leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri

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leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri
leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri
http://www.10righedailibri.it
Omero
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Joyce Lussu
Portrait
Prefazione di Giulia Ingrao
Prima edizione Transeuropa 1988
Prima edizione con la Prefazione di Giulia Ingrao
L’Asino d’oro edizioni 2012
© 2012 L’Asino d’oro edizioni s.r.l.
Via Saturnia 14, 00183 Roma
www.lasinodoroedizioni.it
email: [email protected]
ISBN 978-88-6443-076-8
PORTRAIT
Avvertenza
Il testo corrisponde a quello pubblicato da Transeuropa nel 1988, salvo per alcuni
lievi ritocchi, qualche correzione nei titoli delle opere citate e qualche aggiornamento nell’onomastica e nella toponomastica, al fine di consentire al lettore di oggi
una migliore identificazione.
Se dovessi scrivere la mia storia, prenderei come punto di
riferimento il mio rapporto con il cibo e le bevande, che da
tanti decenni continuano a carburare questa mia carcassa,
con sempre rinnovata soddisfazione poetica.
L’appetito permanente dell’infanzia e dell’adolescenza
(eravamo poveri e gli alimenti della famiglia erano spartani)
e la gioia meravigliosa della sazietà; l’episodio indimenticabile dei miei undici anni, quando una signora inglese mi
portò in una pasticceria in via Tornabuoni a Firenze, e di
fronte a quel fantastico schieramento variopinto di dolciumi, mi sentii dire per la prima volta «prendi quello che
vuoi», e fu come se mi avesse detto «il mondo è tuo»; gli
ottocento grammi di spaghetti che dividevo con mio fratello, per rifarci delle porzioni familiari che ci erano sempre
sembrate scarse, quando eravamo andati a Macerata a dare
gli esami da esterni, io ginnasiali e lui liceali; i primi soldi
guadagnati in Svizzera, subito investiti in piatti sognati a
lungo invano, come la fonduta al vino bianco; le manciate
di fragole selvatiche e di funghi dorati che Emilio mi ver-
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sava in grembo insieme alle genziane e ai rododendri delle
nostre gite in montagna; la pietanza unica, ma saporita e
adorna, che con grande laboriosità (per fare una cucina varia occorrono o molti soldi oppure molto tempo, e io i primi non li avevo) preparai per il ritorno di Emilio nella nostra stanzetta di esuli con uso di fornello e l’allegria con cui
ce la gustammo raccontandoci la giornata; la fame in Francia durante l’occupazione tedesca, senza bollini alimentari,
che faceva sembrare eccellenti le ortiche bollite e le rape
senza condimento, e festoso banchetto una fetta di pane
con due zollette di zucchero; l’arrivo clandestino a Lisbona
e la visita al sontuoso mercato centrale fornito di ogni dovizia commestibile, nostra e tropicale, la cui sola vista mi
causò un’indigestione psicologica con dolorosi spasimi durati per giorni; le patate lesse e le croste di pane divise scrupolosamente coi contadini e coi compagni durante la guerra partigiana; l’angoscia di non poter fornire al figlio che ti
cresce in pancia gli alimenti necessari che passano per il
tuo corpo; la gioiosa convivialità dei partiti operai nel dopoguerra, le osterie di paese e i socialisti ciuccialitri; le
grandi fette di pane e lardo, col quarto di vino attorno a
cui si discute di politica; il formaggio fresco negli ovili dei
pastori sardi che vogliono l’autonomia per non dover diventare banditi; la polenta di manioca che si appalla con le
mani, accucciati in circolo attorno al grande vassoio di legno, insieme ai guerriglieri angolani; le morbide focacce ripiene di verdura dei patrioti curdi e palestinesi; il riso condito sapientemente e il profumato tè di gelsomino della
Cina di Mao; la tristezza dei supermercati capitalistici coi
pomodori drogati e la frutta asfissiata nella plastica cance-
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rogena, e la gioia di un minestrone di verdura fresca e di
legumi senza i misteriosi additivi chimici degli stregoni moderni.
(L’acqua del 2000, 1977)
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Sono un cantastorie di strada.
Nazim Hikmet
Tra pochi anni arriverà il 2000.
Non so perché, questa data m’appare speciale, importante,
addirittura elettrizzante.
Quando poi, in realtà è futile e arbitraria, tanto che basta farsi
qualche chilometro più in là, su questo pianeta, tra gente che
conta in un altro modo, per vederla sparire, ingoiata da cifre
diverse, che non cominciano la conta da un fatto certamente
mai avvenuto come la nascita di un messia. E se gli astronomi
avessero sbagliato i loro calcoli? Se invece del 1° gennaio 2000
fosse il 25 marzo del 1998 o il 3 novembre del 2003?
Ma non importa, dato che ci siamo messi d’accordo in parecchi che il 2000 è il 2000; e quando una finzione è comune diventa palpabile, si tocca con le mani. Voglio mettere il dito
sul calendario, il 1° gennaio 2000, vedere per le strade grandi
striscioni a lettere cubitali con su scritto Viva! Viva!, festeggiare il nuovo millennio come se dovesse essere un gran bel
millennio.
Ragazzi, se per caso entro il 31 dicembre 1999 la mia entropia
personale fosse stata definitiva, cosa che non prevedo assolu-
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tamente, prendete un pennarello e un gran calendario pubblicitario e scrivete il mio nome ben chiaro sul 1° gennaio, come se fosse il mio compleanno. E cantate la canzone che quell’anno sarà di moda.
Il 2000 ha il fascino di tutte le cifre tonde. Sarà per via dei tre
zeri, molto amati dagli analfabeti e in generale dai bambini,
perché semplici, belli e facilmente riproducibili: possono
prendere molte forme e anche non essere rotondi come lo zero di Giotto, che poi non era uno zero ma una o.
Anche l’anno 1000 fu molto atteso, e produsse grandi movimenti. Ali di colombe e di pipistrelli sbattevano nel cielo creando strani disegni e strani rumori; le streghe si riunivano sulle colline per i loro sabba, e i bambini scappavano di casa per
seguire, lungo sentieri sconosciuti, allampanati dolcissimi pifferai.
Che cos’è il primo giorno di un millennio? Che cos’è una data? Un numero da mettere come un cappuccio etichettato su
un giorno prescelto, che senza quel cappuccio sarebbe un
giorno come tutti gli altri?
Le date piacciono, perché sono un prodotto così eminentemente umano. Nessun’altra specie produce dei calendari, anche se il sole fa da orologio a tutti. Le date sono come paracarri lungo il nostro cammino, segnaletica che ci conferma
che stiamo andando in avanti e non a ritroso, panchine del
giardino pubblico dove sediamo un momento per riposare i
piedi indolenziti. Abbiamo bisogno delle date per inventare
il tempo.
E quando l’abbiamo inventato, lo tartassiamo in tutti i modi,
lo accusiamo di essere tiranno e troppo veloce, o troppo lento
e fonte di noia quotidiana o di tedio cosmico, cerchiamo d’in-
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gabbiarlo e di metterlo al guinzaglio, ci arrabbiamo perché
non riusciamo ad agguantare, quantificare, codificare in un
archivio o in un progetto, la sua trasparente fluidità.
Il problema è di avere col tempo un rapporto amichevole e
abbastanza allegro. Io l’ho preso così come mi appare, un
succedersi di movimenti, di sentimenti, di pensieri, senza mai
chiedermi se la parte di tempo che mi spetta sia grande o
piccola, lunga o breve, dato che ogni momento può riempirsi
d’infinite cose o di quasi nulla, essere immenso o meschino,
libertà o prigione. E poiché il presente mi sembra un punto
inesistente tra passato e futuro, mi sono occupata appassionatamente dell’uno e dell’altro: storia (come abbiamo risolto
fino a oggi i problemi della sopravvivenza e della convivenza); politica poesia utopia buon senso quotidiano (come tenteremo di risolverli meglio da oggi in poi). E la contemporaneità del tempo è anche l’identificazione immaginata con i
nostri antenati, con i nostri conviventi di oggi, con i nostri
pronipoti; quel tanto che c’induca a rispettare il modo della
vita di tutti, respingendo i mostruosi artifici di culture sacrificali che impongono immolazioni violente di corpi vivi a immagini astratte e disumane o a miopi e brutali interessi di
pochi.
Il tempo della vita è la festa quotidiana del flusso, attraverso
il corpo, dell’aria, dell’acqua, del calore del sole, del cibo cercato e goduto; è l’insorgere il crescere l’affievolirsi il rinascere
di emozioni e di affetti che ci legano agli altri, è il torrente
d’idee di pensieri di giudizi di sogni che ogni giorno si riversa
nel cervello per essere filtrato negli invasi e nei canali d’irrigazione o espulso come nocivo e inquinato...
Ma sto divagando. Dato che dovrei scrivere, più o meno, una
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mia autobiografia, ho l’impressione di essere andata fuori tema. Forse dovrei cominciare in un altro modo. Per esempio,
sullo stile che usava ai tempi della mia infanzia...
Nacqui, da poveri ma onesti genitori, nella città di Firenze,
una sera di primavera del 1912.
Forse così andrebbe meglio. Ma allora, dovrò spiegare perché
i miei genitori erano poveri e onesti.
Erano poveri perché, benché figli di agrari ricchi (o che vivevano da ricchi a forza di debiti), avevano fin dall’adolescenza
contestato i loro padri, le loro culture, la loro posizione sociale
e le loro abitudini quotidiane, giungendo con essi a una rottura totale. Mio padre, da quando aveva imparato a leggere
si era dedicato agli studi e alle lettere, rifiutando con ostinazione le normali attività del giovin signore campagnolo di fine
Ottocento: le partite di caccia, le cavalcate, i ricevimenti, gl’incontri rustici e ancillari predisposti dai padri per l’educazione
sessuale del maschio adolescente (nei bordelli si andava più
tardi, in città, durante i corsi universitari).
Mio padre invece andò all’università per studiare e si era già
laureato, appena ventenne, all’Istituto di scienze sociali di Firenze. Poi volle a tutti i costi iscriversi a un’università straniera. Scelse, per approfondire i suoi interessi storici e filosofici,
l’Università di Lipsia, la «piccola Parigi» di Goethe, la capitale di Gutenberg e del libro stampato, in una Sassonia non
ancora integrata nella Prussia, dove famosi filosofi avevano le
loro cattedre e la lotta politica era incandescente, ponendo in
primo piano tutti i problemi dell’Europa di allora. Ci andò
con mia madre, anche lei in lotta col padre agrario e il suo
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ambiente, perché avevano interessi comuni e perché mia madre conosceva bene il tedesco, che mio padre doveva ancora
imparare. Per poter andare insieme, si sposarono. Mio padre
si laureò maxima cum laude nel 1905; mia sorella nacque nel
1906, mio fratello nel 1908, e infine arrivai io.
La vena contestativa dei miei genitori derivava dalle donne di
famiglia, in buona parte inglesi.
La madre di mia madre era una gentildonna londinese venuta
da Londra, di cultura liberal-radicale (Darwin e Huxley,
Gladstone e Russell), romanticamente invaghita dei guerrieri
garibaldini e con idee piuttosto chiare sulle rivendicazioni delle donne e in generale dei ceti subalterni.
Le due nonne di mio padre erano inglesi e sorelle, figlie di
un milord giramondo che era passato nelle Marche con la famiglia per fare del turismo eccentrico (chi ci veniva nelle
Marche, nel 1830?), e vi aveva depositato, per alleggerirsi delle sue responsabilità paterne, alcune figlie da marito, provviste di doti in ghinee e perciò prontamente ricercate dai signorotti locali. Tutte queste inglesi, piovute da un cielo così
diverso in quel remoto angolo degli Stati pontifici che era la
zona di Fermo, avevano portato una ventata d’aria antipapista, e idee e abitudini nuove nel pubblico e nel privato, che
contrastavano con quelle di una società decisamente cattolica
e maschilista.
Non andavano a messa e non uscivano accompagnate dalla
cameriera. Anzi, passeggiavano a cavallo da sole e, cosa inaudita da quelle parti, andavano a nuotare in mare con audaci
costumi che arrivavano appena ai gomiti, alle clavicole e sotto
il ginocchio. Non portavano il busto di denti di balena o di
asticelle d’acciaio, e calzavano comode scarpe dalla punta ro-
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tonda e senza tacco. Leggevano libri che non erano di catechismo, ed erano abbonate a giornali e riviste italiane e straniere. Erano ‘scandalose’, ma l’opinione pubblica guidata dall’arcivescovo cercava invano un appiglio per proclamare lo
scandalo per eccellenza: sessualmente castigatissime, erano
mogli fedeli ai mariti donnaioli e libertini, madri attente e
buone educatrici (mentre le dame marchigiane del loro ceto
si liberavano dei figli mandandoli prima a balia e poi in qualche lontano collegio di preti); ed erano, inoltre, ottime organizzatrici della vita domestica, della cura della casa e del giardino, cui provvedevano direttamente con gusto e competenza.
Non avevano amanti né cicisbei, e congelavano con uno sguardo fulminante o un semplice alzare di sopracciglia chiunque
si permettesse, nelle conversazioni familiari o mondane, un’allusione men che casta o un doppio senso connesso con alcunché di erotico o di anatomico. Molto legate l’una all’altra, si
riunivano tra loro ogni volta che potevano, in un angolo della
veranda o del giardino, davanti alle grandi teiere circondate
da delicati piattini di porcellana colmi di trasparenti fette di
limone o di fragranti biscotti fatti nel forno di casa, e si confidavano con voce pacata, asciugando ogni tanto la bocca con
le salviettine di lino e di pizzo, nell’inglese un po’ desueto della loro infanzia, giudizi soavemente feroci sui loro mariti marchigiani. Sospetto che considerassero gli uomini in genere come degli immaturi, un po’ superflui o addirittura nocivi. Ma
poiché erano donne d’animo generoso e di buoni sentimenti,
evitavano di umiliarli e di metterli a disagio, tollerando che si
considerassero padroni, dato che ci tenevano tanto.
Parlavano anche, versandosi il tè nelle tazze coi fiorellini rosa
e celeste, raccogliendo una briciola caduta distrattamente sul-
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la tovaglia ricamata, di grandi viaggi e di popoli lontani. Il
loro segreto, bruciante desiderio, era di avventurarsi per le
strade del mondo, di conoscere altri continenti dove la vita
era completamente diversa. Senza i mariti, naturalmente.
Da ragazze avevano girato per l’Europa, ma i mariti marchigiani erano dei sedentari, che prevedevano al massimo un
viaggio a Roma o in qualche altra città italiana. Mia nonna
materna era riuscita, nell’anno 1900, dopo essersi separata
dal marito, a imbarcarsi con mia madre sulla Valigia delle Indie, il piroscafo che da Trieste, allora brillante porto austriaco della Mitteleuropa, navigava solcando il Mediterraneo, il
Mar Rosso e l’Oceano Indiano fino a Madras, dove il figlio
maggiore di mia nonna era funzionario del servizio civile inglese.
Mia nonna paterna, che aveva seguito con passione sui giornali inglesi e americani le peregrinazioni africane di Henry
Stanley, in quegli anni alla ricerca di Livingstone verso le foci
inesplorate del Congo («Mr. Livingstone, I presume»), aveva
deciso a quarantacinque anni, con cinque figli ormai grandi
(mio padre, il più piccolo, aveva diciassette anni), di fare un
viaggio nel cuore dell’Africa. E aveva scritto a Stanley, che
cortesemente aveva risposto, consigliandole di attendere, per
andare nell’Alto Congo, che fosse costruita la ferrovia già in
progetto. Ma mia nonna aveva replicato che era disposta a
viaggiare a piedi, chiedendo con quale organizzazione e quale
spesa questo fosse possibile; e aveva cominciato a raccogliere
in un baule indumenti adatti alle marce tropicali. Stanley le
aveva dato qualche indicazione, ma a questo punto mio nonno, cui l’immagine di una moglie in mezzo a una fila di portatori neri che a colpi di panga si fa strada nella giungla afri-
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cana, appariva troppo eccentrica, riuscì a impedirle di partire
per la sua avventura. Molto più tardi, quando marciavo per
le foreste dell’Africa, non con le file dei portatori che accompagnavano gli esploratori dell’Ottocento, ma con le file di
guerriglieri di Agostinho Neto e di Amílcar Cabral, ho qualche volta pensato a mia nonna e alla sua passione per quella
gente lontana, conosciuta soltanto sulle pagine dei libri e dei
giornali, per quei villaggi e quei paesaggi dove avrebbe tanto
voluto camminare con i suoi cinque sensi e non solo con l’immaginazione.
I miei genitori, tornando dalla Germania, si stabilirono a Firenze, dove la nostra vita era abbastanza stentata, dati i pessimi rapporti coi loro padri e il fatto che la loro educazione
non li aveva forniti di una capacità economica e professionale.
Non sapevano come guadagnarsi da vivere. Mio padre era libero docente di filosofia all’Università di Firenze, incarico allora non retribuito. Mia madre era una buona disegnatrice e
pittrice (aveva studiato a Napoli con Flavio Gioja), e s’ingegnava molto nei lavori di casa (che non erano però nella nostra famiglia un ruolo specificamente femminile: uno dei ricordi più affettuosi che ho di mio padre, è di lui davanti al
piccolo acquaio di graniglia della cucina, che con gran diligenza, nella destra uno spazzolino col manico e nella sinistra
un piatto lungamente strofinato, procedeva alla rigovernatura
delle stoviglie con filosofico impegno).
Essendo io la più piccola (mio fratello e mia sorella facevano
repubblica a sé e andavano già a scuola), stavo sempre con i
miei genitori, i quali, non avendo soldi ma tempo e cultura,
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