I maghi di Oz. Come i media italiani hanno raccontato l`identità

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I maghi di Oz. Come i media italiani hanno raccontato l`identità
Università degli studi di Milano
Dipartimento di studi sociali e politici
Working Papers
del Dipartimento di studi sociali e politici
12 / 01 / 2005
I maghi di Oz.
Come i media italiani hanno
raccontato l’identità nazionale
australiana alle Olimpiadi di Sidney
Federico Boni
www.sociol.unimi.it/ricerca_pubblicazioni.php
1. Rituale, vita quotidiana e identità nazionale
Come le altre forme di identità, anche l’identità nazionale è il frutto di una complessa
costruzione sociale e culturale. Né si tratta di una costruzione che mostra segni di cedimento, come
vorrebbero le narrazioni sulla disgregazione degli stati nazionali. Anzi. In un mondo che si vuole
mondializzato, dominato da flussi globali di denaro, beni di consumo e informazione, dove gli stati
nazionali sembrano avere i giorni contati, paradossalmente si assiste a un acuirsi di particolarismi
nazionali e integralismi etnici. Di fatto, la nazione rimane forse l’entità principale attorno alla quale
vengono prodotte e riprodotte le appartenenze identitarie, e la sua centralità si manifesta nel suo
ruolo politico nello scacchiere internazionale fino ad arrivare alle sue rappresentazioni che ce ne
offrono i media.
Se la nazione, come sostiene Homi Bhabha (1990), è anche – soprattutto – una narrazione, i
media sono oggi certamente tra i più importanti bardi che ci mostrano e ci raccontano il nostro
paese – e gli altri, naturalmente –, consolidando inoltre i riti e le pratiche quotidiane che fanno di
noi spettatori i membri di una comunità nazionale. I media, infatti, offrono ai loro pubblici riti ed
eventi che forniscono alcuni degli elementi più importanti dell’identità nazionale. Questa
“costruzione mediatica” delle identità nazionali avviene a più livelli: da una parte, già a partire dal
consumo mediale quotidiano si costruisce un senso di appartenenza collettiva; dall’altra, i contenuti
dei media offrono storie, luoghi, elementi simbolici e rituali che, insieme, definiscono un’esperienza
condivisa da individui pur lontani fra loro. Le piccole e grandi cerimonie dei media, inoltre,
contribuiscono a rivitalizzare la “memoria collettiva” nazionale, mediante continue riproposizioni
del “racconto della nazione” e dell’“invenzione della tradizione”. La sola presenza ambientale dei
mezzi di comunicazione, unita ai contenuti veicolati, contribuisce alla creazione di un paesaggio in
cui i cittadini/spettatori riconoscono riti, oggetti e pratiche di uso quotidiano che li vedono coinvolti
in una continua performance dove a venire messa in scena è la nazione. E tutto questo – è bene
sottolinearlo – avviene in maniera spesso inconsapevole, in mezzo alle numerosissime attività “date
per scontate” che svolgiamo nella vita di tutti i giorni. Pratiche rituali, certo, e quindi anche
narrative, e linguistiche. Si pensi solo alle modalità linguistiche con cui i programmi televisivi si
rivolgono ai telespettatori: il nostro paese, il nostro Primo Ministro, ecc.
Il case study presentato in questo paper riguarda in particolare il modo in cui i media italiani
hanno “incorniciato” l’immagine e l’identità della nazione australiana in occasione delle Olimpiadi
di Sydney 2000. La scelta dell’Australia e di Sydney 2000 in particolare è dettata da una circostanza
particolarmente interessante, e cioè il fatto che prima delle Olimpiadi l’Australia era un paese
lontano (culturalmente e geograficamente) e poco conosciuto: ciò ha permesso al “racconto
mediatico” di stampa e televisione italiane di agire su una sorta di “tabula rasa” di conoscenze e
competenze del pubblico, mostrando con più evidenza alcune delle logiche narrative e discorsive
che presiedono alla costruzione mediatica dell’identità di una nazione. Poiché lo studio trae la
propria occasione da un caso cerimoniale come la celebrazione del rito olimpico, è utile fare
riferimento non solo ai concetti di “comunità immaginata” di Benedict Anderson (1983) e di
“tradizione inventata” di Hobsbawm e Ranger (1983), ma anche, in particolare, agli studi sulle
“grandi cerimonie dei media” di Dayan e Katz (1992), che ci possono aiutare a comprendere meglio
il ruolo degli eventi mediali quali strumenti di produzione e riproduzione di retoriche e pratiche di
legittimazione delle identità nazionali. Gli eventi mediali contribuiscono in maniera considerevole a
quella “invenzione della tradizione” con cui gli stati nazionali moderni si sono fabbricati una
legittimazione nella “naturalità” delle radici tradizionali e mitiche.
L’identità nazionale, tuttavia, si rafforza anche con tutta un’altra serie di attività rituali, che
hanno a che fare più con la sfera del quotidiano che con quella della grande occasione cerimoniale.
Come tutti i riti, anche quelli della vita quotidiana hanno bisogno dei loro luoghi, delle loro
performances e dei loro materiali liturgici, gli strumenti cerimoniali necessari per la celebrazione
del rituale. Si tratta, in definitiva, di quello che Michael Billig (1995) definisce “nazionalismo
banale”, e che comprende “l’intero complesso di credenze, assunzioni, abitudini, rappresentazioni e
pratiche” (ibidem, 6) con le quali riproduciamo quotidianamente – con maggiore o minore
consapevolezza – la nostra identità nazionale. E così, i monumenti che andiamo a visitare, i luoghi
dove ci ritroviamo a passeggiare, a fare shopping o semplicemente a prendere un caffè con gli
amici, o ancora gli spazi della nostra casa diventano tutti gli spazi che fanno da cornice (da frame)
ai piccoli riti quotidiani che generano e rafforzano l’identità nazionale. E poi, gli oggetti: i vestiti, il
cibo, le auto, e tutta la pletora di beni di consumo che ci circondano e che definiscono non solo la
nostra identità individuale ma anche la nostra identità sociale, per arrivare a quella nazionale; tutta
questa “cultura materiale” costituisce gli strumenti con cui celebriamo i nostri riti quotidiani. E, dal
momento che il rito è soprattutto una performance, ecco che le nostre competenze quotidiane (le
normali e banali attività del nostro fare di tutti i giorni) diventano indicatori di un habitus collettivo
che norma e regola le nostre attività (cfr. Edensor 2002). Sono proprio queste attività di tutti i giorni
che ci danno la sensazione di condividere una serie di competenze con coloro che condividono il
nostro stesso spazio simbolico: è – anche – in questo modo, del resto, che le comunità vengono
immaginate. Edensor (2002) propone una tipologia delle forme di performances quotidiane che
contribuiscono a consolidare un senso di identità nazionale: le competenze popolari (che
costituiscono quella “conoscenza pratica quotidiana che permette agli individui di svolgere i
compiti di tutti i giorni” [ibidem, 92]: una conoscenza che ci appare subito evidente nella sua
complessità quando ci rechiamo all’estero, esitando ad esempio a decidere da che parte guardare – a
destra o a sinistra? – quando attraversiamo la strada), le abitudini incorporate (quelle forme di
comportamenti corporei legate all’interazione sociale che, muovendo dalla nozione di habitus
proposta da Bourdieu [1994] come di una conoscenza pratica incorporata, rappresentano
l’inscrizione della nazione nel corpo del cittadino) e le rappresentazioni sincronizzate (quelle
routine e quei riti della vita quotidiana che regolano le nostre attività di tutti i giorni, dandoci la
sensazione di far parte di una vasta comunità che condivide lo stesso spazio regolato).
Tutto questo mostra come, già al livello della vita quotidiana, celebriamo abitualmente una serie
di rituali che concorrono a riproporre un senso di appartenenza identitaria alla “comunità
immaginata” nazionale, e come in questo processo i media siano uno strumento che contribuisce
alla celebrazione di questi rituali: essi, infatti, ci mostrano tutti i giorni i luoghi, gli oggetti e i riti
che rappresentano la nostra (e l’altrui) identità culturale nella sua quotidianità. Ebbene, tutto ciò può
avvenire non soltanto per creare il senso di appartenenza alla propria nazione, ma anche per
produrre e riprodurre l’identità culturale di un paese straniero. E questo, a tutti e tre i livelli di cui
parla Edensor, vale a dire relativamente a luoghi, oggetti e riti dell’identità nazionale. Vediamo con
ordine, procedendo all’analisi del nostro case study1.
2. Media e canguri (pochissimi i canguri)
Per quanto riguarda i luoghi, i media italiani ci hanno raccontato il mito di un’Australia
“dominata da grandi spazi” ma anche quello di una nazione moderna, con metropoli moderne come
Sydney, la città ospite delle Olimpiadi. Secondo “L’Espresso” del 14 settembre 2000 l’Australia è
una fabbrica di incantesimi, una meta di conquista come il mitico Far West dell’Ottocento. Dominata
dagli enormi spazi. Marchiata dalla prepotenza e dolcezza della natura: deserti di rocce e sabbia, ipnotizzanti
e insidiosi; rarissime specie di animali; giganteschi parchi naturali; montagne sacre per il culto degli
aborigeni; la barriera corallina più spettacolare del globo terraqueo; enormi distese di spiagge.
Dal canto suo, “La Repubblica” del 6 settembre 2000 ricorda ai lettori italiani che
1
Nel corso della ricerca sono stati analizzati a livello testuale e discorsivo quattro quotidiani e tre periodici italiani a
diffusione nazionale, il tutto per un periodo di un mese: da una settimana prima dell’inizio delle Olimpiadi a una dopo
la fine (i quotidiani analizzati sono Il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa e Il Giornale; i periodici
considerati sono Panorama, L’Espresso e National Geographic Italia). Per quel che concerne la televisione sono state
invece considerate le cerimonie di apertura e di chiusura dei Giochi Olimpici, procedendo a una analisi del discorso
mediale delle trasmissioni considerate (cfr. Fairclough 1995 e Bell e Garrett [eds.] 1998).
sulla baia dominata dagli eucalipti, Cook aveva lasciato miriadi di uccelli coloratissimi e ignoti;
nell’interno, nel bush, i canguri mai visti prima, come del resto i Koala, gli opossum, gli ornitorinchi… Agli
esploratori quella terra apparve come un paradiso terrestre, fertile e non aggressivo.
L’Australia, insomma, è – inevitabilmente – il paese della natura incontaminata, delle foreste
pluviali, degli animali più stravaganti, dei deserti dove se qualcuno gettasse la Gran Bretagna
nessuno la ritroverebbe più, di spiagge e barriere coralline. Ma, siccome la “logica dei media”
prevede che le rappresentazioni di stampa e televisione vengano corredate da elementi che possano
funzionare da simbolo per concetti come quelli appena visti, ecco che due luoghi in particolare
vengono presi a epitome della “terra dei canguri”, l’uno per mostrarne l’aspetto “senza tempo”,
l’altro per mostrarne la modernità.
Nel primo caso, il luogo-simbolo è Uluru (Ayers Rock), la pietra che è possibile vedere
rappresentata in ogni foto o poster che mostri l’Australia. Nelle parole di uno studioso che ha
analizzato i “miti di Oz”, Ayers Rock è
l’ombelico dell’Australia, il centro rosso, il cuore – tutte le comuni metafore attestano che la sua
centralità non è semplicemente geografica. La potenza simbolica di Ayers Rock è tanto funzionale alla
necessità per l’Australia di un’identità nazionale quanto lo sono le identità offerte da questa roccia (Fiske et
al. 1987, 123).
Naturale, quindi, che i media italiani ce la mostrino in tutte le immagini televisive e in tutte le
foto che corredano servizi e articoli su Sydney 2000. Un esempio per tutti, tratto da “L’Espresso”
del 14 settembre 2000:
la prima meta è Ayers Rock, il monolito magico (Uluru in lingua indigena), che è una sorta di montagna
incantata per gli aborigeni. Vi si accede da Alice Springs, e dà modo di sperdersi in un paesaggio arido, dove
è conservata l’anima più profonda dell’Australia.
Ma se Uluru/Ayers Rock è “l’anima più profonda dell’Australia”, almeno di quella mitica e
senza tempo, cara a una certa estetica new age, Sydney è senz’altro il luogo dell’Australia del
presente e soprattutto del futuro, l’“anima moderna” del paese. Sydney, con l’altro luogo-epitome,
la sua Opera House, è sempre più “salutata da aggettivi mirabolanti, tra realtà e stereotipo: vibrante,
ultramoderna, trendy, cosmopolita, post-etnica” (“I Viaggi di Repubblica”, 20 luglio 2000); in una
sineddoche spaziale, la città diventa il simbolo della “nuova Australia”,
di quella urbana, occidentalizzata, dinamica, tecnologica, vincente; non di quella dispersa, vuota, lenta e
poetica, per alcuni perdente dell’outback, l’arida vastità dell’interno. Sydney è la punta di diamante di quella
cornice costiera dove – in piccole cittadine o grandi città – vive la quasi totalità dei diciannove milioni di
australiani, cosa che fa dell’Australia il paese più urbanizzato del mondo (ibidem).
Vale la pena di ricordare almeno un altro luogo-simbolo dell’“australianità”: la spiaggia. In un
paese che ha costruito molti aspetti della propria identità nazionale nell’attività fisica e sportiva, il
punto d’incontro tra queste performances rituali e i luoghi in cui celebrarle è, appunto, la spiaggia,
luogo ibrido tra la “natura” (il mare) e la “cultura” (la città retrostante):
a Sydney non si è mai lontani dal mare. La linea costiera di 240 chilometri racchiude una cinquantina di
spiagge: sia all’interno della baia (più tranquille, riparate e piccole), sia di fronte all’oceano, regno delle onde
lunghe e perciò del surf. Le più famose e popolari sono Manly, a nord, e Bondi, a sud. “Sette miglia a nord di
Sydney, ma a centinaia di miglia dalla preoccupazioni” recita un vecchio slogan a proposito di Manly. Bondi
è invece la Venice Beach degli antipodi: una mezzaluna di sabbia e mare, lunga circa un chilometro, dove si
va per fare surf e prendere il sole, ma anche per osservare performance ed esibizionismi vari, di jogger,
pattinatori e corpi modellati con cura, per passeggiare tra la folla che ciondola lungo la Campbell Parade e
per nuotare nella piscina di acqua di mare del Bondi Iceberg (“I Viaggi di Repubblica”, 20 luglio 2000).
Una volta visti i principali luoghi della celebrazione mediatica dell’identità australiana, vediamo
brevemente gli oggetti di questa produzione rituale. Il cibo è spesso uno dei principali oggetti su cui
si incentrano le pratiche di identificazione identitaria. I media italiani hanno naturalmente giocato su
questo aspetto così importante per l’identità di una “comunità immaginata”, fino a proporre
ironicamente menù che, prima ancora che ricette, sembrano un vero e proprio concentrato di
“australianità”:
fritturina di tarme di acacia, carpaccio di larve di insetto, marinata di canguro, zuppa di coda di canguro,
spezzatino di cinghiale del bush, cotolette di emu, filetti di coccodrillo, insalatina di cocciniglia, coccio di
formiche al miele, panna montata al miele e formiche, nel tempo libero, davanti alla tivù, in spiaggia o al
cinema popcorn con falene croccanti (“Il Giornale”, 10 settembre 2000).
E, poiché il vero animale-simbolo dell’Australia è pur sempre il canguro, ecco che viene
presentata la ricetta “tradizionale” per servirlo in tavola:
chi ha visitato l’Australia, per anni si è sentito dire che c’è una ricetta sola per cucinare il canguro.
Semplicissima: in una pentola piena d’acqua bollire, regolando di sale e pepe, una pietra e un quarto di
Kangaroo; quando la pietra sarà tenera, gettate la carne ed affettate il sasso, un modo simpatico per dire che
questo mammifero a tutta allegria è troppo duro per essere mangiato (“Il Giornale”, 10 settembre 2000).
Limitando al cibo la nostra disamina della rappresentazione mediatica italiana degli oggetti con
cui si celebrano i riti identitari australiani quotidiani, vediamo infine quali sono le performances
relative a tali pratiche rituali. Da quanto abbiamo visto finora, non stupirà che tutte le varie
dimensioni delle performances rituali si incentrino, almeno nel discorso mediatico italiano,
sull’attività legata allo sport e all’aria aperta. Lo sport è, infatti, un vero e proprio pilastro su cui si è
edificata l’identità nazionale australiana, legato soprattutto agli spazi aperti e “naturali” del paese.
Su “I Viaggi di Repubblica” del 20 luglio 2000 si legge ad esempio che
gli australiani hanno un vero culto per lo sport e l’attività fisica, quasi un’ossessione, di sicuro
un’occupazione costante, un piacere di massa nel seguire e praticare nuoto, tennis, rugby, cricket, football,
calcio, golf; la pratica sportiva e la febbre agonistica sembrano far parte del genius loci, del carattere
nazionale, essere una dotazione d’energia naturale, un transfer moderno della sfida per la sopravvivenza e
l’affermazione di antica memoria.
In questo senso, la performance-simbolo buona per la “logica dei media” è quella relativa alla
vita da spiaggia, con i surfers, i lifesavers (i “baywatch” locali) e il beach volley. Anche su “La
Repubblica” si celebra del resto una spiaggia fatta di divertimento ed edonismo. Parlando di Bondi
Beach, ad esempio, un articolo de “la Repubblica” del 19 settembre 2000 celebra il mito fondativo
(d’altronde è su questo che si fondano i riti e le relative pratiche) del surf australiano, narrando le
gesta dei primi surfisti, padroni del luogo ormai da ottantacinque anni, “da quando un hawaiano di
nome semplicemente Duke e cognome, invece, Kahamanoku, campione olimpico di nuoto nel 1912,
venne a spiegare come si poteva cavalcare l’oceano con una tavola”. Anche i lifesavers, versione
“istituzionalizzata” e quasi “militarista” delle attività della “vita da spiaggia” (contrapposti in questo
ai surfers, il cui mito si poggia invece sulle controculture “antagoniste” degli anni Sessanta)
ottengono dai media italiani la narrazione del loro mito fondativo. Per cominciare, si ricorda che
l’Australia è una terra di bagnini, e che lì “quasi tutti hanno il brevetto, come una seconda patente.
L’esame si fa sotto la Roccia Grande, nuotando cento metri a rana e cinquanta a dorso con le mani
legate dietro la schiena. Roba da Olimpiadi” (“La Repubblica”, 19 settembre 2000); quindi, si passa
alla narrazione mitica delle origini: “accadde domenica 6 febbraio 1938, Black Sunday per Bondi
Beach. Un’onda anomala investì la baia e si portò via trecento persone. Cinque non tornarono mai a
riva. Da allora, fare il bagnino qui è una cosa serissima” (ibidem). Infine, il beach volley:
le bellissime ragazze del beach volley, costrette dal voyeurismo a giocare in bikini minuscoli sulle
gambe lunghissime, si lagnano della sabbia ancora fredda e del vento che tira gelido sulla spiaggia di Bondi,
ma non trovano simpatia fra gli australiani avvezzi a fare il surf tra gli squali. “Se hanno freddo le scaldiamo
noi”, sghignazzano i ragazzacci da spiaggia che le guardano illividire, con il board, la tavola da surf sotto il
braccio (“La Repubblica” 14 settembre 2000).
Sia nel caso del surf che dell’attività di “guardaspiaggia” che, infine, del beach volley abbiamo
visto quelle performances che nelle pagine precedenti abbiamo ascritto alle “competenze popolari”
e, soprattutto, alle “abitudini incorporate”: si tratta, infatti, di attività che sono inscritte non solo
nelle popular culture australiana, ma anche nei corpi della popolazione australiana, legate come
sono alla dimensione della fisicità e degli “spazi aperti”. E tuttavia, rimane da vedere la terza
dimensione delle attività performative con cui si celebrano i riti quotidiani che edificano l’identità
nazionale: le “rappresentazioni sincronizzate”. In realtà, trattandosi di un’analisi che ha che fare con
la rappresentazione dell’identità culturale australiana da parte dei media italiani, nel nostro caso non
si tratta tanto di “sincronismi sociali” quanto del loro esatto contrario: a causa del fuso orario
particolarmente sfavorevole, infatti, gli eventi atletici delle Olimpiadi di Sydney andavano in onda
in Italia negli orari meno consueti, obbligando gli appassionati a maratone notturne o a levatacce
mattutine. Questa sfasatura temporale ha contribuito a far percepire non solo la lontananza
geografica dell’Australia, ma anche la sua fondamentale “alterità” e, a causa di quegli orari così
“strani”, così poco comuni e “ortodossi”, la sua “non familiarità”. Non è escluso, peraltro, che tutto
questo abbia anche contribuito a rafforzare l’immagine (che, come vedremo nel prossimo paragrafo,
i media hanno proposto in molteplici forme) dell’Australia come luogo esotico, producendo anche
al livello dei piccoli riti quotidiani un effetto di “orientalismo” (Said 1978).
3. Le cornici mediatiche dell’identità australiana
Come possiamo concludere da quanto abbiamo appena visto nel paragrafo precedente,
l’analisi della copertura mediatica italiana delle Olimpiadi di Sydney 2000 mostra uno statuto
ambiguo dell’identità australiana, almeno così come appare nei frames proposti dalla televisione e
dalla stampa: da una parte l’Australia è oggetto di una sorta di “orientalismo” (Said 1978), per cui
viene narrata come un paese esotico, lontano e quanto meno ancora poco conosciuto; dall’altra essa
si impone come una moderna nazione occidentale, avamposto della modernità, sviluppando le
proprie caratteristiche identitarie all’interno di un framework che potremmo, semmai, definire come
una sorta di “occidentalismo” (Venn 2000).
Il frame dell’“orientalismo”. Proprio il frame dell’“orientalismo” può venire invocato per
riassumere tutti quei riferimenti, piuttosto numerosi nei media analizzati, riguardanti la definizione
dell’Australia come una “nuova terra mitica”, circondata da “un alone primigenio in cui la
lontananza, il distacco dal resto del mondo giocano un ruolo fondamentale. Quella stessa
lontanzanza che per lungo tempo ne aveva fatto prima un luogo di condanna e poi di oblio la sta ora
riscattando come ultimo territorio incontaminato in cui la civiltà occidentale possa ancora venire a
contatto con una natura non domata, e perciò salvifica” (Baraldi 2002, 7). In questo senso, il frame
“orientalista” include un frame secondario, che vede l’Australia come “nuova frontiera”, anzi, come
l’ultima frontiera. La novità di questa “frontiera” consiste soprattutto nel fatto che, “contrariamente
a quanto è avvenuto con quella americana, essa non porta con sé l’ideale del successo, ma, al
contrario, il senso di un’amara sconfitta” (ibidem, 8). Si veda questo stralcio di un articolo apparso
su “L’Espresso” del 14 settembre 2000:
l’Australia, ultima frontiera del pianeta, che come stato sovrano nel 2001 compirà cento anni. È una
terra che anche in tempi di globalizzazione soffre la sindrome dell’esilio. È troppo lontana da tutto. A volte
perfino da se stessa. Perth, la capitale del remoto Occidente, è la città in assoluto più isolata del pianeta.
Quasi tremila chilometri la separano dal più vicino centro urbano di rispettabili dimensioni (Adelaide) […].
Quattro giorni di treno da Perth alle città dell’Est: sulle eleganti carrozze dell’Indian Pacific, lungo Nullarbor
Plain, senza incontrare quasi nulla, col paesaggio immoto come in un quadro, con la sensazione di non
andare da nessuna parte. Fattorie sperdute nell’outback, lo sterminato entroterra, estese come regioni italiane,
in cui i proprietari si spostano in aereo atterrando su piste di fortuna. E dove, in caso di necessità, le medicine
arrivano in elicottero. Strade senza fine percorse dai road trains, camion che trascinano anche tre rimorchi,
smerigliatissimi, con i paraurti a prova degli animali più agguerriti, con le cabine attrezzate come case. Per
trovare una stazione di servizio o incrociare un altro veicolo, può passare anche mezza giornata, negli spacci
di compensato e lamiera, in una desolazione da “Paris Texas” di Wim Wenders, i camionisti inseguono i
sogni e le chimere ingurgitando pinte di birra. E confidandosi con i pali della luce.
Il frame aborigeno.
Un altro frame che incornicia molte delle narrazioni mediatiche
dell’Australia è quello dell’aboriginalità, intesa come mito fondativo dell’Australia e come
caratteristica fondante della sua identità nazionale. In questo caso, ciò che va sottolineato come
aspetto più importante di tale framework è non tanto la deliberata “invenzione” di una tradizione
che peraltro, nei fatti, è stata semmai largamente estirpata, ma il nesso tra aboriginalità e natura.
Sia nei giornali italiani che nelle immagini della cerimonia di apertura delle Olimpiadi è possibile
vedere come le origini “nere” dell’Australia si confondano con le sue origini “naturali”, che hanno
fatto da sfondo successivamente all’arrivo della “cultura” anglosassone. In questo senso, il ruolo
assegnato agli aborigeni è quello di link tra la natura (“geologica” e relativa a flora e fauna locali) e
la cultura (Bennett 1993).
Tale “naturalizzazione” degli aborigeni segue, nelle sue retoriche discorsive e narrative, le
stesse strategie che accostano l’uomo occidentale alla razionalità e alla cultura, e l’Altro allo stato di
“buon selvaggio”, anche laddove appunto “normalizzato” e “civilizzato” dai racconti dei media.
L’aborigeno è comunque, al di là – in virtù – delle retoriche utilizzate per incorniciarlo, l’uomobestia, che il discorso mediatico rende “inoffensivo” mediante la sua estetizzazione (le immagini
degli aborigeni come depositari di una cultura millenaria, meglio ancora se con gli sfondi dei
magnifici paesaggi australiani) o il suo addomesticamento (facendolo partecipare alla cerimonia di
apertura, mano nella mano con una bambina – bianca). Gli aborigeni australiani vengono mostrati
dalla cerimonia di apertura delle Olimpiadi – e raccontati dalla stampa italiana – come il cinema ci
racconta i maori neozelandesi: Una volta erano guerrieri2, erano nobili, suddivisi in clan di valenti
cacciatori e combattenti; e tuttavia mantengono ancora un che di selvaggio, di “preistorico”, di
2
Il riferimento è al titolo del film di Lee Tamahori, Una volta erano guerrieri (Once Were Warriors, 1995).
“preletterario”, di tribale. Si veda come un articolo del “Corriere della Sera” (nel numero del 16
settembre 2000) segue questo framing:
erano arrivati prima. I bianchi li chiamavano dark clouds, nuvole scure. E li volevano spazzare via.
Erano un milione nel 1778, quando le prime navi britanniche scaricarono galeotti-coloni sull’isolacontinente. Abitavano l’Australia da cinquantamila anni. Parlavano più lingue loro che i diecimila atleti oggi
alle Olimpiadi: duecentocinquanta idiomi diversi. Erano nomadi e legati alla terra: per loro la terra era frutto
della creazione e la creazione era frutto del sogno degli antenati. Un sogno che i bianchi ribaltarono in
incubo […]. Da un milione che erano, agli inizi del Novecento erano cinquantamila.
Anche in questo caso, pur nella cornice di una condanna di qualcosa di molto simile a un
genocidio, siamo di fronte a un esempio di “orientalismo”, solo meno “innocente” di quello che
abbiamo incontrato nel primo frame della costruzione mediatica dell’identità australiana. Qui
l’orientalismo con cui vengono rappresentati gli aborigeni si tinge di tutti quegli aspetti tipicamente
occidentali con cui vengono in genere incorniciate le rappresentazioni degli abitanti nativi: la loro
essenziale “naturalità”, abbiamo detto, e poi il legame con la dimensione mistica e religiosa
(decisamente premoderna). Tutti i principali aspetti relativi all’aboriginalità australiana vengono
così rielaborati e ricontestualizzati dai racconti e dalle immagini dei media secondo il gusto dei
propri fruitori: la spiritualità aborigena viene inserita in un frame che ricorda molte delle
caratteristiche della sensibilità new age; gli stilemi tipici dell’arte aborigena vengono utilizzati per
conferire una patina di “australianità” alle immagini del paese; la musica viene inserita
inevitabilmente tra la ethnic music e la world music, finendo così in quel calderone della musicamondo alla riscoperta dell’“autenticità” di suoni e ritmi – e quindi, naturalmente, culture – tribali.
Il frame multiculturale. Un’altra cornice – un altro mito – riguardante la (recente) costruzione
dell’identità australiana è quella che vede l’Australia come una società “multietnica” e
“multiculturale”, capace di tolleranza e integrazione. I media analizzati non solo hanno rafforzato
tale cornice, ma ne hanno fatto anzi uno dei framework primari della loro narrazione
dell’“australianità”. Il multiculturalismo, come ci hanno raccontato i giornali italiani e i cronisti
delle dirette da Sydney, è l’ideologia dominante dell’Australia contemporanea, dopo che nei
decenni precedenti le politiche governative erano state improntate all’assimilazione e
all’integrazione. In un articolo apparso su “La Repubblica” del 13 settembre 2000, intitolato Mille
volti, una Australia: il futuro multiculturale è qui, Timothy Gartonash sostiene che l’Australia che
verrà mostrata dalle Olimpiadi sarà quella dove
una bella ragazza dai tratti asiatici e dal nome tedesco ti serve un sofisticato piatto italiano
accompagnato dalla versione californiana di una bevanda africana a base di yogurt. Un’Australia che non
conosce barriere di colore, sesso, classe o credo (ibidem).
L’articolo continua mostrando anche le “zone d’ombra” del multiculturalismo “made in
Australia”:
oggi l’Australia si presenta come modello di nazione multiculturale, ma è un modello costruito su una
storia precedente improntata all’egemonia e all’esclusione. È proprio perché le istituzioni anglo-americane e
lo stato di diritto furono così fermamente stabiliti, non solo sulla carta, ma radicati in profondità in un terreno
di pura cultura anglofoba, che il paese riuscì in seguito ad aprirsi con tanta facilità a persone provenienti da
nazione e culture diverse […]. La vera difficoltà sta nel passaggio da una multicultura non democratica al
multiculturalismo. Qui, ahimé, il modello australiano non ci aiuta affatto (ibidem).
In ogni caso, nonostante le critiche che è possibile leggere in questo come in altri articoli, la
retorica del multiculturalismo (e di quello australiano in particolare) non è mai messa in
discussione: si parte comunque dall’assunto che il multiculturalismo sia un punto di arrivo
desiderabile per la società australiana, senza mai mettere in evidenza il suo carattere equivoco e le
sue ambiguità di fondo. Va ricordato, infatti, come l’idea di multiculturalismo e di multietnicità non
sia del tutto neutra o innocente: secondo un sociologo australiano, Andrew Jakubowicz (1984), il
multiculturalismo australiano ha tra le sue funzioni principali quella di mantenere i migranti al loro
posto, mantenendone il controllo politico e incoraggiando la formazione di frange conservatrici
all’interno delle diverse “comunità etniche” del paese. Nelle parole di Jakubowicz, il
multiculturalismo è “una delle dimensioni più innovative della strategia politica conservatrice”
(ibidem, 28). Da questo punto di vista, il multiculturalismo australiano sembrerebbe tendere più a
una divisione che a una unione del paese australiano (cfr. Collins 1992)3.
Secondo Sneja Gunew (1990) il multiculturalismo “circola in Australia come formazioni
discorsive che soddisfano, appunto, una varietà di interessi istituzionali […]. L’accento posto sul
pluralismo culturale è spesso servito a nascondere le differenze di classe e ha annullato sin
dall’inizio ogni possibilità di configurare un pluralismo strutturale” (ibidem, 193). Da questo punto
di vista, il frame del “multiculturalismo” che incornicia molte delle narrazioni mediatiche
sull’Australia e sull’“australianità” nel corso di Sydney 2000 costituisce una retorica discorsiva che
si attua mediante la produzione e la rappresentazione di simboli grandi e piccoli, dalle coreografie
colorate della cerimonia di apertura ai tassisti “indiani, cinesi, tailandesi, nigeriani” di Sydney dei
racconti de “Il Giornale” (nel numero del 16 settembre 2000).
Il frame delle origini. In ogni operazione di nation building è inevitabile la costruzione di un
mito fondativo, sostenuto poi da una serie di pratiche rituali ufficiali e quotidiane. La stessa storia
3
Sul dibattito internazionale sul multiculturalismo cfr. Colombo 2002.
dell’“invenzione” dell’Australia è, nelle parole di White (1981), la storia di una “ossessione
nazionale”. Nel tentativo di ricercare miti e simboli fondativi, al di là della cultura aborigena –
come abbiamo già visto nel primo punto di questo paragrafo –, l’identità australiana si è fondata sul
suo passato penale: vale quindi la pena di vedere come questa cornice si inserisca in quelle retoriche
mediatiche che sovrintendono alla narrazione dei tratti identitari di una nazione.
Per cominciare, la notevole enfasi data al passato penale dell’Australia si inserisce in una
retorica discorsiva mediatica tale per cui i galeotti della colonia penale australiana finiscono per
confondersi con i primi migranti e i primi pionieri, fino a formare un unico e indistinto punto di
partenza di tutte le storie di coloni, minatori e squatters, in una narrazione delle origini senza
soluzione di continuità (Bennett 1993). Si veda questo stralcio di un articolo apparso su “La
Repubblica” del 6 settembre:
“Io fui il forzato/ mandato all’inferno/ per scavare nel deserto/ il pozzo d’acqua viva…la nazione fu
grazie a me…/ vergogna a chi voglia negare la mani nodose che ci innalzarono”. La sensazione che
l’Australia fosse decisa a scordare i deportati, i reietti del regno britannico che di fatto avevano fondato la
colonia. Era già chiara nel 1918, quando Mary Gilmore scrisse questi versi. Dimenticare fu quasi un diktat,
un’ossessione rivendicata.
Ora, questa “normalizzazione” del passato dell’Australia come colonia penale è, come molte
delle strategie discorsive che ci narrano delle origini, ben poco innocente: in questo caso,
“attribuendo al passato penale il ruolo di un capitolo fondamentale nella storia della nazione, questo
stesso passato viene automaticamente scollegato da altre storie alle quali esso potrebbe essere messo
in relazione in maniera più intelligibile, e di certo più critica – in particolare, la conseguente e più
ampia storia penale australiana” (Bennett 1993, 81).
In un paese che, come si è visto poco tempo dopo la conclusione delle Olimpiadi, è stato
condannato dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati per il trattamento disumano riservato ai
profughi (è celebre la dimostrazione, avvenuta il 18 gennaio 2002, in cui 57 detenuti nel campo
australiano di Woomera si sono cuciti la bocca per protestare contro il ministero per l’immigrazione
australiano), escludere un sistema penale evidentemente iniquo dalle grandi narrazioni sulla propria
identità – e, paradossalmente, fare questo proprio basando l’inizio di tali narrazioni sul sistema
penale originario – diviene un notevole esempio di “tecnologia della rimozione del ricordo”. In
questo modo, “mettendo in relazione il passato penale con il presente all’interno del framework di
una retorica di sviluppo nazionale, e rappresentando quello come un passato i cui eccessi sono stati
superati, le forme contemporanee di punizione vengono private di qualunque storia pubblica se non
quella che, in maniera assiomatica, dichiara la loro docilità” (Bennett 1993, 82). Nelle parole di
Sneja Gunew (1990, 183),
come altre parti del cosiddetto Nuovo Mondo, l’Australia bianca da sempre si interroga sulla propria
identità nazionale. Poiché i primi insediamenti bianchi furono colonie penali, era difficile all’inizio sostenere
il mito di un nuovo Eden (come accadde per l’America): l’Australia avvenne decisamente dopo la cacciata
dal paradiso terrestre. La “cultura” rappresentata dagli intrusi bianchi era perciò decisamente opposta a una
“natura” considerata ostile (una natura che includeva gli originari abitanti aborigeni non tanto colonizzati,
quanto sistematicamente eliminati, come ogni altro ostacolo sul cammino della colonizzazione bianca). Ora,
dopo le recenti celebrazioni del centenario degli insediamenti bianchi (1988), la questione dell’identità
nazionale si pone con un’urgenza suscitata dal bisogno di confermare una “maggiore età” sulla quale fondare
il “consenso”.
E così, oltre a cancellare le tracce di un sistema penale che ha ben poco dell’Australia
“tollerante” e “multietnica” come ci è apparsa tramite i media a Sydney 2000, questa narrazione si
lega all’altro mito nazionale australiano che abbiamo già incontrato, il multiculturalismo:
per dirla metaforicamente, anche la migrazione postbellica diede infine origine a un mito del Nuovo
Eden (soprattutto da quando l’Eden americano iniziò a perdere sempre più la propria credibilità). Le vittime
dell’inferno della seconda guerra mondiale al nord immaginavano l’Australia come l’invitante terra
promessa, così sulle ceneri della colonia penale e dell’etnocidio sembrava crescere una nuova Australia. Il
multiculturalismo rappresentava un salutare spettacolo di nutriente cibo etnico, di circhi etnici pronti a
recitare al solo schiocco delle dita. Un’Australia reinventata in modo pittoresco come nazione libera e
pluralista (ibidem, 183-4).
Il frame “politically correct”.
Se i media, come abbiamo già visto nel corso del paper,
utilizzano quella che è stata definita media logic per mostrare la realtà, ciò comporta un utilizzo di
immagini (verbali o visive) altamente simboliche, in grado di riassumere in pochi tratti un concetto,
un’idea, un pensiero. Ebbene, uno dei simboli più potenti che hanno rappresentato l’Australia nella
copertura mediatica di Sydney 2000 è stato quello della sua atleta aborigena Cathy Freeman, in
grado di evocare immediatamente allo spettatore (e al lettore, dacché i giornali ne hanno narrato in
gran parte la vita privata e i successi nell’atletica) alcuni tratti della costruzione identitaria della
nazione australiana: il valore dell’aboriginalità e l’importanza attribuita al genere femminile.
Va detto che, in omaggio alla stessa “logica dei media” appena ricordata, il caso di Cathy
Freeman è esemplare non solo perché ci troviamo di fronte alla personalizzazione della nazione
australiana (il corpo della Freeman è, in qualche modo, il corpo dell’Australia, o almeno
l’incorporazione di alcuni principi che si è cercato di attribuire alla sua identità culturale), ma anche
perché l’atleta è stata “raccontata” secondo le più ferree regole narrative delle comunicazioni di
massa. Secondo le narrazioni di alcune testate italiane, Cathy Freeman
è stata una ragazza molestata da bambina, una a cui hanno rubato il passato, una giudicata fin troppo
aborigena per riuscire a far bene, una che ha visto sua madre umiliata e cacciata, una che ha chiesto di
portare anche la sua bandiera sul podio e tutti hanno gridato ad un nuovo sessantotto, ad una nuova protesta
dal guanto nero (“La Repubblica”, 16 settembre 2000).
O ancora:
era di nuovo libera, “sollevata per aver finito il lavoro”, come avrebbe detto più tardi, vincendo i
quattrocento in 49’’11 […]. Era di nuovo libera dopo aver compiuto una missione così troppo più grande di
lei (e di chiunque altro): riconciliare l’Australia bianca e quella nera. “Sono sicura che ciò che è successo
stasera e ciò che io simboleggio cambieranno l’atteggiamento della gente. So di aver fatto felici tutti quelli
che, pur con storie molto diverse, sentono l’Australia come la propria casa”(“Corriere della Sera”, 26
settembre 2000).
In alcuni casi, tuttavia, la stampa italiana non ha partecipato a questo framing dell’“atleta
aborigena come embodiment della riconciliazione australiana”4. Si vedano questi due articoli,
apparsi sulla “Stampa”:
la metamorfosi della Freeman arriva a sorpresa, dopo che per giorni e giorni i giornali australiani ci
avevano spiegato che la piccola e minuta Cathy (cinquantadue chili su centosessantaquattro centimetri)
sognava l’oro di Sydney per dare voce alla sua gente, ritrovandosi ad occupare una posizione di prestigio e
privilegio. Avevano equivocato perché ieri la Freeman ha parlato in prima persona, non proprio come ci si
aspettava. “Sono pronta a disputare due gare individuali – ha detto – perché amo la corsa, che è l’essenza
della mia vita. Mi fa sentire libera, indipendente. E se vincerò sarà per me stessa, unicamente per me stessa”.
Ma come? E i discorsi sociali? Le origini? “Quando vado in pista – è stata la risposta – non penso di essere
né aborigena né australiana, ma cerco di essere soltanto me stessa. Il resto non conta” (“La Stampa”, 20
settembre 2000).
L’universo mediatico dell’Australia si è nutrito della ventisettenne velocista del Queensland che
rappresenta per i bianchi un mondo di neri presentabili e per gli aborigeni meno arrabbiati il minimo lasciapassare in una società che li ha emarginati. “Cathy è il riposo per la coscienza sporca dell’Australia”, l’ha
definita un’attivista dei movimenti che contestavano le Olimpiadi. Sui quotidiani e in tv la corsa all’enfasi è
stata vomitevole, se la Freeman avesse perso sarebbe stata una tragedia come quando il Brasile fallì il
Mondiale in casa contro l’Uruguay: il terreno sarebbe sprofondato sotto i piedi degli australiani “politically
correct” e anche di quelli cui non frega niente degli aborigeni però è diventato di moda parlarne […]. E, a
proposito di simboli, la bandiera doubleface, metà australiana, metà con il nero, il giallo e il rosso degli
aborigeni, che Cathy si è avvolta addosso per il giro d’onore a piedi nudi ha sintetizzato il suo pensiero di
oggi, di una nazione che deve riconciliarsi, più di quello, radicale, di ieri: quando si devono pagare allo Stato
630 milioni di multa per gli arretrati delle tasse non pagate su un guadagno di cinque miliardi, è difficile
mantenersi ribelli (“La Stampa”, 26 settembre 2000).
Una volta affrontate le retoriche mediatiche “politicamente corrette” relative all’aboriginalità,
vale la pena adesso di soffermarsi brevemente sull’immagine che l’Australia ha dato di sé in quanto
paese aperto alle cosiddette “minoranze”, in ordine al genere e alla sessualità.
Se la storia dell’Australia è una storia “al maschile” (cfr. Reekie 1992), proprio le Olimpiadi
hanno rappresentato la possibilità per una produzione di miti e simboli – e riti – che fondassero
l’identità australiana come una gendered identity. E proprio il caso di Cathy Freeman ha
4
Secondo Bruce e Hallinan (2001, 261), Cathy Freeman è “l’incorporamento [embodiment] della riconciliazione”: “in
quanto indigena di successo che rappresenta l’Australia sulla scena mondiale, Freeman sembra incarnare la possibile
riconciliazione tra australiani bianchi e indigeni”.
rappresentato uno straordinario punto di incontro per coniugare una potente simbologia di genere e
di “etnicità”.
Per quanto riguarda la sfera della sessualità, di nuovo l’occasione delle Olimpiadi è stata
essenziale per fornire al pubblico mediatico un sistema di rappresentazioni mitiche, simboliche e
rituali per celebrare la “tolleranza” degli australiani nei confronti delle “diversità” sessuali, in
particolare nei confronti dei gay e dei travestiti. Per quanto riguarda la produzione di miti, va detto
che già negli anni precedenti le Olimpiadi l’Australia ha ricercato nei media delle rappresentazioni
che fondassero questo particolare tratto identitario: si pensi a un film come Priscilla, incentrato
sull’accettazione di sessualità e stili di vita non conformisti. Ma il cinema aveva già offerto qualche
spunto da questo punto di vista, soprattutto in uno degli aspetti più ambigui dell’identità australiana
relativamente alle relazioni personali: la mateship. La mateship è quel particolare legame pressoché
esclusivamente maschile considerato fondante l’identità australiana in maniera così netta che è
divenuto famoso anche al di fuori dei confini australiani. Se la mascolinità, intesa come costruzione
sociale, occupa un ruolo fondamentale nel contesto culturale australiano, la mateship è sicuramente
il suo aspetto più determinante, ma anche il più ambiguo. Secondo Buchbinder (1994, 132),
“fondato su una realtà sociale che è già di per sé impregnata di ambiguità, e sulla quale circolano
spiegazioni popolari incomplete, il mito della mateship […] suggerisce un profondo disagio nella
struttura della mascolinità (e del patriarcato) nella cultura australiana. La mateship è il luogo di
congiuntura intorno al quale l’omosocialità maschile è più solidamente ed esplicitamente articolata;
e tuttavia è anche il luogo sul quale si è cristallizzato con maggiore evidenza un insieme di paure e
conflitti maschili. Intesa come strategia che permetta di evitare un confronto diretto con tali
questioni, la mateship costituisce uno strumento per la sospensione delle varie tensioni e ambiguità
irrisolte della stessa mascolinità”. Un film che aveva indagato questo aspetto così importante
dell’identità culturale e sociale australiana è Gallipoli (Gli anni spezzati, 1981), di Peter Weir, che
appunto aveva messo in scena questo sodalizio maschile nei consueti modi ambigui e impliciti.
Più in generale, nelle parole di Baraldi (2002, 104),
il forte interesse della letteratura e della cinematografia australiana per l’omosessualità è dovuto anche
all’azione di molti attivisti che, nel corso degli ultimi trent’anni, hanno combattuto una lotta per far accettare
una condizione presentata come una realtà gioiosa e liberatoria piuttosto che sofferta e subita. Ciò è
dimostrato dal fatto che la più conosciuta, divertente e colorata manifestazione omosessuale del mondo, la
sfilata del Mardi Gras di Sydney, si tenga in questo paese e che essa sia diventata col tempo – la prima
edizione risale al 1978 – un appuntamento anche per i non omosessuali.
Tale produzione mitico-simblica e rituale ha fatto quindi da sfondo alla parata della cerimonia
conclusiva di Sydney 2000, dove gay e drags hanno sfilato riproponendo tutta quella
strumentazione simbolica che gli stessi media avevano preparato da alcuni anni a questa parte. Non
è dunque un caso, anzi sembra essere una conseguenza quasi inevitabile, “che un’opera divertente,
per quanto non disertata dalla malinconia, come Priscilla, sia stata realizzata in Australia, né che nei
cortei conclusivi delle ultime olimpiadi le drag queens abbiano trovato una loro collocazione”
(Baraldi 2002, 104).
Questi, in definitiva, i principali frames che hanno incorniciato la costruzione mediatica
dell’identità australiana a Sydney 2000, almeno per quanto riguarda la copertura dei media italiani.
Si tratta di cornici narrative che hanno tutte i loro miti fondativi, i loro riti (celebrazioni ufficiali o
pratiche quotidiane, a seconda) che ne reiterano la capacità simbolico-cognitiva e i loro oggetti con
cui poter celebrare tali riti. Abbiamo incontrato infatti, nel nostro percorso, oggetti di uso
quotidiano, grandi narrazioni sulla storia e il carattere di un popolo, pratiche, eventi e cerimonie che
confermano o meno tali narrazioni. In questo ultimo paragrafo abbiamo cercato infine di
individuare quelle che sono apparse come le principali cornici narrative, tentando di inquadrarle in
un framework complessivo che ne permettesse una lettura critica e non ingenua.
Alla fine di questo percorso, che come abbiamo visto ha alternato tra un “orientalismo” e un
“occidentalismo” dell’Australia e della sua identità nazionale, risulta abbastanza chiaro come le
retoriche narrative che hanno presieduto al discorso mediatico della copertura delle Olimpiadi di
Sydney 2000 tendano in definitiva ad aderire a questo processo di nation building, confermando i
principali quadri di riferimento anche laddove questi vengano criticati (nei loro contenuti, ma non
nelle loro forme mitico-narrative).
Proprio questo stesso alternarsi tra “orientalismo” e “occidentalismo”, tuttavia, mostra come le
nazioni/narrazioni rimangano oggetti separati gli uni dagli altri, anche quando i “maghi dei media”
– novelli “maghi di Oz” – ce le mostrano nei loro aspetti più entusiasmanti e – perché no – anche
più critici. Cosicché, una volta terminato tale percorso nel “mondo di Oz”, è pur sempre un sollievo
per lo spettatore italiano ritrovarsi tra le mura di casa sua; perché, come sa bene Dorothy – la
protagonista del Mago di Oz, il film da cui il paper ha tratto il titolo –, è bello girare per posti esotici
e favolosi, ma, alla fine, “There’s no place like home”.
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