Newsletter Marzo 2015

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Newsletter Marzo 2015
AESI
ASSOCIAZIONE EUROPEA DI STUDI INTERNAZIONALI
www.aesieuropa.eu
IN COLLABORAZIONE CON :
COMMISSIONE EUROPEA
Rappresentanza in Italia
CASD
Circolo Studi Diplomatici
SEMINARI DI STUDI EUROPEI PREPARATORI ALLE
CARRIERE INTERNAZIONALI E COMUNITARIE
“AVVENIRE DELL’UNIONE EUROPEA:
RIFORMA E SOSTENIBILITA’ ”
4
ANNO ACCADEMICO 2014/2015
NEWSLETTER MARZO 2015 A CURA DI:
Amb. Gianfranco Varvesi e Dott.ssa Federica Parisi - AESI
PROGRAMMA
10 Marzo 2015 – CASD PALAZZO SALVIATI ore 15.00
MINISTERO DELLA DIFESA
“UNIONE EUROPEA E NATO PER LA SICUREZZA IN EUROPA,
NEL MEDITERRANEO ED IN MEDIO ORIENTE”
Saluti: Gen. D. Nicola Gelao - Direttore del CeMiSS - CASD
Indirizzo di saluto personale ai giovani laureati AESI da parte del
Gen. Claudio Graziano - Capo di Stato Maggiore della Difesa – Ministero della Difesa
Prof. Massimo Maria Caneva – Presidnete AESI
Video : Sarajevo “Prove di Pace” Regia di Marco Clementi
Coordinatore : Gen. Antonio Catena – Comitato Scientifico AESI
Amb. Maurizio Melani – Comitato Scientifico AESI
Gen. Vincenzo Camporini – Vice Presidente IAI
Modera : Dott.ssa Marialuisa Scovotto – Direttore AESI
Indirizzo di Saluto del Gen. Claudio Graziano - Capo di Stato Maggiore della Difesa
In occasione del Seminario sul tema “Unione Europea e NATO per la sicurezza in Europa, nel
Mediterraneo ed in Medio Oriente”, mi fa piacere far giungere il saluto delle Forze Armate e
mio personale agli organizzatori, ai relatori, ai partecipanti ed a quanti hanno contribuito alla
realizzazione di questo importante evento.
Oggi saranno dibattuti argomenti di grande attualità e interesse – come quelli della sicurezza
internazionale e della gestione delle crisi – che mettono in discussione la tradizionale
compartimentazione tra le dimensioni della difesa avanzata e della sicurezza interna,
spostando la trattazione delle questioni nazionali in un’ottica sempre più globale.
Gli sviluppi dello scenario confermano come le minacce vadano rapidamente mutando nelle
forme, assumendo caratteristiche di estrema imprevedibilità, con indiscriminato uso della
violenza e rapidità di espansione, così da aumentare il livello di rischio nelle tradizionali aree
di crisi e coinvolgere popolazioni inerti.
Con la globalizzazione – generatrice di una spirale che dal collasso di intere entità statuali
passa per flussi migratori incontrollati, fino all’affermarsi di multinazionali del malaffare
intrecciate con fenomeni estremistici – la stabilità internazionale è sempre più direttamente e
intimamente legata anche alla sicurezza interna, come dimostra l’infiltrarsi del pericolo
radicalismo e terrorismo entro i nostri stessi confini.
Di fronte a questa spinta interconnessione, diversificazione, immanenza e delocalizzazione
delle minacce alla stabilità, in un clima di crescente competizione per le risorse, nessuna
nazione, neppure la più organizzata, è più in grado di agire in assoluta autonomia ma solo
attraverso un approccio omnicomprensivo ed in contesti multidisciplinari e di coalizione.
In questo senso, il recente semestre di Presidenza italiana ha dato ulteriore impulso al
processo di integrazione del Vecchio continente che tuttavia sembra attraversare una fase di
rallentamento mentre la NATO, pur agevolata da una storica coesione tra paesi membri, vive
la necessità di un adeguamento alle nuove problematiche e di un ribilanciamento dell’asse
Euro-atlantico, come emerso durante lo scorso Summit in Galles.
Tale quadro, con un baricentro geopolitico non più stabile, impone scelte condivise e
coraggiose, non più derogabili, che puntino sull’innovazione e su una capacità di risposta
mirata a ridurre i rischi più che ad eliminarli, capitalizzando sul vantaggio ideativo e
tecnologico dell’Occidente nonché riscoprendo il ruolo chiave della deterrenza sul piano
politico-militare.
Da qui la convergenza che, a mio avviso, Unione Europea e NATO dovrebbero ricercare, sia
per conseguire una maggiore efficacia nell’affrontare le sfide comuni sia per rendere più
efficiente l’impiego delle risorse disponibili in un momento di ristrettezze finanziarie che
impongono revisioni organizzative di tipo strutturale, anche oltre l’ambito militare.
Con queste premesse, sono certo che l’odierna giornata di approfondimento, svolta alla
presenza di relatori di primissimo livello e di un uditorio altamente qualificato, potrà
contribuire ulteriormente ad approfondire le varie tematiche allo studio ed a sviluppare idee
e proposte che possano stimolare sviluppi nelle adeguate sedi politiche e istituzionali.
Buon lavoro a tutti!
Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI
All’indomani degli Accordi di Dayton, si doveva costruire la Pace e le ferite del lungo e
drammatico conflitto erano ancora molto presenti. Nella sola Sarajevo, oltre 12.000 persone
avevano perso la vita, 50.000 mila erano i feriti e centinaia di migliaia i profughi, che in tutta
la Bosnia arrivavano ad essere oltre 2 milioni. Questo Video ci riporta a Sarajevo negli anni
immediatamente dopo l’assedio della città, quando una Delegazione di giovani laureati AESI
prendeva contatto per la prima volta con quella drammatica realtà fatta di strade e palazzi
distrutti e di una popolazione sopravvissuta ma ancora smarrita. Intorno alla città, nelle
campagne e sulle colline, era tutto minato.
Arrivato a Sarajevo qualche tempo prima nel quadro di una missione organizzata dalla Difesa
in occasione dei primi avvicendamenti di Contingenti di Forze di Pace italiane, cercai come
Sapienza Università di Roma di avviare i primi contatti con le parti universitarie che
rappresentavano quelle realtà sociali e culturali che erano state fino a poco prima in conflitto.
Percorrendo il lungo Viale - noto come “Viale dei cecchini” - che porta dall’Aeroporto al
Centro della Città dove era ubicato il Comando Italiano, si potevano vedere ancora i segni
della guerra e tutto sembrava fermo per le divisioni imposte dalla tregua. Con coraggio e
lungimiranza, ci sentivamo come dei pionieri del mondo accademico internazionale.
Grazie al sostegno delle Forze di Pace Italiane che garantivano sicurezza e appoggio logistico,
iniziammo ad organizzare i primi incontri con i Rettori delle Università della Bosnia
Erzegovina attraverso una innovativa strategia di cooperazione universitaria che vedeva
coinvolte in prima persona, anche nella parte accademica, le Forze di Pace Italiane e le
Nazioni Unite. A partire da Sarajevo, ci spostammo poi a Mostar (divisa in due dal conflitto),
sino a Banja Luka. Poi a Belgrado. Organizzammo con le Nazioni Unite la prima Conferenza
dei Rettori dei Balcani a Sarajevo per coinvolgere tutti.
Le Università della Bosnia Erzegovina dopo il conflitto erano isolate con i loro docenti e
studenti serbi, musulmani e croati. Anche Mostar con due università completamente
separate: una mussulmana e una croata. Arrivammo anche a Pale, sulle colline attorno a
Sarajevo, già sede del Comando Serbo dove si erano rifugiati docenti e studenti serbi, molti
fuggiti da Sarajevo, che avevano trasformato i vecchi impianti per le Olimpiadi invernali del
1984 in aule con la sede del Rettorato. Ricordo ancora che il Comando delle Forze di Pace
Italiano ci chiese, ci supplicò che facessimo visita a questa popolazione isolata sulle montagne
con la quale nessuno della comunità occidentale voleva avere contatti.
Obiettivo centrale era quello di promuovere un Corso universitario che potesse formare i
giovani, delle diverse parti in conflitto, alla gestione della Pubblica Amministrazione del loro
nuovo Paese. Uno sforzo di cooperazione universitaria che ci ha portato poi in tutti i Balcani e
a dare al programma una valenza Regionale con due poli di coordinamento a Sarajevo e
Belgrado.
A distanza di molti anni, oggi molti dei 120 giovani laureati del programma di cooperazione
universitario sono rimasti nel loro Paese: uno di loro eletto poco tempo fa vice sindaco di
Sarajevo, altri sono legal advisor del Presidente della Repubblica, alti funzionari del Ministero
delle Migrazioni. Ma una cosa deve essere riaffermata con forza: chi ha dato continuità e
forza a questa azione sono stati negli anni i giovani dell’AESI, voi in prima linea come linfa
vitale di speranza ! Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella
società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in
importanti avvenimenti storici. E questa è la missione nel tempo dell’AESI. Questo è quello
che chiede a voi giovani che siete qui per i Seminari di Studio del 2015 !
Intervento del Gen. Antonio Catena - Comitato Scientifico AESI
Meno di un mese fa, alla Conferenza Annuale sulla Sicurezza alla quale hanno partecipato
circa ottanta leader mondiali, diplomatici ed esperti di relazioni internazionali, è risuonata
questa condivisa affermazione: “l’ordine mondiale sta crollando e l’Europa è uno dei
maggiori punti critici di questo collasso”. L’ex Primo Ministro svedese ha così chiosato:
“dopo decenni in cui troppi hanno dato la pace per garantita, ora è il potere delle armi che sta
dettando l’uso della forza nell'immediato vicinato europeo”;......e “non solo”, aggiungerei io,
pensando, ad esempio all'Africa sub-sahariana ed alla Somalia.
Ma prima di proseguire, viene spontaneo chiedersi quali sono le minacce che sostanziano tali
affermazioni. Sono quelle ben esposte nei documenti strategici dell'Unione Europea (“To
guarantee security in a full changing world” del 2008) e della NATO (The NATO Strategic
concept - 2010) che vi invito a leggere. Non ne parlo, quindi. Mi soffermo invece su alcune fra
le loro attuali estrinsecazioni sul terreno: la crisi ucraina, la crisi mediorientale e la crisi libica.
La vicenda ucraina - direi inizialmente mal compresa dall'UE e dalla NATO – ha fatto
esplodere la frustrazione della Russia per la perdita dello status di Grande Potenza, con le
conseguenze che stiamo vivendo.
Il recupero della Crimea non è che il primo passo della strategia russa – prevedibilmente
seguita dall'autonomia se non dalla secessione delle province russofone - tendente alla
ricostituzione di una fascia di sicurezza e di influenza ai propri confini. Funzionale per la
realizzazione di tale progetto potrebbero anche risultare la presenza di consistenti minoranze
russofone nei Paesi Baltici (Estonia 25% circa della popolazione; Lettonia 29% circa; Lituania
6% circa) e la posizione geografica della Lituania “appoggiata” all'enclave russa di Kalinigrad
ed al corridoio che ne consente l'accesso. I rapporti di cooperazione che fin dalla sua
indipendenza l'Ucraina ha stabilito con la NATO in campo economico, politico e militare e
con l’UE, in vista dell'adesione, non hanno prodotto i positivi effetti sperati; anzi, secondo un
rapporto della Camera dei Lords di Londra “l'entrata degli europei nella crisi ucraina come
sonnambuli ha favorito il catastrofico fraintendimento dell'atmosfera durante lo sviluppo
della crisi”. Verrebbe da chiedersi se ed in quale misura la Gran Bretagna, membro autorevole
dell'Unione Europea, oltre che della NATO, abbia contribuito alla insufficiente efficacia della
Politica Estera e di Sicurezza dell'Unione. Ma oltrepasserei i limiti di questo intervento
introduttivo.
Difficilmente le sanzioni adottate, non senza titubanze, da Unione Europea e Stati Uniti nei
confronti della Russia ed il fragile accordo di Minsk, mediato da Francia e Germania,
potranno invertire il corso della vicenda ucraina: La Russia sta dimostrando di sapere ben
coniugare misure politiche, diplomatiche e militari in un unicum difficile da contrastare senza
un chiaro e leale intendimento tra UE e NATO.
La crisi mediorientale, ormai connessa a quella libica da un progetto unificante che
l'autoproclamatosi Stato Islamico di Iraq e Siria (ISIS o DAESH) ha dato all'Islamismo, si
caratterizza per la sua complessità dovuta anche al coinvolgimento di numerosi attori d' area
aspiranti alla leadership del mondo arabo. Ne derivano alleanze trasversali secondo
convenienze politico-militari ed economiche che pongono spesso in secondo piano le
appartenenze etniche e confessionali. Sono oltre trenta le nazioni aderenti alla Coalizione
guidata dagli Stati Uniti; ma con livelli di impegno diversificati che non facilitano la
pianificazione e la condotta di operazioni risolutive contro un avversario motivato da una
dottrina islamica radicale fino all'orrore, capace di svolgere offensive mediatiche senza
precedenti e di operare con procedimenti di guerra tradizionale per la occupazione di
territori, con tattiche di guerriglia e con azioni terroristiche. A frenare l'impegno attivo di
numerose nazioni – anche dell'UE – sarebbe, almeno ufficialmente, la mancanza di legittimità
dell'intera operazione....Alquanto stupefacente se si pensa, ad esempio, all'intervento della
NATO per fermare la pulizia etnica posta in atto dai Serbi in Kosovo nella primavera del
1999.
La crisi libica mi sembra meno complessa di quella Mediorientale, ma più pericolosa per la
sicurezza dell'Area Mediterranea, per l'Europa e per l'Italia in particolare. In Libia
l'integralismo islamico avanza distruggendo quel modello di società se non laica, almeno
tollerante, che il regime di Gheddafi aveva in qualche misura garantito. La città di Derna è
stata la prima a giurare fedeltà allo Stato Islamico del Califfo Abu-Bakr al Bagdadi: dunque,
una testa di ponte nel Mediterraneo. Le città di Bengasi e Sirte sono controllate dai “Partigiani
della Sharia”, nati dalla rivolta del 2011 ed oggi alleati dell'ISIS. La città di Sirte, dichiarata
capitale dello Stato Islamico, è però assediata dalle milizie del “Governo di Salvezza
Nazionale” di Tripoli appoggiato da Turchia e Qatar (sunnita) mentre il governo
internazionalmente riconosciuto di Tobruk è appoggiato, non senza sospetti reciproci, da
Egitto e Arabia Saudita (sunnita).
Se questo è il prodotto della Primavera Libica, ancorché nata dal legittimo bisogno di
democrazia, sarebbe stato forse conveniente sviluppare nel tempo una credibile, ferma
politica europea nei confronti dei regimi autoritari della sponda mediterranea invece che
favorirne o addirittura determinarne la rovinosa caduta senza un realistico progetto per il
dopo.
Oggi, nel pressoché totale disinteresse degli Stati Uniti che hanno altre priorità geostrategiche
e nello scontato rifugiarsi dell'UE dietro la poco produttiva mediazione delle Nazioni Unite,
lo spregio dei diritti umani continua, il flusso incontrollato dei migranti verso l'Europa cresce
a dismisura e l’insicurezza nei Paesi dell'Europa, specie Mediterranea, si fa più concreta.
Ed allora, nel quadro sommariamente delineato, quale parte potrebbero o dovrebbero recitare
l'UE e la NATO per garantire la sicurezza in Europa, nel Mediterraneo e nel Medio Oriente?
Il Presidente americano Theodore Roosevelt sosteneva che bisogna parlare dolcemente,
tenendo sempre un grosso bastone in mano. Fuor di metafora, l'affermazione potrebbe valere
anche per la Nato e per l' UE: con maggiori possibilità per la Nato - strumento, giova
ricordarlo, di collaborazione politica oltre che di cooperazione militare – con capacità di
deterrenza, come quella che sta esercitando nell'area baltica, e di interventi determinanti
come quelli svolti in anni recenti; con minori possibilità per l' UE caratterizzata da eccessive
incertezze nelle scelte di politica estera e di sicurezza e da numerose carenze nel campo della
difesa. Su quest'ultimo punto occorrerebbe uno specifico seminario, anche per uscire da
diffusi massimalismi che, pur dettati da nobili ideali di pace, rispondono poco alla necessità
di garantire la sicurezza della nostra società democratica, l'inviolabilità dei diritti umani, il
rispetto delle libertà fondamentali.
Da parte mia, pur convinto che l'impiego della forza non deve costituire l'immediata o,
peggio, preventiva risposta alle minacce, sento il bisogno di fare mio l'aforisma di un noto
fumettista della vostra generazione secondo cui “non si risolvono i problemi con la
forza...specialmente quando se ne ha poca”. Aggiungerei “e specialmente quando non si
riesce a decidere, nei tempi che le moderne crisi richiedono, se, quando, dove e come
impiegare in modo produttivo quella che si ha, in sistema, s' intende, con tutti gli altri mezzi
di cui le democrazie mature dispongono; fra questi, la moderna cooperazione civile-militare.
In conclusione, evitiamo che torni d' attualità l'amara constatazione che Tito Livio fa nel libro
XXI della sua opera storica “Ab Urbe Condita Libri”: “Dum Romae Consulitur Saguntum
Expugnatur”. Si riferiva, lo rammento, alla situazione che vede Annibale radere al suolo
Sagunto - città della Spagna alleata di Roma - dopo otto mesi di assedio durante i quali il
Senato Romano discute e non decide. E fu il casus belli della 2^ lunga e sanguinosa Guerra
Punica.
Intervento dell’Amb. Maurzio Melani – Comitato Scientifico AESI
1. L'Europa, e con essa l'Italia, devono affrontare situazioni di instabilità nel loro vicinato
orientale e meridionale che producono rilevanti minacce alle loro sicurezza.
Non si tratta di una novità. Per secoli questo stato di cose ha accompagnato la storia europea
parallelamente alle lotte per gli equilibri di potere tra le potenze nel cuore del continente, ma i
processi si sono accelerati negli ultimi decenni e in particolare negli ultimi anni.
Nella fase successiva alla seconda guerra mondiale, caratterizzata dalla guerra fredda mentre
si dipanavano i processi di decolonizzazione, la sicurezza dell'Europa di fronte alla minaccia
sovietica era garantita dalla NATO
Nella sostanza questo significava affidare la sicurezza europea alla deterrenza fornita dagli
Stati Uniti che malgrado qualche riluttanza iniziale si assumevano questa responsabilità
diversamente dal disimpegno attuato dopo la prima guerra mondiale.
La partecipazione degli alleati, in termini di capacità militari, era poco più che simbolica con
le eccezioni delle forze della Francia e del Regno Unito, comunque limitate nel quadro
complessivo degli equilibri militari mondiali.
Queste erano essenzialmente collegate a responsabilità, o velleità, post coloniali soprattutto
per quanto riguarda la Francia che intendeva anche mantenere una sua autonomia con
l'uscita dalla struttura militare dell'alleanza (nella quale è rientrata soltanto nel 2009), e alla
volontà di entrambe di mantenere uno status determinato dalla loro qualità di membri
permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e di possessori dell'arma nucleare.
Il collasso dell'URSS e il periodo di estrema debolezza della Russia che ne è seguito ha da un
lato determinato un riassetto dell'Europa centro orientale riassorbita nella sfera occidentale
attraverso l'unificazione tedesca e le adesioni alla NATO e all'Unione Europea, e dall'altro il
riemergere ad est e a sud di contrasti etnici e religiosi precedentemente sopiti dalle rigidità
della contrapposizione tra i blocchi.
L'unificazione tedesca era stata condizionata dalla Francia ad un rafforzamento del processo
di integrazione della Germania in una Unione Europea di cui si rafforzava però al tempo
stesso la componente intergovernativa.
La moneta unica era parte di questo disegno definito dal Trattato di Maastricht.
Era destinata a contenere la Germania e a consolidare l'integrazione economica e si è poi
rivelata un ulteriore fattore del rafforzamento comparativo dell'economia tedesca.
L'altro elemento è stato la creazione di una politica estera e di sicurezza comune, impostata
però su base strettamente intergovernativa.
Le guerre balcaniche e le crisi africane hanno accelerato questo processo spinto soprattutto
dalla Francia che ha dovuto tuttavia fare i conti, per quanto riguarda la creazione di effettive
capacità comuni, con le resistenze britanniche e con i rapporti con la NATO, la cui missione
era stata riconfigurata con il nuovo concetto strategico del 1999 riaggiornato nel 2010 per
effettuare missioni di gestione delle crisi.
Sono stati trovati compromessi che l'Italia ha favorito (ed in questo un ruolo importante fu
anche svolto proprio dal Generale Camporini alla fine della nostra presidenza nel 2003
quando io presiedevo il Comitato politico e di sicurezza dell’UE) e ciò ha consentito
all'Unione Europea di operare con proprie missioni civili e militari, queste ultime a volte
sostenute dalle capacità della NATO, nei Balcani, in Africa e altrove.
Oggi gli Stati Uniti, inizialmente scettici e prudenti rispetto ad una integrazione europea in
campo militare, sono più favorevoli a questa prospettiva in un contesto di ridefinizione delle
proprie priorità.
Sta di fatto che il processo di integrazione è oggi incompleto e insufficiente, ben al di sotto di
quelle che sarebbero le esigenze in un mondo multipolare, nel quale sono emerse nuove
potenze che stanno aumentando le proprie capacità militari parallelamente all'enorme
aumento del loro peso economico e conseguentemente anche politico.
Occorre più Europa anche e soprattutto in questo campo, con una razionalizzazione della
spesa e una messa in comune e condivisione di assetti e capacità ("pooling and sharing").
Su tale esigenza si è pronunciato recentemente anche il presidente della Commissione Jean
Paul Juncker, ma sappiamo che in questo campo la decisione spetta agli stati membri ed in
particolare a quelli che vogliono andare avanti (verosimilmente non tutti in una fase iniziale)
utilizzando eventualmente le possibilità offerte dal Trattato di Lisbona.
E vediamo anche quanto la crescita di sentimenti e movimenti scettici o ostili nei confronti
dell'integrazione contribuisca a rendere questo processo difficile proprio quando ve ne
sarebbe più bisogno.
Questi movimenti, con orientamenti di chiusura all'integrazione e spesso xenofobi,
costituiscono oggi un pericolo per la stabilità e per il futuro dell'Europa che se frammentata
vedrà i suoi stati membri condannati all'irrilevanza sulla scena mondiale con gravi
conseguenze sulla loro sicurezza e sulla loro prosperità.
Per contrastarli è anche necessario un cambiamento delle politiche procicliche di questi anni,
che hanno accentuato in molti paesi gli effetti della crisi, avviando invece misure favorevoli
alla crescita come fatto negli Stati Uniti.
L'avvento del nazismo fu favorito dalla recessione e dalla deflazione degli anni 30 accentuate
dalle politiche recessive del Cancelliere Bruning e non dall'inflazione degli anni 20 che pur
aveva avuto effetti devastanti sul piano economico e sociale.
Per favorire la crescita, a certe condizioni sulle quali non mi soffermo qui, potrà essere utile
anche il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, in corso di negoziato,
che potrebbe favorire l'agganciamento dell'Europa alla crescita americana e rafforzare i
legami euro-americani che restano fondamentali.
2. NATO e UE, quest'ultima con la Politica di Sicurezza e di Difesa Comune (PSDC) e con i
suoi strumenti di "capacity building” e sostegno economico, sono comunque oggi
complementari, pur con i loro limiti, ai fini della gestione delle crisi che ci circondano.
La prima, quella che abbiamo ad est, è anche conseguenza delle politiche occidentali dopo la
fine della guerra fredda.
Malgrado le intese più o meno esplicite al momento della fine dell'URSS e dell'unificazione
tedesca, l'allargamento della NATO ad est e la gestione delle crisi nei Balcani sono stati subiti
da una Russia allora estremamente debole, e poi considerati dopo l'avvento di Putin e della
sua politica di ristabilimento del ruolo della Russia ai livelli regionali e globali come
umiliazioni intollerabili e minacce alla propria sicurezza.
Ne sono seguite azioni di forza in Georgia, nel 2008, e in Ucraina, particolarmente evidenti a
partire dal 2013, alle quali Stati Uniti ed Europa hanno dovuto rispondere, quest'ultima con
maggiore prudenza in considerazione dei rapporti economici con la Russia di alcuni suoi
grandi paesi come la Germania l'Italia soprattutto in campo energetico.
Si è creata per alcuni versi una situazione che ricorda quella degli anni 30 nella quale la
Germania che aveva senz'altro subito umiliazioni e comportamenti eccessivamente punitivi
dopo la fine della prima guerra mondiale ha adottato dopo l'avvento di Hitler una politica
aggressiva facendo anche leva sulle minoranze tedesche nei paesi aggrediti cui le potenze
occidentali hanno risposto in modo tardivo e debole con la conseguenza di stimolare gli
appetiti nazisti e di rendere inevitabile la guerra.
Pur nella consapevolezza delle ricadute economiche negative che questo comporta, la
fermezza nei confronti di violazioni del diritto internazionale è necessaria ma occorre anche
scoraggiare comportamenti avventuristi in Ucraina e in altri paesi dell'ex-Unione Sovietica.
Il ruolo della NATO si rivela ancora una volta importante: va dato un messaggio chiaro,
anche con opportuni dispiegamenti di forze, che l'Alleanza garantisce la sicurezza dei suoi
membri (in particolare degli stati baltici che hanno forti minoranze russe), evitando al tempo
stesso inutili provocazioni come sarebbe quella di alimentare aspettative di una adesione
dell'Ucraina e della Georgia alla stessa NATO e all’UE.
3. Anche le situazioni di crisi nel Medio Oriente e nel Mediterraneo, che ci riguardano molto
da vicino in termini di approvvigionamenti energetici, pressioni migratorie, sicurezza e
aspetti umanitari, sono in parte dovute ai comportamenti occidentali ed in particolare degli
Stati Uniti all'inizio di questo secolo, con radici nei decenni precedenti.
La sostanza di quanto accade è un insieme di conflitti per gli equilibri nella regione e per gli
assetti di potere all'interno di stati in parte nati dagli accordi anglo-francesi dopo la prima
guerra mondiale nel quadro dell'interesse strategico occidentale per le risorse petrolifere della
regione.
Vi è la contrapposizione tra Iran e suoi alleati sciiti in Iraq, in Siria e in Libano da un lato, e
Arabia Saudita e suoi alleati sunniti dall'altro, cui ha dato impeto l'intervento americano in
Iraq che ha di fatto aperto spazi a Teheran e mortificato i sunniti iracheni risucchiati nella
lotta armata.
E vi sono quelle all'interno del mondo sunnita tra Turchia e Qatar da un lato con i loro alleati
della fratellanza musulmana favoriti dalle rivolte del 2011, e Arabia Saudita ed altre
monarchie del Golfo dall'altro che sostengono al tempo stesso la restaurazione militare in
Egitto e movimenti salafiti.
In questo quadro di instabilità e di conflitti incrociati ha trovato spazio il jahdismo estremo,
rappresentato prima da Al Qaeda e ora dall'ISIS.
Si tratta di forze nate da realtà che erano state sostenute dagli Stati Uniti e dall'Arabia Saudita
in Afghanistan al tempo dell'occupazione sovietica e ancora prima per contrastare le
repubbliche arabe laiche di ispirazione nazionalista e socialista e poi una percepita minaccia
sciita dopo la rivoluzione iraniana.
Esse hanno successivamente evidenziato tutta la loro carica anti-occidentale con l'attentato
alle Torri Gemelle e al Pentagono nel 2001 ma sono state in vario modo strumentalizzate da
forze della regione in funzione anti-sciita e per non agevolare la stabilizzazione di un Iraq in
buoni rapporti con l’Iran e destinato a ridiventare un grande produttore ed esportatore di
idrocarburi.
Oggi esse sono una minaccia per gli stessi regimi che le hanno tollerate se non agevolate, e vi
sarebbe quindi l'opportunità di costituire un fronte comune contro il terrorismo.
E' sulla costruzione di questo fronte che occorre lavorare essendo anche pronti a fare le
pressioni necessarie su nostri tradizionali alleati.
Se come speriamo il negoziato in corso con l'Iran si concluderà con una intesa che garantisca
la non acquisizione di capacità nucleari militari fermi restando i diritti del paese derivanti dal
Trattato di non proliferazione si potranno aprire nuove prospettive per la stabilizzazione
nell'area con nuovi equilibri mutuamente concordati.
4. Lo scontro in corso tra i paesi sunniti mediorientali si manifesta anche in Libia ove le
condizioni di instabilità e fallimento dello stato hanno anche lì lasciato spazi per il jihadismo
estremo che si richiama ora al Daesh.
E' una situazione di importanza cruciale per noi per tutte le ragioni che sappiamo.
Come sembra ormai chiaro a tutti non vi sono attualmente le condizioni per un intervento
militare occidentale che non sia preceduto da una intesa tra le forze libiche interessate ad
eliminare chi si collega all'ISIS o si definisce tale.
Ma affinché questo si realizzi occorre favorire una convergenza tra chi sostiene
rispettivamente il governo di Tobruk (Egitto, Arabia Saudita ed Emirati) e quello di Tripoli
(Turchia e Qatar), con il coinvolgimento dell'Algeria e di altri paesi africani interessati alla
stabilizzazione della Libia dalla quale dipende in larga parte quella di tutta la regione.
E' questo un compito rispetto al quale, nel quadro dell'azione condotta dalle Nazioni Unite,
un ruolo importante può essere svolto dall'Unione Europea ed in particolare dall'Italia.
Ma sarà bene che in questa azione non ci si schieri con alcuna delle due maggiori parti in
campo la cui convergenza è necessaria per sconfiggere i criminali che si ricollegano all'ISIS,
sapendo che nessuna di loro può prevalere militarmente in modo risolutivo sull'altra e che
alla percepita parzialità del mediatore si accompagnerebbero la perdita della sua credibilità e
lo stimolo ad ostilità diffuse nei suoi confronti.
Successivamente al raggiungimento di una auspicata intesa, una presenza di "peace keeping"
e di "capacity building" nel campo della sicurezza da parte dell'Unione Europea con gli
strumenti militari e civili di cui essa dispone può essere necessaria, eventualmente con la
NATO e con l'Unione Africana, ovviamente nell'ambito di un mandato delle Nazioni Unite.
Questo non esclude che interventi specifici e puntuali da parte di forze speciali e attività
navali o aeree per fare fronte a particolari situazioni possano essere effettuate, ma senza
lasciare truppe a terra.
Cosi come può non essere escluso che nel quadro di una intesa tra le parti libiche e tra gli
attori della regione, ed in attesa che vi siano le condizioni per una attività di peace keeping,
azioni di peace enforcement siano condotte con la partecipazione o il sostegno di forze
regionali purché non abbiano un carattere unilaterale, abbiano invece un chiaro mandato
dell’ONU e di Organizzazioni regionali (come Lega Araba e Unione Africana) e non siano in
favore di una delle due principali parti come è attualmente l’intervento egiziano
5. L'approccio regionale e l'azione per una intesa tra gli attori interessati è necessario ed ha
avuto successo in altre situazioni in cui l'Italia ha avuto un ruolo importante.
Ricordo i Balcani, ed in questo ambito l'operazione Alba a guida italiana che ha stabilizzato
l'Albania; il Libano per il quale si è lavorato con Israele, con la Siria e con l'Iran; il
Mozambico, nel quale con l'ausilio nel dialogo tra le parti di soggetti religiosi della società
civile come la Comunità di Sant'Egidio e la Chiesa mozambicana abbiamo condotto l'azione
diplomatica con i paesi della regione, le Nazioni Unite, l'OUA e gli Stati Uniti ed abbiamo poi
guidato la presenza militare di "peace keeping" e di "capacity building"; la fine delle ostilità
tra Etiopia ed Eritrea nel 2000 per la quale abbiamo operato, con un mandato dell'UE, con
l'OUA, rappresentata dall'Algeria, con gli Stati Uniti e con le Nazioni Unite.
In tutti questi casi la presenza militare si inseriva in un preciso progetto politico di
pacificazione nell'ambito di una architettura diplomatica realizzata con il concorso dei paesi
limitrofi e delle organizzazioni internazionali e regionali, nonché dell'Unione Europea e,
laddove ve ne erano le condizioni e le necessita, della NATO.
E' quanto occorre cercare di fare anche in Libia e in Mesopotamia, avendo come primo
obiettivo l'eliminazione del Daesh e nel medio e lungo termine l'affermazione di condizioni
sostenibili di pace e stabilità.
Gen. Vincenzo Camporini – Vice Presidente IAI
Buonasera a tutti, cercherò di essere abbastanza sintetico anche perché chi è intervenuto
prima di me ha fatto un quadro assai completo della situazione in cui ci troviamo e trovo
assai appropriato che un ex militare possa parlare dopo un diplomatico. Perché gli eserciti,
con la loro forza, sono solo uno strumento nelle mani della politica: quindi ci deve essere un
disegno ben strutturato, ben evidente per tutti, all'interno del quale è possibile utilizzare la
forza. Ma l'utilizzo della forza senza un quadro politico è pura follia, come dimostrato da
tutto quello che è accaduto recentemente - il caso libico fu assolutamente un esempio
eclatante.
Io sono più pessimista dei relatori che mi hanno preceduto. Sono pessimista perché vedo una
sorta, non dico d'involuzione, ma un tragico immobilismo. Qui stiamo infatti ancora
discutendo quando Sagunto viene espugnata. L'Unione Europea all'inizio di questo secolo '99 e 2000 - ha fatto dei progressi straordinari, se pensiamo alla costruzione della Pesc/Pesd
che avvenne in pochi mesi. In pochi mesi si fecero progressi che prima non era stato possibile
fare in decenni; e poi, ci siamo fermati.
Ci siamo fermati perché siamo tornati ad un tipo di concezioni arcaico - io dico - in base al
quale domina il concetto di sovranità nazionale. Noi siamo un'organizzazione - l'Unione
Europea - mista: c'è una parte comunitaria e una parte intergovernativa, la Difesa fa parte
dell'area intergovernativa e i governi sono assolutamente gelosi di questo. Hanno ragione di
esserlo? Io dico che questo è un sintomo di grande miopia, perché quando si parla si sovranità
di cosa parliamo? Io sono sovrano quando posso prendere una decisione e ho gli strumenti
per farlo. Gli strumenti finanziari, gli strumenti fisici. Oggi in Europa, nemmeno la grande
Germania di Angela Merkel può permettersi di definire degli obbiettivi e perseguirli perché
non ne ha i mezzi. I mezzi militari sono quelli che oggi mancano in modo straordinario.
L'intervento di Junker dell'altro giorno, che io trovo fuori dalle righe, è comunque un segnale
che indica che oggi in Europa non esiste la capacità per sostenere una politica estera coerente.
Non ci sono più i carri armati, non c'è più l'artiglieria. Ci siamo cullati nell'illusione che
l'utilizzo delle forze armate sarebbe stato quello di un peacekeeping più o meno pesante - al
massimo in Afghanistan dove bisognava combattere contro le mine, e nient'altro che contro le
mine - ma senza la necessità di avere altro tipo di strumento.
Qualcuno invece gli strumenti li ha ancora o se li sta procurando e qualcuno li sta usando. E
non sto parlando di un singolo Paese, ad esempio la Russia. La Cina ad esempio ha
annunciato un aumento delle sue spese militari per quest'anno del 10% - una crescita
comunque più bassa rispetto a quella dell'anno scorso - ma è tanto per darvi un'idea. I Paesi
Europei invece stanno tagliando le spese. Benissimo, legittimo, ci sono altre priorità, c'è il
problema della crisi economica, ci sono visioni diverse: ma siamo consapevoli che queste
visoni diverse hanno delle conseguenze. Ad esempio oggi Putin può fare quello che gli pare.
Che abbia torto o ragione - io passo per un filo russo - con tutta la buona volontà, in modo
onesto, in modo occidentale, l'Europa e la Nato hanno fatto di tutto - ripeto in buona fede per irritare la Russia: l'abbiamo umiliata e le conseguenze della guerra fredda sono state tali
che c'è stata una continua erosione dell'area d'influenza russa - e non mi si venga a dire che il
concetto di sfera d'influenza è un concetto arcaico, perché è un concetto esistente - ci
sentivamo buoni, volevamo esportare, non dico la democrazia, ma sicuramente il nostro
livello di benessere verso un Paese come l'Ucraina che era in difficoltà, senza renderci conto
che andavamo ad incidere su equilibri veramente precari. Le reazioni ci sono state, e uno
dovrebbe oggettivamente fare il bilancio di dove stanno le responsabilità.
Sta di fatto che le decisioni oggi le può prendere Putin, è lui che decide cosa vuole, mentre
noi, in qualche modo, dobbiamo solo addolcire la pillola. Mi rendo conto che questa è una
visione abbastanza cruda, mi rendo conto che non è una visione comune, ma vi invito a
prendere atto della situazione anche da questo punto di vista. L'Unione Europea ha
rinunciato alla sua capacità d'influenza e si trova in una situazione che era, guardate, simile a
quella dell'Italia del 1840: tanti statarelli, ciascuno viveva nel suo benessere, ma con un
piccolo problema. I destini di Ferrara, di Venezia, non venivano decisi lì, ma piuttosto a
Vienna, Parigi e Londra. Oggi abbiamo una situazione analoga: i destini dei Paesi europei
non vengono decisi a Berlino e Londra, ma a Washington, Pechino; e senza fare delle
dietrologie è chiaro che le difficoltà della moneta comune europea, magari sono state spinte
da qualcuno di fuori.
Per questo motivo i Paesi che continuano a trincerarsi dietro il concetto di sovranità nazionale
e di rapporti intergovernativi su queste tematiche stanno commettendo un errore storico.
Qualche mese fa ho avuto modo di ascoltare uno straordinario ambasciatore americano in
pensione - era a Mosca nell'89 - che ha iniziato il suo discorso con una frase che vi regalo e che
merita una riflessione: «la Storia non si ripete ma fa rima». Questo per dire che ci sono degli
schemi, delle analogie che debbono essere presi in considerazione e che fanno parte della
logica; e quindi così come l'Italia del 1840 è simile all'Europa di oggi, così l'instabilità in Medio
oriente, a mio avviso, ha delle analogie con quello che accadeva in Europa nel 1500, 1600: le
guerre di religione. Anche lì avevamo due diverse visioni della stessa confessione religiosa -
protestantesimo e cattolicesimo - un protestantesimo frammentato, in lotta al suo interno e in
lotta con il cattolicesimo: ma in realtà si trattava di una ricerca di potenza da parte di alcune
potenze regionali per il dominio dell'area. La Spagna dominava nei Paesi bassi; chi ha letto i
Promessi sposi sa che anche a Milano c'erano gli spagnoli. Ora questa commistione dell'epoca
le possiamo ritrovare oggi nelle lotte tra sunniti e sunniti, e tra sunniti e sciiti; ma non perché
ci siano delle lotte di religione all'interno, ma perché ci sono delle lotte di potenza tra Turchia,
Iran, Arabia Saudita ed Egitto: quattro potenze che ambiscono ad avere il dominio regionale e
che per conseguirlo alimentano - grazie al carburante fornito dalla passione religiosa - questi
conflitti. Questa situazione la viviamo noi occidentali trascinati per la giacchetta: perché
abbiamo problemi di approvvigionamento energetico, abbiamo bisogno di questi Paesi, o
soltanto perché abbiamo dei sensi di colpa, a mio avviso abbastanza ingiustificati, perché
dopo tutti questi decenni le colpe si potrebbero cercare altrove. Ma è un dato di fatto che
esistono queste situazioni in cui noi siamo trascinati e strumentalizzati. Non ho soluzioni, ma
è un dato di fatto che quello che sta accadendo intorno a noi presenta dei pericoli, presenta
degli inconvenienti seri che non affrontiamo con la dovuta coesione; e vengo all'ultimo
concetto.
Non c'è coesione perché nessuno vede le situazioni di crisi alla stessa maniera. Una settimana
fa ero a Berlino per un convegno organizzato da Chatham House e da SWP. Si parlava di
NATO e della situazione europea: nessuno ha parlato della Libia, tutta l'attenzione era
focalizzata sulla situazione ucraina. Al Nord delle Alpi, della Libia, non interessa nulla.
Siamo gli unici che percepiscono questa situazione come un rischio - io dico giustamente. Ma
è un problema che in qualche modo mina la coesione di tutti i Paesi, perché ognuno la vede in
modo diverso. E vedendola in modo diverso all'interno dell'Unione Europea amplifichiamo la
differenza con l'alleato di oltre Atlantico: gli Stati Uniti. È possibile allora un ruolo
complementare e integrato tra Unione Europea e NATO? In linea teorica sì, nella pratica
qualche volta avviene, ma nella forma e nella sostanza siamo ancora lontani anni luce. Perché
si tratta di due organizzazioni che hanno un'appartenenza comune ma non gli stessi
obbiettivi. Abbiamo un problema grossissimo - non è il solo - che blocca qualsiasi tipo di
cooperazione reale tra le due strutture: si chiama Cipro e Turchia, è un problema che non ha
soluzioni. Avrebbe potuto averla quando ci fu un referendum voluto dalle Nazioni Unite per
la riunificazione. Quel referendum fallì - giusto la settimana prima dell'adesione di Cipro
all'Unione Europea - e con una cecità pazzesca l'Unione Europea non fermò l'adesione di
Cipro. Fu una decisione politica, certamente ben motivata; sappiamo però che oggi è
impossibile a Bruxelles una riunione tecnico formale tra elementi della Nato e elementi
dell'Unione; si vedono ai cocktail: il Segretario generale della Nato e Federica Mogherini si
vedono lì, ai cocktail. Più di questo non si può fare. E da questo punto di vista abbiamo un
ostacolo serio, apparentemente insormontabile. E allora cosa bisogna fare?
Quello che bisogna fare è il salto verso una cooperazione europea più forte. Soltanto
un'Unione Europea veramente coesa diventerà un interlocutore attendibile, credibile e solido.
Bisogna superare gli egoismi che abbiamo di fronte, ma per questo servono dei leader, e io
francamente in Europa di leader non ne vedo: Hollande non lo è, Cameron ancora meno,
Angela Merkel ha una sua visione stretta, ma forse si sta allargando… forse. C'è Putin, ma
non credo sia un fattore unificante per la Comunità Europea, se non come reazione. Il
problema è - e chiudo con questo - che leader significa colui che conduce. Vi invito a leggere
un libro scritto da John F. Kennedy quando era ancora Senatore, si intitola Profili nel
coraggio. È la storia di dieci parlamentari americani che nel corso della storia degli Stati Uniti
andarono contro il volere dei propri elettori: andarono poi incontro a delle sconfitte elettorali
sicure, perché ritenevano di dover sostenere una tesi non condivisa dai propri elettori: perché
erano leader e hanno trascinato il proprio Paese a diventare quello che poi è diventato. Oggi
noi non abbiamo dei leader, abbiamo dei lead; abbiamo gente che apre il giornale al mattino,
legge l'esito dell'ultimo sondaggio e decide di conseguenza. Voi siete i leader del futuro, non
fate come loro.
Intervento della Dott.ssa Marialuisa Scovotto – Direttore AESI
Negli ultimi decenni il significato geostrategico del bacino del Mediterraneo ha subito una
profonda trasformazione. La marginalità del cosiddetto Southern Flank, che aveva
caratterizzato il calcolo politico-strategico euro-atlantico sin dagli inizi della Guerra Fredda, è
stata progressivamente superata.
La distanza che tradizionalmente separava le dinamiche geopolitiche e di sicurezza europee,
mediorientali ed eurasiatiche (la crisi ucraina, siriana, israelo-palestinese, siriana, solo per
citare le più problematiche nell’attuale scenario) sembra essersi ridotta favorendo
l’interconnessione e l’espansione di fenomeni che trascendono le divisioni regionali classiche.
D’altra parte la contrazione della distanza politica, economica e strategica ha imposto
l’allargamento del concetto di spazio di sicurezza europeo, tanto sotto un profilo geopolitico,
che in una prospettiva geo-economica e geostrategica.
Di fronte ad un così vasto mutamento dello scenario globale e regionale, l’Alleanza Atlantica
ha cercato di reagire attraverso l’adozione di nuove politiche. Così, a partire dalla metà degli
anni ’90, la NATO, su iniziativa italiana, ha superato gli approcci geopolitici alla base della
politica estera statunitense e di buona parte dei Paesi nordeuropei dei decenni precedenti ed
ha riconosciuto il Mediterraneo come un teatro che, pur diversificato, presenta tali caratteri di
unità da permettere il riconoscimento di un’unica regione geostrategica e geo-economica.
In tale quadro, nel gennaio 1994, nonostante le cautele di una parte dei Paesi membri, la
NATO, dietro un intenso lavoro politico-diplomatico italiano e sulla scia del successo dei
negoziati a Oslo per la definizione del processo di pace in Medio Oriente e del delinearsi del
processo di allargamento ad est dell’Alleanza e dell’Unione Europea, ha varato il Dialogo
Mediterraneo quale iniziativa diretta ad avviare rapporti di cooperazione, con alcuni dei
paesi mediterranei, per una migliore comprensione reciproca. Per perseguire tali obiettivi è
nato il Dialogo Mediterraneo, sviluppatosi come un processo a carattere dinamico, evolutivo
ed aperto alla partecipazione di altri paesi non-NATO che intendano e siano in grado di
contribuire alla sicurezza e stabilità della regione mediterranea. In base ad un consenso tra i
membri della NATO, i primi partner con cui l’Alleanza ha instaurato tale Dialogo sono stati,
all’inizio del 1995, Egitto, Israele, Marocco, Mauritania, e Tunisia, ai quali si sono
successivamente aggiunte Giordania (alla fine del ’95) ed Algeria (nel 2000).
È stata confermata la volontà di rafforzare la cooperazione nelle aree in cui la NATO può
apportare il proprio contributo, specialmente nel settore militare (l’osservazione di
esercitazioni terrestri e marittime, seminari e visite a installazioni NATO, allo scopo di
incentivare la fiducia reciproca in un’ottica di trasparenza). Grazie a tale sviluppo hanno
quindi potuto prendere forma attività di cooperazione con l’Egitto, la Giordania ed il
Marocco in operazioni in Bosnia – Erzegovina e con la Giordania ed il Marocco in Kossovo,
inoltre :
•
l’Egitto ha richiesto l’assistenza NATO per sminare fasce di territorio attorno ad ElAlamein;
•
il Marocco e l’Algeria hanno manifestato segnali di maggiore apertura;
•
la Tunisia si è dimostrata propensa all’allargamento del Dialogo ad altri stati arabi ed a
stringere più stretti legami con la NATO e con l’UE;
•
la Giordania ha dichiarato il proprio interesse nel rafforzamento della cooperazione nel
settore del narcotraffico, dell’anti-terrorismo e della prevenzione dai disastri;
•
Israele, infine, ha manifestato interesse alla cooperazione nel settore della
pianificazione delle emergenze civili e militari e nel settore dell’antiterrorismo.
Dopo l’11 settembre 2001, la NATO ha compreso la necessità di un’intensa cooperazione nel
Mediterraneo quale priorità strettamente legata e funzionale alla sicurezza euro-atlantica e
delle regioni afro-asiatiche. Il Dialogo Mediterraneo dell’Alleanza è stato pertanto oggetto di
un ulteriore e vistoso sviluppo ed in particolare:
•
dall’ottobre 2001, si svolgono periodici incontri multilaterali, tra il Consiglio Atlantico
e gli ambasciatori accreditati a Bruxelles dei sette paesi NMD, sotto la presidenza del
Segretario Generale della NATO;
•
in occasione dell’incontro del maggio 2002 a Reykjavik, i ministri degli esteri NATO
hanno introdotto nuovi settori d’interesse, tra cui le consultazioni in materia di sicurezza
comune, inclusi gli aspetti connessi con il terrorismo;
•
nel luglio 2002, il Consiglio Atlantico ha dichiarato che “le relazioni con i paesi NMD è
tra le maggiori priorità dell’Alleanza” ed il Segretario generale della NATO, riconoscendo al
Mediterraneo una nuova rilevanza per quanto concerne la sicurezza dell'Occidente, ha
indicato quali motivo di preoccupazione il suo potenziale di instabilità, il terrorismo, il
conflitto israeliano-palestinese e le controversie connesse tra arabi e israeliani, la
proliferazione delle armi di distruzione di massa e dei missili, la questione energetica;
•
in occasione del successivo vertice di Praga dei capi di Stato e di governo dei paesi
NATO (novembre 2002), è stato adottato un inventario di possibili settori per incrementare la
dimensione politica e pratica di cooperazione con i paesi NMD, specie in materia di
informazione e trasparenza su attività ed obiettivi NATO per contribuire alle giuste
percezioni da parte delle opinioni pubbliche di quei paesi.
Sotto un profilo più generale l’iniziativa mediterranea dell’Alleanza ha visto accentuare la
propria valenza ed il proprio ruolo quale fattore teso alla promozione di stabili e pacifici
legami anche tra gli stessi paesi della sponda sud del bacino (dimensione sud – sud)
introducendo nell’evoluzione del quadro geopolitico del Mediterraneo allargato spinte atte a
contenere processi dinamici evidentemente capaci di coinvolgere profondamente regioni
adiacenti e lontane.
La NATO e i governi occidentali ritengono che gli Stati della sponda meridionale del
Mediterraneo siano esposti agli stessi rischi e alle stesse minacce che essi stessi sono chiamati
ad affrontare. Pertanto il margine per la cooperazione nel settore politico e della sicurezza si
prospetta ancora più ampio che nel passato.
Dal canto loro, i partner mediterranei della NATO hanno dimostrato un forte interesse a
sviluppare ulteriormente la cooperazione con l'Alleanza in vari settori, avanzando numerose
proposte concrete. Il risultato è stato un cospicuo pacchetto di misure volte a migliorare la
dimensione politica e pratica del Dialogo Mediterraneo, approvato dai leader dell'Alleanza
nel ricordato vertice di Praga. Tali misure includono la possibilità di utilizzare ulteriormente
le opportunità offerte dal dialogo multi/bilaterale esistente, per rafforzare gli attuali
strumenti istituzionali stabilendo un più regolare ed efficace processo di consultazione
nonché intense relazioni politiche ad alto livello e continue consultazioni da parte di esperti.
Quest'ultimo aspetto riguarda specialmente i settori nei quali la NATO ha un riconosciuto
vantaggio comparativo ed i partner del Dialogo vi hanno manifestato interesse. Questi, in
prospettiva, potrebbero includere:.
•
la formazione, l'addestramento e la dottrina militare quali iniziative atte a conseguire
una certa interoperabilità necessaria ai partner mediterranei nelle esercitazioni ed attività
congiunte delle forze militari;
•
la sanità militare, incluse le relative misure preventive nel settore nucleare, biologico e
chimico;
•
la riforma della difesa e i principi economici della difesa, tra cui le migliori procedure
nella gestione civile ed economica delle forze di difesa;
•
la sicurezza dei confini, specie riguardo al contrabbando di armi leggere, alle attività
illegali legate al traffico di esseri umani e della droga;
•
la proliferazione delle armi di distruzione di massa;
•
la lotta al terrorismo in tutte le sue forme
•
la pianificazione civile di emergenza, inclusa la gestione delle calamità;
•
la tutela dell'ambiente.
L’Italia, il Mediterraneo e il Medio Oriente.
La politica estera dell’Italia nei confronti dei Paesi del Bacino mediterraneo e del Medio
Oriente risulta di vitale importanza per il perseguimento dell’interesse nazionale del nostro
Paese. Quella che si muove a Sud verso il Nord Africa (Maghreb) e, ad Est, verso il
Mediterraneo orientale e i Paesi del Medio Oriente, è infatti, la direttrice forse più rilevante
per l’azione estera dell’Italia, almeno se prendiamo in considerazione il punto di vista
geografico e geopolitico. Se è vero che Roma ha storicamente, almeno dal Secondo
Dopoguerra ai giorni nostri, costruito solidi rapporti transatlantici da un lato e, dall’altro,
europei – partecipando in maniera attiva e sin dall’inizio alla costruzione di quella che
sarebbe divenuta l’Unione Europea – è altrettanto vero che l’interesse nazionale di un Paese
risente della posizione (nel senso non politico del termine) che questo occupa all’interno della
mappa globale. Tenendo presente quest’ultima considerazione, sono proprio le sponde Sud
ed Est del Mediterraneo a costituire il contesto più prossimo con cui l’Italia deve confrontarsi.
E, d’altro canto, non può esimersi dal farlo, in quanto, come vuole la tradizione delle relazioni
internazionali, si Possono scegliere gli alleati, ma non i vicini.
La Siria è nel mezzo di una rivolta popolare che si è progressivamente trasformata in una
guerra civile, rendendo il Paese molto simile alla Libia nel periodo intercorso tra l’intervento
della NATO e la caduta definitiva di Gheddafi. L’esito di questo scontro interno è tutt’altro
che scontato e non è da escludere un nuovo intervento esterno, da parte di attori europei,
arabi e della Turchia. Qualsiasi nuovo scenario potrebbe avere ripercussioni notevoli anche su
altri contesti regionali, Libano in primis. Proprio in Libano l’Italia è fortemente impegnata a
mantenere la stabilità al confine israeliano, essendo il Paese che, con più di 1.600 uomini sul
campo, ha il contingente più numeroso della missione UNIFIL, sotto l’egida delle Nazioni
Unite.
Come riuscire a tenere insieme il sistema di solide alleanze europee e transatlantiche costruite
nei decenni, far sì che la macchina della politica estera europea possa funzionare in maniera
univoca e sortire effetti tangibili sul mondo esterno e, contemporaneamente, poter continuare
a perseguire il proprio interesse nazionale, nel caso in cui questo si dimostri divergente
rispetto agli altri attori europei?
Tali dilemmi dimostrano quanto sia importante per Roma e per tutti gli Stati membri della
UE riuscire a trovare posizioni comuni nelle questioni più delicate di politica estera. Ciò non
vuol dire semplicemente riuscire a raggiungere degli accordi che possano mettere insieme le
varie esigenze degli attori europei ogni volta che si presenti una situazione critica con cui
doversi confrontare, perché questa sarebbe una soluzione di breve periodo. Qui torniamo
all’annosa questione della necessità di instaurare un meccanismo diplomatico e politico che
agisca in nome di tutta l’organizzazione europea in maniera permanente.
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FORUM AESI
RAPPRESENTANZA DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN ITALIA
SPAZIO EUROPA 3 Marzo 2015
Papers Studenti :
L’UE E LA NATO E LA SICUREZZA IN EUROPA,
NEL MEDITERRANEO E IN MEDIO ORIENTE
Dott. Federico Di Benedetto
La sicurezza è un tema fondamentale della relazione tra la NATO e l’Unione Europea, che ci
pone di fronte alla capacità di questi organismi di sapere affrontare le sfide poste dal mondo
odierno.
Diventa perciò importante parlare di quanto sta accadendo nell’Est europeo, specialmente in
Ucraina, così come cercare di capire gli avvenimenti della Libia, i flussi migratori che si
verificano nel Mediterraneo e che sono direzionati in Italia, gli stravolgimenti che stanno
caratterizzando il Medio Oriente, specialmente l’Iraq e la Siria. Ma soprattutto, non si può
fare a meno di chiedersi in che modo la NATO e l’Unione Europea affrontino queste
situazioni. Ma quale punto di vista adottare?
Negli scorsi forum di preparazione e seminari si è parlato della necessità dell’Occidente di
ritrovare la sua spiritualità, di fare riferimento ai valori che l’hanno portato ad assumere la
leadership nella Storia, sia nella modernità che nell’epoca contemporanea, e che tanto hanno
contribuito allo sviluppo della civiltà e del sapere nel mondo.
I 28 Paesi che costituiscono la NATO oggi hanno il compito di guardare alla pienezza della
vocazione dell’Organizzazione di cui fanno parte, che non consiste nella sola -per quanto
importante e necessaria- pianificazione e applicazione di operazioni militari o nel dare voce
agli interessi di alcuni partner (vedi Stati Uniti), ma nella necessità di dare spazio alla
collaborazione politica, che porti ad un dialogo costruttivo soprattutto con la Russia, quale
attore geopolitico di primaria importanza ai fini di una distensione dei punti di (dis)equilibrio
che oggi destabilizzano il mondo.
Se guardiamo all’Europa oggi, possiamo dire che essa è in crisi: manca una politica europea
che sia capace di guidare congiuntamente l’azione delle Istituzioni europee e quella degli
Stati membri. Forse l’Europa non sa cosa vuole: lo sanno gli Stati membri. Non a caso la
definizione politica estera e di sicurezza comune è guidata da istituzioni a carattere
intergovernativo, come il Consiglio europeo e il Consiglio, mentre la sua attuazione
spetterebbe all’Altro Rappresentante, che però pare rappresentare una figura di basso peso
politico: pensiamo all’accordo raggiunto a Minsk, dove si sono incontrati il presidente russo
Vladimir Putin, il presidente ucraino Petro Poroshenko, e come rappresentanti per l’Europa,
il presidente francese Francois Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel.
In questo senso, fa pensare il criterio dell’unanimità come regola di votazione nelle sedi
consiliari e l’esclusione della possibilità di adottare atti legislativi nel settore della PESC.
L’Europa ha bisogno di una svolta nell’impostazione delle sue relazioni con il resto del
mondo, se vuole tornare ad assumere un ruolo importante nello scenario internazionale. Per
poter istituire lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia di cui si parla all’articolo 3 del Trattato
sull’Unione Europea, come riformato a Lisbona, è necessario far riferimento a quanto
affermato all’articolo 2 del medesimo Trattato, per il quale “L'Unione si fonda sui valori del
rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e
del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori
sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione,
dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”. In altre parole,
diventa necessario cominciare a cogliere il punto di vista dell’altro, liberarsi dei pregiudizi
culturali e non assumere posizioni integraliste.
La sfida dell’Islam: Medio Oriente e Libia
“Non basteranno armi e denaro contro al Baghdadi: dobbiamo essere in grado di proporre al mondo
sunnita una narrazione alternativa e più convincente”1. Riprendo la citazione di Mario Giro,
sottosegretario agli Affari Esteri, come base per una riflessione su quanto sta avvenendo in
Libia e in Medio Oriente. La partita più difficile si gioca in questa regione. Qui geopolitica,
equilibri internazionali, etnie e religioni si intrecciano in un groviglio di nodi difficile da
sciogliere. A seguito dell’intervento militare americano in Iraq e Afghanistan dopo l’11
settembre 2001 e a causa delle primavere arabe, che hanno portato alla disgregazione dei
regimi di paesi come la Tunisia, l’Egitto, la Siria, si è generato un vuoto politico, la cui
conseguenza naturale è stata ed è tutt’ora il caos, di cui sta approfittando il gruppo di jihadisti
guidati da al Baghdadi. Costoro stanno cercando di costruire uno Stato islamista nei territori
di Iraq e Siria, sfruttando il desiderio degli arabi sunniti di liberarsi da vecchi gioghi
geopolitici imposti dall’Occidente e di eguagliare la fazione sciita che già fa riferimento ad
uno Stato, l’Iran. Un ruolo decisivo lo gioca il discorso religioso e la spinta che deriva dal mito
dell’epoca d’oro del primo Islam. Quest’ultimo concetto, che ha molta presa specialmente nel
reclutamento di giovani europei musulmani nella fila dei jihadisti, deriva dalla concezione
1
Mario Giro, La sfida che ci lancia lo Stato Islamico, Limes, 29.12.2014 http://temi.repubblica.it/limes/la-sfidache-ci-lancia-lo-stato-islamico/67586
wahhabita, corrente religiosa fondata da Ibn Abd al Wahhab (1703 – 1792), che guarda
all’origine dell’Islam come paradigma a cui ciascun musulmano deve ispirarsi. Pertanto lo
Stato Islamico propone una soluzione etnico religiosa, per stimolare sia la componente
arabista che quella islamista ai fini di un suo consolidamento.
L’organizzazione Jihadista si definisce uno Stato, delinea il su assetto intorno a giacimenti
petroliferi, corsi d’acqua, villaggi e città importanti come Mossul e Raqqa e fonda il suo
funzionamento sulla legge coranica. Ma il vero punto di forza dell’IS è la comunicazione, sia
verso l’Occidente, impaurito e terrorizzato da quanto ci viene mostrato dai video di sua
produzione, sia verso gli arabi sunniti, promettendo loro la costruzione di uno Stato e il
raggiungimento della libertà, la fine dell’oppressione da forze straniere e interessi di
geopolitica. Niente di nuovo, se pensiamo alla nostra storia e ai nazionalismi europei.
In Libia la situazione non é molto diversa: il paese si trova nel caos, generato dal vuoto di
potere dovuto al rovesciamento del regime di Gheddafi, che ha governato il paese dal 1969
fino al 2011, anno della sua morte. La situazione odierna è delicatissima e disastrosa. Ci sono
due governi che si contendono il controllo del paese: quello di Tobruk ad Est, guidato da
Abdullah al Thani, riconosciuto a livello internazionale e risultante dalle elezioni dello scorso
giugno, anche se dichiarate nulle dalla Corte suprema libica, e quello di Tripoli, capeggiato da
Omar al Hassi, che guida una colazione comprendente forze estremiste. La contrapposizione
tra questi due governi ha radicalizzato il rifiuto reciproco l’uno dell’altro, tanto che nemmeno
l’ultimo tentativo di mediazione da parte delle Nazioni Unite, verificatosi a gennaio, ha
portato ad esiti positivi.
La mancanza di una leadership politica unica per tutto il Paese, la debolezza delle strutture di
governo e dei parlamenti delle due fazioni, ha facilitato l’emergere delle milizie che lottano
per il controllo del territorio. Queste milizie sono l’espressione di interessi tribali e locali e
includono formazioni jihadiste. Il governo di al-Thani ha appoggiato l’Operazione dignità della
Libia, lanciata dalla milizia dell’ex generale Khalifa Haftar, il quale cerca di legittimare la sua
posizione e il suo ruolo in Libia, combattendo le milizie jihadiste.
Lo stato confusionale della situazione libica non permette di capire quante siano le forze
riconducibili allo Stato Islamico presenti nel territorio e quanto stretto sia il rapporto con il
nucleo originario di Iraq e Siria. Le forze operanti nel paese nord africano affermano di
appartenere all’organizzazione dello Stato Islamico, che ora controlla città importanti come
Derna e Sirte. Il rischio di un intervento militare è quello di acuire la frattura già esistente tra i
due governi e l’instabilità del paese, anziché risultare punto di forza per la legittimazione
interna del governo di Tobruk e per la risoluzione delle minacce jihadiste, che invece
risulterebbero rafforzate nel loro fondamentalismo e nel loro obiettivo di continuare a
combattere l’Occidente e l’imposizione dei suoi equilibri geopolitici.
Come possono intervenire la NATO e l’Unione Europea? Quali sono le azioni strategiche che
potrebbero rivelarsi utili ai fini di un miglioramento di queste situazioni?
Un primo passo potrebbe essere quello di pianificare un’azione politica congiunta, per non
lasciare soli i paesi che nel Medio Oriente o Nord Africa si trovano a combattere per la
sussistenza dei propri Stati. Quanto meno in Libia, NATO ed Unione Europea potrebbero
adoperarsi per ottenere un cessate il fuoco, in maniera diplomatica e, se necessario, militare.
Operazioni di peace keeping potrebbero rivelarsi molto preziose ai fini della sicurezza dei civili,
delle strutture governative, per l’installazione di depositi d’acqua, impianti elettrici e pozzi
petroliferi. Ma soprattutto si auspica una soluzione politica della crisi libica, con un
intervento programmato NATO – UE a sostegno del parlamento di Tobruk.
Nel frattempo gli americani sono usciti allo scoperto e hanno dichiarato di essere pronti
all’addestramento in Iraq di truppe irachene e curde per uno scontro diretto contro lo Stato
Islamico, prima dell’estate, per riconquistare Mossul2. Simili operazioni stanno avendo luogo
in Qatar, Giordania, Arabia Saudita, ma soprattutto in Turchia, dove il ministro degli esteri
turco Sinirlioglu e l’ambasciatore americano in Turchia, John Bass, hanno firmato un accordo
per l’addestramento, che dovrebbe cominciare nel mese di marzo, di forze ribelli moderate in
Siria, pronte a combattere sia lo Stato Islamico che il regime di Assad.
Al di là delle operazioni militari, risulta fondamentale cominciare a percepire il punto di vista
di chi ci combatte. Gli estremisti islamici vedono nell’occidente un mondo corrotto, che pensa
solamente all’espansione e consolidamento dell’economia capitalistica e finanziaria delle
banche.
L’Europa, cosi come gli Stati Uniti, hanno bisogno di mostrare quanto sia forte la loro
democrazia, senza cadere nella provocazione di mostrarsi nelle virtù militari, tramite una
politica di potenza. Per rispondere alle minacce dell’Isis, l’Occidente deve mostrare il lato
positivo della globalizzazione economica e può farlo solamente con politiche economiche che
non accentuino le differenze di ricchezza tra Stati industrializzati e Stati in via di sviluppo.
Globalizzazione deve significare prendere coscienza delle differenze che esistono nel mondo
tra popoli e culture diverse e non considerarle un peso o un ostacolo ai fini di un maggior
arricchimento economico, ma spazio di sviluppo e consolidamento di una maggiore
solidarietà e dialogo tra i popoli. Se l’Occidente vuole vincere questa battaglia, non può
mostrare il volto di un integralismo culturale (la supremazia dell’Occidente sull’Oriente), che
fa il gioco del nemico che si vuol vincere. Né ci si può limitare a parlare di scontro di civiltà,
perché questo significherebbe rinnegare i valori europei sintetizzati all’art. 2 TUE.
Il Mediterraneo e l’immigrazione
Il tema della stabilità politica si collega inevitabilmente a quello dell’immigrazione, che vede
l’Europa, con l’Italia in prima fila, coinvolta dai flussi di persone che, in condizioni disumane
sono costrette ad affrontare viaggi, che purtroppo non sempre garantiscono l’arrivo nei
luoghi di destinazione. La guerra civile in Libia ha portato ad un aumento dei flussi migratori
e questo ha comportato un problema verso il quale l’atteggiamento dell’Europa è stato
tutt’altro che coerente con i principi europei di solidarietà, non discriminazione, uguaglianza
e ha evidenziato una mancanza di una politica comune sull’immigrazione, frutto del diverso
modo di percepire e pensare alla responsabilità dei flussi migratori nel Mediterraneo.
Dall’ottobre 2013, l’Italia, con l’operazione Mare Nostrum, guidata dalla Marina militare e
durata fino al primo novembre 2014, ha soccorso circa 100.250 persone, arrestato più di 728
scafisti e sequestrato 6 navi. Tuttavia emergono anche i dati negativi che riguardano i 499
morti nelle operazioni di salvataggio, i 1446 presunti dispersi e i 192 cadaveri da identificare.
Il costo necessario per affrontare questa operazione è stato di 114 milioni di euro in un anno,
9.5 mensili. L’Europa ha deciso di muoversi attraverso Frontex, l’agenzia europea per la
2
Lolita Baldor, Official: Mission to retake Mosul to begin in April, May, Associated Press 19.2.2015
http://bigstory.ap.org/article/9f9586c2577d49b2b4ca0d1b7ecfe825/official-mission-retake-mosul-begin-aprilmay
gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri
dell’Unione Europea, venuta alla luce con il regolamento del Consiglio 2007/2004, che ha
inaugurato l’operazione Triton, a partire dal primo novembre 2014 e in sostituzione di Mare
Nostrum. Ma la spesa che l’agenzia europea delle frontiere affronterà per sostenere questa
operazione è di 3,5 milioni di euro mensili ed essa non si spingerà oltre la frontiera Italiana
(fino a 30 miglia dal litorale italiano), mentre Mare Nostrum operava quasi fino ai confini
della Libia. Il paese ospitante l’operazione è l’Italia, che per questo motivo riceverà le navi
intercettate. Triton schiererà ogni mese due navi d’altura, due navi di pattuglia costiera, due
motovedette, due aerei ed un elicottero. Tra i paesi partecipanti oltre l’Italia (che mette a
disposizione un aereo, un pattugliatore d’altura e due costieri) ci sono l’Islanda (con una
nave) e la Finlandia (con un aereo). Il centro di coordinamento internazionale dell’operazione
è stabilito presso il Comando aeronavale della Guarda di finanza a Pratica di mare (Roma). I
mezzi Frontex partiranno da due basi: Lampedusa e Porto Empedocle e pattuglieranno il
Canale di Sicilia ed il mare davanti alle coste calabresi fino a 30 miglia dal litorale italiano.
La scarsità dei mezzi messi a disposizione stride con la gravità della situazione. Di fronte alla
morte di migliaia di persone e alla criminalità organizzata che sfrutta situazione di guerre
civili per imbarcare illegalmente le persone, l’Europa risponde con misure restrittive, dedite
alla salvaguardia dei confini, ma non offre soluzioni a chi ne avrebbe bisogno. In questa
battaglia è in gioco la credibilità dell’Europa, perché il problema della migrazione non può
essere solamente a carico di chi ne percepisce gli effetti in prima battuta, proprio come l’Italia.
E’ l’Europa che è chiamata a rispondere usando le sue carte migliori, applicando i suoi valori
verso gli emigranti, e non giocando di rimessa, adottando un’ottica di spending review o di
eccessiva sicurezza preventiva. All’Europa ora spetta mostrare quanto i suoi principi siano
solidi e aperti al resto del mondo.
La Russia
La sicurezza in Europa vede la Russia come attore principale, accanto (anche se sarebbe più
realistico dire in opposizione) alla NATO e all’Unione Europea. Non c’è dubbio che gli eventi
che dall’aprile dello scorso anno hanno avuto luogo in Ucraina hanno influito e stanno
influendo sull’andamento delle relazioni tra la Russia e l’Occidente. I toni sono molto tesi.
Putin3 ha recentemente descritto la NATO come il principale nemico della Russia, mentre il
vice segretario generale della NATO, Alexander Vershbow, non ha usato dolci parole per
raffigurare il comportamento della Russia: ha parlato di aggressione e ha ribadito che il
modus operandi messo in atto da Mosca non riflette la strategia adottata solo per l’Ucraina,
ma più in generale quella degli ultimi anni4. L’accordo di Minsk, entrato in vigore dal 15
febbraio e sottoscritto dal presidente russo Putin, da quello ucraino Poroshenko, dalla
cancelleria tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Francois Hollande, oltre ad aver
sottolineato l’assenza di peso politico delle istituzioni europee, (nessuna delle quali era
presente alla sottoscrizione dell’accordo) ha ottenuto un cessate il fuoco nella regione del
Donbas, Ucraina dell’Est, tra l’esercito di Kiev e le armate dei separatisti filorussi. Il fantasma
che appare all’orizzonte è quello dell’accordo già trovato a settembre sempre a Minks, ma
mai rispettato. La posta in gioco è molto alta. Da un punto di vista militare, si sta lavorando
3
4
Putin, Consiglio di sicurezza russo del 26 dicembre 2014
Alexander Vershbow ,Oslo, 2 febbraio 2015 http://www.nato.int/cps/en/natohq/news_117068.htm
per il ritiro delle armi pesanti da entrambi le parti e delle truppe straniere impegnate nel
conflitto; ulteriori sforzi sono previsti per il rilascio dei prigionieri e la fornitura di aiuti
umanitari. Parte dell’accordo riguarda l’assetto dell’Ucraina: gli obiettivi prefissati sono,
entro la fine dell’anno, la stesura di una nuova costituzione, che introduca la
decentralizzazione e statuti speciali per le regioni di Donestk e Lugansk, sotto il controllo dei
filorussi, e l’impostazione di un dialogo politico, che porti ad una definizione dei confini
nazionali da parte del governo ucraino. Il tutto avverrà con il costante monitoraggio del
cessate il fuoco da parte dell’OCSE.
Molte sono, nel mondo occidentale, le preoccupazioni per lo stato della tregua. L’Europa deve
inevitabilmente fare i conti con il rifornimento energetico, di cui la Russia è il suo principale
fornitore, mentre gli Stati Uniti stanno cercando di risolvere questo problema attraverso lo
Shale Gas (che però è più una scommessa, che una alternativa). L’esacerbarsi dei rapporti tra
NATO e Russia ha portato gli Stati Uniti a parlare di un eventuale invio di armi all’esercito
ucraino, qualora il cessate il fuoco non perduri. Ma ciò potrebbe portare ad una escalation del
conflitto e ad un sostanziale irrigidimento (qualora ce ne sia ancora il bisogno) delle relazioni
tra la Russia e paesi europei e l’intero sistema NATO. Gli Stati Uniti, in particolare, hanno
dichiarato di essere disposti anche all’addestramento dell’esercito di Kiev, che fino ad ora non
si è mostrato sufficientemente attrezzato per sconfiggere le forze separatiste russe. Ma a
quest’atteggiamento, se ne contrappone uno più cauto di Francia, Germania, Gran Bretagna,
le quali non vorrebbero diventare i principali e prossimi protagonisti di un conflitto contro la
Russia. La quale sta facendo la voce grossa anche nei paesi baltici per ribadire, nonostante
l’appartenenza alla NATO di Lituania, Lettonia ed Estonia dal 2004, che quella zona è ancora
d’influenza sovietica. Non c’è bisogno di ulteriori dichiarazioni sulla disponibilità ad
utilizzare armi, anche nucleari, per capire che Russia e NATO (o meglio Stati Uniti) siano
disposti ad intervenire e mostrare la propria forza per risolvere il conflitto. Ma quello che ci si
chiede è se effettivamente questo sia il metodo giusto o più efficace. Non sarebbe più
opportuno che l’Occidente (USA) riconoscesse che la politica del contenimento non può avere
luogo in questa fase storica nei confronti dei suoi avversari? Che non ci si trova più in una
fase di contrapposizione tra fazioni completamente contrapposte? Non sarebbe più saggio
riconoscere le sfere d’influenza della Russia e cercare di avviare dialoghi politici volti al
mantenimento della pace piuttosto che ricorrere alla politica di potenza? Forse questo
atteggiamento faciliterebbe anche il quieto svolgersi del mercato energetico, con Europa e
Stati Uniti impegnati proprio in Medio Oriente e in Russia.
IL RAPPORTO TRA UNIONE EUROPEA E NATO:
PROBLEMATICHE E POSSIBILI SOLUZIONI
Dott.ssa Federica Cocivera
Vorrei principalmente incentrare l’attenzione su alcuni punti cruciali del rapporto tra Unione
Europea e Nato in tema di sicurezza. Oggi più che mai , infatti, assistiamo ad un aumento
esponenziale delle minacce alla pace ed alla sicurezza internazionale. Il processo di
globalizzazione è entrato a tutti gli effetti nelle nostre vite, ed è purtroppo entrato anche
attraverso il terrorismo, di conseguenza, come esaustivamente affermato nel seminario di
apertura, “Non si tratta più di un concetto astratto e ci introduce in un mondo dai contorni incerti”.
Quindi è evidente come la sicurezza internazionale debba essere perseguita con tutti i mezzi
possibili: - in primis con una efficace diplomazia preventiva, (e soprattutto oggi in Libia
notiamo quanto questa sia importante e rilevante per cercare il più possibile di prevenire
interventi militari, che invece sarebbero un grande rischio per le democrazie occidentali.
Difatti un’ azione con finalità di peacekeeping oggi sarebbe impossibile, perché le milizie non
accetterebbero di sottomettersi ad una forza militare e ci sarebbero atti ritorsione), - in
secondo luogo rileva come sia importante il rafforzamento di organizzazioni, quali appunto
Nato e UE. L’Unione europea e la Nato percorrono da anni un cammino di avvicinamento
reciproco, a partire dal vertice di Washington del 1999, in cui l’UE rese manifesta l’esigenza di
dotarsi di un’autonoma capacità logistica delle situazioni di crisi ed in cui l’Alleanza Atlantica
rendeva disponibile le proprie capacità di pianificazione agli alleati europei. La ridefinizione
dei rapporti tra Nato ed Unione Europea , oggi ha assunto un aspetto cruciale. Molti però
sono ancora i nodi da sciogliere . In primo luogo, la divisione dei compiti e delle
responsabilità, ma anche la carenza di un dialogo politico ed istituzionale, ed ancora la
mancanza di un chiaro coordinamento e di cooperazione a livello pratico tra le due
organizzazioni nella gestione delle situazioni di crisi. Ci troviamo di fronte ad un momento
cruciale, lo si è visto nell’attuale vicenda in Ucraina, ma anche in Libia, le quali stanno
mettendo in chiara luce le debolezze, le fragilità e soprattutto le modifiche che devono essere
apportate a questo sistema di rapporti. Sicuramente gli “Accordi Berlin Plus”, e
successivamente l’individuazione delle cosiddette “missioni di Petersberg”, incluse
all’articolo 17 del Trattato sull’Unione Europea, hanno costituito un passaggio chiave nel
progresso in tal senso, in quanto rappresentano un tentativo di superamento delle
problematiche indicate, ma l’esplosione delle rivolte nel Medio Oriente ha stigmatizzato, oltre
l’inadeguatezza del tradizionale approccio dell’Unione Europea nei confronti del
Mediterraneo, anche la fragilità della sua azione esterna e le difficoltà nello svolgere un ruolo
incisivo. La stessa gestione della crisi libica ha messo in luce le debolezze dell’Alleanza
Atlantica. Varie infatti sono le strategie, una francese, una statunitense, una italiana e non
risulta sempre di facile realizzazione il raggiungimento di un obiettivo comune. Sicuramente
la crisi libica, e di conseguenza la gestione europea delle ondate di immigrati che approdano
sulle coste italiane, stanno influenzando non poco la credibilità sia della Nato che dell’Unione
Europea, che, come sappiamo, vengono sempre giudicate in base a come lavorano e
soprattutto a come viene percepita la loro presenza sul territorio. Il partenariato tra UE e Nato
nella gestione delle crisi si è sempre basato su valori comuni e sulla indivisibilità della
dimensione della sicurezza. Mentre la Nato rimane la base della difesa collettiva dei suoi
membri, la Politica di Sicurezza e difesa comune (PSDC) ha ottenuto la capacità di utilizzare
strumenti già a sua disposizione per far fronte alle situazioni di crisi. Tuttavia, in materia di
cooperazione tra UE e Nato spesso è stato difficile individuare un’agenda comune, dovuto
anche a meccanismi di raccordo spesso oggetto di veti incrociati. Il caso più eclatante è il veto
della Turchia sulla partecipazione di Cipro agli incontri Nato-UE. Per quanto riguarda,
invece, la cooperazione operativa tra le due organizzazioni, sembra questa essere
maggiormente efficace, ma, anche in questo caso, varie sono le difficoltà che si sono sollevate,
quali ad esempio quella di intervenire tempestivamente, dato che le due istituzioni devono
preventivamente accordarsi sulle strategie da adottare. Un ulteriore aspetto da analizzare
riguarda la cooperazione tra Unione Europea e Nato in materia di antiterrorismo, che,
soprattutto oggi, rimane problematica. Come sottolineato precedentemente, l’UE tende a
incentrare la propria attività principalmente nelle politiche di sicurezza, nonché nel campo
della lotta al terrorismo internazionale, mentre la Nato vanta un approccio immediato e
consolidato ad attacchi di tale natura. Dal momento che la minaccia del terrorismo è sempre
più in evoluzione, anche l’impegno europeo per contrastarla deve evolversi, affinché possa
anticipare tali tipologie di minacce. Il miglioramento delle capacità di cui ha bisogno l’Europa
non deve contrapporsi ai poteri della Nato, ma deve condurre al miglioramento qualitativo
dei centri di comando e dei sistemi di difesa, cambiamenti, sia di tipo strategico che di tipo
tattico. L’Europa sembra soffrire gli stessi problemi della politica estera comune, ossia troppo
limitate deleghe di porzioni della sovranità nazionale da parte degli Stati, che temono una
eccessiva discrezionalità. Si è sentita inoltre l’esigenza, da più acclamata, della costruzione di
una forza militare europea, per superare i limiti che i singoli Stati incontrano e per realizzare
una politica di sicurezza e difesa che sia all’altezza delle sfide attuali. La presenza di un
esercito europeo potrebbe, difatti, conferire alla Nato maggiore forza , e consentire , invece,
all’Unione Europea di avere maggiore presenza politica in ambito internazionale. Quindi
l’Unione Europea dovrebbe sì avere un approccio civilistico integrato e rafforzato per il
mantenimento dell’ordine pubblico, ma allo stesso tempo dovrebbe avere anche una
componente militare che mantenga la sicurezza e pianifichi le operazioni. Sicuramente, non
soltanto l’UE ma anche la Nato presenta dei limiti strutturali che rendono fondamentale un
rafforzamento della responsabilità strategica dell’Unione Europea nel medio e lungo termine.
I numerosi tagli che alcuni Stati Membri hanno apportato alle spese militari non hanno però
portato a passi aventi significativi. Lo stesso Parlamento Europeo ha manifestato la necessità
di creare un maggior rafforzamento dei rapporti tra Unione Europea e Nato, che dovrebbero
appunto sviluppare una cooperazione più solida nelle operazioni di gestione delle crisi, che si
basi su una migliore gestione delle attività, nonché sulla creazione di strutture di
cooperazione permanente (che comunque non pregiudichino la natura autonoma ed
indipendente di entrambe le organizzazioni). Ciò consentirebbe infatti di apportare un
efficace aiuto nelle attuali situazioni di crisi, senza mettere da parte la partecipazione di tutti i
membri Nato. Attualmente, quindi, per l’Unione Europea e la Nato, la via migliore risulta
essere quella di sincronizzare al meglio i processi di sviluppo delle proprie capacità militari e
di cooperazione, in modo da evitare qualsiasi futura ripercussione sulla sicurezza in ambito
europeo ed internazionale, e soprattutto rimuovere gli ostacoli politici che vi si frappongono.
SVILUPPI RECENTI
Dott.ssa Giulia Fossi
Io vorrei, invece, soffermarmi sugli sviluppi più recenti della Nato e dell’Ue in materia di
sicurezza e difesa, rilevandone le principali criticità e potenzialità. Questo nell’ottica,
soprattutto, di animare un dibattito attorno al futuro rapporto tra le due Organizzazioni e agli
scenari possibili.
Nato
Partendo dalla Nato, va subito rilevato come sia cambiato il suo ruolo a partire dalla fine
della Guerra Fredda. Venuto meno il nemico sovietico che aveva costituito la principale
ragion d’essere dell’Alleanza ha iniziato a delinearsi una sua proiezione esterna con
prospettive di una Nato sempre più globale, impegnata in azioni che andavano al di là della
tradizionale difesa territoriale. Questa nuova tendenza è evidente a partire dal Concetto
Strategico del 1991 e del 1999. La Nato si è inoltre aperta ai Paesi dell’ex blocco sovietico che
hanno mostrato una certa propensione ad entrare nell’Alleanza come garanzia di sicurezza da
eventuali rivendicazioni territoriali da parte della Russia. Dalla prospettiva dell’Alleanza
questo allargamento verso est ha risposto alla doppia esigenza di contribuire al
consolidamento delle istituzioni democratiche dei Paesi ex satelliti dell’URSS e alla riduzione
del rischio di conflitti in Europa. Questo ha comportato l’entrata di diversi Paesi dell’Europa
orientale e delle tre Repubbliche baltiche.
Ad oggi il ruolo della Nato è definito dal Nuovo concetto strategico del 2010 che si basa
sull’idea che l’attuale scenario geopolitico mondiale è in continuo mutamento e che la
sicurezza dell’area europea e nord-atlantica è minacciata da molteplici fattori di criticità; tra
quest’ultimi le crisi regionali diffuse, le minacce terroristiche e cibernetiche, la criminalità
organizzata, le interruzioni dei flussi di risorse energetiche, la proliferazione delle armi di
distruzione di massa, l’instabilità permanente di alcune realtà statuali e l’emersione di nuove
forme di minacce denominate ibride. Nel sottoscrivere questo documento i Capi di Stato e di
Governo hanno voluto inviare un messaggio politico rimarcando l’importanza del legame
euro-atlantico, riaffermando la missione principale della Nato: “Prevenire le crisi promuovendo
la stabilità internazionale prima che le criticità geo-strategiche mettano in crisi la sicurezza dei 28
Alleati”. Ed è proprio su questo ruolo “globale” della Nato che si è aperto un intenso dibattito
tra il gruppo dei Paesi favorevoli a tale tipo di approccio, quelli più propensi alla difesa
collettiva del territorio euro-atlantico ed un terzo gruppo orientato su una posizione
intermedia. Il nuovo Concetto strategico ha ridisegnato il futuro dell’Alleanza essenzialmente
attorno a 3 pilastri: la difesa collettiva ,e quindi l’art. 5 del Trattato di Washington, che rimane
il vero core business dell’Organizzazione, questo soprattutto a causa degli avvenimenti del
decennio 1999-2009, in particolare l’11 settembre che ha rimesso in luce la vitalità di questo
principio per i Paesi membri; il secondo pilastro è stato individuato nella gestione delle crisi,
basata sempre di più su un approccio multidimensionale, il cosiddetto comprehensive approach
(integrazione dei compiti civili e militari). Questo perché di fronte alla nuove crisi e minacce
che sono spesso di natura ibrida e asimmetrica la capacità militare non può più costituire
l’unico strumento per fronteggiare queste situazioni; infine la sicurezza cooperativa, da
attuarsi attraverso l’istituzione di partenariati con altre Organizzazioni e Paesi esterni
all’Alleanza Atlantica, e che mira alla stabilità del panorama internazionale. A tal fine, ad
esempio, la Nato a partire dagli anni ’90 ha sviluppato partenariati internazionali in Europa,
Asia centrale, nel Mediterraneo e nel Golfo e ha rafforzato il dialogo e la cooperazione con i
tradizionali partner dell’Asia e dell’Oceania come il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia e
la Nuova Zelanda (i cosiddetti Paesi amici). L’obiettivo è quello di rafforzare la sicurezza in
Europa, assistendo i Paesi non membri nella riforma del settore sicurezza e difesa secondo gli
standard della Nato e creando meccanismi di cooperazione contro le nuove minacce regionali
e globali. Questo tuttavia non ha comportato delle garanzie di sicurezza ma soltanto di
collaborazione. Tra questi partenariati ricordiamo il Partenariato per la pace, aperto a tutti i
Paesi non membri dell’area euro-asiatica che è uno strumento per l’avvicinamento agli
standards della Nato dei Paesi dell’ex blocco sovietico e dei Balcani; esso si traduce
essenzialmente in una serie di accordi bilaterali. Il Dialogo Mediterraneo che ha interessato i
Paesi della sponda sud del Mediterraneo; l’Iniziativa di cooperazione di Instanbul con i
membri del Consiglio di cooperazione del Golfo.
Di fronte a queste nuove tendenze emergono tuttavia non poche criticità. Per quanto riguarda
i partenariati, per esempio, bisogna rilevare che fin’ora non hanno portato a grandi risultati a
causa di una serie di divergenze politiche (per es. diverse posizioni sul conflitto israelopalestinese) e per la mancanza di una visione condivisa dei problemi di sicurezza regionali; in
più i Paesi arabi non vogliono interferenze da parte dei Paesi occidentali nei loro affari
internazionali.
Inoltre le nuove missioni di mantenimento della pace e di gestione delle crisi hanno posto
molti interrogativi: per esempio, se e in quali circostanze l’Alleanza possa agire anche in
assenza di un mandato dell’ONU (si veda per es. l’intervento nella ex Jugoslavia o in Libia);
come realizzare un’equa e funzionale divisione degli oneri e delle responsabilità fra gli alleati
(emblematico il caso dell’Afghanistan) > dislivello di impegno che crea nuovi contrasti
all’interno dell’Alleanza; come garantire un coordinamento e delle sinergie adeguate con le
altre organizzazioni internazionali impegnate sul terreno e di qui l’esigenza di rafforzare i
legami istituzionali/operativi con l’Ue, con l’OSCE e l’ONU; c’è poi un problema di
legittimità politica: per esempio in Medio Oriente, gli attori locali potrebbero preferire
collaborare con altre organizzazioni, come l’ONU o la stessa Ue, specie se si trovano in
contrasto con gli USA su alcune questioni.
Anche riguardo alle capacità c’è bisogno dell’aumento delle forze schierabili sia per missioni
ex art. 5 sia per le missioni “fuori area” (basti pensare che il personale militare non schierabile
si aggira oggi attorno al 70% del totale). A questo scopo si è pensato di dotare la Nato di un
corpo di spedizione stabile: la Nato Response Force, forza multinazionale di rapido impiego
con personale specializzato in grado di far fronte a diversi compiti (gestione delle crisi,
antiterrorismo..). Questa però ha mostrato più le sue debolezze che le potenzialità, in
particolare a causa della scarsità di truppe disponibili, della competizione con le forze di
reazione rapida dell’Ue (battlegroups) e della presenza fondamentale degli USA (è solamente
quando gli USA hanno acconsentito a mettere le proprie truppe a disposizione della Nrf che è
stato possibile dichiararne l’operatività), la scarsità di equipaggiamento militare,
l’indefinitezza dei compiti ed infine la necessità di una maggiore civil-military cooperation. Un
altro problema riguarda il finanziamento di queste missioni: è difficile trovare un metodo
alternativo al principio costs lie where they fall (ovvero ogni Paese partecipante si fa carico dei
propri costi di partecipazione).
Problema del processo decisionale: avviene per consensus e quindi vige la regola
dell’unanimità. È stata proposta della clausola opt-out (il Paese che non desidera partecipare si
astiene dalla votazione, evitando di esercitare il veto) per rendere più facili gli interventi per i
Paesi che vogliono intervenire.
C’è poi la questione dell’allargamento che causa non pochi problemi, per esempio l’entrata
della Macedonia bloccata dal veto della Grecia; ci sono poi molte divisioni interne sull’entrata
di Ucraina e Georgia (USA e Paesi dell’Europa orientale favorevoli, Paesi continentali come
Francia, Italia, Spagna, Grecia, Germania contrari perché vorrebbero evitare nuove tensioni
con la Russia e poi in gioco c’è anche la sostenibilità del principio di difesa collettiva > il
coinvolgimento e l’adesione di Paesi internamente fragili e instabili e con contenziosi aperti
con la Russia non sembra rafforzare la sicurezza degli altri Paesi membri ma anzi potrebbe
generare nuove tensioni).
Ed infine il rapporto con la Russia che, nonostante alcuni progressi come la creazione del
Consiglio Nato-Russia nel 2002 e la cooperazione su alcune tematiche come il terrorismo e la
missione in Afghanistan , è caratterizzato da continui alti e bassi e probabilmente su alcune
questioni continuerà a rimanere problematico, come per es. la competizione tra Russia e Paesi
occidentali per l’influenza economica/politica in Europa orientale; il processo di
allargamento della Nato; i contrasti sul controllo degli armamenti, in particolare
sull’attuazione della versione rivista del Trattato sulle forze armate convenzionali che non è
stata ratificata dai membri della Nato a causa del mancato ritiro delle truppe russe dalla
Moldavia e dalla Georgia (la disputa sul trattato Cfe si è ulteriormente inasprita nel luglio
2007, quando Putin ha deciso di sospenderne a tempo indefinito l’attuazione da parte russa in
risposta al piano americano di difesa antimissile); potrebbero emergere dispute territoriali
nella regione artica.
Ue
Per quanto riguarda l’Ue, negli ultimi 2 decenni sono stati compiuti molti sforzi in termini
finanziari e politici nell’ambizioso progetto di sviluppare una propria dimensione europea in
materia di sicurezza e difesa. Il risultato è stato la creazione all’interno della Pesc della
Politica europea di sicurezza e difesa comune (Pesd) i cui obiettivi principali sono la
creazione di capacità militari per effettuare operazioni all’estero, questo perché dalla metà
degli anni’90, in particolare con le guerre balcaniche, è diventato evidente che lo strumento
della difesa collettiva in Europa fosse slittato dalla difesa territoriale all’intervento all’estero
in operazioni di ristabilimento della pace o stabilizzazione; l’integrazione dei mercati europei
dei prodotti di difesa, un ambito ancora critico poiché questo campo è rimasto per lo più di
competenza nazionale.
I principali organi a livello politico sono il Consiglio affari generali e relazioni esterne (Cagre),
opportunamente affiancato dall’Alto rappresentante/segretario generale (Ar/Sg) e dal
Comitato politico e di sicurezza (Cops) che ha il compito di proporre linee guida e opinioni al
Cagre in materia di Pesc/Pesd. Per gli aspetti militari ricordiamo il Comitato militare, lo Stato
maggiore (all’interno di questo è stata creata la Cellula civile-militare per garantire
l’approccio integrato delle missioni) e il Gruppo politico-militare; per la componente civile il
Comitato responsabile per gli aspetti civili di gestione delle crisi e la Capacità civile di
pianificazione e condotta. Io ne ho citati solo alcuni ma approfondendo le funzioni e le
responsabilità dei vari organi si delinea un quadro piuttosto complesso in cui spesso non si
capiscono le competenze specifiche di ognuno e questo ha portato a diversi problemi di
sovrapposizione di compiti e coordinamento.
Le missioni Pesd si dividono in civili, militari e integrate. Hanno in genere una portata
modesta, quella più impegnativa è la missione Althea in Bosnia e unica nel suo genere è la
missione marittima dell’Ue del 2008 in Somalia per combattere la pirateria.
La catena di comando può variare a seconda che la missione venga condotta dall’Ue in
cooperazione con la Nato (in questo caso al comando della missione è posto il viceComandante supremo della Nato) oppure autonomamente (in questo caso si utilizza il
meccanismo della Nazione-quadro oppure, nel caso in cui non si riesca ad individuare un
Quartiere generale presso gli Stati membri, l’Operations Centre attivabile all'interno della
Cellula civile-militare).
Il Trattato di Lisbona ha introdotto alcune novità significative: ampliamento dei compiti di
Petersberg, laddove per es. si è aggiunto la lotta al terrorismo che è individuato dalla
Strategia europea di sicurezza del 2008 come una delle principali minacce; la clausola di
solidarietà, prevista dall’art. 222 del TFU: “L'Unione e gli Stati membri agiscono
congiuntamente in uno spirito di solidarietà qualora uno Stato membro sia oggetto di un
attacco terroristico o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall'uomo”; la clausola
di assistenza reciproca, prevista all’art. 42.7 TUE che dice che “Qualora uno Stato membro
subisca un'aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e
assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni
Unite”. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni
Stati membri. Gli impegni e la cooperazione in questo settore rimangono conformi agli
impegni assunti nell'ambito dell'Organizzazione del Trattato del Nord-Atlantico che resta,
per gli Stati che ne sono membri, il fondamento della loro difesa collettiva e l'istanza di
attuazione della stessa”; la cooperazione rafforzata permanente che permette agli Stati che
possiedono particolari requisiti in termini di capacità militare di intraprendere iniziative in
ambito di difesa. Questa novità è importante perché per costituire questa forma di
cooperazione è necessaria la maggioranza qualificata, rispetto alla regola dell’unanimità che
vige in ambito Pesd. E’ stata inoltre istituita l’Agenzia europea per la difesa, con lo scopo di
sviluppare una politica comune nel campo degli armamenti attraverso la promozione e
l’avvio di programmi congiunti, l’armonizzazione dei requisiti militari e l’integrazione delle
attività di ricerca e sviluppo.
Alcune criticità: sviluppo irregolare della Pesd a causa delle diverse correnti (atlantismo vs
europeismo), ancora una volta si tratta prima di tutto di un problema di integrazione politica;
la Pesd si è sviluppata essenzialmente come strumento di gestione delle crisi e prevenzione
dei conflitti; gli obiettivi e i compiti militari della Pesd sono stati molto ampliati dal Trattato
di Lisbona (si è aggiunta per es. la lotta al terrorismo che ha portato alla definizione di una
Strategia per la lotta la terrorismo) e dalla Strategia europea di sicurezza (2003) >
ampliamento dei compiti della componente civile/militare + globalizzazione del loro raggio
di azione. Infine c’è il problema della capacità: gli Stati membri differiscono in termini di
personale specializzato, tecnologia, spese per la difesa ecc. > l’Helsinki Headline Goal (progetto
nato nel corso di una seduta del Consiglio europeo del dicembre 1999) prevedeva di dotare
l’Ue di una Forza di reazione rapida entro il 2003 (60.000 soldati impiegabili entro 60 giorni
dalla decisione di lanciare la missione e con una sostenibilità di un anno per svolgere i
compiti di Petersberg). L’attenzione si è poi spostata sugli obiettivi qualitativi più che
quantitativi: interoperabilità, schierabilità, sostenibilità delle forze > è stato introdotto il
concetto di battlegroup (unità di combattimento di circa 1.500-2.200 effettivi, schierabili entro
15 giorni e in grado di rimanere sul campo per un mese sulla base del principio di rotazione
semestrale).
Lacune più marcate delle capacità militari dell’Ue: trasporto strategico, le attività di
comando/controllo/comunicazioni/intelligence, problemi di sostenibilità del personale
(natura non-permanente del personale e principio di rotazione dei battlegroups), problemi di
coordinamento nella formazione del personale sia civile sia militare, di coordinamento della
presenza Ue sul campo (i rappresentanti speciali dell’Ue non sono integrati nelle catene di
comando), problemi di coordinamento della componente civile e militare, problema
dell’integrazione dell’industria della difesa europea che è ancora sviluppata principalmente a
livello nazionale (Francia, Germania e UK vorrebbero + integrazione dei mercati) > nel 2004 è
stata istituita l’Agenzia europea per la difesa (ha l’obiettivo di sviluppare una politica comune
nel campo degli armamenti attraverso la promozione e l’avvio di programmi congiunti,
l’armonizzazione dei requisiti militari e l’integrazione delle attività di ricerca e sviluppo).
Sono stati fatti dei passi avanti con il “Pacchetto sicurezza” della Commissione europea.
Alla luce delle nuove tendenze della Nato e dell’Ue e delle rispettive criticità, che scenari
futuri possiamo immaginare? L’Ue ha ancora bisogno della Nato? È comunque importante
che l’Ue sviluppi una propria autonomia in termini di difesa e sicurezza o dovrebbe sfruttare
maggiormente le strutture già esistenti della Nato? Ci sarà sempre una certa collaborazione
tra le due organizzazioni in alcuni settori e una certa competizione in altri?