In principio c`è il corpo e… l`anima - Metodo. International Studies in

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In principio c`è il corpo e… l`anima - Metodo. International Studies in
In principio c’è il corpo e… l’anima
Franco Lo Piparo
Università di Palermo
[email protected]
ABSTRACT: The article tries to analyze the nexus between sóma and psyché in the
context of Aristotle’s philosophy with particular reference to the biology of
human and nonhuman animals. By means of a complete survey of some
fundamental aristotelian concepts (Entelécheia, ananke ex hypothéseos, aísthesis,
etc.), it promotes a particular conception of the phenomenology’s body.
1.
È impossibile concepire una qualsiasi attività cognitiva che non sia supportata
da un corpo. Ma che cosa è un corpo? Se ne può dare una definizione generale?
La migliore definizione che conosciamo si legge nel De Anima di Aristotele: to
de sóma to dynámei on (413a 2). La traduzione letterale («Il corpo è ciò che è in
potenza») rimane un po’ oscura. La traduzione fedele e chiara è: «Il corpo è ciò
che è capace di fare». Ovvero: un corpo altro non è che un insieme di capacità
specifiche. Il corpo degli uccelli è fatto per volare, quello dei pesci per vivere
immersi nell’acqua, il martello è un corpo con cui si può piantare un chiodo ma
non avvitare una vite o segare un albero, eccetera.
Aristotele chiamava psyché ‘anima’ l’insieme delle attività che un corpo
consente di compiere:
Se si dovesse dire ciò che accomuna ogni tipo di anima si direbbe che è
l’entelecheia principale di un corpo naturale dotato di organi
[entelécheia he próte sómatos he próte sómatos physikoú organikoú].
(DA, 412b 4-6).
Entelécheia è la contrazione nominale della formula en télos échein ‘avere la
propria natura nel fine da raggiungere’. Quindi nel rispetto della lettera e dello
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spirito del testo aristotelico la traduzione corretta è: «Anima è l’attività del
corpo orientata verso il fine inscritto nel suo corredo naturale». Traduzioni
equivalenti potrebbero essere: «l’anima è l’insieme, infinito e limitato (chiuso),
delle possibilità operative del corpo» oppure «l’anima è l’insieme delle regole
(eídos, lógos che governano l’attività del corpo». Gli esempi chiariscono
ulteriormente:
Se l’occhio fosse un animale, la sua anima sarebbe la vista: questa è la
sostanza [ousía] dell’occhio rispetto alla sua definizione. L’occhio è la
materia della vista: quando la vista viene meno non c’è più l’occhio
tranne che per omonimia come nel caso dell’occhio di pietra o
disegnato. (…) L’anima è attività orientata a un fine [entelécheia] come
la vista e la capacità dell’organo-strumento [he dúnamis toú orgánou];
il corpo, a sua volta, è ciò che è capace di fare [to de sóma to dynámei
on]. Come l’occhio è pupilla e vista così l’animale è anima e corpo (DA,
412b 18 - 413a 3).
Così, se qualcuno degli strumenti, ad esempio l’ascia, fosse un corpo
naturale, la sua sostanza sarebbe in funzione degli usi dell’ascia [to
pelékei eínai] e questa sarebbe l’anima; se ne fosse separata, l’ascia
esisterebbe solo per omonimia» (412b 10-15).
Poiché ogni organo-strumento esiste in funzione di un fine, ciascuna
parte del corpo esiste anch'essa in funzione di un fine e il fine è un
determinato agire, è chiaro che il corpo nel suo complesso [to súnolon
soma] sussiste in funzione di un agire composito [práxeos tinos héneka
polymeroús]. In effetti non è il segare ad esistere in funzione della sega,
ma è la sega ad esistere in funzione del segare: il segare è un
determinato uso <della sega>. Così il corpo esiste in un certo modo in
funzione dell'anima e ciascuna sua parte in funzione delle opere che
per natura deve svolgere (DPA, 645b 14-20).
Possiamo già trarre una prima conclusione. Dal momento che un corpo è
l’insieme delle operazioni che consente di svolgere e nessuna operazione è
concepibile senza un corpo che la supporti, un corpo non è separabile dalla sua
anima (ossia dalle sue capacità operative) e, a loro volta, le anime (i fini che si
intendono raggiungere) richiedono corpi adeguati. Detto in maniera più
sintetica: dove c’è un corpo là non può non esserci anche un’anima, dove c’è
un’anima ci sarà necessariamente anche un corpo.
È corretta l’opinione di quanti ritengono che l’anima non esista senza il
corpo né sia un corpo. In realtà non si identifica col corpo ma è
qualcosa che appartiene al corpo [sómatos de ti]. Essa esiste in un
corpo, ed anzi in un corpo di una determinata specie e non come
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credevano i nostri predecessori che la facevano entrare nel corpo senza
determinare la natura e la qualità di esso, benché non si verifichi mai
che una cosa qualunque accolga una cosa qualunque. Ed è ragionevole
che così avvenga giacché il fine [entelécheia] di ciascuna cosa si realizza
per sua natura in ciò in cui sussiste questa possibilità e nella materia
appropriata [en te oikeía hyle]. (DA, 414a 20-27).
Gli esempi sono sempre illuminanti:
Se bisogna rompere qualcosa con l'ascia, allora essa deve
necessariamente essere dura e, se è dura, deve essere o di bronzo o di
ferro. Similmente, se il corpo è uno strumento (ossia, ciascuna sua parte
e la loro totalità è in funzione di un fine), è necessario, se almeno dovrà
essere quel determinato strumento, ceh sia fatto in quel modo e formato
da quelle parti (DPA, 642a 9-13).
La relazione tra l’insieme delle operazioni che un corpo può compiere e la sua
struttura materiale Aristotele la chiama ananke ex hypothéseos. La traduzione
corretta è ‘necessità condizionata dalle operazioni da compiere’. 1 Se ne trova la
definizione in vari luoghi dell’Opus:
Chiamo ananke ex hypothéseos <questo tipo di relazione>: se esiste un
animale che ha una propria natura specifica, allora necessariamente
debbono sussistere in esso alcune <capacità> e, se sussistono queste, ne
debbono sussistere anche altre. (DSV 455b 26-28).
se questo deve essere il fine, necessariamente queste altre cose
dovranno realizzarsi. (DPA 642a 33-34).
Se l’uomo è questo allora ci vogliono queste altre cose; e se queste,
anche quest’altre [ei ánthropos todi, tadi: se de tadi, tadi]. (Phys. 200b 34).
2.
A partire da questo schema generale Aristotele descrive una complessa
fenomenologia dei corpi rappresentabile nel grafico qui riportato:
1
Traduzioni correnti sono: ‘necessità condizionale’ o, peggio, ‘necessità ipotetica’.
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La prima macroclassificazione è tra corpi non-viventi e corpi viventi. I primi
non hanno alcuna attività autonoma. Una pietra o un martello compiono
operazioni solo se un agente esterno li usa. La loro è un’anima eteropoietica. I
corpi viventi, ossia capaci di attività autopoietica, si distribuiscono in due
classi: le piante e gli animali. Gli animali possono essere umani e non-umani.
Su queste due ultime classificazioni nelle pagine di Aristotele si leggono
riflessioni che si impongono ancora all’attenzione di noi moderni.
2.1 L’architettura minima dell’animalità
Secondo Aristotele, un animale si distingue da altri corpi, viventi (come le
piante) e non viventi (come una pietra o una macchina), per la contemporanea
presenza di tre tipi di attività tra loro differenti ma inseparabili: (1) la aísthesis
(«sensazione»); (2) la órexis («desiderio») o epithumía (termine tradotto
normalmente con «appetizione» ma che sarebbe meglio tradurre col freudiano
Trieb «pulsione»); (3) la phantasía («immaginazione» o «rappresentazione
mentale»: userò i due termini come sinonimi).
La aísthesis è l’attività di base senza la quale l’animalità non esisterebbe. «Agli
animali, in quanto ciascuno è animale, è necessario che appartenga la aísthesis,
giacché in base a questo definiamo che cos’è l’animale distinguendolo da ciò
che non è animale» (DSS 436b 10-12). Pertanto: «animalità e sensazione si
formano contemporaneamente» (Cat. 8a 7-8) e «le piante non hanno alcuna
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sensazione» (DA 435b 1).
Bisogna dare il giusto significato al termine aísthesis. La sensazione, nella
filosofia aristotelica, non è solo dispositivo cognitivo di riconoscimento di
stimoli provenienti dal mondo esterno. Se così fosse, dovremmo attribuire
capacità di sentire anche al termostato e, a maggior ragione, a un qualsiasi
robot. «Sensazione» per Aristotele vuol dire anzitutto sentire piacere e dolore:
«là dove c’è aísthesis c’è anche piacere e dolore» (DA 414b 4). Gli animali si
rapportano al mondo tramite il filtro del piacere e del dolore. Se si trascura
questo punto non si è in grado di apprezzare la finezza e la innovatività,
rispetto all’intellettualismo post-aristotelico erroneamente attribuito ad
Aristotele, della teoria aristotelica della coscienza animale.
Faccio un esempio. Per un animale avere la sensazione dell’acqua non
comporta solo avere la capacità di riconoscere, tra tanti elementi differenti,
l’acqua e quindi saperla distinguere, ad esempio, dalla terra o dal petrolio. La
aísthesis animale dell’acqua è indissolubilmente associata alla sensazione di
piacere che dà il bere acqua quando si ha sete e alla sensazione di dolore
quando, avendo sete, non se ne dispone.
Piacere e dolore sono quindi la matrice della animalità e la aísthesis è
contemporaneamente attività cognitiva e affettiva. È il punto di partenza di un
edificio teorico che attende di essere ricostruito nella sua complessità e nel suo
fascino post-moderno. Ne fornisco qui pochi cenni.
Dal fatto che l’animalità si rapporta al mondo attraverso il filtro del piacere e
del dolore Aristotele trae una conseguenza che porta molto lontano: l’apparato
sensoriale di tutti gli animali, umani e non umani, è indissolubilmente
intrecciato col desiderare. «Se l’animale è dotato di aísthesis è anche animale che
desidera (orektikón) (…); dove c’è aísthesis c’è anche piacere e dolore e dove c’è
piacere e dolore c’è anche pulsione [epithumía] dal momento che il desiderio
[órexis] è desiderio del piacevole» (DA 414b 1-6).
È questo un altro passaggio cruciale. Rimaniamo all’esempio della
sensazione e/o percezione (i due termini vedremo che è meglio non trattarli
come sinonimi) dell’acqua. C’è differenza tra il riconoscere l’acqua come
genere naturale che possiede determinate caratteristiche fisico-chimiche
(questo è in grado di farlo un automa costruito dall’uomo) e il desiderare
l’acqua come qualcosa che possa alleviare o sopprimere il dolore della sete.
L’acqua come sostanza chimica e l’acqua che, in quanto fonte di piacere, è
anche oggetto di desiderio sono oggetti ontologicamente non coincidenti. La
aísthesis dell’acqua, nella prospettiva aristotelica, è anzitutto sensazione di
qualcosa che appaga il desiderio di bere.
Ecco una prima e fondamentale differenza tra la cognitività degli animali e
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quella delle macchine intelligenti: la prima ha il desiderio e la sensazione del
piacere e del dolore come proprio fondamento bio-chimico; la seconda ha solo
un commercio intellettuale col mondo. Le sorprese non si fermano qui.
La sensazione del piacere e del dolore non può esaurire la spiegazione del
modo in cui il desiderio si genera e agisce. La cellula somato-affettivo-cognitiva
iniziale dell’animalità deve includere un altro elemento altrettanto
fondamentale. Perché ci sia desiderio è necessario che l’animale che desidera
sia capace di rappresentarsi la meta che desidera raggiungere e dalla quale si
attende che il suo desiderio venga appagato: «un animale non può desiderare
senza immaginazione o rappresentazione mentale [áneu phantasías]» (DA, 433b
28-29). La grammatica naturale del desiderio comporta quindi la
trasformazione della sensazione in immaginazione: la aísthesis del piacere e del
dolore è contemporaneamente rappresentazione (phantasía) di qualcosa che si
desidera (in quanto fonte di piacere) o da cui si fugge (in quanto fonte di
dolore). Ciò pone in una linea continua la sensazione e l’immaginazione: «gli
oggetti immaginati [phantásmata] sono come quelli percepiti-sentiti [aisthémata],
salvo il fatto che sono senza materia» (DA 432a 9-10).
L’immaginazione [phantasía], avendo la stessa matrice della sensazione e del
desiderio, è sensazione di ciò che non c’è e che o si desidera in quanto fonte di
piacere o si teme in quanto fonte di dolore. Con essa i confini del mondo
vengono estesi oltre il mondo immediatamente percepito. Attività psichiche
complesse come il ricordare, l’allucinare (sentire come reale ciò che è
immaginato) e il sognare trovano qui la loro radice affettivo-cognitiva.
La memoria. «È evidente che la memoria (mnéme) è propria di quella parte
dell’anima a cui appartiene anche la phantasia» (DMR 450a 22-23) e, pertanto,
«<tutti> gli animali diversi <dall’uomo> vivono con immagini mentali e
ricordi» (Met. 980b 25-26). E ancora: «Poiché il provar piacere è una modalità
del sentire e la phantasia è una sensazione debole [aísthesis tis asthenés], al
ricordare e allo sperare si accompagna sempre la phantasia di ciò che si ricorda
e di ciò che si spera» (Rhet., 1370a 27-30). La cellula primitiva dell’animalità è
quindi per sua costituzione naturale dotata di memoria. Dove c’è un animale
c’è anche memoria.
Le allucinazioni. La continuità bio-cognitiva dei contenuti percettivi
(aisthémata) e di quelli immaginati (phantásmata) è la fonte della forza trainante
delle allucinazioni. «A causa del fatto che le immagini mentali persistono e sono
simili alle sensazioni, gli animali compiono molte azioni rispetto alle immagini
mentali: alcuni perché non hanno nous [mente fornita di logos] ed è il caso
degli animali non umani; altri perché il loro nous è a volte oscurato dalla
malattia o dal sonno, ed è il caso degli uomini» (DA 429a 4-8).
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I sogni. Dal momento che «il sogno è un determinato tipo di sensazione
(aísthema trópon tinà)» (DSV 456a 26), tutti gli animali, in quanto dotati di
sensorialità, sognano. Il sognare è l’attività affettivo-cognitiva generata durante
il sonno dalle dinamiche del sentire: «il sogno è l’immagine mentale prodotta
dal movimento delle sensazioni (apò tes kinéseos ton aistemáton) quando si
dorme, in quanto si dorme» (DI 462a 29-31). «Poiché la parte dell’anima che
immagina (phantastikón) è la stessa di quella che sente (aisthetikón), anche se la
natura dell’immaginare è diversa da quella del sentire, e poiché
l’immaginazione è movimento generato dall’attività del sentire e il sogno
appare essere un determinato tipo di immagine (phántasma) (chiamiamo,
infatti, ‘sogno’ l’immagine mentale (phántasma) <prodotta> durante il sonno,
sia essa prodotta in senso assoluto o in un determinato modo), è chiaro che il
sognare è una modalità del sentire in quanto capace di immaginare (DI, 459a 16-22).
2.2 L’epi-coscienza sensoriale
Nel lessico teorico di Aristotele non c’è un termine specifico per indicare quella
che noi moderni chiamiamo autocoscienza. Ne viene però data la descrizione.
Gli elementi fondamentali di una fenomenologia della sua formazione naturale
sono contenuti nelle poche annotazioni che abbiamo finora riferito.
L’animalità come viene descritta e spiegata da Aristotele non può non avere
una coscienza di sé. Si rifletta sulle leggi psichiche che governano il sentire
piacere o dolore mettendo a fuoco le seguenti proposizioni:
Provo un grande piacere ma non lo so
Ho un fortissimo mal di denti ma non lo so.
Sono proposizioni che descrivono situazioni chiaramente impossibili dal
momento che il provare piacere e dolore altro non è che essere cosciente del
proprio piacere e del proprio dolore. Un piacere e un dolore inconsapevoli
sono realtà contraddittorie e perciò impossibili. Non ci sono piaceri e dolori ai
quali si aggiunge una coscienza ma piaceri e dolori sono essi stessi forme di
coscienza. L’aísthesis del piacere e del dolore è quindi la modalità embrionale
della coscienza: «essi [i viventi] per il fatto che sentono o possono sentire
<piacere e dolore> sanno2 di vivere e di essere» (DGC, 318b 24-25).
È questo il motivo per cui aísthesis è preferibile non tradurlo con
«percezione». Abbiamo fatto gli esempi del termostato che percepisce la
2
Traduco con una certa libertà il verbo nomízousin: «pensano» nel senso di un pensare non
teoretico ma operativo e irriflesso.
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temperatura di un ambiente e si comporta di conseguenza o del robot che sa
distinguere percettivamente l’acqua da altre sostanze chimiche. Sono tutte
quante percezioni non accompagnate da coscienza e senza alcun
coinvolgimento affettivo. Le neuroscienze contemporanee hanno individuato la
presenza della percezione incosciente e anaffettiva anche negli umani. Accade
nella cosiddetta visione cieca (blindsight). Si tratta di questo: soggetti con danni
alla corteccia cerebrale visiva, pur dicendo di non vedere un determinato
fenomeno, se richiesti di provare a indovinare il luogo in cui il fenomeno
accade danno la risposta corretta. Segno che anche gli umani possono, in
determinate condizioni, avere percezioni senza coscienza. Alcuni specialisti 3
chiamano sensazioni le percezioni coscienti e cariche di affettività e riservano il
nome di percezione alla esplorazione intellettuale e anaffettiva del mondo.
La aísthesis di Aristotele è l’emergere aurorale della autocoscienza e
dell’affettività. Non è pertanto assimilabile a quella che alcuni neuroscienziati
chiamano percezione. Su questo aspetto le analisi aristoteliche non lasciano
margini al dubbio.
Non solo il piacere e il dolore ma tutta la sensorialità è, secondo Aristotele,
costitutivamente autocosciente. Le sensazioni sono per definizione sensazioniche-sentono-se-stesse-che-percepiscono-gli-oggetti. «Chi vede percepisce-sente di
vedere, chi ode pecepisce-sente di udire, chi cammina percepisce-sente di
camminare e similmente per le altre attività c’è una percezione-sensazione del
fatto che siamo in attività e perciò noi sentiamo di sentire e pensiamo di
pensare» (EN 1170a 29-32). La aísthesis potrebbe essere definita come percezionedella-percezione-di-un-oggetto. «Esiste anche una comune capacità che si
accompagna a tutte le sensazioni con la quale si percepisce il fatto che si veda e
si senta» (DSV, 455a 15-17).
Il De Anima si chiede se, per spiegare il fenomeno del «percepire di
percepire», bisogna postulare organi di senso differenti da quelli che
percepiscono gli oggetti oppure percezione dell’oggetto e percezione della percezione
dell’oggetto vadano considerati aspetti co-presenti di un unitario fenomeno
complesso. La seconda soluzione è quella ritenuta più soddisfacente.
Dal momento che noi percepiamo di vedere e di udire, è necessario che
il percepire di vedere si svolga o con la vista o con un altro senso. Ma
<in quest’ultimo caso> lo stesso senso percepirà sia la vista che il colore
che è oggetto della vista. Pertanto o vi saranno due sensi che
percepiscono il medesimo oggetto 4 oppure la sensazione sarà
3
4
Ad esempio, HUMPHREY 2006.
I due differenti sensi che verrebbero a percepire lo stesso oggetto sarebbero: (1) il senso
che percepisce direttamente l’oggetto; (2) il senso che, in quanto percepisce il senso-che-
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sensazione di se stessa. Inoltre, se il senso che percepisce la vista fosse
differente dalla vista o si innesca un processo all’infinito o la sensazione
sarà sensazione di se stessa: allora tanto vale attribuire questa capacità
al primo (DA 425b 12-17).
Il percepire-di-percepire (o, forse meglio, il sentire-di-sentire) è la forma
embrionale della coscienza di sé. Tutti gli animali, non solo quelli umani, ne
sono provvisti. In Aristotele e il linguaggio5 ho proposto, sul modello della
nozione di epi-linguaggio elaborata dal linguista francese Antoine Culioli 6, di
chiamare epi-sentire o epi-percepire il percepire-di-percepire-qualcosa e epicognitività il meta-sapere implicito e irriflesso presente in ogni forma di sapere
operativo. L’epi-sentire è la prima forma con cui si manifesta la coscienza
dell’essere-nel-mondo dell’animalità.
2.3 Il logos come forma complessa di aísthesis
Quello che ho descritto per sommi capi (ma credo ci sia l’essenziale) è solo la
cellula somato-affettivo-cognitiva elementare della autocoscienza animale. Noi
siamo interessati a sapere dove e come la coscienza dell’animale umano si
distingue da quella degli altri animali e il ruolo che il logos svolge in questa
specificità. In questa sede ci interessa dare il giusto rilievo a un aspetto che una
predominante lettura intellettualistica ha espunto dalla filosofia di Aristotele: il
logos, anche se appartiene solo all’animale umano («la natura non fa niente
senza scopo e l'uomo è l'unico animale ad avere logos» – Pol. 1253a), rimane
radicato nella cellula iniziale dell’animalità formata dall’intreccio di aísthesis,
órexis, phantasia. I tratti fondamentali della continuità e discontinuità tra
animalità non umana e umana sono esposti nella citatissima, e non sempre ben
tradotta, pagina del Libro Primo della Politica. Propongo di rileggerla lasciando
in greco tutte le occorrenze della parola aísthesis:
È chiaro il motivo per cui l’uomo è animale cittadino [politikón] più di
ogni ape o di un qualsiasi animale che fa vita di gruppo. Perché la
natura non fa niente senza scopo e l'uomo è l'unico animale ad avere
logos. La voce <inarticolata> è segno di dolore e di piacere e questo è il
motivo per cui si riscontra negli altri animali. La loro natura infatti
giunge fino a questo punto: avere la aísthesis del dolore e del piacere e
5
6
percepisce-l’oggetto, percepisce indirettamente anche l’oggetto.
LO PIPARO. 2011 [2003].
«Le langage est une activité qui suppose, elle-même, une perpétuelle activité
épilinguistique (définie comme ‘activité métalinguistique non consciente’)». CULIOLI
1969.
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segnalarsela reciprocamente. Il logos invece ha come fine l'esprimere ciò
che è utile e ciò che è nocivo e di conseguenza ciò che è giusto e ciò che
è ingiusto. Ciò accade perché, rispetto agli altri animali, è caratteristica
specifica dell'uomo avere, egli solo, la aísthesis del bene e del male, del
giusto e dell'ingiusto, e di altre <qualità> ancora: la comunanzacomunicazione reciproca [koinonía] di queste qualità forma la famiglia e
la città. (1253a 9-18).
A «bene e male, giusto e ingiusto e altre qualità ancora» l’animale umano
accede mediante aísthesis cioè mediante una modalità che comporta anche un
coinvolgimento affettivo. Tra la aísthesis del piacere e del dolore, condivisa da
tutto il mondo animale, e la aísthesis, solo umana, del bene e del male, del
giusto e dell’ingiusto c’è una indubbia differenza ma anche una identità:
entrambe sono modi, contemporaneamente affettivi e cognitivi, di stare-nelmondo. «Coloro che co-sentono (sunaisthanómenoi) ciò che è bene per se stesso
ne traggono piacere (édontai)» (EN 1170b 4-5). Il comune termine usato nei due
casi, aísthesis, oscurato da molte traduzioni, è la spia del paradigma teorico
entro cui Aristotele svolge le sue riflessioni sulle molteplici articolazioni della
coscienza animale.
La comune matrice aistetica del sentire-percepire e del pensare nel e col logos
viene messa in evidenza in vari luoghi delle opere naturalistiche. In alcuni
passaggi del De Anima, ad esempio, l’attività raziocinante dell’animale umano
viene descritta come una forma specifica e complessa di aísthesis: «Sembra che
il pensare (noeín) e il comprendere (phroneín) siano una specie di sentire
(aisthánesthai) (in entrambi infatti l'anima discrimina (krínei) e conosce (gnorízei)
qualcuna delle cose che sono) e del resto gli antichi affermano che
comprendere e sentire siano la stessa cosa» (DA, 427a 19-26). «Il pensare (noeín)
è come il sentire (aisthánesthai)» (429a 13-14).
Con la comparsa del logos la aísthesis in qualche modo si linguisticizza:
«<Negli uomini> il sentire (aisthánesthai) è simile al semplice dire (phánai) e
pensare (noeín). Quando <la sensazione> persegue ciò che è piacevole e fugge
ciò che è doloroso è come se dicesse sì (kataphása) o no (apophása): il provare
piacere o dolore equivale infatti ad agire tramite la sensorialità in riferimeno al
bene e al male in quanto tali» (DA 431a 8-12). «Quello che nel ragionamento (en
dianoía) sono il dire sì (katáphasis) e il dire no (apóphasis), nel desiderio sono il
perseguire e il fuggire <qualcosa>» (EN 1139a 21-22). «La pulsione (epithumía)
dice (légei): ‘debbo bere’; la sensazione (aísthesis) o il pensiero (nous) dicono
(eípen): ‘questa è una bevanda’; allora subito si beve» (DMA, 701a 32-33).
Col logos si passa dall’epi-coscienza alla meta-coscienza, dalla coscienza
operativa e irriflessa di sé alla coscienza che sa porre se stessa come oggetto di
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riflessione. L’universo animale diventa molto più complesso. La maggiore
complessità non rompe i ponti con quella che abbiamo chiamato la cellula
somato-affettivo-cognitiva senza la quale l’animalità non esiste: l’intreccio di
aísthesis, órexis, phantasía. Nell’Ethica Nicomachea si trova una definizione di
animale umano che da sola fa giustizia delle interpretazioni intellettualistiche e
raziocinanti della filosofia aristotelica: l’uomo è contemporaneamente mente che
desidera (orektikòs nous) e desiderio che ragiona (órexis dianoetiké): 1139b 4-5.
Abbreviazioni delle opere aristoteliche citate
Cat.
DA
DGC
DIA
DI
DMA
DMR
DSV
DSS
EN
Met.
Pol.
Rhet.
Categoriae
De anima
De generatione et corruptione
De incessu animalium
De insomniis
De motu animalium
De memoria et reminiscentia
De somno et vigilia
De sensu et sensibilibus
Ethica nicomachea
Metaphysica
Politica
Ars rhetorica
Bibliografia
HUMPHREY, N. 2006. Seeing Red. A Study in Consciousness. Harvard: Harvard
University Press (trad. it: ROSSO. Uno studio sulla coscienza. Torino: Codice
edizioni, 2007).
LO PIPARO, F. 2011 [2003], Aristotele e il Linguaggio. Roma-Bari: Laterza.
CULIOLI, A. 1969. «La formalisation en linguistique». In Cahiers pour l’Analyse, 9,
108-17.
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