Il toro di Manu

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Il toro di Manu
IL TORO DI MANU*
ROSA RONZITTI
Non occorre certo ribadire l’importanza di Manu nella mitologia
indiana. Egli è il progenitore degli uomini, il fondatore delle leggi e
dei sacrifici, il predestinato alla sopravvivenza dopo il diluvio
universale. Questi tratti sono ben noti alla tradizione vedica e
classica1. Meno noto, invece, è un episodio che vede protagonista un
toro posseduto da Manu stesso e dotato di qualità insolite e prodigiose.
Trascurato dalla maggior parte degli studiosi2, tale stralcio mitico è
stato di recente collocato al centro di una complessa trama
interpretativa da Stephanie W. Jamison nella sua monografia
Sacrificed Wife/ Sacrificer’s Wife: Women, Ritual, and Hospitality in
Ancient India (Oxford University Press, New York 1996)3. Nel libro,
che intende mettere in luce l’importanza della donna nel rituale
indiano più antico, l’attenzione si incentra sulla “moglie di Manu”,
una figura che compare nella parte finale del mito ed è assai
*
Desidero ringraziare i Proff. D. Maggi e S. Sani per la consulenza metrica e
traduttologica.
1
Per una scelta di brani riguardanti Manu cfr. J. MUIR, Original Sanskrit Texts, Part
I, Delhi 1976 [ed. or. London 1868], pp. 161-238 (in part. pp. 189-191).
2
Agli albori della scienza glottologica, un confronto formale (oggi per noi
inaccettabile, cfr. KEWA II, pp. 575-576) fra Manu e Mιn
wj fu sostenuto in una
delle sue Abhandlungen di mitologia comparata da A. Kuhn, che rilevava inoltre
tratti in comune fra il toro di Manu e il toro offerto annualmente da Minosse a
Poseidone (cfr. Die sprachvergleichung und die urgeschichte der indogermanischen
völker, KZ 4 (1855), pp. 81-124, in part. pp. 81-94). In seguito fu il Lévi a tradurre e
commentare con acume alcuni brani del mito vedico (cfr. S. L., La doctrine du
sacrifice dans les Brāhman.as, Paris 1898, p. 118 ss.).
3
Si vedano in particolare i capp. II e IV dell’opera.
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rappresentativa, secondo la studiosa americana, non solo della
condizione femminile nel mondo vedico, ma anche dei significati
sacrali dell’ospitalità (Manu è pronto a sacrificare la moglie agli ospiti
che glielo chiedono) in quella cultura.
L’interpretazione che qui si propone non intende smentire la
lettura socio-antropologica della Jamison, quanto piuttosto illuminare
altri aspetti e altre possibili implicazioni di un mito che non solo si
presenta ricco di simboli ed espressioni criptiche, ma anche li associa
a
scelte lessicali, situazioni e personaggi piuttosto insoliti,
necessitando di un complesso lavoro esegetico.
1. I testi vedici
La storia del toro di Manu si presenta in due versioni: la prima è
narrata nello Śatapatha Brāhman.a (ŚBM I,I,4,14-18 ≅ ŚBK II,1,3,1420), la seconda appartiene allo Yajurveda nero e si trova ripetuta, con
poche variazioni, in KS XXX,1: 181, 5 ss. e MS IV,8,1: 106, 6 ss.
(altri passi pertinenti saranno citati in séguito).
1.1. ŚBM I,1,4,14-18
Nelle strofe immediatamente precedenti a queste viene descritta
una pratica sacrificale riservata al Havisk3t. Mentre l’Adhvaryu
chiama il Havisk3t, un terzo sacerdote, anch’esso presente sul luogo
del sacrificio, ‘batte l’una contro l’altra due macine da mulino’
(dr,sa. dupalé sama\hanti).
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A questo punto inizia una delle tante digressioni eziologiche che
punteggiano lo Śatapatha Brāhman.a, costituendo uno dei motivi di
maggior interesse di quest’opera: l’intento esplicativo permette infatti
di recuperare frammenti di miti altrimenti destinati a rimanere ignoti.
Nel caso specifico il mito che dà ragione del rito (la battitura delle
macine) si inserisce nel quadro consueto della lotta fra Deva e Asura:
13. tád yád eta\m átra va\cam pratyudvadáyanti
‘La causa per cui producono qui questo rumore (battendo le macine) è la seguente:’
14. mánor ha va\ r,sa. bhá āsa / tásminn asuraghni\ sapataghni\ va\k právis.t.āsa tásya ha
sma śvasátha-d ravátha-d asuraraks.asa\ni mr,dyáma-na-ni yanti té ha\sura-h. sámu-dire
pa-pám. vata no ’yám r,sa. bháh. sacate kátham. nvìmám. dabhnūyaméti kila-ta-kuli\ íti hasurabrahma\v āsatuh.
‘Manu aveva un toro. In lui era entrata una voce che uccide gli Asura, che uccide i
nemici. A causa del suo soffio e del suo muggito gli Asura e i Raks.asa erano
continuamente frantumati. Allora gli Asura dissero fra di loro: ‘Ahinoi, che
sfortuna! Questo toro ci perseguita!4 Come potremmo distruggerlo?’. Orbene, Kila-ta
e Ákuli erano due sacerdoti degli Asura’.
15. táu hocatuh. / śraddha\devo vaí mánur a-vám. nú veda-véti táu ha-gátyocatur máno
ya-jáya-va tvéti kénéty anénars.abhén.éti táthéti tásya\labdhasya sa\ va\g apacakráma
‘I due dissero: ‘Manu è timorato degli dèi5. Orsù, accertiamolo!’. Allora i due
andarono (da Manu) e dissero: ‘O Manu, vogliamo sacrificare per te!’. ‘Con che
cosa?’ ‘Con questo toro!’ ‘Così sia!’. E la voce del toro ucciso6 fuggì via’.
16. sa\ mánor evá jāya\m. manāvi\m. práviveśa / tásyai ha sma yátra vádantyai śr,nv. ánti
táto ha smaiva+suraraks.asa\ni m3dyámānāni yanti té ha\surāh. sámūdira ’itó vaí nah.
pa\pīyah. sacate bhu\yo hí mānus.i\ va\g vádati\ti kilātākuli\ haivòcatuh. śraddha\devo vaí
mánur āvám. nvèvá vedāvéti táu hāgátyocatur máno yājáyāva tvéti kénéty anáyaivá
jāyáyéti táthéti tásyā a\labdhāyai sa\ va\g ápacakrāma
4
Oppure, seguendo la traduzione della Jamison: ‘Ahimé, il male ci perseguita sotto
forma di questo toro’.
5
Sul significato esatto del composto śraddha\deva- vd. il par. 2.
6
Letteralmente ‘preso per essere ucciso durante il sacrificio’. Come osserva
JAMISON, op. cit., p. 160: «ā √labh is the standard lexeme for grasping a sacrificial
victim to bind it for its killing».
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‘Allora (essa) entrò in Manāvī, la moglie di Manu. Quando la odono parlare, allora
gli Asura e i Raks.asa sono continuamente fatti a pezzi. Gli Asura dissero fra di loro:
‘Qui un male ancora più grande ci perseguita, perché la voce umana parla di più!’
Kilāta e Ākuli allora dissero: ‘Manu è timorato degli dèi. Orsù, accertiamolo! Andati
da lui, i due dissero: ‘Sacrificheremo per te!’ ‘Con che cosa?’ ‘Con tua moglie!’
(Allora) disse: ‘Sia!’ E la voce di lei uccisa andò via’.
17. sa\ yajñám evá yajñāpa\trān.i práviveśa / táto hainām. ná śekatur nírhantu
saìs.a+suraghni\ va\g údvadati sá yásya haivám. vidús.a eta\m átra va\cam.
pratyudvādáyanti pa\pīyaso haiva+sya sapátnā bhavanti
‘Quella (voce) entrò nel sacrificio stesso, nelle coppe del sacrificio, perciò (i due)
non furono capaci di rimuoverla. Questa stessa voce che uccide gli Asura si leva a
parlare (dalle pietre) e per colui che sa (il sacerdote) producono qui questa voce, e i
suoi (di lui) nemici diventano veramente più miserabili’.
18. sá sama\hanti / kukkut.ò ’si mádhujihva íti mádhujihvo vái sá devébhya a\sid
vis.ájihvó ’surebhyah. sá yó devébhya a\sīh. sá na edhi\tyevaìtád āhés.am u\rjam a\vada
tváyā vayám/: sam.ghātá-sam.ghātam jes.méti na\tra tiróhitam ivāsti
‘Egli fa cozzare (le pietre) l’una contro l’altra (dicendo): ‘Sei un gallo dalla lingua di
miele!’. Poiché certamente fu per gli dèi dalla lingua di miele e dalla lingua di
veleno per gli Asura. ‘Sii per noi quello che fosti per gli dèi!’ – dice perciò (il
sacerdote) – ‘Chiama qui il succo e il vigore! Che noi possiamo vincere ogni
battaglia per mezzo tuo!’. Qui (in queste parole) non vi è nulla di oscuro’.
Dopo questo rito il sacerdote ne compie un secondo, che ha
sempre lo scopo di scacciare le entità maligne, e così si conclude il
primo adhyāya del primo kān.da.
1.2. Lo Yajurveda nero
KS XXX,1: 181, 5 ss.7
manor vai kapālāny āsas tair yāvato-yāvato ’surān abhyupādadhāt te
parābhavann atha tarhi tris.tā. varutrī āstām asurabrahmau tā asurā abruvann imāni
manukapālāni yācethām iti
7
Il testo è suddiviso in paragrafi per comodità del lettore. Una traduzione del brano
è in W. RAU, Fünfzehn Indra-Geschichten, AS 20 (1966), pp. 72-100, in part. pp.
91-97.
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‘Manu aveva delle coppe. Tutti gli Asura che poneva vicino a quelle perivano. Ora,
in quel tempo, T3s.ta. e Varutri erano sacerdoti degli Asura. Gli Asura dissero loro
‘Chiedete queste coppe di Manu!’ ‘.
tau prātaritvānā abhiprāpadyetām. vāyave ’gnā3i vāyava indrā3 iti kim.kāmau stha
ity abravīd imāni nau kapālāni dehīti tāny ābhyām adadāt tāny aran.yam. parāh3tya
samapis.tā. m
‘I due arrivarono come ospiti del mattino (dicendo): ‘Per Vāyu, o Agni! Per Vāyu, o
Indra!’. (E Manu) chiese: ‘Cosa desiderate voi due?’. Risposero: ‘Dacci queste
coppe!’. E quello le diede ai due. Avendole portate via, le fecero a pezzi nella
foresta’.
tan manor gāvo ’bhivyatis.t.hanta tāny r,s.abhas samalet. tasya ruvato yāvanto ’surā
upāś3n.vas te parābhavas tau prātaritvānā abhiprāpadyetām vāyave ’gnā3i
vāyava indrā3 iti kim.kāmau stha ity abravīd anena tva r,sa. bhen.a yājayāveti
‘Dunque i bovini di Manu stavano (lì) intorno e un toro leccò quelle (coppe). Tutti
gli Asura che udivano il suo muggito, perivano. (Allora) i due arrivarono come
ospiti del mattino dicendo: ‘Per Vāyu, o Indra!’. (E Manu chiese): ‘Cosa desiderate
voi due?’. Risposero: ‘Che noi possiamo sacrificarti questo toro’ ’.
tat patnī yajur vadantī pratyapadyata tasyā dyām. vāg ātis.th. at tasyā vadantyā
yāvanto ’surā upāś3n.vas te parābhavas tasmān naktam/: strī candrataram. vadati
‘Allora arrivò la consorte pronunciando una formula (yajus)8. La voce di lei
giungeva al cielo e tutti gli Asura che la udivano parlare, perivano. Per questo una
donna parla più graziosamente di notte’9.
8
L’editore della Ka-t.haka, von Schroeder, corregge la lezione del codice Chambers
40 patnī yajurvadantīm in patnī yajurvadantī, trasformando, secondo il
corrispondente testo di KpS XLVI,4: 338, 2 ss., il participio accusativo vadantīm in
un nominativo accordato con patnī. MUIR, op. cit., p. 190, trasforma invece patnī in
patnīm, ottenendo due accusativi retti dal verbo pratyapadyata e traduce «He [scil.
Manu] then came to his wife who was uttering a yajush». Nella versione del Muir il
soggetto potrebbe anche essere, ma sembra meno probabile, ‘la voce’ (come in ŚBM
I,1,4,16): ‘Allora (la voce) entrò in lei mentre pronunciava una formula (yajus)’.
9
La frase è piuttosto enigmatica. JAMISON, op. cit., p. 23 intende: «Therefore
women speak more brilliantly at night», mentre il dizionario del Monier Williams,
facendo specifico riferimento a questo passo, traduce candrataram con «more
lovely». Di sicuro si allude a una differenza fra la voce notturna, lunare (cándra- è
anche il nome della ‘luna’), che è inoffensiva, e quella diurna, solare (l’episodio si
svolge alle prime luci del mattino), dotata di potere omicida. Si vedano in proposito
le notazioni conclusive sul canto del gallo.
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La narrazione prosegue: i due sacerdoti si spingono a chiedere in
sacrificio la moglie di Manu, in cui la voce è trasmigrata. Questa parte
della vicenda, appena accennata nello Śatapatha, acquista qui molta
rilevanza per le sue implicazioni etico-religiose. Prima di trattarne
presenteremo anche la versione della Maitrayan.ī, circostanziata e
ricca di altri particolari:
MS IV,8,1: 106, 6 ss.
mánor vaí pa\trān.y āsās tés.ā samāhanyámānānā ya\vantó ’surā upa\śr,nv. as
ta\vantas tád áhar na\bhavann átha va\ etáu tárhy ásurān.ām. brāhman.a\ a\stām.
tris.t.av\ árutrī ta\ abruvaś cíkitsatam. nā íti
‘Manu aveva delle coppe. Quando venivano battute insieme10, tutti gli Asura che ne
sentivano il rumore cessavano di esistere il giorno stesso. Orbene, in quel tempo vi
erano due bramani degli Asura, Tris.ta. e Varutri. (Gli Asura) dissero ai due: ‘Pensate
voi a noi!11’ ’.
ta\ abrūtām. máno yájvā vaí śraddha\devo ’sīma\ni nau pa\trān.i dehi\ti ta\ni va\ a\bhyām
adadāt ta\ny agnínā sámaks.āpayatām. ta\n jvāla\n r,s.abháh. sámalet. tá sa\ menír
ánvapadyata tásya ruvató ya\vanto ’sura\ upa\śr,nv. as ta\vantas tád áhar na\bhavan
‘I due dissero: ‘Manu, tu sei un sacrificante, un timorato degli dèi. Dacci queste
coppe!’. Egli gliele diede. Quelli le bruciarono con il fuoco. Un toro leccò le fiamme
e la meni (?) entrò in lui. Tutti gli Asura che lo udivano muggire, cessavano di
esistere in quel giorno stesso’.
ta\ abrūtām. máno yájvā vaí śraddha\devo ’sy anéna tva12 r,sa. bhén.a yājayāvéti téna va\
enam ayājayatām. tásya śrón.im ánavattā suparn.á údamathnāt sa\ mana\yyā13
upástham a\padyata ta\ sa\ menír ánvapadyata tásyā vádantyā ya\vantó ’surā
upa\śr,nv. as ta\vantas tád áhar na\bhavan
‘I due dissero: ‘Manu, tu sei un sacrificante, un timorato degli dèi. Vogliamo
sacrificare per te con questo toro!’. E con questo sacrificarono per lui. Un uccello
10
Si noti la scelta del verbo sam han-, lo stesso usato per il rito della battitura nello
Śatapatha.
11
LEVI, op. cit., p. 119 traduce cikitsatam (imperativo 2º ps. duale) “Guerisséz-nous
de ce mal”. Questa resa, molto efficace, implica l’attribuzione a cikits-, tema
desiderativo di cit- ‘percepire, essere intento a’, il significato di ‘guarire’, attestato
con sicurezza in epoca classica, mentre in vedico il verbo sembrerebbe valere ‘aver
cura di, pensarci’ (ma vd. quanto si dice nelle pagine seguenti).
12
Va corretto in tvā.
13
Va corretto in manāvyā.
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agganciò la coscia di quello (ancora) indivisa. Quella cadde sul grembo di Manāvī.
La meni (?) entrò (in lei). Tutti gli Asura che la (= donna) udivano parlare,
cessavano di esistere in quel giorno stesso’.
Assai più ridotta è una seconda versione dell’episodio presente
nella stessa sam.hitā, MS IV,1,6: 8, 10 ss.14. Essa mostra evidenti punti
di contatto con lo Śatapatha Brāhman.a:
mánor vaí śraddha\devasya yájamānasyāsuraghni\ va\g yajñāyudha\ni právis.t.āsīt
tásyā vádantyā ya\vantó ’surā upa\śr,nv. as ta\vantas tád áhar na\bhavann evá
vidva\n brāhman.ó bhra\tr,vyān.ām. mádhye ’vasa\ya yajeta ya\vanta eva\sya bhra\tr,vyā
yajñāyudha\nām upāśr,nv. ánti tés.ām téja indrīyám. viryà vr,nk: te kut.árur asi
mádhujihvas tváyā vayá sam.ghātá-sam.ghāta: jes.méti
‘Una voce che uccide gli Asura, appartenente a Manu, il sacrificante timorato degli
dèi, entrò negli utensili del sacrificio. Tutti gli Asura che la udivano parlare,
cessavano di esistere in quel giorno stesso. Se un bramano lo sa, può compiere un
sacrificio fra i nemici per mezzo di un’offerta. Di tutti i nemici che odono gli utensili
del sacrificio15 (egli) piega il potere indraico e virile (dicendo): ‘Tu sei un gallo dalla
lingua di miele, che noi possiamo vincere per mezzo tuo ogni battaglia!’ ‘.
2. Il sacrificio di Manāvī
Una fondamentale differenza intercorre fra Śatapatha Brāhman.a
e Sam.hitā: nel brāhman.a l’uccisione della donna non è tabuizzata e si
inserisce meccanicamente nella “trafila omicida” attuata dai due
sacerdoti; nelle Sam.hitā, invece, il sacrificio sembra caratterizzarsi
come prova della devozione di Manu, il più pio fra gli uomini, lo
śraddha\deva- ‘colui che ha la fede per divinità’16. La preparazione del
rito sacrificale è lungamente descritta nella parte conclusiva di KS
14
E ripetuta anche nella Kapis.t.hala (XLVI,4: 338, 2 ss.).
La parola ‘utensile’ contiene la radice yudh- ‘combattere’: è evidente che gli
attrezzi del sacrificio sono concepiti come armi da utilizzare contro i nemici.
16
Nella letteratura vedica la śraddhā è identificata con l’id.ā, l’oblazione che, dopo il
diluvio, nasce da Manu stesso come una figlia (cfr. ŚBM I,8,1). Nella letteratura
classica Manu figura invece come sposo della śraddhā (cfr. LÉVI, op. cit., p. 115).
15
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XXX,1 ove i due sacerdoti, presentandosi nuovamente come ospiti
presso Manu e contando sulla sua devozione, ne chiedono la moglie.
Ma un improvviso intervento di Indra sancisce la loro rovina. Dopo
aver riconosciuto il dio, essi sono decapitati con gocce d’acqua
benedetta e mutati in piante che inaridiscono sotto la pioggia.
L’episodio si conclude con la liberazione della donna e la fondazione
di un sacrificio non cruento:
tām. paryagnikr,tam. udas3jat tayārdhnot tā imā manāvyāh. prajā yat paryagnik3tam.
pātnīvatam utsr,jati yām eva manur 3ddhim ārdhnot tām 3dhnoti
‘(Indra) liberò lei quando (ormai) era circondata dalle fiamme. Grazie a lei (Manu)
prosperò. Queste sono le creature nate da Manāvī. Ogni volta che (il sacrificante)
libera (una vittima) circondata dalle fiamme e destinata ad Agni Patnīvat17, prospera
di quella prosperità di cui Manu prosperò’18.
In MS IV,8,1, invece, manca ogni riferimento alle metamorfosi
dei due bramani in piante, mentre un forte accento è posto sulla pietas
di Manu, che esita a interrompere il rito nonostante il volere di Indra,
venuto in suo soccorso:
sá mánur índram abravīt sám. me yajñám. sthāpaya ma\ me yajñó víkr,st. .o bhūd iti so
’bravīd yátkāma eta\m a\labdhāh. sá te kāmah. sám3dhyātam áthots3jéti ta\ va\
údas3jat
‘Manu disse a Indra: ‘Completa il mio sacrificio, che il mio sacrificio non sia
disperso!’. Egli rispose: ‘Ciò che desideri sacrificandola sia compiuto, ma lascia
libera questa donna!’. Allora egli la lasciò libera’.
17
Lett. ‘accompagnato dalla donna / moglie’.
Per l’espressione 3ddhim 3dh- ‘prosperare in qualcosa’ cfr. H. OERTEL, The Syntax
of Cases in the Narrative and Descriptive Prose of the Brāhman.as · I. The Disjunct
Use of Cases, Heidelberg 1926, pp. 32-33.
18
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Nella Taittirīya Sam.hitā (VI,6,6,1), che non conosce il mito nella
sua interezza (né il toro prodigioso né la voce-killer sono menzionati),
si dice:
índrah. pátnyā mánum ayājāyat ta\m. páryagnik3ta-m údas3jat táyā mánur ārdhnod yát
páryagnik3tam. pātnīvatám utsr,játi ya\m evá mánur 3Œddhim a\rdhnot ta\m evá
yájamāna 3dhnoti
‘Indra fece un sacrificio per Manu con la moglie, (ma) la lasciò andare quando
(ormai) era circondata dalle fiamme. Per mezzo di lei Manu prosperò. Ogni volta
che il sacrificante libera (una vittima) circondata dalle fiamme e destinata ad Agni
Patnīvat, prospera di quella prosperità di cui Manu prosperò’.
La narrazione, in gran parte identica all’ultima parte di KS
XXX,1, sembra un riassunto molto essenziale dell’episodio, ma, non
sappiamo se per brachilogia espressiva o per una vera, rivoluzionaria
intenzione, è Indra, e non i due Asura, a compiere il sacrificio e a
liberare poi la moglie di Manu, che, come Isacco, sperimenta prima la
crudeltà e poi la grazia di un dio implacabile.
3. I due Asurabrahma
Non intendiamo andare oltre questi brevi accenni al sacrificio di
Manāvī, poiché lo studio della Jamison si incentra interamente sulla
sua analisi.
Un interessante spunto che la studiosa offre al lettore è la proposta
di interpretare la coppia degli astuti sacerdoti asurici come immagine
speculare degli Aśvin19.
Questi strani ospiti ‘che giungono al mattino’ (prātarítvan-) si
presentano come sacerdoti itineranti pronti ad allestire un sacrificio
19
Cfr. JAMISON, op. cit., pp. 184-189.
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per chi li accolga. In RV X,125 il raro termine prātarítvan- qualifica
proprio una figura di questo genere (strr. 1-3), che arriva all’alba
portando una ricchezza consistente in una lunga vita, figli e beni
materiali nonché molti doni. Impossibile, argomenta la Jamison,
disgiungere questo misterioso sacrificante20 dai più famosi e citati
prātarya\van- che popolano molti inni vedici, gli Aśvin. Coppia di
divinità apportatrice di fertilità e ricchezze, essi si muovono su un
carro tra il regno degli dèi e quello degli uomini nell’ora mattutina, in
cui si celebra il sacrificio somico21. La spia lessicale di questa
identificazione per contrario (la Jamison parla di «wicked mirror
image», p. 188) fra i due Asurabrahma e i gemelli divini sarebbe in
MS IV,8,1:
tā abruvaś cikitsatam. nā iti
‘(Gli Asura) dissero ai due (sacerdoti): ‘Guariteci!’ ’.
Tradurre cikitsatam. con ‘guarite!’, anticipando il valore classico
del verbo alla letteratura vedica, è una notevole intuizione del Lévi
(vd. la nota 11), che si inserisce nel mosaico di corrispondenze
individuato dalla Jamison tra la figura del sacrificante mattutino e gli
Aśvin (l’arrivo all’alba, il carro e l’apporto di ricchezze). Come gli
Aśvin dispongono di poteri guaritorî e possiedono la scienza medica22,
20
Per alcune interpretazioni (Indra, Genio del mattino) cfr. la bibliografia in
JAMISON, op. cit., p. 186.
21
Questo tratto è ben sottolineato da P. DI GIOVINE nel contributo “Gli Aśvin sul far
dell’alba (RV,X,40,2b)” (in AA. VV., Ethnos, lingua e cultura. Scritti in memoria di
Giorgio Raimondo Cardona, Roma 1993, pp. 27-47).
22
La loro più celebre impresa, nel R,gveda, è il ringiovanimento del vecchio
Cyāvana, le cui ossa sono rimesse insieme come le parti di un carro allorché egli
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così i loro omologhi sono chiamati a “guarire” gli Asura dal “morbo
della voce”.
Qualcosa tuttavia resta da dire su questi malvagi sacerdoti che
inducono Manu al sacrificio della consorte. Le versioni dello
Yajurveda nero e dello Śatapatha Brāhman.a riportano due diverse
coppie di nomi, rispettivamente Tris.ta. Varutri23 e Kilāta Ākuli. La
prima non è altrimenti attestata, ma, nella variante tvas.tā. varutrī di
KpS XLVI,4, sembra da mettere in relazione con RV VII,34,22:
ta\ no rāsan rātis.a\co vásūny a\ ródasī varun.āni\ śr,n.otu/
várūtrībhih. suśaran.ó no astu tvás.t.ā sudátro ví dadhātu ra\yah.
‘I Rātis.āc24 possano assicurarci questi beni; Rodasī e Varun.anī ci ascolti(no)!
(Tvas.ta. r) possa assicurarci buon riparo insieme con le protettrici; Tvas.ta. r, il buon
datore, possa ripartire le ricchezze!’ ’
ove várūtrībhih. è lo strumentale plurale di un tema in -(tr)ī- femminile
che indica un gruppo di dee associate al dio Tvas.ta. r nella
distribuzione delle ricchezze. Il termine várūtrī- può essere ricondotto
alla radice var- ‘proteggere’ e confrontato con il nome d’agente
varūt3-Œ ‘protettore’, di cui Pān.ini (VII,2,34) riporta una variante con u
breve.
Il
composto
tris.ta. v\ árutrī
nascerebbe
allora
da
un
fraintendimento del passo vedico e precisamente dall’associazione del
ambisce a prendere in moglie una fanciulla. Sulle prerogative degli Aśvin cfr. G.
DUMÉZIL, Mito e epopea. La terra alleviata, Torino 1982, pp. 54-55 [ed. or. Mythe
et épopée I, Paris 1968].
23
Nella traduzione della Jamison lo dvandva tris.ta. v\ árutrī è scomposto in tris.t.á- e
avárutri-, mentre sia il dizionario del Monier Williams sia il Vedic Index di
Macdonell-Keith (cfr. A. A. M. – A. B. K., Vedic Index of Names and Subjects,
London 1912, vol. I, p. 323) intendono tris.tá. - e várutri-. Sui motivi per cui questa
seconda versione è preferibile vd. poco oltre nel testo.
24
Schiera di creature divine che garantiscono ricchi doni.
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nome di Tvas.ta. r all’epiteto várūtrī-, reinterpretato come antroponimo
maschile. La lezione tvas.tā. della Kapis.th. ala è piuttosto interessante,
perché implica un carattere asurico del dio artigiano, da mettere forse
in relazione con alcuni accenni tardo- e post-vedici alla sua ostilità
verso Indra25, di cui tradizionalmente è invece fedele servitore (gli
costrusce il vajra)26.
Anche per kilātākuli\ è ipotizzabile un’origine per scomposizione
in
due
antroponimi
dell’aggettivo
kirātakulyau
(Pañcavim.śa
Brāhman.a, vd. infra)27, che significa ‘della stirpe dei Kirāta’ (kula- =
‘famiglia, comunità, tribù’), al duale ‘i due della stirpe dei Kirāta’28.
Il nome kírāta- è ricco di connotazioni negative. Esso designa una
popolazione selvatica di stirpe anaria abitante sulle montagne e adatta
a lavorare nelle cave29. Inoltre kirāt.a- (con cerebrale) significa nella
lingua classica ‘mercante’30 e, nei lessici, ‘nano’. Si tratta dunque di
una denominazione pienamente coerente con il quadro ideologico25
Indra ha infatti ucciso Viśvarūpa, il mostro tricefalo figlio di Tvas.ta. r, il quale, per
vendicarsi, genera V3tra (cfr. p. es. ŚB I,6,3,1 ss.; JB II,153-157; MBh V,9 e
XII,343). Notizie su Tvas.ta. r in K. AMMER, Tvas.t.ar, ein altindischer Schopfergott,
Sprache 1 (1949), pp. 68-77 e M. Leumann, Der indoiranische Bildnergott
Twarštar, AS 8 (1954), pp. 79-84.
26
Il nome tris.tá. - non è mai stato etimologizzato. Un raffronto suggestivo e
semanticamente pertinente è offerto dalla base *tre4sti- / *tristi- (cfr. J. POKORNY,
Indogermanisches etymologisches Wörterbuch, vol. I, Tübingen und Basel 1959, p.
1092) “arrogante, cupo” (cfr. lat. tristis, ted. dreist).
27
Il nome vi compare nella forma con r.
28
Così interpretava Sāyan.a ad PB XIII,12,5, cfr. MACDONELL-KEITH , op. cit., vol.
I, p. 158.
29
Cfr. VS XXX,16: guhābhyah. kirātah. ‘per le cave / caverne (ci vuole) un kirāta’.
In AV X,4,14 una fanciulla appartenente ai Kirāta si reca sulle cime delle montagne
per estrarre con palette d’oro un rimedio magico. In AV V,13,5 il nome al grado
v3ddhi, kairāta-, designa un serpente.
30
In pāli ‘mercante fraudolento’.
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culturale che identifica gli Asura con i non ariani, i non civilizzati, i
deformi d’aspetto31.
In testi tardovedici Kirāta e Ākuli sono protagonisti di un misfatto
narrato nel Jaiminīya e nel Pañcavim.śa Brāhman.a32. Essi ingannano il
re Asamāti, inducendolo ad abbandonare la famiglia sacerdotale di sua
fiducia, i Gaupāyana, e rapiscono lo spirito vitale di Subandhu, uno
dei membri di questa famiglia, che viene successivamente riportato in
vita dai suoi fratelli grazie alla recitazione di un versetto 3gvedico
(X,60,7)33.
Anche questo secondo episodio conferma la malignità dei due
protagonisti, che inducono il re Asamāti a rompere l’alleanza con i
Gaupāyana, scatenandone la reazione.
La natura dei sacerdoti è però illusoria:
atha hāsamātau rāthapraus.t.he kirātākulī ūs.atur asuramāyau (JB III,167)
‘Presso Asamāti Rāthapraus.t.ha abitavano Kilāta e Ākuli, due illusioni degli Asura’.
Essa si esplica con la messa in scena di un vero e proprio ‘falso
sacrificio’, stravolgimento speculare di quello devico:
tau ha smānagnāv adhidhāyaudanam pacato ’nagnau mām.sam (ibidem)
‘I due cuocevano il riso ponendolo sul non fuoco, la carne (ponendola) sul non
fuoco’34.
31
L’etimologia è probabilmente non indoeuropea. Per un quadro completo cfr. EWA
I, pp. 352-353.
32
JB III,168-169; PB XIII,12,5.
33
Notizie più dettagliate in MACDONELL-KEITH, loc. cit., e H. OERTEL,
Contributions from the Jāiminīya Brāhman.a to the history of the Brāhman.a
literature. First series, JAOS 18 (1897), pp. 41-45.
34
OERTEL, art. cit., p. 44, traduce anagni- con “non-fire”, ovvero come
contraddittorio del semplice agni-. Un’altra possibilità interpretativa consiste nel
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Ma alla fine, quando la parola sacra è recitata e Subandhu torna in
vita, il castello di illusioni crolla:
sarvamāyā apākrāman … tau tad evāmriyetām/ tā etā bhrāt3vyaghnyo raks.oghnya
3cah. (JB III,169 e 170)
‘Tutte le illusioni si allontanarono … I due morirono. Davvero queste strofe35
uccidono il nemico, uccidono il raks.as’.
Il legame privilegiato tra Asura e māyā, oggetto di ampi studi, è
qui fortissimo, nel senso che i due Asura stessi sono “illusione” che
cede di fronte al potere della parola sacra. Un punto sul quale
torneremo nel prossimo paragrafo.
4. Meni
Raramente attestata (solo all’interno del vedico e, come maēni-,
‘punizione’, in pochi passi avestici), questa parola destò l’attenzione
di Geldner, che propose per essa il significato di ‘vendetta’, mentre
Oldenberg, osservando che non sempre tale accezione emerge dai
contesti, suggerì quello, più concreto, di ‘arma da lancio’36. Entrambi
gli studiosi si appoggiavano all’etimologia proposta da Mahīdhara ad
trasferire la negazione al verbo principale della frase, come sembra suggerire Frisk a
proposito di un passo analogo (KS XII,1: 162, 16): vyr,ddhā vā es.ā āhutir yām
anagnau juhoti / agnau sarve hotavyāh. “ohne Erfolg ist die Opferspende die er
nicht ins Feuer opfert; ins Feuer sind alle zu opfern” (cfr. H. F., Substantiva
privativa im Indogermanischen · Eine morphologisch-stilistische Studie, Göteborg
1948, p. 69). Anche da questa citazione risulta chiaramente che il sacrificio senza
fuoco è una distorsione, un misfatto (a differenza del greco ápyros, che indica il
sacrificio non cruento).
35
Cioè il mantra 3gvedico X,60,7.
36
Cfr. K. GELDNER, “Über das vedische Wort meni”, in Festgruss an Otto von
Böhtlingk zum Doktor-Jubilaeum 3. Februar, Stuttgart 1888, pp. 31-33; H.
OLDENBERG, “Zwei vedische Worte”, in Festschrift Windisch, Leipzig 1914, pp.
116-122.
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VS XXXVIII,14, secondo la quale mení- si riallaccerebbe a minóti =
hinasti ‘distrugge’. Stephanie Jamison vi ha dedicato un contributo
critico indipendente dalla sua monografia37, riprendendo poi in
quest’ultima le conclusioni, radicalmente nuove rispetto alla
letteratura precedente, cui ritiene di essere giunta.
Nel contesto yajurvedico in cui mení- compare due volte (MS
IV,8,1) spicca l’equivalenza tra mení- e va\c-, che il Lévi, senza fornire
ulteriori spiegazioni38, intende come vera e propria identità: “Un
toreau lécha les flammes, la voix entra en lui … la voix passa dans la
femme de Manu”39. A fronte di questa interpretazione, che richiede
certo un chiarimento ma sembra imporsi, la Jamison contrappone
invece un’esegesi del termine assai più complessa, il cui punto di
partenza è etimologico. Assumendo che mení- derivi da *mei-/*mi[sic] ‘scambiare’40 ed esaminando alcuni contesti a suo avviso
significativi, la studiosa conclude: “Mení denotes the power or
embodiment of negative exchange, of thwarted exchange. It is the
dangerous force that is created when the standard system of tit-for-tat
is interfered with. The threat of it enforces correct behavior in
37
Cfr. S.W. JAMISON, Vedic mení, Avestan maēni, and the power of thwarted
exchange, in Festschrift Paul Thieme, StII 20 (1996), pp. 187-203.
38
Ma forse riprendendo Nigh I,11 che colloca menih. e menā (con tematizzazione in
-ā) fra i vāgnāmāni ‘nomi della voce’.
39
Cfr. op. cit., p. 119.
40
Se si vuole ricomprendere in questa famiglia semantica anche il greco ameíbō,
‘scambio’, è necessario porre una laringale iniziale (*h2me4-), di cui resterebbe
traccia nel composto ai. apāmítya- (YV), ‘compenso, pagamento’, accanto però ad
apamítya- (AV), con a breve che implica una forma senza laringale (cfr. H. RIX,
Lexicon der indogermanischen Verben, zweite Auflage, Wiesbaden 2001, pp. 426 e
179).
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exchange relations, and when released, it can become the vehicle of
requital for violations of these same relations”41.
I contesti di “ospitalità stravolta” sarebbero, secondo la Jamison,
quello appena citato, alcuni passi dell’Aitareya Brāhman.a riferentisi
al sacrificio del fuoco, una strofe 3gvedica (la più antica occorrenza di
mení- nonché l’unica in questa raccolta) di non chiara interpretazione,
una atharvavedica e un passo yajurvedico (nelle versioni Kāt.haka e
Maitrayan.ī). Vediamoli nello specifico:
AB VIII,24-25
agnir vā es.a vaiśvānarah. pañcamenir yat purohitas tasya vācy evaikā menir
bhavati pādayor ekā tvacy ekā h3daya ekopastha ekā tābhir jvalantībhir
dīpyamānābhir upodeti rājānam
‘Questo Agni Vaiśvanara, in quanto purohita, possiede cinque meni: una meni è
nella sua voce, una nei piedi, una nella pelle, una nel cuore, una nel grembo. Con
queste che lampeggiano e splendono (egli) si avvicina al re’.
Segue un passo in cui il re pacifica le cinque meni gettando per
cinque volte erba secca alle fiamme di Agni. Il testo poi prosegue:
agnir vā es.a vaiśvānarah. pañcamenir yat purohitas tābhī rājānam parig3hya
tis.t.hati samudra iva bhūmim
‘Questo Agni Vaiśvanara, in quanto purohita, possiede cinque meni. Con queste
tiene avvolto il re come il mare la terra’.
Mentre Haug e Keith traducono meni rispettivamente con
‘destructive power’ e ‘missile’, la Jamison interpreta l’intero brano
alla luce del concetto di ospitalità: “The evidence of this AB passage
suggests that meni is here not simply any weapon or a vengeful power,
but rather belongs to the realm of hospitality. I would suggest that it is
41
Cfr. JAMISON, art. cit., p. 193.
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the force that punishes those who neglect or perform incorrectly their
hospitality obligations. Now, hospitality, both secular and ritual, is
simply one facet of the mutual obligations of exchange that connect
the ancient Aryan community, and this is the semantic connection
between meni and the root *mi”. Parimenti in avestico “… maēni
denotes something that will happen to those who violate the basic
rules of the society”42.
Anche RV X,27,11, un passo piuttosto oscuro, sarebbe prova del
rapporto fra mení- e “ospitalità”:
yásyānaks.a\ duhita\ ja\tv a\sa kás ta\m. vidva\ abhí mānyate andha\m/ kataró mením
práti tám mucāte yá īm. váhāte yá īm. va vareya\t
‘Se uno ha una figlia cieca dalla nascita, chi, sapendolo, la desidererà in quanto
cieca? Chi dei due scatenerà la meni contro di lui, colui che la sposerà o colui che
la chiedesse in moglie (per conto dell’amico?)’.
Una violazione delle relazioni di scambio si avrebbe anche in AV
XII,5,16, in quanto l’inno è una lunga maledizione contro lo ks.atrya
che trattiene per sé la vacca senza offrirla al bramano:
meníh. śatávadhā hi sa\ brahmajyásya ks.ítir hí sa\
‘Essa (la vacca del bramano) è una meni che ne uccide cento; è la rovina di colui
che danneggia il bramano’.
La meni colpisce chi manca ai suoi doveri nei confronti della
casta sacerdotale, ma è anche una forza incontrollabile che può
sorgere da un sacrificio effettuato con cattive intenzioni, cfr. KS
XII,3: 165, 15-16 (simile è MS II,4,5: 42, 18-19):
42
Cfr. JAMISON, art. cit., pp. 192-193 e 201.
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abhicaran yajeta na daks.in.a-m. dadyān menim evainam. k3tvābhiprayun:kte menir hy
adaks.in.ah.
‘Colui che getta un incantesimo dovrebbe compiere il sacrificio (ma) non dovrebbe
dare la daks.in.a-. Avendo in questo modo fatto di quello (= il rituale) una meni, egli
prende il controllo. Infatti (un rituale) senza daks.in.a- è una meni’.
Nei restanti passi che testimoniano in forma semplice o composta
questo termine, non si evidenziano però particolari legami con
situazioni di “ospitalità distorta” o di “vendetta”. Ciò non sfugge
naturalmente alla Jamison, che osserva: “Those passages that remain
are, for the most part, ones of generalized hostile intent … where the
motivation for mení is unclear or unspoken. In such contexts it is
possible that mení has come to be used simply to mean ‘weapon,
hostile force’ without reference to exchange relations – but it is also
possible that such litanies have been abstracted from contexts in which
exchange has indeed been thwarted”43.
Questo
ragionamento
è
ineccepibile
(quante
volte
una
motivazione etimologica va perduta, si scolorisce o si banalizza?), ma
non sembra in verità che emergano, neppure nel primo gruppo di
passi, motivi sostanziali per negare l’etimologia suggerita da
Mahīdhara, poiché il valore costante che si associa a tutte le
attestazioni è quello di ‘forza che si abbatte, con esito distruttivo,
contro qualcuno’. Si potrebbe anzi rovesciare il ragionamento e
pensare, per il ristretto gruppo di contesti riguardanti l’ospitalità
distorta, a una specializzazione semantica avvenuta a partire da un più
generico significato di ‘distruzione’. D’altro canto, proprio perché
l’etimologia è una disciplina probabilistica che non di rado rifugge
43
Cfr. JAMISON, art. cit., p. 197.
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dalla “soluzione unica”44, pare difficile scartare il raffronto con *h2me4
‘(s)cambiare’, che può essere motivato in modo più semplice e diretto
di quanto fa la Jamison, a partire cioè dal concetto neutro di
‘(s)cambio’. Questo accostamento ha dalla sua la possibilità di non
essere limitato alla parte radicale del lemma. Il gruppo baltoslavo
testimonia infatti un folto gruppo di termini che si riconducono a
*h2me4- + nasale, cfr. abulg. měna ‘transazione, accordo’, bulg. me;n• a
e scr. mijèna ‘cambio, fase lunare’, lit. maĩnas, ãtmainas ‘cambio’
etc45. Il latino presenterebbe addirittura un equato, l’aggettivo, mūnis
‘obbligato, riconoscente’46 < ‘che rende ciò che è stato ricevuto’47.
Solo nel ramo indoiranico al termine si assocerebbe costantemente un
valore negativo, poiché la meni è ciò che si dà in cambio di un torto.
La caratteristica più evidente dell’entità designata da questa
parola è, in ogni caso, il suo porsi come forza annientante. Molti sono
i passi atharvavedici che la menzionano come arma potente contro il
veleno (ŚAU II,11,1a = PAI I,57,1; II,11,1b-5b = I,57,6) e contro la
cattiveria di generici nemici o rivali (ŚAU X,5,15-21 = PAI
XVI,129,1,2,5,10,8,9). Il Nighan.tu. , oltre a includere mení- tra i
vāgnāmāni (vedi supra), la annoverava anche tra i vajranāmāni ‘nomi
di armi’ (XI,20), ribadendo così implicitamente la nota identità fra
44
Cfr. M. BENEDETTI, “L’etimologia fra tipologia e storia”, in M. MANCINI (a cura
di), Il cambiamento linguistico, Roma 2003, pp. 209-262, in part. p. 212.
45
Il tema femminile in *-eh2/4 delle lingue slave può essere confrontato con il lemma
menā del Nighan.tu. (cfr. la nota 38).
46
In forma semplice è hapax plautino (Merc. 105). Diffusi sono invece i composti
immūnis e commūnis.
47
Per un’analisi del suo significato cfr. É. BENVENISTE, Il vocabolario delle
istituzioni indoeuropee, Torino 1976 [Le vocabulaire des institutions indoeuropéennes, Paris 1969], vol. I, pp. 71-72.
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voce e arma, che tanta parte ha nella cultura vedica. Anche nel già
visto inno AV XII,5 la terribile vacca del bramano è chiamata
saravya\- ‘freccia’ (alla strofe 14), vájra- (alla strofe 18), hetí- ‘dardo’
(alla 19): mení- si inserisce coerentemente in questa sequenza di
metafore.
La meni ha una natura ambivalente: pur ponendosi quasi sempre
dalla parte dell’ordine, della verità, del sacrificio, talvolta compare
come forza appartenente al mondo ostile del disordine. Da alcuni testi
emerge un filo conduttore, neanche troppo tenue, che la collega alle
potenze maligne48.
Rilevante in proposito è un passo attestato esclusivamente nella
versione Paippalāda dell’Atharvaveda (PAI II,51,1-3 e 5, con lievi
varianti anche 4). Ne riportiamo la prima strofe:
agnim. vayam. trātāram. yajāmahe/ menihanam. valagahanam jus.āno agnir ājyasya/
menihā valagahā/ trātā trāyatām. svāhā
‘Onoriamo Agni come protettore, colui che uccide la meni, colui che uccide il
valaga. Agni, trovando piacere nel burro fuso, lui che uccide la meni e uccide il
valaga, possa protegger(ci) come protettore. Svāhā!’49 .
48
Non a caso esiste il composto varun.amen.í-, che attribuisce a Varun.a, tremenda
divinità asurica e punitrice degli spergiuri, il possesso di questa energia distruttrice.
La varun.amen.í-, secondo la maggior parte dei testi, si sprigiona da Agni quando si
trova in connessione con Varun.a stesso (cfr. p. es. TS V,1,5,3): sappiamo già che
Agni possiede cinque meni (vd. supra) ed è noto altresì il suo passato asurico, pur
rinnegato a favore di una totale adesione al partito dei Deva (secondo quanto
descrive il celebre inno RV X,124, per cui cfr. F. B. J. KUIPER, Varun.a and
Vidūs.aka · On the Origin of the Sanskrit Drama, Amsterdam, Oxford, New York
1979, p. 19 ss.).
49
L’inno è in realtà un testo in prosa, rivolto contro i nemici, nel quale di volta in
volta vari dèi sono chiamati a proteggere il recitante. Zehnder lo intitola “Zum
Schutz vor Rache” (cfr. T. Z., Atharvaveda-Paippalāda, Buch 2, Text, Übersetzung,
Kommentar, Idstein 1999, pp. 118-119).
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Se nell’Aitareya Brāhman.a era Agni a possedere le cinque meni
distruttive, qui il dio protegge il recitante dall’effetto di una meni
nemica, imparentata con il valaga, un tipo di k3tyā da seppellire
sottoterra50 che richiama nella denominazione il demone Vala,
l’imprigionatore della vacche aurorali51, e che pertiene al regno degli
Asura, spesso collocato nel sottosuolo52. Il valaga è infatti un’arma
asurica cui il bramano si oppone scavando a sua volta ‘buche
risonanti’ (uparava). Le buche amplificano il rumore delle pietre
sacrificali e il versare fuori da esse la terra rende inefficace
l’incantesimo53.
Un passo della Kāt.haka (XIII,4: 183, 10 ss. ≅ MS II,5,9: 59, 15
ss.), infine, non è considerato dalla Jamison, sebbene fra tutti quelli
citati sia il più vicino all’episodio di Manu. In esso non solo
l’ambivalenza del termine risalta al massimo grado, ma anche è
50
Cfr. P. C. SAHOO, A note on valaga, BDCRI 49 (1990), H. D. Sankalia Mem. Vol.,
pp. 371-373.
51
Che la parte iniziale del termine contenga vala- ‘buca’ e ‘nome di demone’ è fuori
di dubbio. La parte finale, invece, è stata variamente interpretata: Hoffmann (cfr. K.
H., “Buchbesprechung”, in Aufsätze zur Indoiranistik, hrs. von J. NARTEN, Band I,
Wiesbaden 1975, pp. 130-137, in part. p. 137) la identifica con il suffisso -ka-,
andato soggetto a lenizione. Alcuni commentatori indiani pensavano alla radice gam
‘andare’, per cui si tratterebbe di un incantesimo ‘che va nella buca’; in KEWA III,
p. 161 si suggerisce il raffronto con gai- ‘cantare’, molto interessante perché
implicherebbe una natura vocale dell’incantesimo che, come abbiamo detto, è posto
negli uparava ‘buche risonanti’ (qualcosa di analogo alla voce seppellita nel campo
dal barbiere del re Mida? Cfr. Ov., Met. XI, 85 ss.). Non disponiamo tuttavia di
questa informazione; Sāyan.a descriveva piuttosto i valaga come piccoli oggetti da
interrare.
52
Come magistralmente dimostra KUIPER, op. cit., p. 81 ss.
53
Il rituale è ricordato in ŚB III,5,4,3, ove si dice esplicitamente che sono gli Asura
a seppellire nel terreno i valaga, mentre in TS VI,2,11 gli Asura usano i valaga per
tentare di sopprimere gli spiriti vitali dei Deva. Ricordiamo anche che il sacerdote
asurico Kilāta richiama nel nome una popolazione di scavatori (cfr. la nota 29).
157
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palese l’identificazione di meni con la voce, come in MS IV,8,1. Si
tratta dell’ennesimo frammento mitico i cui significati simbolici
devono essere ricavati tramite un paziente lavoro di collazione tra
riferimenti sparsi un po’ ovunque:
KS XIII,4: 183, 10 ss.
devāś ca vā asurāś ca sam.yattā āsas te na vyajayanta te ’bruvan brahman.ā no
menī vijayetām iti ta r,s.abhau samavās3jañ chvaitreyo ’run.as tūparo devānām āsīc
chyeneyaś śyeto ’yaśśr,n:go ’surān.ām. tau samahatām. ta śvaitreyas samayābhinat
sā yā vāk parājitāsīt sāvācy apatad yājayat sordhvā tasmād yasyāvācī vāk so
’nārtvijīno ’suryo hi sa varn.as tasmād yasyordhvā vāk sa ārtvijīno devatreva hi sa
bārhaspatyam arun.am. tūparam abhicarann ālabheta brahma vai br,haspatir
brahman.aivanam abhiprayun:kta etena vai devā asurān astr,nv. ata
‘Deva e Asura vennero in conflitto. Questi non vincevano (= nessuno dei due
vinceva). Allora dissero: ‘Che le nostre due meni vincano per mezzo della formula
sacra!’. Allora quelli lasciarono andare due tori. Il (toro) figlio di Śvitrā, rossiccio e
senza corna, era dei Deva; il (toro) figlio di Śyenā, bianco e dalle corna di metallo,
era degli Asura. I due si scontrarono. Il figlio di Śvitrā colpì quell’(altro) nel
mezzo. La voce che fu vinta cadde in basso, quella che vinse rimase eretta; per
questo colui la cui voce è in basso non è adatto a fare il sacerdote, e questa infatti è
la classe asurica. Per questo colui la cui voce è eretta è adatto a fare il sacerdote.
Infatti, come (avviene) fra gli dèi, colui che voglia fare un incantesimo dovrebbe
sacrificare un toro dedicato a B3haspati, rossiccio e senza corna. Infatti B3haspati è
la formula sacra e per mezzo della formula sacra (l’abhicaran) prende il
sopravvento. Con questo mezzo di certo i Deva sconfissero gli Asura’.
Qual è il significato del duale menī in questo passo? Lüders coglie
certo una parte della verità quando traduce “unsere beide
Zornesgeister”54, ma occorre precisare ulteriormente: queste menī sono
le forze distruttive che, scatenate l’una contro l’altra dalle
contrapposte schiere divine55, assumono le sembianze di due tori
simmetrici e dissonanti al tempo stesso, diversi nel colore e nella
54
Cfr. H. LÜDERS, Vedisch śáma-, KZ 56 (1929), pp. 282-287, in part. p. 282.
Cfr. anche, per la sola parte devica, ŚBM XI,2,7,24, ove si dice che gli dèi
distrussero gli Asura con la meni che si sprigiona dal sacrificio.
55
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presenza delle corna. La lotta taurina, ulteriormente circostanziata
nella versione Maitrayan.ī dell’episodio (II,5,9)56, è anche uno scontro
simbolico che avviene ‘per mezzo della formula sacra’ (brahman.ā). I
tori stessi, per di più, sembrano alla fine coincidere con le voci devica
e asurica:
menī = v3s.abhau = ūrdhvā vāc, avācī vāc.
L’implicito colloquio fra i testi della letteratura vedica, gioco di
tessere a incastro che permette di restituire i miti nella loro interezza,
ci induce allora a chiamare in causa il R,gveda. Sappiamo infatti
qualcosa del toro Śvaitreya e delle sue lotte dall’inno RV I,33, che,
posto dopo il celebre epillio di Indra (I,32), ne prosegue l’esaltazione
delle gesta eroiche: si dice in primo luogo che il dio ha colpito Śus.na. ,
il demone ‘cornuto’ (ś3n:gín.am, str. 12) e si è servito di un toro,
anch’esso cornuto, per distruggere le dimore del nemico (ví tigména
vr,sa. bhén.ā púro ’bhet ‘spezzò le rocche con il toro cornuto57‘, str.
13b). Subito dopo apprendiamo che dalla parte di Indra combatte
56
deva\ś ca va\ ásurāś cāspardhanta tè ’bruvan bráhman.i no ’smín víjayethām íty
arun.ás tūparáś caitreyó deva\nām a\siñ śyétó ’yaśśr,n:gah. śaineyó ’surān.ām. té ’surā
utkrodíno carann ara\do. ’sma\kam. tūpa3rò ’mi\s.ām íti táu vái sámalabhetām. tásya
deva\h. ks.úrapavi śíro ’kurvas tásyāntara\ śr•,n:ge śíro vyavadha\ya vís.vañca
vyàrujat ‘Deva e Asura vennero a combattere. Essi dissero: ‘In quella formula sacra
[loc.] vincano per noi’. Un toro rossiccio, figlio di Citrā, era dei Deva, un toro dal
corno di ferro, argenteo, figlio di Śinā, era degli Asura. Gli Asura furono esultanti:
‘Il nostro (toro) ha alte corna, il loro è senza corna’. I due tori si affrontarono. Al
loro i Deva resero la testa molto affilata; avendolo la testa colpito nel corno, lo
spaccò in due parti’.
57
Lett. ‘appuntito’.
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anche un secondo toro, questa volta śamá- ‘senza corna’: è Daśadyu
Śvaitreya58. Il testo recita:
a\vah. kútsam indra yásmi cākán pra\vo yúdhyantam. vr,s.abhám. dáśadyum/ śaphácyuto
ren.úr naks.ata dya\m úc chvaitreyó nr,sa. \hyāya tasthau// a\vah. śámam. vr,s.abhám.
túgryāsu ks.etrajes.é maghavañ chvítryam ga\m/ jyók cid átra tasthiva\m.so akrañ
chatrūyata\m ádharā védana-kah. (strr. 14-15)
‘Tu, o Indra, favoristi Kutsa, del quale ti compiacesti; tu aiutasti Daśadyu, il toro
combattente. Lo Śvaitreya si levò per far vincere gli uomini valorosi. Aiutasti il toro
senza corna59 nelle battaglie dei Tugrya (?), aiutasti il toro Śvitrya nella conquista
della terra, o generoso. Essi da lungo tempo stando qui avevano esitato. Ti
impadronisti degli averi del nemico’.
Geldner, che nel commentare questi testi puntualmente richiama i
brani yajurvedici di Manu, definisce il primo toro (cioè ‘lo spezzatore
di rocche’) “Ein abgerichteter Kampfstier” e semplicemente
“Kampfstier” il secondo (cioè Daśadyu Śvaitreya). In effetti anche
altrove nella Sam.hitā sono menzionati tori da combattimento: in
occasione di una lode ad Agni (6,16,39)60 e nella rievocazione di una
58
L’identità tra Daśadyu e Śvaitreya, perfettamente sostenibile se assumiamo che il
secondo termine sia apposizione del primo, è presupposta dal Geldner. Per
Macdonell e Keith, invece, Daśadyu “appears […] as a name of a hero, but nothing
can be made out regarding him […]” (cfr. op. cit., vol. I, p. 342), mentre su
Śvaitreya, di cui pure si sa molto poco, vengono riportate svariate proposte di
identificazione, ivi inclusa quella che si tratti di un toro (cfr. op. cit., vol. II, pp. 410411).
59
Il valore di śamá- è stato oggetto di annose discussioni etimologiche delle quali
rende conto C. VALLINI in La cerva e il cervo, una questione di corna, AIΩN 5
(1983), pp. 263-290. Le possibili interpretazioni sono due: o si suppone una
parentela fra questo aggettivo e la radice di gr. kámnō ‘stancarsi’ e dunque il toro
sarebbe ‘mite, domestico’ (un bue?), oppure si evoca il lit. šm-ùlas ‘senza corna’,
che dà lo spunto per tradurre la forma indiana in modo analogo. Tale traduzione
sarebbe supportata dal fatto che allo śamá- di RV I,33 equivale il tūpará- ‘senza
corna’ di Maitrayan.ī e Kāt.hakā.
60
yá ugrá iva śaryaha\ tigmáśr,ng. o ná vám.sagah. ágne púro rurójitha ‘Tu che come
possente arciere, come toro dal corno affilato spezzi le rocche, o Agni!’.
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vittoria contro il dāsa Pipru (10,99,11ab)61. Qui manca però ogni
riferimento alla voce come arma62, ben presente invece in KS XIII,4,
ove i tori stessi sono vāc. Va da sé che è impossibile disgiungere la
meni della Kāt.hakā da quella di MS IV,8,1:
ta\n jvāla\n r,s.abháh. sámalet. tá sa\ menír ánvapadyata tásya ruvató ya\vanto ’sura\
upa\śr,nv. as ta\vantas tád áhar na\bhavan
‘Un toro leccò le fiamme e la meni entrò in lui. Tutti gli Asura che lo udivano
muggire cessavano di esistere in quel giorno stesso’.
L’evemerismo insito nella intepretatio geldneriana (ricondurre
questi episodi al fatto che bestiame addestrato fosse impiegato nelle
lotte contro il nemico) e, forse, la tortuosità del percorso necessario
alla ricostruzione dell’intera vicenda, hanno oscurato il legame, ci
sembra mai còlto prima d’ora, fra tutti questi passi e uno dei miti
centrali della cultura vedica, vero nodo simbolico il cui scioglimento
esegetico
hanno
intrapreso,
secondo
prospettive
diverse
(meteorologica, storica, psicoanalitica …), gli indianisti più illustri: ci
riferiamo al già menzionato mito di Vala. Non ne è forse protagonista
un dio, B3haspati (e talvolta Indra o gli An:giras), più volte definito
cantore dalla voce prodigiosa e toro possente, che spacca con il suo
‘muggito’ (ráva-) il demone Vala, essere asurico63, tra l’altro
61
asyá stómebhir auśijá r,jíśvā vrajám. darayad vr,s.abhén.a píproh. ‘Rivolgendogli (=
a Indra) preghiere, Auśija R,jiśvan spaccò con un toro la rocca di Pipru’.
62
Si ricava che l’arma con cui le rocche sono spezzate è piuttosto il corno. Nella
Maitrayan.ī è la testa stessa del toro, che, non avendo corna, viene resa affilata come
una lama.
63
Ciò non è detto esplicitamente nella letteratura più antica, ma il Mahābhārata ci
informa che Bala (= Vala) non solo è un asura (I,59,32), ma è addirittura il figlio di
Varun.a (I,60,51).
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immaginato come una rocca da abbattere?64 Come allora disgiungere il
muggito-arma del toro di Manu, chiamato ravátha- in ŚBM I,1,4,14,
dal ráva- b3haspatico?65 Si confronti detto passo
mánor ha va\ r,s.abhá āsa / tásminn asuraghni\ sapataghni\ va\k právis.ta. -sa tásya ha
sma śvasátha-d ravátha-d asuraraks.asa\ni mr,dyáma-na-ni yanti
‘Manu aveva un toro. In lui era entrata una voce che uccide gli Asura, che uccide i
nemici. A causa del suo soffio e del suo muggito gli Asura e i Raks.asa erano
continuamente frantumati’
con la strofe 3gvedica
sá sus.t.úbhā sá r,k• vatā gan.éna valám. ruroja phaligám. ráven.a
‘Con l’aiuto della schiera dalla bella preghiera, canora (B3haspati) spacca Vala (e)
Phaliga con il muggito (RV IV,50,5ab)66.
Poiché ráva- e ravátha- sono indubbiamente collegati, almeno a
livello sincronico, con la radice ru-, ‘spaccare’, oltre che con ru‘muggire’67, risulta in parallelo valorizzata l’etimologia che associa
64
Cfr. il commento di Geldner ad IV,50,5cd: “B3haspati als Bulle gedacht (4cd)
sprengt mit seinem Brüllen (dem Zaubergesang) die Felsburg (X,67,6) und lockt die
eingesperrten Kühe heraus”. Per una pregnante rappresentazione di Vala come città
da espugnare cfr. anche RV VI,18,5.
65
Il toro è detto inoltre ruvánt- ‘muggente’ in KS XXX,1 e MS IV,8,1.
66
Nella narrazione del mito ráva- compare quasi sempre allo strumentale, seguito da
un verbo che significa ‘spezzare, frantumare’ (cfr. RV I,62,4; 71,2; IV,50,1 e 4;
VII,79,4; X,67,6). Per un’analisi di tutti questi passi cfr. R. RONZITTI, Campi
figurali della “creazione” nel gveda, Alessandria 2001, p. 15 ss.).
67
Secondo EWA II, pp. 439-440 vanno tenuti distinti *h1/3reu@- ‘muggire’ e *reu@‘spezzare, scavare’, rappresentati in antico indiano rispettivamente dalle famiglie di
ruváti ‘muggisce, rumoreggia’ (gr. erýgmēlos ‘muggito’ e orymagdós ‘rumore’) e
rāvis.am (aor.), rutá- (part. passato) ‘colpire’. La questione è in realtà assai più
complessa perché, se si vuole ricomprendere nel secondo gruppo il greco orýssō
‘scavo’, sarebbe da postularsi anche per la seconda radice una laringale iniziale di
tipo h3. Le due protoforme verrebbero così a coincidere.
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mení- a minóti ‘danneggia, distrugge, sminuisce’68, riconducibile al
medesimo paradigma semantico. In questa prospettiva si decifra anche
la menzione, non immediatamente perspicua, del gallo (ŚB I,I,4,18 e
MS IV,1,6). La voce dell’animale è infatti veramente una meni, l’arma
di luce che fende la tenebra e dissolve i suoi minacciosi, asurici
abitanti.
Rosa Ronzitti
Università per Stranieri di Siena
ronzitti at unistrasi.it
68
In tal caso un derivato attivo di *me4H- ‘estinguere’ / ‘estinguersi’ (cfr. RIX et al.,
op. cit., p. 427). L’affermazione della Jamison che mení- proverrebbe da radice anit.
in quanto “is never read trisyllabically in its relatively few metrical occurrences, nor
is Gāthic maēni” (art. cit., p. 187) è doppiamente irrilevante. Se infatti ricostruiamo
mení- come *mo4Hní- la laringale cade dopo il grado o giusta la lex Saussure; se
invece il vocalismo fosse al grado normale, dovremmo chiederci che probabilità
avrebbe di resistere una lettura trisillabica a partire dal livello cronologico
dell’Atharvaveda (il primo testo ove il termine ricorre ampiamente), quando anche
nel R,gveda un termine con laringale postsonantica come śrés.th. a- occupa una spazio
trisillabico (sráyis.t.ha-) solo una minoranza di volte.
Per la classe del sostantivo cfr. A. DEBRUNNER, Altindische Grammatik II/2,
Göttingen 1987 [1954], pp. 739-741, ove mení- è collocato fra i termini “ohne
erkennbare verbale Grundlage”. Sembra tuttavia corretto chiamare in causa derivati
analoghi quali il nome d’agente dharn.í- ‘portatore’ (dharn.ír es.ām [vásūnām]
‘portatore di questi beni’, con es.ām genitivo oggettivo, RV I,127,7, da dhar‘portare’) e, forse, pren.í- ‘amante’ (RV I,112,10 e AV VI,89,1; ma il significato è
incerto, cfr. EWA II, pp. 191); tra gli astratti verbali cfr. jyāní- ‘danneggiamento’
(nomen actionis, da jyā ‘danneggiare’, KS+). Non mancano dunque modelli anche
formali per un’etimotesi che inscrive il termine nella sfera semantica della
‘distruzione’.
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