d’arte moderna Castillo de
San Josésempre a Arrecife.
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Altre opere sono sparse nei musei
del mondo. Nel resto dell’arcipelago ricordiamo il Centro Atlantico
di Arte Moderna di Las Palmas a
Gran Canaria.
Fra le sculture il monumento alla
Fecundidad (o al contadino, com’è
anche chiamato) vicino a St.
Bartolomé domina il panorama
ondulato per chilometri all’intorno.
I giochi del vento, espressione
della sua arte cinetica, sono sparsi
un po’ dovunque, come le insegne
del parco naturale di Timanfaya e
di altre aree d’interesse.
Naturalmente molte opere si trovano nella casa-fondazione di
Tahiche. Nuove forme girevoli
piene di colore sono visibili nelle
altre parti dell’arcipelago.
Le costruzioni architettoniche e
paesaggistiche sono disposte strategicamente su tutto il territorio:
– a Est il Jardin de Cactus di Mala
e i Jameos del Agua vicino alla
Cueva de Los Verdes nel Malpaís
de la Corona;
– a Nord il Mirador del Rio che dà
sull’isola Graciosa;
– al centro la casa di Tahiche,
interrata in una delle nerissime
colate basaltiche più recenti,
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nascosta dai campi di scorie
taglienti e dalla vegetazione;
– a Sud l’Hotel Las Salinas di
Costa Teguise e il castello di San
Jose a Arrecife;
– a Ovest il Ristorante della
Montagna di Fuoco nel parco
nazionale di Timanfaya.
A Tenerife è notissima la Costa
Martiánez con il suo lago artificiale in riva all’oceano, le piscine, i
giochi del vento e la spiaggia di
sabbia nera vulcanica di Punta
Brava, dislocata in terrazze disposte su vari piani, abbellite da
cascate e da oasi di vegetazione.
In Spagna chi va a Madrid deve
vedere il Centro Commerciale
della Vaguada, chi visita Ceuta
può ammirare il Parco Marittimo
del Mediterraneo.
Non possono essere dimenticati i
suoi cimiteri, quello di Santa Maria
a Cadice, di Alcalá de Henares a
Madrid. Ne avrebbe costruito uno
anche a Lanzarote, forse per destinarlo al suo estremo riposo?
È possibile. È stato fermato dalla
morte. La sua opera, incompleta,
si integra anche in questo con il
paese della lava, provvisorio,
mutevole a ogni eruzione