Bibliografia e Fonti L`Esercito Italiano nella Grande Guerra (1915

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Bibliografia e Fonti L`Esercito Italiano nella Grande Guerra (1915
Bibliografia e Fonti
L’Esercito Italiano nella Grande Guerra (1915 – 1918) – volume III, Le operazioni
del 1916, Tomo 2° bis, (Documenti), Ufficio Storico S.M.E., Roma 1936;
L’Esercito Italiano nella Grande Guerra (1915 – 1918) – volume IV, Le operazioni
del 1917,Tomo 2°, Ufficio Storico S.M.E., Roma 1954;
L’Esercito Italiano nella Grande Guerra (1915 – 1918) – volume IV, Le operazioni
del 1917,Tomo 2°, (Documenti) Ufficio Storico S.M.E., Roma 1954;
Aldo Cabiati : Ortigara, Editore 10° Reggimento Alpini, Roma, 1934;
Como Dagna Sabina: Ortigara – per non dimenticare, Editori Liber, Milano, 1934;
Gatti Angelo: Caporetto – dal diario di guerra inedito (maggio-dicembre 1917),
Editrice Il Mulino, 1964;
Emilio Lussu: Un anno sull’Altipiano, Arnoldo Mondadori Editore, anno 1970;
Paolo Monelli: Le scarpe al sole: cronache di gaie e di tristi avventure di alpini di
muli e di vino, Arnoldo Mondatori Editore, 1955;
Emilio Faldella: Storia delle Truppe Alpine, Editore Cavallotti e Landoni, Milano,
1972;
Gianni Pieropan: Ortigara 1917: il sacrificio della Sesta armata, Editore Mursia,
1974;
Gianni Pieropan: 1917 Gli Austriaci sull’Ortigara, Arcana Editrice, 1983, Milano;
Antonino Di Giorgio: La Battaglia dell’Ortigara, Editore Ardita, Roma, 1935;
Adler Battistini: Ortigara - il Calvario degli Alpini, Editrice Narratori Moderni,
Bologna, 1967;
Ettore Milanesio: Battaglione Sette Comuni, a cura del 10° Reggimento Alpini,
Roma, 1934;
Schaumann Walter: La Grande Guerra 1915 – 1918: Prealpi venete e trentine,
Ghedina e Bassotti, Bassano del Grappa, 1984;
Volpato Paolo – Massimo Bonomo: La prima adunata degli Alpini – Ortigara, 6
settembre 1920, Tipografia Bonomo, Asiago;
Karl Schneller: 1916 Mancò un soffio, Mursia, 1984, Milano;
Cartografia dell’Istituto Geografico Militare: Tavoletta di Cima Dodici dell’anno
1917;
Documenti dell’Archivio storico del Museo Nazionale Storico delle Truppe Alpine di
Trento.
Ringraziamenti.
Ringrazio quanti hanno contribuito alla preparazione di questa mia conferenza e in
particolare l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, il Museo Nazionale
Storico delle Truppe Alpine, il Museo Provinciale della Grande Guerra di Gorizia, il
Centro Studi A.N.A. di Milano, il Museo di Canove, il dottor Luca Girotto di Borgo
Valsugana, il signor Luigi Menegotto, presidente onorario della Sezione ANA di
Marostica, il Dottor Massimo Bonomo e Paolo Volpato di Asiago e l’Archivio
Storico Dal Molin.
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Lettera testamento del sottotenente Ferrero.
L’ultima lettera scritta ai genitori, la sera prima dell’assalto, del sottotenente Adolfo
Ferrero, di venti anni, di Torino, del 3° Reggimento Alpini, battaglione Val Dora,
medaglia d’argento al valor militare, alla memoria, caduto eroicamente il 19 giugno
1917 sul Monte Ortigara, le cui gloriose spoglie riposano nel Sacrario Militare di
Asiago. La lettera testamento, il cui originale è esposto nel Museo del Sacrario di
Asiago, venne ritrovata 41 anni dopo. Ancora oggi il prezioso testamento testimonia
la grande carica umana e spirituale che animava quella generazione di uomini in
grigioverde:
ore 24, 18 giugno 1917
“Cari genitori,
scrivo questo foglio nella speranza che non vi sia bisogno di farvelo pervenire. Non
ne posso fare a meno. Il pericolo è grave, imminente.
Avrei un rimorso se non dedicassi a voi questi istanti di libertà per darvi un ultimo
saluto. Voi sapete che io odio la retorica..... No, no, non è retorica quello che sto
facendo. Sento in me la vita che reclama la sua parte di sole; sento le mie ore contate,
presagisco una morte gloriosa ma orrenda.
Fra cinque ore vi sarà un inferno. Fremerà la terra, s’oscurirà il cielo, una densa
caligine coprirà ogni cosa, e rombi, tuoni e boati suoneranno fra questi monti, cupi
come le esplosioni che in questo istante medesimo sento in lontananza. Il cielo si è
fatto nuvoloso; piove.
Vorrei dirvi tante cose, .....tante.....ma voi ve l’immaginate. Vi amo. Vi amo tutti,
tutti.....Darei un tesoro per potervi rivedere. Ma non posso.....il mio cieco destino non
vuole. Penso, in queste ore di calma apparente, a te Papà, a te Mamma, che occupate
il primo posto nel mio cuore; a te o Beppe, fanciullo innocente, a te, Adelina.....Che
vi debbo dire? Mi manca la parola! Mi manca la parola: un cozzar d’idee, una ridda
di lieti e tristi fantasmi, un presentimento atroce mi tolgono l’espressione...No, no,
non è paura. Io non ho paura! Mi sento ora commosso, pensando a voi, a quanto
lascio; ma so dimostrarmi forte dinanzi ai miei soldati, calmo e sorridente. Del resto
anch’essi hanno un morale elevatissimo.
Quando riceverete questo scritto, fattovi recapitare da un’anima buona, non piangete.
Siate forti come avrò saputo esserlo io. Un figlio morto in guerra non è mai morto. Il
mio nome resta scolpito nell’animo dei miei fratelli; il mio abito militare, la mia
fidata pistola (se vi verrà recapitata), gelosamente conservati, stiano a testimonianza
della mia fine gloriosa. E se per ventura mi sarò guadagnata una medaglia, resti
quella a Giuseppe.
O genitori, parlate, parlate, fra qualche anno, quando saranno in grado di capirvi, ai
miei fratellini, di me, morto a vent’anni per la Patria. Parlate loro di me; sforzatevi di
risvegliare in loro il ricordo di me ...Che è doloroso il pensiero di venir dimenticato
da essi....Fra dieci, vent’anni forse non sapranno più d’avermi avuto fratello....A voi
mi rivolgo. Perdono, perdono vi chiedo, se vi ho fatto soffrire, se v’ho dato dispiaceri.
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Credetelo non fu per malizia. La mia inesperta giovinezza vi ha fatto sopportare degli
affanni: vi prego di volermi perdonare.....Spoglio di questa vita terrena andrò a
godere di quel bene che credo di essermi meritato. A Voi Babbo e Mamma, un bacio,
un bacio solo che dica tutto il mio affetto. A Beppe, a Nina un altro, ed un monito:
ricordatevi di vostro fratello, sacra è la religione dei morti. Siate buoni. Il mio spirito
sarà con voi sempre. A voi lascio ogni mia sostanza. E’ poca cosa. Voglio però che
sia da Voi gelosamente conservata. A Mamma, a Papà lascio…. il mio affetto
immenso. E’ il ricordo più stimabile che posso loro lasciare. Alla zia Eugenia, il
Crocifisso d’argento; al mio zio Giulio, la mia Madonnina d’oro. La porterà
certamente. La mia divisa a Beppe, come le armi e le robe mie. Il portafoglio (L. 100)
lo lascio all’attendente.
Un bacio ardente d’affetto dal vostro aff.mo Adolfo”.
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Lettera testamento del sottotenente Giancarlo Conti.
Commovente, appassionata e piena di elevati sentimenti l’ultima lettera del
sottotenente Giancarlo Conti, del Battaglione Alpini Bassano, classe 1893, nato ad
Abbiategrasso, schierato con i suoi alpini in prima linea, sotto alle pendici del Monte
Ortigara:
“Miei diletti genitori,
fra qualche ora dovrò affrontare le vicende della grande battaglia odierna e guidare i
miei baldi, affezionati soldati alla vittoria. Affronto i pericoli del grande cimento con
la più grande serenità, forte di quella fortezza che nasce dalla piena fiducia in Dio e
nel completo abbandono nei suoi eterni decreti. Ho avuto nella mia vita tre grandi
amori, l’un l’altro compenetrati ed alimentati da un unico affetto e da una sola
fiamma: Dio, la Patria, la famiglia. A Dio, protestando intera la mia fede, domando
nuovamente perdono delle mie colpe; e lo ringrazio di ogni bene ricevuto dalla Sua
Misericordia. Spero che il mio sacrificio sia propizievole alla salute eterna dell’anima
mia ed alla vittoria decisiva delle armi nostre.
Per la Patria muoio contento, augurando ad Essa ed a tutti i suoi figli giorni migliori.
Alla famiglia, a voi genitori, mando il mio affettuoso saluto di devoto attaccamento,
grato d’aver trovato in essa ogni gioia più pura e intima. Per voi, genitori, per voi,
sorelle, per te, mio caro Alfredo, io prego da Dio la rassegnazione ai divini voleri e la
forza di sopportare cristianamente il dolore immenso del mio sacrificio che io compio
volentieri, per attestare con tanti altri fratelli la giustizia e la nobiltà della causa per la
quale abbiamo combattuto ed offerto i nostri petti. Viva l’Italia! Giancarlo.”
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Padre Giulio Bevilacqua, da Brescia – che vi prese parte quale Tenente
cappellano di complemento nelle file del Battaglione Alpini “Monte Stelvio” del 5°
Reggimento Alpini, decorato con due medaglie al valore militare e che prese parte
a quella battaglia- nel settembre 1920, sacerdote (e poi elevato a Cardinale), in
occasione della prima Adunata dell’Associazione Nazionale Alpini e
dell’inaugurazione sulla cima dell’Ortigara della colonna mozza con la scritta
“Per non dimenticare,” pronunziò una vibrante e indimenticabile orazione per
ricordare e onorare la memoria dei Caduti, in cui fra l’altro disse:
“Alpini !
Fanti – Bersaglieri – Artiglieri – Fratelli tutti di passione !
Amici che voleste salire con noi il calvario alpino !
Come ieri !
Come nel giorno nostro, grande e amaro !
Lo stesso cielo; l’identica montagna; un nemico davanti e uno alle spalle; un
altare, una tomba sola, una solitudine sconfinata.
Come nel giugno imporporato del diciassette, come nel luglio del sedici; mesi
di vendemmia per il sangue alpino quando avemmo ferro per pane, fuoco per la
bocca senza saliva, sputi per compenso; quando la sera dell’immolazione
restammo chiodati quassù, soli a saporare l’ultimo fiele della bevanda atroce !
Lo stesso cielo !
E’ l’identica sacra montagna; titano della terra lanciato all’assalto del cielo;
capo regale che ha insegnato alle fiamme verdi la scienza dell’onore; il sale della
vita. Si può arrestarsi, impallidire, ma piegare, mai !
Una tomba sola !
Solo qui potevamo celebrare il nostro rito di passione. Qui dove tutto è stato
dato e dove nulla è stato chiesto.
Alpini! Superstiti sbandati del gregge di morte!
Sentite! Da l’Ortigara abbiamo cominciato la glorificazione del sacrificio
alpino.
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Qui non vi è pietra non sacrata dal crisma del sangue; non vi è roccia che su
le lastre più sensibili non abbia fissata l’ombra di esseri che volavano e non
avevano le ali; vere api di acciaio e di terra, attratte non da un pulviscolo di fiori e
di sole, ma da un velo di piombo più fitto della neve, tessuto da una scienza
asservita ad un sinistro segno d’universale distruzione.
Una tomba sola, ma agitata, ma vivente !
Per sedici giorni tenemmo testa all’inferno!
L’Ortigara è la parola inesprimibile di quindicimila morti; l’altare di Cristo
esprime l’inesprimibile, esaurisce la possibilità di soffrire; è il riflettore gigante
che fruga ogni abisso d’ombra, che stampa su la fronte dell’alpino eretto e fermo,
come su la schiena della pattuglia che recede, l’unico sigillo della grandezza,
l’unico principio della condanna: “Bisogna morire per vivere !”
Ortigara !
Cattedrale degli alpini !
Momento zenitale del sacrificio umano !
Monte della nostra trasfigurazione !
Incubo e sogno delle nostre notti !
Anima insanguinata dell’umana passione alpina.”
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Sull’Ortigara la lotta fu furiosa, violentissima, a colpi di baionetta, sino a
precipitare avvinghiati nei ripidi canaloni che scendevano in Valsugana.
Ascoltiamo ora un eroico episodio di questa cruenta battaglia tratto da “Le Scarpe
al sole” (nel gergo degli alpini mettere le scarpe al sole significa morire in
combattimento), scritto nel 1921, da Paolo Monelli, ufficiale di complemento della
Grande Guerra, scrittore e giornalista. E’ il libro degli alpini valorosi, che
dominarono il nemico e la montagna; protagonisti, con i loro fieri avversari
austriaci, delle battaglie più alte del mondo e insieme più acrobatiche.
All’alba urla d’attacco, di vittoria, di morte, nel buio. Allarme sconnesso, poi un
viso segnato di sangue che annuncia la cosa.
Il presidio della 2003 è sopraffatto, gli austriaci son qui, il medico telefona che son
già alla sua grotta e che si ritira, inutile richiamarlo, non risponde più, il soldato
Pretto arriva e spiega come è andata la faccenda, e come è scampato, dopo esser
già stato circondato.
Dopo una notte così calma che gli pareva d’ essere in malga, ecco che da lassù a
sinistra si son veduti ruzzolare addosso un battaglione ungherese che vociava
“vigliacchi italiani arrendetevi”; e giù una grandine di bombe, una mischia accanita
nei camminamenti e attorno alle nostre due mitragliatrici finchè non le spezzarono
le bombe; e lui, Pretto, ha veduto il capitano Ripamonti ferito, svenuto, sulle spalle
d’un alpino che cercava di salvarlo, ferito anche lui; e voleva aiutarlo, ma s’è visto
addosso due giganteschi ungheresi che gli urlavano “in cinocchio, precare,
precare”, e tutt’attorno morti e feriti, e la posizione perduta; e allora “ghe go piantà
la baionetta nela pansa a un, quel’altro lo go butà zo par la Valsugana, e mi son
qua.”
Ci si acconcia a disperata difesa a pochi metri dal nemico. Ed ecco, ancora una
volta, tutte le batterie dell’Austria su questi brandelli di compagnie, e urli di
colpiti, e gemiti senza fine, senza fine.
Non ci si può muovere più. Dove uno s’è ficcato ci resti, e preghi Iddio che non ci
picchi dentro la pallottola o lo scheggione. Tutto il costone è battuto. Il suolo dà
l’impressione che sia percosso da correnti elettriche, frigge, crepita, chi si sposta
può rimanere paralizzato, le gambe spezzate, il rene spaccato.
E il lagno del sergente col rene spaccato dura monotono, uguale, dall’alba.
Arriva un soldato – è guizzato immune fra quel crepitìo – porta un biglietto di Poli.
Il capitano Ripamonti con otto o dieci buchi nel corpo di bombe a mano era stato
trascinato via dalla cima da un suo soldato, poi il soldato era stato fracassato da
una granata, e Ripamonti con una nuova ferita gemeva là sotto, allo scoperto.
Andarlo a prendere, un suicidio. Ma Sommacal ha detto:
“El me capitano, ho da andar a torlo.” Ed è uscito fuori, Piazza il portaferiti l’ha
seguito, gli austriaci, stupefatti, cavallereschi, hanno lasciato fare. Il capitano in
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barella deve esser già rientrato, a quest’ ora. Questo dice il biglietto del tenente:
dice anche, poscritto, che di dove sono nessuno li smuoverà, finché c’è penna
d’alpino.
Il portaordini è in piedi, contro alla parete, faccia tagliata da uno sgraffio, occhi
duri e chiari.
Casagrande, l’aiutante maggiore, sussurra qualche cosa al maggiore.
E il maggiore dice:
“Alpino, tu sei stato retrocesso un mese fa da caporale, perché a Barricate hai preso
una sbornia stupida ed hai lasciato mangiare i viveri di riserva ai tuoi uomini. Da
quattro giorni, qui all’Ortigara, ti porti bene. Ieri hai salvato il pezzo da montagna
ed incoraggiato i tuoi compagni. Ti promuovo caporale sul campo per merito di
guerra.”
E il maggiore gli stringe la mano. Mi prende un nodo alla gola, intuisco la bellezza
del gesto, fra noi morituri, presi nel macinìo della battaglia disperata. E che cosa
importa se la burocrazia ritarderà d’un anno o negherà la sua sanzione?
Un brivido rianima la volontà, coscienza che ogni sacrificio è accettabile per
un’oscura bellezza morale che ci sovrasta ed a cui non sappiamo dar nome.
Più alta che la patria, più forte che il dovere. Umanità, forse. Ci sgozziamo
ferocemente in un macello che ci ripugnerà domani, per valori che saranno angusti
o nulli domani. Ma uomini siamo, con dignità d’uomini, con questa potenza di
chiudere in un gesto la giustificazione e la ragione della vita.
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