RM2502_08-Paginone1#-C4:Il Secolo
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SECOLO D’ITALIA 8 VENERDÌ 25 FEBBRAIO 2011 I PROTAGONISTI DIALOGANO ZLATAN HA UNO STRANO TATUAGGIO DI SAFET SUSIC SUL BICIPITE DESTRO SUI CARTOON IN MODO SURREALE L’EROE PULP? È UN MURATORE BOSNIACO... In “Bacchiglione blues” Matteo Righetto inventa una saga alla Tarantino ambientata nel padovano, fra immigrati dell’est e criminali dilettanti dall’accento veneto ◆ Roberto Alfatti Appetiti C os’hanno in comune Goldrake e Jeeg robot d’acciaio, il regista di Pulp Fiction, la profonda provincia rurale del nostro Nord-est e uno Zlatan che non è il celebre Ibrahimovic del Milan ma un fanatico di calcio bosniaco – con tanto di tatuaggio di Safet Susic, ex nazionale jugoslavo, sul bicipite destro – che se ne va a spasso per luoghi sinistramente somiglianti al Texas come anche alla Louisana occidentale con un fucile a pompa caricato a pallettoni da cinque millimetri di diametro? Per saperlo occorre precipitarsi in libreria e assicurarsi una copia fresca di tipografia di Bacchiglione blues (Perdisa Pop edizioni, pp. 144, € 14,00), il secondo romanzo di Matteo Righetto, interprete di punta del nuovo pulp italiano e cofondatore, con Matteo Strukul, di Sugarpulp, il movimento letterario che si propone di esorcizzare la violenza con l’ironia altrettanto estrema delle gag e di coniugare la natura fiera e selvaggia del Nordest con una narrazione giovane, veloce e moderna che guarda oltreoceano a scrittori, come Cormack McCarthy, Victor Gischler e Joe R Lansdale, che hanno rivoluzionato in chiave spettacolare la letteratura. Se proprio Lansdale, padrino onorario del movimento, dopo averlo conosciuto ha ribattezzato Righetto con il nomignolo di «Davil Dog», Giovanni Pacchiano su Il Sole 24 Ore ha salutato questo scrittore padovano della classe ’72 – dopo l’ottima prova di Savana Padana (Zona, 2009) – come «il nostro Quentin Tarantino, anche se non fa film ma scrive testi al cui confronto i Cannibali o Ammaniti sembrano fare letteratura per anime candite». Definizione non esagerata, essendo il regista americano un fan dichiarato dei nostri B-movie, cresciuto a pane e poliziotteschi nostrani. E poi, per dirla tutta, quando c’è da far cantare le pistole, gli eredi “artisti- ci” di Sergio Leone non sono secondi a nessuno e Righetto si rifà dichiaratamente anche al regista romano. Il linguaggio del romanzo, del resto, è cinematografico, con inquadrature rapide e macchina da ripresa a spalla. La scrittura corre via alla velocità delle pallottole e ai personaggi non rimane che darsela a gambe per cercare di sfuggire al destino che Righetto – spietato burattinaio e abile mescolatore di ingredienti e generi diversi: thriller, pop, western e commedia nera – ha stabilito per loro. Il Bacchiglione che dà il titolo al libro è il fiume che attraversa distese di barbabietole da zucchero, vecchi sfasciacarrozze, case coloniche e cascine abbandonate, fino ad arrivare alle paludi e alla laguna che lo conducono lentamente nel mare Adriatico. Tutt’intorno si muove – si fa per dire – la bassa provincia padovana, «lontana anche dagli occhi di Dio, affogata tra i campi di soia, bruma e nient’altro, eccetto l’amara consapevolezza di essere collocati nel culo del mondo». Dalla nebbia perenne spuntano località con nomi degni della fantasia con cui J. R. Tolkien popolò la sua terra di mezzo: Campogrando, Gorgo, Isola dell’Abbà, Fossaragna, Bovolenta, Trambacche. Uomini e hobbit, tuttavia, nell’immaginario fantasy del- L’autore coniuga la natura selvaggia del nostro Nordest con la scrittura veloce che guarda a McCarthy Gischler o Lansdale lo scrittore inglese si incontrano in una locanda accogliente come Il Puledro Impennato, mentre Righetto preferisce non venire meno allo sfondo sociale in cui ha scelto di ambientare le sue storie attenendosi a QUELL’ARTE SOTTILE C DI RIMORCHIARE SVEDESI IN SPAGNA L’ultimo romanzo di Marino Magliani è una cartolina di una generazione, la storia “beat” di un giovane fra Lloret de Mar e il senso della vita Bradd Pitt, pugile zingaro in “The Snatch”. L’ambientazione pulp del film ricorda le atmosfere di Matteo Righetto... un’amara verosomiglianza con i luoghi e quindi i suoi protagonisti, «fumettosi bifolchi padani», hanno a disposizione solo «bettole che puzzano di sigarette e anelli di calamaro fritti e rifritti nello stesso olio». Blues è il ritmo musicale della scrittura, pirotecnico, capace di trascinarci in un vortice di imprevedibili colpi di scena, alternando rabbia e sorrisi, momenti drammatici ad altri esilaranti. Comicità autentica quanto involontaria. Gli eroi non sono pervenuti. Né innocenti né colpevoli. Né buoni né cattivi. Semmai – parafrasando Charles Bukowski – solo cattivi e meno cattivi. Carnefici e vittime, infatti, parlano lo stesso linguaggio e si affrontano con le stesse armi. Così quando tre balordi sequestrano la «Sharon Stone della bassa», moglie di un impor- ◆ Alberto Pezzini hissà se Belen Rodriguez sa di un romanzo che potrebbe fare al caso suo. Nel senso che contiene una storia esattamente contraria rispetto alla sua esistenza ed a quanto conquistato in Italia. Parliamo de La spiaggia dei cani romantici (Instar libri, pp. 233, € 14,00), l’ultimo romanzo di Marino Magliani. Qualcuno lo ha già voluto definire il suo romanzo più bello. Forse è quello dove Magliani – onestamente – prende le distanze da sé stesso anche se non ci riesce del tutto. Una terra come la Liguria fa fatica a tramontare dentro. Comunque. Il titolo poetico, che sa di mare dove si fa l’amore, arriva da un libro di poesie di Bolano, Los Perros romanticos, lo scrittore di Detective selvaggi, uno degli autori più calcinati di poesia al mondo che Magliani ha tradotto l’inverno scorso. La traduzione è come un’incudine, diceva Bolano, e ti resta addosso se ciò che si traduce vale davvero. Addosso a Magliani è rimasta una lingua nuova, elettrica, (un po’ come il lunfardo, tante imprenditore – ovviamente dello zucchero – e chiedono un riscatto di un milione di dollari, l’uomo d’affari, arricchitosi anche grazie al riciclaggio di rifiuti tossici, non si affida alle forze dell’ordine ma assolda a sua volta una banda senza scrupoli. E la situazione, com’è prevedibile, precipita. È il cane che si mozzica la coda. C’è sempre uno più cattivo degli altri. E incazzato, oltre che decisamente cattivo, è lo Zlatan che citavamo all’inizio, il quarantacinquenne muratore bosniaco che, stufo di aspettare un pagamento dovuto per lavori fatti ormai un anno fa, per riprendersi i suoi soldi è pronto a fare fuoco e fiamme. Senza scomporsi più di tanto e con nella testa la musica degli amati Balkan Blues. «Perché nel mio paese in Vojvodina – spiega ri- quel gergo nato a Buenos Aires ed impastato di italiano e spagnolo), ed una storia solida, riconoscibile. Il lettore non è più spaesato dentro un intrico di facce, ma sente una voce unica, quella trafitta da un raggio di ombra del protagonista Almeja. Almeja ha fatto la guerra alle Malvinas, il conflitto quasi tutto navale tra Argentina e Gran Bretagna. Vuole fare il calciatore. Ha origini liguri, ed una fidanzata che chiama negra. In Argentina, a Lincoln, non si batte chiodo e l’orizzonte è come il futuro: sembra piombo fuso e non dà più carte. Almeja parte e va in Liguria perché magari trova una squadra de futbol. La negra lo molla subito – incolpandolo come tutte le donne quando lasciano – per un suo cugino più vecchio ben munito di beni al sole, e lui non riesce neanche a farsi rilasciare un passaporto italiano per giocare a pallone. Di lì il romanzo parte. L’argentino – ex militare ed ex fidanzato – segue il richiamo di Lloret de Mar, il mitico luogo dei chico piola, i ragazzi all’occhio, quelli giusti che impalmano le donne. Si traduce cool, oggi. Almeja va lì, dove i chico ri- volgendosi ai lettori – il debitore paga subito. E se non paga, fa brutta fine». Il debitore è, neanche a farlo apposta, il capo dei sequestratori: Tito Pasquato, pregiudicato con la passione per le prostitute albanesi, «le più porche», e un cellulare, un vecchio Nokia che squilla in continuazione – è Zlatan che lo cerca insistentemente – e gli provoca un crescendo di turpi maledizioni con in sottofondo la suoneria di Lupin III. Sì, il particolare non è affatto casuale ma assai indicativo: anche i “dialoghi” tra lui e i suoi due feroci “colleghi” – Toni Drugo detto Luamaro, «basso, tarchiato, squadrato come un armadietto e di pelo corvino malgrado non più giovanissimo» e Ivo Sborin, «alto e magro, con gli incisivi marci e i pochi capelli superstiti tutti sulla nuca, noto come El Pinciagaìne» – non vanno oltre demenziali dispute sull’immaginario pop degli anni Ottanta. Perché, per quanto si tratti di delinquenti sprovveduti e capaci di tutto, sono pur sempre figli di un immaginario condiviso. «Negli stessi anni, tra i Settanta e gli Ottanta, in cui i bambini italiani guardavano i cartoni animati dei musi gialli – spiega uno di loro – noi bambini bosniaci guardavamo western italiani». E mentre si apprestano a mettere in scena i loro crimini efferati e a dare vita a una delle più sgangherate associazioni a delinquere mai viste in narrativa, arrivano a un passo dal prendersi a pistolettate tra loro per difendere i rispettivi miti adolescenziali. Lo scambio di battute vale la citazione: «Il mio mito in assoluto – dice uno – era Jeeg robot d’acciaio, ah come mi esaltava! Quello sì che era un cartone. Doppio maglio rotante, raggio protonico, raggi delta, scudi rotanti. Jeeg spaccava il culo a tutti!». «Meglio Haran Banjo di Daitarn 3 e il suo fantastico motto: il mio obiettivo è uccidere il maggior numero possibile di meganoidi», risponde l’altro. Salvo poi trovare una sintesi al ribasso condivisa da tutti: «Meglio scoparsi Venusia [la dolce e ingenua innamorata di Actarus in Goldrake, ndr] che farselo mettere in culo da Capitan Harlock». Lo spessore psicologico dei personaggi dei tre criminali da barzelletta è quello che è: «Elementare – scrive Righetto – come quello di un ramarro che si crogiola al sole, erano uomini privi sia di sensibilità che di una seria capacità riflessiva, dediti più che altro ad assecondare la loro ignoranza e i loro istinti più western: mangiare, bere, dormire, grattarsi, scopare e annusare banconote». Dilettanti del crimine come anche della vita. Cinici, amorali, avidi e crudeli finché si vuole, ma con un’aria guascona e spudoratamente sincera che finisce per renderli quasi simpatici. Quasi, ma abbastanza da spiazzare il lettore. E alla fine dei conti, quando si avvicinano le ultime pagine del romanzo, tra folli inseguimenti d’auto (nel bel mezzo del Bacchiglione Blues Festival) e sparatorie, inopportuni testimoni di Geova e uomini in fuga, cadaveri e acquitrini veneti, non sai più davvero da che parte stare. È quello, in fondo, che chiediamo alla buona letteratura (che è cosa diversa dalla narrativa buonista): rovesciare il tavolo, costringerci a cambiare prospettiva, battere terreni inesplorati, in definitiva… rimetterci in gioco. 9 Crash Tv Se Adorno avesse visto “L’Isola” ◆ Carmine Castoro ta normale non abbiamo; nel fare gruppo contro M etti un pomeriggio di sabato a telefono, via Skype, con un carissimo amico, uno di quei “maghi” delle tecnologie audiovisive che ti risolvono il “bello della diretta”, chiamato all’ultimo momento come assistente alla regia per il debutto dell’Isola dei famosi. Decisione senza appello, valigie fatte in men che non si dica, e ci si ritrova nelle lontanissime spiagge dell’Honduras con un volo intercontinentale che fa scalo a Miami. Il suo racconto esotico-professionale è la descrizione di una future city allestita fra palme, sabbie bianchissime e skyline che sembrano disegnati a tinte pastello. Un esercito di operatori, montatori, segretarie, autori, addetti alla logistica, scenografi, pittori, autisti, manovali trapiantati per più di due mesi negli arcipelaghi del Centramerica a spese di mamma Rai per allestire, mettere in moto e lubrificare, giorno per giorno, una faraonica rutilante macchina del Nulla. Bisogna inventare i giochi per far gareggiare i concorrenti, recuperare i materiali di scena giusti, mandare i cameramen 24 ore su 24 a sbirciare dialoghi e appetiti, pettegolezzi e sceneggiate, mica a fare inchieste o esplorazioni scientifiche, servono squadre ben assortite e coordinate ognuna delle quali segue i vip o i “figli di” o i “non famosi”, bisogna circuitare i “flussi” di immagini che arrivano grezze dai luoghi selvaggi dove il reality si svolge e farne una sintesi ragionata da trasmettere in Italia per le “finestre” quotidiane che aggiornano sull’andamento del format, e poi pensare le novità che inchiodano gli spettatori alle loro poltrone, fare i collegamenti con altri programmi del palinsesto, e tutta questa gente deve mangiare, vivere, avere una stanza d’albergo o un residence, computer, telefoni, uffici, luoghi di smistamento, laboratori, magazzini. Una vera e propria Metropolis del vaniloquio occidentale che crea, all’improvviso, un satellite artificiale, un mondo parallelo e scintillante, una piattaforma di atterraggio per forze “aliene” nel bel mezzo di uno spaccato di natura incontaminata che non saprebbe davvero cosa farsene di inutili cicalecci, finte sopravvivenze, deperimenti pilotati e patetiche smanie di protagonismo. Un costoso, imponente, tentacolare divertissement televisivo come quello condotto dalla Ventura non è solo trito e ritrito, volgare e indigesto perché, dopo anni e anni di messa in onda, non ha più nulla da offrire di curioso o sperimentale. È una colossale ecatombe di immagini e segni, che gira su se stessa, si avviluppa, non ha un fine, nemmeno spassionatamente ludico, è diventato altro ormai, infinitamente, subdolamente e miseramente altro. Nella fame e nei bisogni ricostruiti in vitro, nel gioco della morte da scongiurare, vediamo in scala un senso dell’esistenza e un rapporto con il “biologico”, oltre che con gli oggetti, che nella vi- morchiano femmine nordiche in maniera da dere i loro amanti di una notte o di una settifarci uscire anche la stagione. Vestiti da gua- mana al mare. Un format mica tanto strano, pi, «i riccioli neri e spettinati e quegli occhi ri- se ci pensate.Almeja è l’uomo che darà poi un baldi, gli stivaletti ricamati, i calzoni sgualci- colpo d’anca vera alla storia anche perché Mati, le magliette nere... è L. L., col solare, ma- gliani carica la sorpresa nell’angolo sempre liardo sorriso mediterraneo». Ce li descrive più inclinato, quello dove l’ombra tradisce. così, Magliani, come quel cantante descritto L’altro aspetto che inquieta sono le morti di dalla Nanda, amica di molti inglesi – quasi tutti poeti e di musicisti che ex soldati – e questa è anhanno saputo l’alba. Le cora un’altra storia denAddosso all’autore donne nordiche vengono tro il libro che fa paura, a è rimasta una lingua fotografate non proprio pensare a quanta ombra politically correct, ma dal ed invisibilità ogni guerra nuova, elettrica, vivo. Nel senso che sono si porta dietro senza che come il “lunfardo” merce da scopata, un sesmanco ce ne accorgiamo. quel gergo di Baires so inutile veramente perLa spiaggia è un romanzo tutto italospagnolo ché loro non contano, cobeat, perchè è la cartolina me avrebbe detto Oriana di una generazione, vera, Fallaci in un suo libro rivitale, che scopava le donvelatorio sull’emisfero femminile. Una gior- ne e gli rubava le collanine all’alba, quando il nalista olandese – trent’anni dopo – va alla ri- sesso le aveva perdute spacciandolo per amocerca di quei ragazzi che “impalmavano” le re. È anche un tentativo di abbandonare le nordiche. Sta montando su un format dove le storie di Liguria e scegliere un registro umano vecchie glorie nordiche hanno fame di rive- più lontano del solito mare di casa. Magliani vento, pioggia, insetti e intemperie ci ricordiamo di possedere uno straccio di socialità, ogni tanto, che ci spinge a plasmare l’egoismo in funzione dello stare insieme; nella contesa di un cocco o di un giaciglio più pulito vorremmo riavvicinarci a quel “buon selvaggio” che giace nei nostri ancestrali cromosomi; nella presunta libertà di respirare e agire all’aria aperta vorremmo riappropriarci di una dimensione pre-industriale, sommersi come siamo, invece, di orpelli e comfort a go-go quando abitiamo le nostre città evolutissime. Per non parlare di ciò che accade nell’orto del vicino, al Grande Fratello per esempio, dove è tutto un pullulare, guarda caso, di amori eterni, separazioni strazianti, nostalgie familiari, sentimenti forti e pervicaci, promesse di matrimonio, odi furenti e caldi lacrimoni che solcano il viso di chi aspettava una casa di vetro per espandere la propria personalità. Ma in un caso come nell’altro, ci sentiamo inquinati, avvertiamo un senso di vertigine che ci spinge verso il basso, ci sentiamo turlupinati dal cinismo sfacciato della Ventura come dalla insopportabile melodrammaticità della Marcuzzi: un fenomeno di perdita ci ghiaccia e ci sprofonda di fronte a un vorticare di cose, situazioni, parole, corpi, atteggiamenti che non hanno un perché, senza un significato, senza una estetica plausibile. Gigantesche cinghie che sfornano il Nulla, disastri simbolici che ci lasciano catrame per chissà quanto tempo, nelle orecchie, nell’animo, negli occhi: una irrisarcibile scissione fra il mondo della vita e quello delle meraviglie dello spettacolo. Un apparato di controllo a tutti gli effetti che fa il paio con gli stati di polizia di altri paesi, ma con la sostanziale differenza che questo ci inibisce, ci imbarbarisce, e ci immobilizza, dà un fremito alla nostra umanità soltanto in quegli acceleratori di particelle che sono gli studi televisivi o i set tropicali di cartapesta, dove l’essere è scimmiottato, il destino ovattato, l’immaginario colonizzato a soggetto. Percepiamo lontanamente che tutto è finalizzato alla riproduzione, finta appunto e solo allusiva, di quelle forze primigenie, organizzative, conviviali che dovrebbero regolare la vita, ma veniamo riconsegnati ai nostri ritmi normali più soli, impotenti, e avviliti di prima, solo un po’ più distratti e consolati. E’ l’assenza del tragico la moneta con la quale veniamo ripagati dalla televisione che mostra una realtà dopata come il muscolo di un atleta sleale. Non ci sono conflitti, dolori, progetti che portino, pure attraverso il negativo, a riscritture creative. Solo simulazioni e presunzioni di essi sotto vuoto stagno. Lo diceva già il filosofo Adorno tanti anni fa indagando sulle nefaste conseguenze dell’industria culturale. Ma i suoi referenti erano ancora i fumetti, la radio, la proto tv, non le truppe cammellate dello show che ci fa da cielo stellato. ha scavato dentro i suoi ricordi e ha tirato fuori quello che succedeva in Liguria durante gli anni 80’, quando si partiva per Lloret de Mar dove lavorare nelle discoteche voleva dire un sesso certo in quanto nordico. Ha dato un taglio a certe complicanze sentimentali soltanto liguri e ne è nato un libro che sa dar conto della vita com’era all’epoca in quel mare di Spagna. Un’atmosfera nuova, precisa, descritta senza imbrogli e senza complicazioni. Nei suoi libri precedenti Magliani si era complicato la vita con il sentimento. La Liguria – per lui che vive oggi in Olanda – era diventata un bagaglio quasi inospitale. Fuggire con il ricordo in Spagna ha segnato un modo per dimagrire. Almeja è molto più sfortunato di Belen. Non ha successo, non è famoso e deve addirittura diventare un nulla, anzi deve morire per vivere. In questo lavoro al contrario sta la malinconia organica di un romanziere che ha scelto di autodistruggersi per rinascere. «Finisce con un uomo solo che rimane in piedi…Vale a dire, non finisce mai». Chissà se lo sa, Magliani, che Bolano diceva così di Ellroy.