osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell`autorità garante della

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osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell`autorità garante della
Fabio Cintioli
Osservazioni sul ricorso giurisdizionale
dell’Autorità garante della concorrenza
e del mercato ex art 21 bis
della legge n. 287/1990
e sulla legittimazione a ricorrere
delle autorità indipendenti
L’articolo è dedicato al nuovo potere di impugnare gli atti amministrativi che siano in contrasto con le norme a tutela della
concorrenza e del mercato affidato all’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Nella prima parte l’articolo inquadra questa peculiare legittimazione nell’ambito della c.d. giurisdizione oggettiva del giudice amministrativo e la riannoda ad
alcuni precedenti normativi che, senza successo, in passato tentarono di introdurre una figura di pubblico ministero titolare di
un potere proprio di azione nel processo amministrativo. Si procede, quindi, ad una ricostruzione delle regole processuali, dato
che quelle ordinarie, a partire da quella sulla previsione di un termine di decadenza, richiedono un adattamento alla specialità
della fattispecie. Si segue, in questo senso, un filo conduttore che considera sia la rilevanza del principio della domanda come
principio generale sia la eccezionalità di questa ipotesi. Nella seconda parte l’articolo tratta del contenuto dell’impugnazione e si
propone di dimostrare che utili campi di sua applicazione potranno trovarsi nella disciplina sugli aiuti di Stato, nel campo della
regolazione, nel caso, rilevantissimo, degli affidamenti contra legem dei servizi pubblici locali, nonché nel caso dei procedimenti
di gara. L’ultimo paragrafo è riservato ad una breve analisi di un corrispondente e speciale potere di impugnativa recentemente
affidato dal legislatore alla neo istituita Autorità dei trasporti.
Sommario: 1. Il nuovo art. 21 bis ed altre novità nell’ordinamento processuale – 2. La giurisdizione amministrativa e la c.d.
giurisdizione di diritto oggettivo – 3. L’idea di inserire il pubblico ministero nel processo amministrativo – 4. Metodo di
interpretazione ed art. 21 bis – 5. Il parere preventivo di AGCM e l’autotutela decisoria – 6. L’archiviazione di AGCM – 7.
Interesse ad agire e giurisdizione oggettiva – 8. Irricevibilità, rinuncia al ricorso, cessata materia del contendere ed improcedibilità – 9. Il contenuto del ricorso. La violazione delle norme del TFUE sulla concorrenza – 10. Segue. La violazione
del divieto di aiuti di Stato – 11. Segue. La violazione di norme di promozione della concorrenza e di regolazione. Il caso
degli affidamenti in house e le norme sulla privatizzazione – 12. Segue. La violazione delle norme sulla liberalizzazione di
settori economici. L’impugnazione di atti di regolazione – 13. Segue. L’impugnazione dei bandi di gara – 14. Approccio
economico, metodo giuridico e legittimazione ad agire di AGCM – 15. Postilla. La legittimazione ad agire dell’Autorità
dei trasporti per i provvedimenti sul servizio dei taxi
1. Il nuovo art. 21 bis ed altre novità
nell’ordinamento processuale
La legislazione dell’emergenza o, per dir meglio, la
legislazione delle manovre che si è sviluppata, non
senza accenti di drammaticità, nel corso dell’ultimo
anno, ha prodotto un frutto decisamente originale
e destinato, se verrà conservato nell’ordinamento, ad
avere un impatto pratico considerevole e ad incidere
Il nuovo diritto amministrativo 2/2012
non poco sui caratteri del nostro processo amministrativo. L’art. 35 del d.l. n. 201 del 2011, decreto
denominato Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità
e il consolidamento dei conti pubblici e più noto alle cronache come “decreto salvaItalia”, è intitolato al Potenziamento dell’Antitrust. Esso ha introdotto nella l. n.
287 del 1990 il nuovo art. 21 bis, a sua volta intitolato
ai Poteri dell’Autorità Garante della concorrenza e
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I grandi temi
del mercato sugli atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza.
L’art. 21 bis affida ad AGCM la legittimazione
“ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di
qualsiasi amministrazione pubblica che violino
le norme a tutela della concorrenza e del mercato”.
Il comma 2 detta una peculiare sequenza procedimentale che l’Autorità è tenuta ad osservare. Essa,
quando “ritiene che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norme a tutela
della concorrenza e del mercato, emette un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate”. Quando l’amministrazione non si
conforma nei 60 giorni successivi a tale comunicazione, l’Autorità ha 30 giorni di tempo per proporre il
ricorso, con il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato.
Il comma 3 dell’art. 21 bis sottopone questo giudizio all’applicazione della disciplina concernente i riti
abbreviati, di cui all’art. 119 e ss. c.p.a.
Che ad un ente pubblico e ad una amministrazione,
quale sicuramente l’AGCM è, il legislatore abbia assegnato una legittimazione ad impugnare gli atti amministrativi così ampia è, come si intuisce da subito, una
novità dirompente nel processo. A guardare ancor più
da vicino l’istituto, ci si convince che il suo impatto
è ancor più significativo, nonostante la sua apparente
limitazione al tema della concorrenza.
In primo luogo, si deve registrare un dato più generale il quale ci offre un contesto storico ed una linea
di tendenza del legislatore meritevoli di una attenta
sottolineatura.
Nel corso di questi ultimi anni il processo
amministrativo ha registrato l’ingresso di alcune
nuove funzioni attribuite al giudice.
La prima è quella della c.d. azione di classe nei
confronti della p.a., che mira a sollecitare, tramite
l’iniziativa diffusa tra i singoli interessati, un controllo giudiziale sui livelli di efficienza dell’amministrazione (L’istituto è disciplinato dal d. lgs. 20 dicembre
2009, n. 198, con la denominazione di ricorso per
l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici). L’attore utilizza una posizione
individuale che sembra (pur con qualche incertezza
interpretativa di cui dobbiamo tener conto) sganciarsi dalla solida consistenza giuridica dell’interesse
legittimo e del diritto soggettivo e che perciò lambisce l’interesse di mero fatto, vale a dire quello che
appartiene ad ogni singolo cittadino, che si riassume
nell’interesse pubblico generale al buon andamento
dell’azione amministrativa e che, proprio per questo,
resta innominato e indefinito e, di regola, insufficiente a fondare la legittimazione processuale.
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La seconda è quella delle c.d. sanzioni alternative
di cui all’art. 123 c.p.a. Si tratta di quelle sanzioni consistenti o nella riduzione della durata del contratto o
in una sanzione pecuniaria, che vengono comminate,
anche ex officio, dal g.a. quando egli, pur avendo identificato alcune violazioni gravi commesse dalla stazione
appaltante, abbia ritenuto di conservare l’efficacia del
contratto per tutelare imperative esigenze di interesse
generale.
La terza è quella che si prende qui in esame, ultima
in ordine di tempo. Delle tre è forse la più rilevante,
se non altro perché, diversamente dalle prime due, si
potrebbe prestare, sol che lo voglia l’Autorità, ad una
applicazione ben più frequente rispetto a quella che si
è potuta registrare fino adesso per le altre due.
Tra questi istituti esiste un evidente filo conduttore.
Tutti e tre vengono ad introdurre delle forme di giurisdizione che, se non vi appartengono a pieno titolo,
quantomeno sono molto vicine alla nozione di giurisdizione di diritto oggettivo.
2. La giurisdizione amministrativa e la c.d.
giurisdizione di diritto oggettivo
La giurisdizione amministrativa è, come sappiamo, giurisdizione di diritto soggettivo, perché è
una funzione che tutela situazioni giuridiche soggettive individuali, si tratti di interessi legittimi o di diritti
soggettivi.
Essa è dominata dal principio dispositivo, il
quale opera sia sul fronte della domanda sia sul fronte
della formazione della prova.
Sotto il primo profilo, abbiamo che il processo è
nella disponibilità del ricorrente, sicché il g.a. si pronuncia unicamente sulla base dei motivi che dal primo
siano stati dedotti e sempre il ricorrente ha il potere di
impedire al giudice di pronunciarsi, mediante rinuncia
al ricorso (e al suo diritto di azione)1.
Sotto il secondo profilo, abbiamo che il g.a. deve
comporre il quadro probatorio anzitutto tenendo conto delle istanze delle parti, salvo quel peculiare temperamento che consiste nel metodo acquisitivo e che, nonostante i mutamenti intervenuti di recente, può dirsi
appartenga ancora al nostro processo amministrativo
dopo il codice del 2010.
1. Che sia un traguardo ormai sicuramente raggiunto, perlomeno quale enunciazione di principio, quello che configura il
processo amministrativo come processo di parti, è confermato,
a tacer d’altro e a mero titolo di esempio, dalle menzioni che vi
dedica una importante e recente sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 4 del 2011, in www.giustiziaamministrativa.it) a proposito dell’ordine di decisione del ricorso
incidentale nel contenzioso sui contratti pubblici, nonché dalle
frequenti citazioni al principio della domanda contenute nel codice del processo amministrativo di recente conio.
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Legittimazione a ricorrere del Garante della Concorrenza
La nozione di giurisdizione di diritto oggettivo risale
soprattutto al dibattito dottrinale che si sviluppò all’indomani della legge Crispi, la quale istituì nel 1889 la prima
Sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato2.
A fronte di coloro che avevano sostenuto che non
si potesse definire come giurisdizionale una tale funzione, perché non mirata alla tutela di diritti soggettivi
(a quel tempo la serie delle situazioni soggettive tutelabili era incentrata nel diritto soggettivo), vi era chi
aveva obiettato prontamente che la funzione giurisdizionale è più ampia e che essa poteva anche svilupparsi
nella tutela di un interesse alla legalità o comunque
nella tutela di un interesse pubblico, procurando una
protezione soltanto indiretta e mediata dei cittadini.
Si menzionava in proposito la giurisdizione penale: in
essa si tutela un interesse generale dell’ordinamento e
nondimeno essa è certamente una autentica funzione
di giurisdizione.
Sennonché il processo amministrativo (al di là di
una disputa che comunque aveva anche talora una dimensione solo nominalistica) è stato, sin da principio,
guidato lungo il sentiero della giurisdizione di diritto
soggettivo. La scelta fondamentale del legislatore era
infatti di delimitare il sindacato del Consiglio di Stato
ai motivi proposti dal ricorrente, al quale spettava, su
tutti, quel potere di rinuncia al ricorso che costituiva il
più illuminante esempio del principio dispositivo. Proprio questo tratto ha consentito di segnare una netta
distinzione tra funzione giurisdizionale e funzione di
controllo.
La Costituzione, all’art. 103, ha poi stabilito
che il Consiglio di Stato e gli altri organi della
giurisdizione amministrativa hanno giurisdizione
per la tutela di concreti e individuali interessi legittimi o diritti soggettivi. Sicché la giurisdizione
amministrativa è stata sino ad oggi quell’istituto e quella istituzione che ha il compito di tutelare i cittadini
che siano titolari di situazioni giuridiche soggettive
vere e proprie, si è ispirata al principio dispositivo ed
è proprio grazie a questo dato di partenza che essa si è
sviluppata in modo da raggiungere una tutela effettiva
di dette situazioni.
A ben vedere, il principio di effettività della tutela
giurisdizionale di cui agli artt. 24 e 113 Cost., le cui
2. Per ampi riferimenti a questo dibattito, cfr. V. CaianielManuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1994,
127 e ss. Su questo tema, cfr. altresì A. Police, Il ricorso di
piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, I, Padova,
2000, 47 e ss., il quale segnala come l’enfasi riposta sulla natura sostanzialmente oggettiva della giurisdizione amministrativa
(dovuta alla posizione di “libertà” che si intendeva riservare alla
amministrazione ed alla specialità che viceversa riguardava un
giudice posto comunque al di fuori della autentica funzione di
giurisdizione) sia stato sin dal tempo del discorso di Silvio Spaventa un elemento che veniva a connotare la giurisdizione amministrativa, sino a costituirne una sorta di “vizio d’origine”.
lo,
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declamazioni sono tanto giuste quanto abbondanti in
dottrina e giurisprudenza, si spiega sul piano e strutturale e funzionale solo se (e sempre che) si parta dal
presupposto che il processo serva a proteggere i singoli
anziché ad attuare la legalità in termini generali e assoluti. Tutela l’intera situazione soggettiva in modo pieno, ma solo quella, per dirla con Chiovenda. E questa
evoluzione, sia consentito dirlo, è avvenuta al di là delle
questioni interpretative che si sono continuate ad agitare circa il valore dell’espressione costituzionale che
parla di giustizia nell’amministrazione.
L’importanza del principio dispositivo e del suo
connubio con il principio dell’effettività della tutela
giurisdizionale va colta allora nei termini di una vera
architrave dello Stato liberale di diritto. Il principio dispositivo, infatti, è garanzia di una funzione giurisdizionale che, senza confondersi con l’amministrazione,
si pronunci solo sulle situazioni soggettive individuali.
È garanzia di un giudice che non venga ad espandersi
sino a farsi interprete delle esigenze della legalità al di
là della domanda di giustizia, o della buona amministrazione, o di un interesse pubblico indefinito. Impedisce che il giudice possa eventualmente dimenticarsi
di essere solo chiamato ad esercitare una funzione anziché essere investito di una missione.
L’equilibrio tra autorità e libertà nel rapporto tra
p.a. e cittadino è un risultato che la giurisdizione amministrativa deve saper assicurare. Proprio per questo,
però, il giudice dà ingresso solo a pretese individuali
che siano effettivamente tali, senza ammettere doglianze che si allarghino sino a reclamare la cura dell’interesse della legge; e sempre per questo il giudice evita
di farsi autorità e di farsi soggetto che venga a declinare le proprie visioni dell’interesse generale al di fuori
di una domanda di parte e soprattutto al di fuori di
una situazione giuridica soggettiva da tutelare e attuare
nell’ordinamento.
La giurisdizione di diritto oggettivo è allora
sostanzialmente scomparsa dal processo amministrativo italiano. È sopravvissuta solo in casi davvero marginali, come quello del processo nei confronti
dei regolamenti, perché il g.a. ha mantenuto fermo il
principio per cui l’accoglimento del ricorso provoca
l’annullamento del regolamento con effetti erga omnes;
e questo con la giustificazione che, altrimenti, visti i
limiti del controllo svolto dalla Corte costituzionale
solo sulle leggi, i regolamenti sarebbero andati esenti da ogni sindacato giurisdizionale di legittimità3. Ma
non è casuale che, proprio per poter mantenere l’uni3. Cfr. L. Mazzarolli, La giurisdizione sui regolamenti è di
diritto oggettivo?, Dir. proc. amm., 1998, 1 e ss. Sia consentito richiamare, anche per ulteriori citazioni, F. Cintioli, Potere
regolamentare e sindacato giurisdizionale, Torino 2007, in part.
233 e ss.
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tarietà della funzione di giurisdizione soggettiva, più
di un autore abbia proposto nella fase più recente di
congegnare il processo amministrativo sui regolamenti
in termini diversi, prevedendo la mera disapplicazione
del regolamento e l’annullamento del provvedimento
lesivo nei confronti del (solo) ricorrente e con un giudicato dagli effetti ad esso (solo) circoscritti4.
Pur essendo fortemente consolidata come giurisdizione di diritto soggettivo la giurisdizione amministrativa italiana e pur essendosi dichiaratamente ispirato
il nuovo codice del processo amministrativo (il frutto più recente di un corso storico ultracentenario) al
principio di effettività della tutela di diritti e interessi,
colpisce allora che il processo amministrativo abbia registrato tre scostamenti così visibili ed in un lasso di
tempo così breve.
3. L’idea di inserire il pubblico ministero
nel processo amministrativo
Detto questo, cerchiamo di spiegare meglio il perché
tali novità legislative evochino la giurisdizione
di diritto oggettivo.
Essa, quando si afferma con pienezza, possiamo
dire che presenterà i seguenti caratteri: (i) il primo e
più importante sta nel fatto che il giudice non tutela
unicamente situazioni soggettive individuali, bensì un
interesse generale, ad esempio quello alla legalità, o al
buon andamento e all’imparzialità dell’azione amministrativa, ovvero, per restare vicini al nostro tema, quello
alla tutela della concorrenza; in altri termini, non viene più in gioco un interesse legittimo, bensì è come
se rilevasse un interesse di mero fatto, ossia proprio
quell’interesse del quivis de populo, disseminato tra tutti
i cittadini, alla realizzazione di un interesse pubblico
generale, che sappiamo essere ammesso invece eccezionalmente nei soli casi tassativi di azione popolare
e pressoché esclusivamente nel caso del contenzioso
elettorale; (ii) il giudice non si pronuncia necessariamente solo sullo specifico vizio-motivo dedotto dal
ricorrente, ma spazia sino a ponderare l’interesse generale che viene in gioco secondo la volontà dell’ordinamento; (iii) la sentenza del giudice non produce un
effetto che si limiti alla sfera giuridica del ricorrente,
perché si espande anche verso i terzi.
4. Cfr. A. Romano, Osservazioni sull’impugnativa dei regolamenti della pubblica amministrazione, Riv. trim. dir. pubbl.,
1955, 870; S. Baccarini, Il Consiglio di Stato folgorato sulla via
della disapplicazione dei regolamenti, Dir. proc. amm., 1993,
n. 569; A. De Roberto, Non applicazione e disapplicazione dei
regolamenti nella recente giurisprudenza amministrativa, in Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti, Atti del convegno
in Roma, Palazzo Spada 16 maggio 1997, in Quaderni del Consiglio di Stato, Torino, 1998, 11 e ss.; G. Vacirca, Appunti sulla
disapplicazione dei regolamenti illegittimi nel giudizio amministrativo, ivi, 241 e ss.
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Il caso della class action amministrativa rispecchia il
primo carattere ed in qualche misura anche il secondo.
Il caso delle sanzioni alternative il primo ed il secondo
carattere. Quello che esaminiamo in questo scritto attua certamente il primo carattere, indirettamente anche
il secondo, perché esso è imperniato sulla tutela della
concorrenza come interesse generale, ed eventualmente anche il terzo, lì dove l’oggetto della impugnazione
sia un regolamento o un atto amministrativo generale
(categorie che ci permettono certamente di attrarre il
fenomeno, ad esse sovente trasversale, della c.d. regolazione dei mercati).
Il conferimento ad AGCM della legittimazione ad
agire davanti al TAR trova, in verità, dei precedenti
in alcune iniziative legislative, non approdate all’esito
conclusivo, con le quali era stata prevista e inserita la
figura del pubblico ministero nel processo amministrativo. È infatti ragionevole, per spirito della legge e per
contenuti normativi, assimilare proprio a questi casi ed
a questo ricorrente dibattito la nostra novità.
Potremo allora ricordare che nel corso della XI legislatura era stato discusso presso la prima Commissione del Senato un disegno di legge governativo che
conferiva al Prefetto, di ufficio o su denuncia, il potere
di proporre ricorso al TAR competente per l’annullamento di un atto illegittimo, sempre che l’ente locale, preventivamente diffidato, non avesse provveduto a
revocare o modificare l’atto e sussistesse un interesse
pubblico alla rimozione dell’atto stesso. Inoltre il d.l.
8 marzo 1993, n. 54, art. 3, poi non convertito in parte
qua, ha attribuito al procuratore regionale della Corte
dei conti il potere in via autonoma di proporre ricorso
davanti al TAR avverso atti e provvedimenti delle p.a.,
in vista dell’interesse generale al buon andamento e all’imparzialità di esse, a tutela della legittimità dell’azione amministrativa e che potesse altresì resistere e intervenire nei
giudizi pendenti davanti a questo Tribunale, nonché a
proporre appello nei confronti delle sentenze di primo
grado.
Queste iniziative avevano suscitato un coro di critiche. In particolare, contro la seconda iniziativa, che
sembrava addirittura sganciare il ricorso del procuratore presso la Corte dei conti dalla deduzione di puntuali
motivi di ricorso, si opponeva che la giurisdizione amministrativa non può espandersi ad un sindacato pieno
che valga per interessi generali anziché per specifiche
situazioni soggettive e che varchi persino la griglia necessaria dei motivi puntualmente dedotti. Questa giurisdizione piena e sindacatoria sarebbe stata assimilabile
ad una funzione di controllo e suscettibile persino di
sconfinare nel merito dell’azione amministrativa, con
violazione dei limiti esterni della giurisdizione e con
compromissione dei criteri generali di divisione dei
poteri e della riserva di amministrazione rispetto alla
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Legittimazione a ricorrere del Garante della Concorrenza
giurisdizione. Sicché vi sarebbe stata una violazione
dell’art. 103 Cost., lì dove quest’ultimo assegna alla
giurisdizione il compito di tutelare unicamente situazioni soggettive, siano esse diritti soggettivi o interessi
legittimi. Si aggiungeva che il diritto di azione si sostanziava, in un caso del genere, quale vero e proprio
obbligo, con la conseguenza che, per un verso, avremmo avuto l’annullamento di atti amministrativi sì viziati ma se del caso anche vantaggiosi per la collettività
e, per altro verso, avremmo creato un enorme flusso di
ricorsi con un pericoloso intasamento nelle aule della
giustizia amministrativa.
È da dire che il contesto storico di quegli anni contribuisce a spiegare il perché di simili iniziative. La crisi
del sistema politico dei primi anni ’90 e la tendenza
ad assegnare ad organi indipendenti e non responsabili
politicamente compiti di tutela dell’interesse pubblico
sono due fattori che creavano un clima culturale indubbiamente propenso ad innovazioni di tal fatta.
Dal canto suo il dibattito non aveva soltanto ospitato critiche a queste idee ed il panorama era abbastanza
ampio al riguardo. Così vi era anche chi aveva invece
esplicitamente auspicato che fosse istituita, appunto, la
figura del p.m. presso il giudice amministrativo5. Questo
avrebbe accentuato il connotato sociale della giustizia
amministrativa.Vale a dire che il g.a. avrebbe così ancor
meglio esercitato anche una sorta di funzione sociale,
a tutela dell’interesse generale, garantendo il corretto
esercizio del potere pubblico; un potere che, per sua
definizione, non interessa unicamente il singolo cittadino il quale decidesse eventualmente di intraprendere
la via del ricorso, ma l’intera collettività. Il g.a. avrebbe
così coperto una serie di illegittimità altrimenti non
rilevabili, garantendo una correzione del potere pubblico nella sua accezione meta-individuale nonché una
esigenza di giustizia che le vicende di vita avrebbero
reso sempre più evidente. Il fondamento costituzionale
di siffatta proposta era rinvenuto nell’art. 108, il quale
impone che la legge assicuri l’indipendenza dei giudici
delle giurisdizioni speciali e del pubblico ministero presso di
esse.
Questa tesi trovava poi una correzione (ed una
giustificazione) quando rilevava che una simile innovazione sarebbe stata utile anche a causa della limitata
prospettiva di indagine che continuava a caratterizzare il processo amministrativo (di quel tempo) come
processo sull’atto. L’ingresso del pubblico ministero
sarebbe stato uno strumento utile per conferire al
sindacato del giudice amministrativo una profondità
maggiore; una valutazione a tutto campo del pro-
blema della legittimità avrebbe comportato una più
attenta valutazione del rapporto sostanziale tra amministrazione e cittadino.
A quest’ultimo proposito, sappiamo però quanti
passi avanti siano stati fatti e sappiamo che, perlomeno
dalla l. n. 205 del 200, è stata conclamato nell’ordinamento il principio e la regola di fondo per cui il
processo amministrativo non è unicamente processo
sull’atto, ma è anche processo di spettanza, che guarda
alla fondatezza della pretesa sostanziale.
Detto questo, unendoci alle critiche mosse contro
questi tentativi di introdurre un p.m. nel processo amministrativo, deve obiettarsi che questa proiezione del
sindacato giudiziale amministrativo verso traguardi di
socialità è esattamente quel che al giudice amministrativo deve ritenersi inibito. Ed è, siffatta accezione sociale,
quel che il principio dispositivo, nella sua genuina origine liberale, rifiuta. La giurisdizione amministrativa non
serve tout court ad orientare l’azione amministrativa verso
la legalità, né serve ad assicurare l’attuazione in termini
generali dei principi di imparzialità e di buon andamento. La giurisdizione amministrativa non può sindacare
l’azione amministrativa utilizzando parametri così sfumati e generali (recte: generici) al di fuori di una concreta
vicenda di vita e di una lesione altrettanto concreta ad
una situazione soggettiva tutelata. Se lo facesse, tra l’altro, sarebbe anche inevitabile il passaggio al sindacato del
merito puro dell’attività amministrativa. Il compito immediato della giustizia amministrativa non è, insomma,
quello di assicurare obiettivi generali di giustizia, legalità
o miglior cura dell’interesse generale (si scelga l’espressione che si preferisce) in modo assoluto, capillare, totalizzante. Il suo compito è invece quello di assicurare
la protezione dei diritti ed interessi dei singoli, quando
tali interessi abbiano raggiunto la soglia della situazione soggettiva tutelabile e quando, dunque, abbiano quei
connotati giuridici cui è ancorata la legittimazione. Che
possa residuare aliunde una fetta (anche purtroppo vasta)
di azione amministrativa illegittima è nella natura delle
cose e sono altri i rimedi cui l’ordinamento si affida per
porvi rimedio, nella consapevolezza che l’obiettivo della
legittimità in senso assoluto è una utopia; una utopia
che, coltivata con eccesso di convinzione, aprirebbe le
porte persino ad accenti autoritari nella concezione ed
attuazione della funzione di giurisdizione.
Questo ragionamento, sia concesso precisarlo, non
vuole negare ed anzi è in simbiosi con quella linea di
pensiero che ammette che nella giurisdizione amministrativa permanga una connotazione parzialmente oggettivistica della tutela6. Questo perché l’interesse legittimo,
5. Cfr. C. Biagini, Istituzione del pubblico ministero presso il
Consiglio di Stato e presso i Tribunali amministrativi regionali, in
Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, III, 1715
e ss., Roma, 1981.
6. Per questo tipo di notazioni, cfr. A. Romano, I caratteri
originari della giurisdizione amministrativa e la loro evoluzione,
Dir. amm., 1995, 670 e ss.
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essendo quella situazione soggettiva che dialoga con il
potere pubblico e con esso si confronta, si misura con
un effetto giuridico (quello che si connette appunto
al potere pubblico) che per sua natura ha pur sempre
una portata generale e meta-individuale. Come è stato
detto in dottrina, è pur sempre il potere amministrativo
che funge da ineliminabile fattore di collegamento tra
la lesione dell’interesse individuale e la violazione delle
norme di azione.
4. Metodo di interpretazione ed art. 21 bis
Il confronto con questi precedenti può essere utile
per un primo inquadramento dei nuovi poteri assegnati ad AGCM. Per alcuni aspetti si possono riscontrare evidenti similitudini; per altri aspetti rilevanti
diversità.
Così come in alcune delle iniziative legislative del
passato, l’impugnazione è qui preceduta da una fase che
potremmo definire procedimentale e che si sostanzia
nell’emanazione del parere motivato nel quale vengono individuati in maniera specifica i vizi riscontrati. Si
tratta di una sollecitazione all’autotutela amministrativa, come si dirà, la quale raggiungerà il suo scopo allorquando l’amministrazione si conforma al parere.
Rispetto alle previsioni di quel decreto legge del
1993 che aveva affidato la legittimazione ad agire alla
procura contabile, il nuovo art. 21 bis segna invece una
decisa restrizione dei contenuti che l’impugnazione
può avere. Non si tratta più di una formula generale
come quella che pone l’accento sul mancato rispetto
dell’interesse generale all’imparzialità ed al buon andamento dell’azione amministrativa, né si può fare a
meno della deduzione di un apposito vizio-motivo. Per
la precisione, vi sono nell’art. 21 bis almeno tre profili
di specificità che meritano di esser sottolineati: (i) è
necessario, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, dedurre
un motivo e non è possibile invece richiamare un generico interesse alla tutela della concorrenza; (ii) il vizio
deve consistere nella violazione delle norme a tutela
della concorrenza e del mercato; (iii) il ricorso, anziché
buono alla tutela di qualsivoglia interesse pubblico, è
fondato sulla rilevanza e sulla constatazione della lesione di un ben determinato interesse di ordine generale
assunto dall’ordinamento, ossia quello che corrisponde
alla tutela della concorrenza e del mercato.
Questi elementi di specificità, tuttavia, non
escludono il carattere di giurisdizione di diritto
oggettivo, né i problemi di coerenza con il principio costituzionale di cui all’art. 103, secondo
il quale la giurisdizione amministrativa è funzionale
alla tutela di situazioni soggettive individuali e non di
interessi generali, per quanto essi siano di contenuto
delimitato. L’interprete non potrà non tener conto di
8
questo dato. Così come non potrà dimenticare le obiezioni da sempre sollevate contro l’idea di inserire un
p.m. nel processo amministrativo.
Tale premessa ci consente allora di suggerire una
interpretazione della norma che sia costituzionalmente
orientata. Essa pertanto dovrà sottolineare che la giurisdizione di diritto oggettivo resta una eccezione e che,
per altro verso, quegli elementi di specificità presenti
nell’art. 21 bis vanno certamente valorizzati, soprattutto lì dove possono giustificare un sia pur parziale richiamo al principio della domanda.
5. Il parere preventivo di AGCM e l’autotutela decisoria
Se, dunque, non sarà possibile circoscrivere in capo
ad AGCM una situazione soggettiva in senso proprio,
perché questo significherebbe concedere tanto alla
nozione da renderla del tutto evanescente e priva di
rilevanza classificatoria (non basta certo la missione
istituzionale di tutela della concorrenza a far sorgere
una messe di posizioni soggettive rispetto a tutti gli atti
amministrativi che si pongano in contrasto col libero
mercato), si dovrà nondimeno verificare in qual misura
le indicazioni della norma potranno reagire sulla configurazione di questo modello processuale. Seguono,
dunque, alcune considerazioni, le quali, essendo fatte a
prima lettura, non hanno ovviamente ancora scontato
le prime verifiche della giurisprudenza.
Anzitutto, è stato notato da subito che l’art. 21 bis
afferma al comma 1 la legittimazione dell’Autorità,
mentre al comma 2 descrive un meccanismo che si
snoda attraverso: la previa emanazione di un parere, la
possibilità che l’amministrazione vi si conformi ed infine, in caso di persistente difformità, l’impugnazione di
AGCM. Sia per l’opportunità di una lettura sistematica
dell’intero articolo, sia perché confacente al più razionale disegno dei termini per ricorrere, in questo scritto si parte dal presupposto che i due commi debbano
esser letti congiuntamente e che, pertanto, la disciplina
della speciale legittimazione affermata nel comma 1 sia
quella contenuta dal comma 2.
In primo luogo, il parere serve a stimolare
l’esercizio del potere con cui la p.a. potrebbe
conformarsi alle indicazioni di AGCM. Benché
non vi sia una esplicita indicazione testuale, parrebbe che tale potere sia quello di autotutela, per
necessità di ordine sistemico e di coerenza con
i principi generali.
Avremo, perciò, che tra le due figure previste, rispettivamente, dagli artt. 21 quinquies e 21 nonies della
l. n. 241 del 1990, sarà la seconda a venire in rilievo.
Sicché l’amministrazione dovrà appurare, al di là della sollecitazione proveniente dall’Autorità, se esistono
Il nuovo diritto amministrativo 2/2012
Legittimazione a ricorrere del Garante della Concorrenza
oppure no i requisiti prescritti dalla legge per un legittimo esercizio dei poteri di annullamento d’ufficio. La
norma, come sappiamo, allude a circostanze attinenti
alla data di emanazione dell’atto, agli effetti che abbia
prodotto, al coinvolgimento delle posizioni soggettive di terzi, all’affidamento che sia stato eventualmente
ingenerato, all’interesse pubblico in gioco; in sintesi,
quell’insieme di valutazioni, guidate sul sentiero della
ragionevolezza, che possono essere ancor oggi sintetizzate nella formula tradizionale della necessaria ponderazione dell’interesse pubblico attuale e concreto ad
annullare. Se i requisiti non sussistono, la p.a. non si
conformerà, salvo l’obbligo di pronunciarsi motivatamente; obbligo di provvedere il quale di solito (si noti)
non si accompagna alle istanze volte a stimolare l’autotutela e che però in questo caso sembra potersi fondare
eccezionalmente sulla legge.
Quando la p.a. non si sia conformata, AGCM potrà
agire. Ci si deve chiedere, però, se il ricorso possa essere accolto anche quando la valutazione
della p.a. circa la sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 21 nonies sia stata negativa, appositamente motivata e soprattutto fondata. La risposta
che sembra preferibile è che in tal caso il ricorso non
possa trovare accoglimento, quand’anche vi sia stata, a
suo tempo, una violazione delle predette norme. Se infatti classifichiamo il conformarsi dell’amministrazione
destinataria del parere di AGCM come un fenomeno
di autotutela decisoria, avremo che, una volta accertato che non esistono i presupposti di legge per il suo
esercizio, anche il potere di ricorso di AGCM dovrà
arrestarsi di fronte a questo dato. Altrimenti, avremmo
riconosciuto alla speciale legittimazione dell’Autorità
una forza che nessun’altra forma di ricorso possiede e
che oltretutto sarebbe in evidente distonia con irrinunciabili esigenze di interpretazione sistematica. Pertanto,
quando la p.a. decida di non conformarsi e lo faccia
con una motivazione nella quale ponga in rilievo la
carenza dei presupposti ex art. 21 nonies, l’Autorità potrà evidentemente agire, ma il giudice, quando ritenga
fondata una tale valutazione amministrativa, dovrà rigettare il ricorso.
È chiaro in proposito che l’interesse pubblico attuale e concreto che l’amministrazione avesse posto a
base della sua decisione ben potrebbe essere (e molto
probabilmente sarà) diverso da quello alla tutela della
concorrenza. Ma questa circostanza non smentisce affatto il ragionamento, a meno di accettare l’originale
idea che l’ordinamento voglia dare a tale ultimo interesse una sorta di inedito primato su tutti gli altri interessi generali nel sistema. Gli interessi pubblici, quelli
di portata generale, così come i corrispondenti valori
costituzionali, vanno invece tutti nel contempo attuati e, quando nasce un problema di reciproca frizione,
Il nuovo diritto amministrativo 2/2012
vanno tra di loro contemperati, negando la possibilità
che uno di essi sia invece suscettibile di una sorta di
protezione assoluta.
Questa limitazione al potere-dovere di conformarsi
dell’amministrazione e la corrispondente limitazione
della chance di agire con successo davanti al giudice
amministrativo è confortata altresì dalla considerazione
che l’art. 21 bis confeziona per il ricorso di AGCM un
termine di decadenza ad hoc: trenta giorni dalla scadenza dei sessanta dalla comunicazione del parere. In linea
di principio questo sistema potrebbe spostare il termine di decadenza anche molto in avanti a beneficio di
AGCM, la cui facoltà di attivarsi inviando un parere
motivato non è a sua volta subordinata ad un termine
ad hoc. A quanto pare non varrebbe per questo speciale
ricorso il termine che vale invece per tutti gli altri soggetti che intendessero agire.
A ben vedere, il richiamo all’art. 21 nonies ed alla ragionevolezza del termine entro cui l’annullamento d’ufficio può intervenire ben potrebbe essere un rimedio
ad una anomalia altrimenti troppo dirompente, atteso
che il termine processuale di decadenza salvaguarda una
fondamentale esigenza di certezza che deve assistere le
determinazioni della p.a., nell’interesse generale dell’ordinamento ed oltretutto in coerenza con altrettante
indicazioni del diritto comunitario7. Sicché, seguendo
questo ragionamento, quando AGCM si attivasse troppo tardi nel tempo con il suo parere, l’amministrazione
potrebbe (e dovrebbe) obiettare che è ormai decorso il
termine ragionevole di cui parla l’art. 21 nonies.
In definitiva, il ricorso al regime dell’annullamento d’ufficio consentirebbe di sostituire il predetto termine ragionevole al termine di decadenza
processuale e per questa via si troverebbe una comunque indispensabile armonia sistematica.
L’unica alternativa sarebbe forse quella di ritenere
che, nonostante il silenzio del legislatore ed il riferimento espresso dell’art. 21 bis ad un termine di trenta
giorni, il termine ordinario di decadenza decorrente
dalla conoscenza del provvedimento debba in ogni
caso applicarsi ad AGCM in via di interpretazione integrativa.
Il ragionamento testé svolto è altresì confermato
dal fatto che non è descritto nella previsione dell’art.
21 bis l. n. 287 del 1990 un automatismo tra mancata
conformazione al parere ed azione di AGCM. Si scrive
che l’Autorità può presentare il ricorso. Sicché l’Au-
7. Sulla perfetta e naturale compatibilità con il diritto comunitario e, segnatamente, col principio di effettività della tutela
dei diritti derivanti dall’ordinamento comunitario nei confronti delle amministrazioni degli Stati membri, della previsione di
un termine di decadenza processuale, cfr. Corte di giustizia CE,
Universale Bau, 12 dicembre 2002, C-470/99, nonché Santex
27 febbraio 2003, C-327/00, in Urb. app. 2003, 649.
9
sezione prima
I grandi temi
torità potrà anche condividere le considerazioni della
p.a. circa l’assenza dei requisiti del citato art. 21 nonies e
determinarsi a non agire.
Parimenti, il verbo potere lascia pensare che il legislatore, anche al di fuori della disciplina sull’annullamento d’ufficio, abbia inteso lasciare alla p.a. uno
spazio di valutazione sul merito della contestazione ed
una corrispondente facoltà di rifiuto che sia motivato
mediante argomentata replica alle obiezioni dell’Autorità. In altre parole, la p.a. potrebbe ritenere che non
vi sia la violazione delle norme sulla concorrenza, che
la posizione assunta nel parere non sia fondata e che
quindi non ci si debba conformare ad essa. Di fronte a siffatta valutazione, AGCM dovrà effettuare una
scelta. Potrà decidere di agire, ma potrà anche ritenere
di modificare la propria posizione. A parte il caso, indubbiamente difficile a verificarsi, in cui AGCM venga
convinta dall’amministrazione e voglia così modificare
la posizione assunta già nel parere, potrebbero emergere elementi di fatto ed acquisizioni istruttorie nuovi e
tali da poter indurre l’Autorità a modificare il proprio
avviso.
Il fatto che dal parere di AGCM nasca, come detto,
in capo alla p.a. un obbligo di provvedere e quindi di
aprire un procedimento amministrativo volto a decidere sulla possibilità di pronunciare un annullamento
d’ufficio, è una circostanza inedita, dato che l’avvio del
potere di autotutela decisorio non è obbligatorio per la
presentazione di una istanza esterna8. Proprio per questo deve escludersi che il privato possa, magari accostando la sua iniziativa a quella dell’Autorità, anch’egli
denunciare la violazione di norme sulla concorrenza
provocando l’obbligo di pronunciarsi della p.a. e magari per questa via garantirsi una impropria riapertura del termine di impugnazione che fosse già scaduto,
imbastendo una azione contro il silenzio. L’obbligo di
pronunciarsi e di valutare i presupposti per l’autotutela
amministrativa riguarda perciò solo il rapporto tra p.a.
ed AGCM, la quale potrà allora dirsi, per questo limitato profilo, titolare di una pretesa tutelata a che la prima
si esprima sulla vicenda.
6.L’archiviazione di AGCM
L’Autorità non può comunque agire senza attivare
la fase procedimentale preliminare. Qualora non vi
8. Che dall’istanza volta a suscitare il potere di autotutela
decisoria non derivi un obbligo a provvedere, tale da fondare
i presupposti per agire contro il silenzio della P.A. è principio
pacifico. Tra i vari riferimenti, per un tentativo di rivedere la
portata di tale principio in relazione al solo istituto della revoca
e, si noti, sulla base di un suo diverso ancorarsi al principio di
efficacia dell’azione amministrativa anziché agli istituti dell’autotutela, M. IMMORDINO, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell’affidamento, Torino, 1999.
10
ottemperasse, il relativo ricorso sarebbe inammissibile, per carenza di un vero e proprio presupposto
processuale.
Si deve adesso spostare l’attenzione sulla
posizione dell’Autorità rispetto alla violazione
delle norme sulla concorrenza che essa abbia
occasione di rilevare, d’ufficio o anche su segnalazione di un interessato.
La norma parrebbe compatibile con un vero e proprio obbligo di attivarsi (emette un parere motivato),
il che toglierebbe discrezionalità all’Autorità. Sicché
quando la violazione si ritenga sussistente, non si potrà
far altro che emanare il parere. Questa interpretazione
sembra plausibile, anche se va raccordata con l’esigenza
di evitare prassi che abbiano ricadute gravi sul funzionamento e sull’operato di una istituzione che ha molte
altre e rilevanti missioni da portare a compimento.Vale
anche per questa norma quindi l’evocazione dei rischi
di intasamento che si faceva, qualche decennio fa, a
commento delle disposizioni che volevano introdurre il p.m. nel processo amministrativo; un rischio che,
questa volta, sembra materializzabile non solo per il
giudice ma anche per l’autorità indipendente.
È comunque consuetudine di AGCM dare seguito
alle segnalazioni che abbia ricevuto, se del caso mediante una lettera di archiviazione. È pensabile che
questo varrà anche per questo genere di atti.
Quando, su sollecitazione di un privato, l’Autorità
fosse posta a conoscenza di una possibile violazione
delle norme sulla concorrenza ed il mercato e si decidesse di archiviare, si porrebbe poi l’ulteriore questione
se una tale archiviazione sia, a sua volta, impugnabile da
tale privato. A parte i problemi che riguardano la necessaria configurazione di una ordinaria legittimazione ad
agire del singolo e la previa e necessaria configurazione
di una posizione soggettiva nella sua titolarità, sembra
davvero difficile riconoscere gli spazi per una simile
iniziativa giurisdizionale: il privato, con ogni probabilità, sarà verosimilmente un soggetto già leso dall’atto
che si assume abbia violato norme sulla concorrenza
e sul mercato9. Sicché delle due l’una: o egli potrà ancora agire direttamente, impugnando personalmente
e per violazione di legge un tale atto amministrativo
davanti al TAR e questo renderà superflua ogni iniziativa contro l’archiviazione; oppure avrà omesso di farlo
9. Per un’impostazione favorevole ad ampliare i confini della
legittimazione ad impugnare gli atti dell’Autorità, a beneficio del
consumatore, cfr. A. Zito, Attività amministrativa e rilevanza
dell’interesse del consumatore nella disciplina antitrust, Torino,
1998, in part. 195 e ss.; cfr. altresì R. Lombardi, La tutela delle
posizioni giuridiche meta-individuali nel processo amministrativo, Torino, 2008; nonché R. Chieppa, La tutela giurisdizionale dei
controinteressati rispetto ai provvedimenti di archiviazione e di
autorizzazione dell’Autorità antitrust, in Concorrenza e mercato,
n. 12/2004, 137 e ss.
Il nuovo diritto amministrativo 2/2012
Legittimazione a ricorrere del Garante della Concorrenza
nel termine di decadenza ed allora l’ordinamento non
potrà consentirgli una impropria rimessione in termini
mediante l’impugnazione dell’archiviazione dell’Autorità e col fine di rimettere in moto, per volontà del
giudice, tutto il meccanismo di cui all’art. 21 bis; se poi
si trattasse di un atto amministrativo generale o di un
regolamento non ancora lesivo per la mancanza di un
atto applicativo, allora il privato interessato potrebbe
serenamente attendere l’atto applicativo di segno negativo ed impugnare, a quel tempo, quest’ultimo insieme
all’atto generale e/o alla norma di regolamento che lo
presupponga.
7. Interesse ad agire e giurisdizione oggettiva
La natura oggettiva di questa giurisdizione è destinata a riflettersi sull’assestamento di una serie di istituti
processuali.
Perché un ricorso possa dirsi ammissibile
contro un provvedimento amministrativo sono
richiesti: (i) una posizione differenziata e la corrispondente legittimazione ad agire; (ii) un interesse ad agire quale ulteriore condizione dell’azione; (iii) un interesse legittimo, quale posizione
soggettiva sostanziale.
Ebbene, nel nostro caso il primo requisito è sostituito dalla volontà della legge, che conferisce all’Autorità
la legittimazione ad impugnare. Resta da accertare se
nella nostra vicenda siano richiesti e se quindi debbano
essere verificati gli altri due requisiti.
La risposta dev’essere negativa. Non è possibile ritenere che l’Autorità, in quanto tale, sia titolare di un
interesse legittimo in senso proprio, potendo (e dovendo) attivarsi per la tutela e realizzazione di un interesse
generale alla concorrenza che, per un verso, finisce per
coincidere con una sommatoria di interessi di mero
fatto ascrivibili alla collettività e, per altro verso, restando così generico, non soddisfa di certo i caratteri
di una situazione soggettiva imputabile ad un soggetto
di diritto.
Nel contempo, quasi come una conseguenza inevitabile, sfuma nel rapporto processuale che contraddistingue questo peculiare diritto di azione di AGCM
anche l’interesse ad agire. L’interesse ad agire è personale, attuale e concreto. Sono, questi, caratteri che
non si addicono all’azione di un ente pubblico che sia
chiamato all’attuazione della legge (le norme a tutela
della concorrenza) anziché alla realizzazione di propri
interessi. AGCM agisce, appunto, come una sorta di
p.m. e per la realizzazione dell’interesse generale alla
concorrenza.
Se nascesse la tentazione di sostenere che in questo modello è pur sempre presente l’interesse legittimo,
Il nuovo diritto amministrativo 2/2012
personificato in capo ad AGCM quale ente collettivo
(sulla falsariga della costruzione che dato ingresso agli
interessi diffusi nel processo amministrativo), probabilmente avremmo concesso così tanto alla nozione da
privarla di qualsiasi contenuto giuridicamente rilevante. AGCM non è parte del rapporto con l’amministrazione. AGCM non fa valere situazioni soggettive
proprie. Per concludere in questo senso basta il riferimento, da una parte, alle previsioni della norma ed
ai lavori preparatori, e, dall’altra parte, alla nozione di
situazione soggettiva e di interesse legittimo. Non vi è
neppure bisogno, allora, di allargare il discorso, sino a
ricordare, ad esempio, che le autorità indipendenti, in
quanto ricomprese nello Stato-comunità anziché nello
Stato-apparato, non possono vantare la suitas di un interesse pubblico dato né possono corrispondentemente sostenere una peculiare e individuale posizione di
interesse10.
Una volta accettata questa premessa, avremo che
l’azione può dispiegarsi senza che sussista l’interesse
al ricorso quale sua condizione. Ne segue ulteriormente che la tradizionale analisi sulla lesività dell’atto
amministrativo non dovrà neppure essere esercitata.
Questa circostanza potrebbe produrre rilevanti effetti
nel caso di impugnazione di regolamenti o di atti
amministrativi generali. Per essi, infatti, vale la regola per cui l’impugnazione potrà essere immediata a
diretta solo quando (e nei rari casi in cui) abbiano i
caratteri della volizione-azione, ossia manifestino una
speciale attitudine, per via del loro contenuto, ad incidere immediatamente nella sfera giuridica di un
determinato soggetto. Quando invece si tratti di volizione-preliminare, l’impugnazione dovrà esser rivolta
di necessità contro l’atto applicativo del regolamento o dell’atto generale, unitamente a quest’ultimo11.
Ebbene, questa distinzione, nel nostro caso, sembra
non doversi più applicare, sicché tutti gli atti generali
acquistano, rispetto ad AGCM, i tratti della volizioneazione e diventano suscettibili di impugnazione.
Questa affermazione potrebbe produrre conseguenze rilevanti nella prassi, soprattutto per il caso dei
bandi di gara e lettere-invito (e quindi per la lex specialis
di gara) nei procedimenti di affidamento di contrat10. Considerazione specifica, per la quale rinvio a A. Romano
Situazioni soggettive delle amministrazioni indipendenti, in Annuario AIPDA 2002, Milano 2003, 305 e ss., ed anche
in Dir. amm., 2002, 459 e ss.; in particolare a pag. 316-318,
ove ritiene che le autorità abbiano una legittimazione “mista”:
in parte fondata sulla competenza soggettiva (“in senso weberiano”) del decidente ed in parte sul criterio oggettivo della
legittimazione procedimentale.
11. Per un’ampia illustrazione di questa distinzione, sia consentito rinviare al mio Potere regolamentare e sindacato giurisdizionale, 236 e ss., ed alle ampie citazioni ivi contenute di
A. Romano, Osservazioni sull’impugnativa dei regolamenti cit.,
881.
tassone,
11
sezione prima
I grandi temi
ti pubblici. È noto che, secondo la giurisprudenza, le
clausole del bando sono immediatamente impugnabili
solo quando hanno un effetto escludente per il partecipante, mentre per tutte le altre il ricorso è proponibile solo rispetto all’atto che chiude la successiva fase
procedimentale e sempre che effettivamente esso abbia segno negativo per il singolo soggetto interessato.
Viceversa, AGCM potrebbe impugnare, da subito, tutte le clausole del bando. Questo, perlomeno, vale dal
punto di vista dell’analisi dell’interesse ad agire e della
c.d. lesività del provvedimento. Altro discorso è, invece,
quello che attiene al vizio-motivo ed alla effettiva ricorrenza di una violazione delle norme poste a tutela
della concorrenza. Per tale profilo si rinvia ai prossimi
paragrafi (infra, sub. 13).
Deve aggiungersi che l’irrilevanza dell’interesse ad
agire potrebbe condizionare notevolmente l’eventuale
domanda cautelare che AGCM intendesse proporre davanti al TAR. Infatti il requisito del periculum in mora si
gioca e si apprezza soprattutto in funzione del concreto
interesse al ricorso. L’Autorità si potrebbe trovare allora
nella condizione di non poter facilmente dimostrare di
avere integrato questo requisito. Potrebbe venire, forse,
in rilievo il pericolo di danno alla struttura del mercato
concorrenziale intesa in senso oggettivo, che già rileva
quale presupposto per l’adozione di misure cautelari
(amministrative) antitrust da parte dell’Autorità ex art.
14 bis della l. n. 287 del 1990. Anche tale requisito però
è di incerta consistenza (v. infra par. 14) e di non agevole prova in sede processuale.
8. Irricevibilità, rinuncia al ricorso, cessata materia del contendere ed improcedibilità
Se, dunque, non sembra possibile una pronuncia giudiziale di inammissibilità per originario difetto di interesse ad agire, è plausibile, invece, una dichiarazione
di irricevibilità, dato che il termine di 30 giorni prescritto dall’ultimo periodo del comma 2
dell’art. 21 bis sembra avere i caratteri della decadenza processuale.
Il ricorso, poi, dovrebbe essere rinunciabile da parte
di AGCM. Posto che il recupero possibile (e parziale
ovviamente) dei connotati della giurisdizione di diritto
soggettivo è sempre da auspicare, non si vede perché
debba considerarsi irretrattabile la decisione di AGCM
di proporre il ricorso. Potrebbe l’Autorità, teoricamente, tornare sui suoi passi e ritenere che, a ben vedere,
l’ipotizzata violazione delle norme sulla concorrenza
non si sia integrata.
Il ricorso potrebbe essere poi dichiarato inammissibile qualora l’Autorità formulasse un vizio motivo
che non corrisponde alla violazione delle norme a tutela
12
della concorrenza e del mercato. Infatti, la legittimazione di
AGCM, proprio perché ha carattere eccezionale, non
può estendersi al di fuori dei casi espressamente previsti dalla norma in esame. Non stiamo alludendo al caso
della infondatezza del vizio-motivo, che provoca una
decisione di rigetto, bensì alla deduzione di un viziomotivo diverso da quello ammesso dalla legge. Posto
che la legittimazione ad agire oggettiva attribuita ad
AGCM ha sicuramente carattere eccezionale, quando
fosse esercitata oltre i confini segnati dalla norma, il
giudice dovrebbe arrestarsi ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso per carenza della legitimatio ad
causam.
Del pari, potrebbe inserirsi tra gli sbocchi di un
tale processo la dichiarazione di cessata materia del
contendere, per l’eventualità che la p.a. emanasse un
nuovo atto che sia satisfattivo dell’interesse generale
fatto valere da AGCM. Quest’ultimo, infatti, elimina
la violazione, dando luogo al conformarsi dell’amministrazione, sia pur tardivo, all’orientamento espresso
dall’Autorità.
Più difficile è stabilire se sia altresì configurabile una sentenza che dichiari la improcedibilità
del ricorso per via dell’emanazione di un nuovo provvedimento amministrativo che genera la
medesima violazione della concorrenza che già
aveva indotto AGCM ad agire contro il primo
atto. Se accettiamo l’idea che l’interesse ad agire sia
al di fuori del campo di osservazione dell’interprete
e quindi estraneo alle condizioni dell’azione (le quali,
diversamente dai presupposti processuali, si ricorda che
devono sussistere lungo tutta la durata del processo), allora potremmo avere difficoltà a configurare una simile dichiarazione di improcedibilità. Infatti, si potrebbe
obiettare che la circostanza che sopravvenga una nuova
violazione non elimina l’interesse ad agire contro la
precedente, poiché esso non è richiesto come tale e
poiché residuerebbe lo scopo di favorire una pronuncia che, nell’interesse generale alla concorrenza, accerti
comunque che quel provvedimento è stato posto in
violazione di certe norme e che per questo vada annullato.
Tuttavia, quando la violazione delle norme sulla
concorrenza sia sostanzialmente identica alla prima e
sia commessa dalla medesima amministrazione con un
proprio atto (ad esempio l’emanazione di un nuovo
regolamento o di un bando, sostitutivo del precedente,
che reitera la violazione de qua), potrebbe forse sostenersi che il modello della improcedibilità possa essere
replicato. Benché il concetto di interesse ad agire sia
qui solo virtuale, per le ragioni anzidette, si potrebbe
configurare un onere di AGCM di impugnare anche
il secondo atto amministrativo, pena la improcedibilità
del ricorso proposto contro il precedente. L’interesse
Il nuovo diritto amministrativo 2/2012
Legittimazione a ricorrere del Garante della Concorrenza
ad una tempestiva impugnativa contro gli atti della
p.a. permane anche rispetto ad AGCM, com’è ovvio e
com’è confermato dal medesimo art. 21 bis, così come
permane l’istituto della inoppugnabilità degli atti amministrativi. Sicché potrebbe tentarsi di configurare i
margini per lasciar vivere l’istituto della improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse nei termini
così delineati. Come già sostenuto nei paragrafi precedenti, la giurisdizione di tipo oggettivo è eccezionale
ed è, anzi, un vulnus rispetto all’armonia del sistema
ed ai principi di fondo disegnati in Costituzione, per
cui è da favorire un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 21 bis, la quale, quando possibile,
sciolga i nodi e chiarisca i dubbi in modo da conservare gli istituti tipici del processo amministrativo (e che
testimoniano la sua natura prettamente soggettiva).
Infine, la legittimazione ad impugnare implica anche una legittimazione ad appellare. Più delicato è stabilire se la norma abbia voluto concedere ad AGCM
anche una legittimazione a proporre appello contro
una sentenza di primo grado che sia stata pronunciata
in un processo cui l’Autorità sia rimasta estranea. Da
un certo punto di vista, la mancanza di un dies a quo
severo nell’art. 21 bis e l’apparente possibilità di agire
anche dopo un cospicuo periodo di tempo dall’emanazione dell’atto lasciano pensare che una tale strada sia
percorribile. Da un altro punto di vita, però, l’eccezionalità della norma, il suo tenore testuale e la difficoltà
di incrociare il complesso congegno procedimentale
dell’art. 21 bis con un processo già pendente fanno
propendere per la soluzione negativa.
9.Il contenuto del ricorso. La violazione
delle norme del TFUE sulla concorrenza
È adesso il momento di concentrare l’attenzione sul
contenuto del ricorso. La legittimazione dell’Autorità
è infatti circoscritta, sotto pena di inammissibilità come
si è detto, alla possibilità di dedurre una ben precisa
categoria di vizio-motivo, consistente nella violazione
delle norme a tutela della concorrenza e del mercato.
Anzitutto, parrebbe che esso corrisponda ad un
sottotipo di uno dei tre generali vizi di legittimità, ossia
ad un sottotipo della violazione di legge. Sicché
sarebbe estraneo all’impugnazione in questione quel
particolare vizio che consiste nell’eccesso di potere.
Tuttavia, nell’ambito del concetto di legge sono
compresi anche i principi generali, parte integrante del
diritto positivo. Ne segue che anche la loro violazione, quando possa nel contempo qualificarsi alla stregua
della violazione di norme a tutela della concorrenza e del
mercato, dovrebbe poter esser ricompresa nel viziomotivo a disposizione dell’Autorità. Questo assunto
finisce, a ben vedere, per avvicinare potenzialmente
Il nuovo diritto amministrativo 2/2012
questo tipo di doglianza all’eccesso di potere. Questo
è anche conseguenza della progressiva erosione della
linea di discrimine tra i due vizi di legittimità, in atto
da molto tempo, e soprattutto della tendenziale assimilazione dell’eccesso di potere al vizio consistente nella
violazione dei parametri generali di ragionevolezza e
proporzionalità dell’azione amministrativa. In breve,
nonostante la puntualizzazione legislativa, per la via
dei principi generali il sindacato richiesto da AGCM
potrebbe anche finire per lambire la sfera del merito e
sovrapporsi a profili che tradizionalmente appartengono alla figura dell’eccesso di potere. Questa circostanza induce a considerare con ancora maggior cautela
i confini del concetto di violazione delle norme a tutela
della concorrenza e del mercato, confini sui quali dobbiamo ora soffermarci.
In verità, il problema interpretativo è serio e non
facile da risolvere. Non esistono dati univoci che ci
consentano di dire quando una siffatta violazione sia
stata effettivamente maturata. In attesa di verificare
quali saranno le scelte della giurisprudenza, possiamo
intrattenerci su alcune possibili e plausibili soluzioni.
La prima possibilità è di guardare agli artt. 101 e
102 del Trattato sul funzionamento UE, i quali, disciplinando rispettivamente l’intesa anticoncorrenziale e
l’abuso di posizione dominante, rappresentano le principali direttive dell’azione antitrust in ambito europeo.
Sennonché queste disposizioni possono costituire
solo un elemento di orientamento e non possono esaurire la ricerca delle norme a tutela della concorrenza e del
mercato. Infatti, la loro violazione (recte: la commissione di
quei comportamenti che esse considerano come illeciti)
è già presidiata da un autonomo sistema di reazioni disciplinate puntualmente dall’ordinamento, e comunitario
e nazionale. Sul piano dei rapporti contrattuali e dell’illecito civile è prevista la giurisdizione del g.o. dall’art. 33
l. n. 287 del 1990. Sul piano del public enforcement, invece,
l’Autorità è chiamata, nel quadro del network disciplinato
dal regolamento n. 1 del 2003, ad attivare i suoi poteri di
accertamento e sanzionatori, sicché non v’è spazio per
inserirvi una simile impugnazione.
Nondimeno, come si dirà tra un attimo, gli artt.
101 e 102 e soprattutto l’insieme di principi ed interpretazioni che su di essi si sono formati costituiscono un punto di riferimento che ben potrebbe guidare
l’interprete, se non altro per delineare la tipologia di
violazioni e di comportamenti che sono rilevanti per
l’interesse generale alla concorrenza.
10. Segue. La violazione del divieto di aiuti
di Stato
Piuttosto, è da chiedersi se, con una espressione così ampia, il legislatore non abbia voluto
13
sezione prima
I grandi temi
affidare ad AGCM il potere di impugnare atti
amministrativi che si pongano in contrasto con
il divieto di aiuti di Stato di cui agli artt. 107 e
ss. del Trattato.
Il tema è complesso e richiede una valutazione più
attenta. D’altra parte, è sicuramente di grande interesse,
anche per la rilevanza che la disciplina sugli aiuti è andata assumendo specie in questa stagione di crisi.
A prima vista esiste un ostacolo di fondo, che deriva dal fatto che la competenza volta a stabilire se un
aiuto sia compatibile con la libera concorrenza e con
le regole di buon funzionamento del mercato interno è
saldamente ancorata in capo alla Commissione e non è
previsto per gli aiuti un sistema di decentramento delle
competenze come quello disciplinato dal regolamento
n. 1 del 2003 a proposito degli illeciti antitrust.
Questo dato in prima battuta sembra ostacolare
una interpretazione dell’art. 21 bis che miri a saldare
questa peculiare iniziativa contenziosa nazionale con la
disciplina sugli aiuti di Stato.
Anzitutto, però, questa proposta potrebbe validamente esser formulata per quelle fattispecie nelle quali
l’accertamento di incompatibilità dell’aiuto sia stato
già effettuato dalla Commissione e siano successivamente stati adottati atti amministrativi con esso contrastanti; si pensi, in particolare, al tema del recupero
dell’aiuto e ad eventuali provvedimenti che con esso
siano distonici. Un atto amministrativo che disponesse
in senso contrario al percorso segnato dall’obbligo di
recupero dell’aiuto sarebbe colpito da una illegittimità
per violazione di legge e, segnatamente, per violazione di norme a tutela della concorrenza, sicché AGCM,
che solitamente è estranea al campo di svolgimento di
questi rapporti e di queste tematiche, potrebbe tornare
in gioco mediante l’impugnazione dell’atto in questione. Questa eventualità si potrebbe altresì giustificare
per il fatto che, secondo la prevalente giurisprudenza
amministrativa nazionale, il provvedimento amministrativo che contrasta con una norma comunitaria non
è radicalmente nullo, né, secondo queste tendenze, è
disapplicabile nel contesto del processo amministrativo,
bensì è colpito da un vizio di violazione di legge che
lo rende annullabile.
A proposito di questa prima ipotesi di applicazione
dell’art. 21 bis al caso degli aiuti di Stato, v’è però da
ricordare che la forza della decisione di recupero è tale
da imporsi, di per sé, sino in fondo nell’ordinamento
nazionale, al punto di poter resistere persino alla eventuale formazione del giudicato, così come affermato
dalla Corte di giustizia nella nota sentenza Lucchini12.
L’utilità di una impugnazione davanti al TAR del prov12. Corte di giustizia CE 18 luglio 2007, C-119/05, in Riv. it.
dir. pubbl. com., 2007, 1075.
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vedimento amministrativo che ponesse un ostacolo
sulla via del recupero dell’aiuto potrebbe dirsi, allora,
piuttosto lieve, dato che tale provvedimento comunque non può produrre un effetto stabile che osti in via
definitiva al recupero stesso.
Ciononostante, non può ovviamente escludersi che
una eventualità di questo genere si possa verificare e
che possa determinare una utile applicazione dell’art.
21 bis.
Il profilo di maggior interesse è però un altro e
concerne un profilo della disciplina sugli aiuti di Stato
che è suscettibile di applicazione immediata, a prescindere dal filtro della Commissione.
Vi è una disposizione che consente infatti al giudice nazionale di adottare misure dirette a tutelare i diritti dei concorrenti che si assumano lesi dall’eventuale
violazione della disciplina sugli aiuti di Stato. Si tratta,
in particolare, della clausola di sospensione di cui all’art.
108, comma 3, altrimenti detta obbligo di standstill, secondo la quale: “Alla Commissione sono comunicati,
in tempo utile perché presenti le sue osservazioni, i
progetti diretti a istituire o modificare aiuti. Se ritiene
che un progetto non sia compatibile con il mercato
comune a norma dell’art. 107, la Commissione inizia
senza indugio la procedura prevista dal paragrafo 2. Lo
Stato membro interessato non può dare esecuzione alle
misure progettate prima che tale procedura abbia condotto a una decisione finale”. Quest’ultimo inciso, per
la precisione, è suscettibile di applicazione diretta e fa
sorgere diritti individuali azionabili dalle parti interessate, tra cui i concorrenti del beneficiario. Costoro possono esercitare i loro diritti mediante azione esperita
davanti al giudice nazionale dello Stato membro che
abbia concesso gli aiuti, sia che siano aiuti non notificati sia che si tratti di aiuti sui quali non vi è stata una
decisione di esenzione o di compatibilità con l’ordinamento comunitario.
La giurisprudenza formatasi nel corso degli anni
su questo tema si trova riordinata (e così, in qualche
misura, “rilanciata”) in una recente Comunicazione
della Commissione (Comunicazione relativa all’applicazione delle norme sugli aiuti di Stato da parte
dei giudici nazionali, 2009/C 85/01). Con essa la
Commissione intende stimolare ed accrescere l’attenzione dei giudici nazionali per l’applicazione della disciplina sugli aiuti di Stato nei rapporti tra privati
e, più in generale, nei rapporti rimessi alla giurisdizione nazionale13.
13. Cfr. C. Schepisi (a cura di), La modernizzazione della disciplina sugli aiuti di Stato, Torino, 2011; in particolare, cfr., la
parte terza dedicata a Il rafforzamento del giudice nazionale e il
private enforcement, con contributi di L. Daniele, A. Adinolfi, S.
Amadeo, F. Spitaleri, C. Schepisi, F. Ferraro, 175 e ss.
Il nuovo diritto amministrativo 2/2012