Guida Confindustria Made Europe novembre 2003

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Guida Confindustria Made Europe novembre 2003
RAPPORTI
UNIONE EUROPEA – CINA
LINEE GUIDA PER LA TUTELA
DEI PRODOTTI DI ORIGINE EUROPEA
Confindustria, Novembre 2003
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
INDICE
Nota di sintesi.
1. Gli aspetti strategici.
2. Gli aspetti economici.
2.1 Dimensione contraffazione e pirateria.
3. Gli aspetti giuridici.
3.1 Il Made in nel diritto italiano.
3.2 Le proposte di Confindustria.
3.3 Il livello europeo.
3.4 L’analisi e le proposte di Confindustria per un diverso orientamento della UE.
3.5 Conclusioni.
4. Tavole statistiche.
Tav. 1 Cina: andamento delle principali variabili macroeconomiche
Tav. 2 EU Trade with the world and China (million euro)
Tav. 3 China’s trade with major partners (USD bn)
Tav. 4 Foreign Direct Investment (FDI) in China (USD bn), 1996 – 2002
Tav. 5 EU-15 trade with China, 2001
Tav. 6 EU-15 trade with China, 2002
Tav. 7 EU-15 trade with China (Jan – Mar 2003)
Tav. 8 Flussi commerciali UE - Cina per voce merceologica, 1996 – 2002
Tav. 9 Numero totale di articoli bloccati in dogane UE, 2000 - 2001
Tav. 10 Numero di casi relativi ad articoli bloccati in dogane UE, 2001
Tav. 11 Numero totale di articoli bloccati in dogane UE distribuito per paesi, 2000 – 2001
Tav. 12 Distribuzione degli articoli bloccati in dogane UE per provenienza o origine delle
merci, 2001
Tav. 13 Distribuzione degli articoli bloccati in dogane UE per mezzi di trasporto usati e per
Stati membri, 2001
Tav. 14 Distribuzione degli articoli bloccati in dogane UE per tipologia di diritti di proprietà
intellettuale (marchi, diritti d’autore, modelli, brevetti), 2001
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Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
Nota di sintesi.
Nel corso degli ultimi mesi Confindustria è stata impegnata nella definizione ed implementazione di
proposte miranti alla tutela dei prodotti di origine europea, in particolare, nella richiesta di un
intervento normativo dell’Unione Europea che renda obbligatoria l’apposizione di un marchio di
origine sulle merci in circolazione nel mercato interno comunitario.
L’analisi di Confindustria indica che la mancanza di una tutela comunitaria dei prodotti industriali,
attuabile attraverso l’indicazione obbligatoria del marchio di origine sulle merci importate e di
origine interna, ha un impatto negativo rilevante e crescente sulla competitività delle imprese.
Si ritiene essenziale che tutte le merci che entrano nell’Unione debbono indicare obbligatoriamente
il paese di provenienza. Il marchio di origine dovrebbe naturalmente essere apposto anche sulle
merci prodotte nei paesi europei.
La giurisprudenza della Corte di giustizia ha finora privilegiato l’integrazione del mercato interno
rispetto alla protezione del consumatore e bocciato sistematicamente le normative che
prevedevano l’indicazione obbligatoria del marchio di origine nazionale. Nel farlo, essa ha fatto
ricorso al parametro di riferimento generale per i marchi di origine, ossia il sistema delle regole
doganali sull’origine non preferenziale, che però non tutela i diritti di proprietà intellettuale. Sulla
base di tali orientamenti, l’apposizione obbligatoria del marchio di origine sui prodotti importati non
incontra profili di illegittimità nel diritto comunitario ed è in linea con le norme del commercio
internazionale, ma non è sufficiente.
Confindustria comprende e sostiene la necessità di limitare gli ostacoli al commercio intracomunitario. Nondimeno, principi risalenti a circa vent’anni fa, quando il processo di integrazione
viveva la sua fase più delicata, sono oggi inadeguati a regolamentare un contesto di concorrenza
globale, dove le imprese europee investono ingenti risorse per la protezione del consumatore. La
Commissione europea non è nuova a questo approccio, che aveva elaborato e sviluppato in
maniera lungimirante già nel 1980, con una proposta di Direttiva che lasciava la facoltà per gli Stati
di prevedere il marchio nazionale obbligatorio.
Tale soluzione eliminerebbe ogni discriminazione fra prodotti europei ed importati e permetterebbe
alle imprese europee che lo desiderassero di soddisfare i requisiti imposti da Paesi come gli USA,
che richiedono l’indicazione del marchio nazionale all’atto dell’importazione. Attualmente, invece,
esse devono produrre e stoccare le merci separatamente a seconda del paese di destinazione,
ovvero apporre il marchio su tutte, con un rilevante aggravio dei costi rispetto a concorrenti che
producono per il solo mercato interno.
Un tale approccio soddisfarebbe, ad un tempo, l’esigenza di lenire l’impatto di pratiche commerciali
illecite e quella di rafforzare la coesione e l’integrazione del mercato interno, senza ostacolare il
commercio intra-comunitario. Per contro, l’obbligatorietà del marchio di origine sui prodotti europei
e la mera facoltà per gli operatori di aggiungere quello nazionale costituirebbe una soluzione
minima di compromesso, che non apporta innovazioni sostanziali e che fornisce una risposta
parziale ed insoddisfacente alle richieste dell’industria.
Nel presente studio, oltre a delineare le proposte di Confindustria miranti alla tutela dei prodotti di
origine europea, vengono sviluppati diversi aspetti legati all’argomento in oggetto. In particolare,
nella prima parte vengono esaminati gli aspetti strategici derivanti dal fenomeno della
contraffazione e della concorrenza nel mercato globale.
La contraffazione e la pirateria, e più in generale le violazioni della proprietà intellettuale,
producono conseguenze pregiudizievoli per le imprese e per i consumatori.
L’innovazione rappresenta uno dei principali vettori di crescita per le imprese e di prosperità
economica per l’intera società. Le imprese, che spesso investono considerevoli somme in materia
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Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
di ricerca e sviluppo, marketing e pubblicità, devono poter fare fruttare tali investimenti. Una tutela
adeguata ed effettiva della proprietà intellettuale contribuirebbe a consolidare la fiducia delle
imprese nel mercato interno e costituirebbe un forte incentivo all’investimento e, quindi, al
progresso economico.
L’armonizzazione delle legislazioni nazionali in tema di strumenti finalizzati ad assicurare il rispetto
dei diritti di proprietà intellettuale contribuirebbe anche alla tutela dei consumatori, dal momento
che la diffusione dei prodotti contraffatti e dei prodotti pirata può costituire un reale pericolo per il
consumatore, in quanto può danneggiare la sua salute o la sua sicurezza.
Nella seconda parte dello studio, la dimensione del fenomeno della contraffazione e della pirateria
viene inserita nell’analisi della crescita economica e degli scambi commerciali che rendono la Cina
uno dei principali beneficiari del processo di globalizzazione e potenza commerciale mondiale.
Nel 2002 la Cina si è posizionata al quinto posto degli scambi mondiali, con un valore
dell’interscambio complessivo pari a oltre 620 miliardi di dollari ed un tasso di crescita del 22%
rispetto al 2001. I dati di previsione per il 2003 sembrano confermare che la Cina sarà il terzo
importatore mondiale in assoluto dopo Stati Uniti e Germania, con una crescita di oltre il 40%
rispetto al 2002, ma, nello stesso tempo, una analisi statistico-quantitativa del fenomeno della
contraffazione e della pirateria indica che la Cina ha una quota di oltre il 18% sul totale di prodotti
bloccati dalle dogane europee.
A supporto dei dati economici e statistici presentati nella seconda parte dello studio vengono
allegate anche alcune tavole di riferimento.
La terza parte del documento, infine, si concentra sugli aspetti giuridici relativi alla tutela del “Made
in”. In particolare, viene presentato il quadro normativo relativo al Made in nell’ordinamento italiano
(incluso l’intervento a sostegno del “Made in Italy” apportato dalla Legge Finanziaria 2004 che ha
accolto le proposte di Confindustria relativamente alle istanze di maggiore protezione della
proprietà intellettuale dei produttori nazionali) e le soluzioni percorribili dal legislatore comunitario.
L’indicazione suggerita è che l’apposizione - obbligatoria - della denominazione dei prodotti con
origine UE dovrebbe essere perseguita nonostante vi siano importanti pronunce della Corte di
Giustizia UE che hanno condannato alcuni Stati Membri per avere introdotto norme volte a rendere
obbligatoria l’apposizione di certificazioni di origine su prodotti interamente realizzati sul proprio
territorio nazionale.
Occorre sollecitare un cambiamento di questo orientamento nella convinzione che alla fase della
costituzione del mercato interno, fondata sull’abbattimento delle barriere, deve seguirne ora una
più orientata alla tutela ed alla promozione dei prodotti nazionali, eliminando altresì, discriminazioni
tra questi ultimi ed i prodotti importati.
Il lavoro è completato da una disamina delle proposte di Confindustria per un diverso orientamento
dell’Unione Europea nell’adozione di una normativa che preveda l’obbligatorietà dell’apposizione
del marchio di origine sulle merci in circolazione nel mercato interno comunitario.
L’alternativa proposta potrebbe essere costituita da una normativa che preveda l’obbligatorietà, del
tutto legale, del solo “made in CE” per i prodotti originari di Stati membri. Una norma di tal genere
avrebbe il pregio di evitare discriminazioni fra le imprese comunitarie, in quanto comporterebbe un
costo paritetico per tutte. Essa darebbe però la possibilità, alle imprese che lo desiderassero, di far
uso della facoltà di aggiungere, presumibilmente senza costi ulteriori, anche l’indicazione del
Paese di produzione, con l’ovvio vantaggio di fornire questa informazione al consumatore e di
conformarsi, allo stesso tempo, alle normative di Stati terzi che richiedessero questa indicazione.
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Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
1. Gli aspetti strategici.
Nell’affrontare il fenomeno della contraffazione dei prodotti industriali ed, in generale, i problemi
posti dalla concorrenza del mercato globale, la strategia di Confindustria deve essere duplice: da
un lato identificare e mettere a disposizione delle imprese gli strumenti giuridici e legali comunitari
per la “difesa” dai danni economici e commerciali; dall’altro, informare il mondo associativo delle
opportunità a sua disposizione, sollecitarlo ad “aggredire” i mercati esteri, in particolare la Cina, ed
assisterlo nella messa in opera di tali iniziative.1
In estrema sintesi, le tendenze in atto a livello multilaterale indicano che le misure commerciali
protettive e/o difensive non costituiscono una soluzione definitiva. Esse comportano costi
informativi, economici e di assistenza legale, senza intaccare l’origine dei problemi ed il loro ricorso
incorre in accuse di protezionismo deleterie per l’industria europea. La limitatezza e, talvolta,
l’obsolescenza delle pratiche difensive in politica commerciale è particolarmente visibile a livello
multilaterale, a seguito del fallimento di Cancun.
Il futuro del WTO riposa nella sua capacità di evolvere dalla attuale funzione di “ospite” dei
negoziati tariffari e divenire l’organo multilaterale per la regolamentazione degli scambi
commerciali: dazi e tariffe appaiono sempre più un retaggio del passato e non strumenti idonei alla
governance globale del commercio e dell’economia. Di conseguenza, già oggi, e sempre più in
futuro, le imprese ed in particolare le PMI dovranno localizzare parte della loro attività laddove è
più conveniente e conquistare quote di mercato al di fuori dell’Europa, avvalendosi dell’eccellenza
che le contraddistingue e delle alleanze strategiche che riusciranno a concludere con i partner
stranieri, cinesi nel caso di specie.
Questo duplice scenario presenta numerose implicazioni. Di natura essenzialmente giuridica,
legislativa e regolamentare, sono quelle che attengono all’utilizzo degli strumenti di difesa
commerciale e alla richiesta di Confindustria di un nuovo Regolamento comunitario che tuteli i
prodotti industriali europei.
Altre implicazioni, di natura economica e macro economica, riguardano invece le variabili
fondamentali che determinano la scelta dell’imprenditore di localizzare parte della propria attività al
di fuori dei confini dell’Unione, o di utilizzare taluni strumenti (finanziamenti) comunitari per
abbattere parte dei costi.
Il ruolo delle organizzazioni di rappresentanza è cruciale su entrambi i fronti. Da un lato, si tratta di
assistere le imprese nell’identificazione e nell’analisi degli adeguati strumenti di difesa
commerciale, aiutarle a stabilire il corretto rapporto costo-opportunità insito nella scelta di utilizzare
tali strumenti, ed assicurare loro la necessaria, qualificata, assistenza legale durante l’iter
procedurale.
Dall’altro lato, si tratta di identificare le opportunità adeguate (bandi), assistere - dal punto di vista
tecnico - le imprese durante la stesura dei progetti, ma soprattutto, prevedere una efficiente
rendicontazione contabile, finanziaria ed amministrativa, poiché le procedure comunitarie per
ottenere questi finanziamenti la impongono in maniera assai rigida.
Per attuare tale strategia, ed allineare cosi il sistema industriale italiano a quello dei partner
europei, è necessario alimentare un processo di crescita congiunta di imprese, organizzazioni e
consulenti specializzati, attraverso un outsourcing moderno ed efficace. Tale dinamica necessita di
1
Al livello comunitario, si tratta di utilizzare più e meglio gli strumenti specifici indirizzati alle organizzazioni imprenditoriali
per stabilire alleanze strategiche con le controparti internazionali. Tale strumenti sono diretti alla “cooperazione
economica”, che nel gergo comunitario si differenzia dall’”aiuto allo sviluppo” proprio perché basata sul “mutuo interesse”
di entrambe le parti a raggiungere un obiettivo.
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Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
tempo per dispiegare i suoi effetti e ha come unica condizione sine qua non l’impegno
(investimento) degli attori ora menzionati, che comporta, evidentemente, dei costi.
Le altre condizioni per rendere efficiente questo disegno sono la volontà politica del governo di
rilanciare le politiche per l’internazionalizzazione in maniera concreta e lungimirante, prevedendo
nuovi strumenti per rafforzare la competitività internazionale delle nostre imprese.2
Vi è infine un terzo aspetto che va tenuto in debita considerazione: la capacità di innovare
dell’industria europea.
L’innovazione rappresenta uno dei principali vettori di crescita duratura per le imprese e di
prosperità economica per l’intera società. Le imprese devono costantemente migliorare o rinnovare
i propri prodotti se vogliono conservare o conquistare quote di mercato. Una forte attività inventiva
ed innovatrice, che porti allo sviluppo di nuovi prodotti o servizi, assicura alle imprese una
posizione di vantaggio sotto il profilo tecnologico e costituisce un importante fattore ai fini della loro
competitività.
Le imprese, che spesso investono considerevoli somme in materia di ricerca e sviluppo, marketing
e pubblicità, devono poter fare fruttare tali investimenti. Una tutela adeguata ed effettiva della
proprietà intellettuale contribuisce a consolidare la fiducia nel mercato interno da parte di imprese,
inventori e creatori e costituisce un forte incentivo all’investimento e quindi al progresso
economico.
Il proliferare della contraffazione e della pirateria danneggia sempre più la società (perdita di posti
di lavoro, sicurezza dei consumatori, rischi per l'attività creativa), le pubbliche amministrazioni
(riduzione del gettito fiscale) e, in particolar modo, le imprese, provocando minori investimenti, la
chiusura delle PMI, nonché un calo del fatturato e perdite di quote di mercato spesso acquisite con
difficoltà (mancate vendite dirette), senza dimenticare le perdite immateriali e i danni morali subiti
come conseguenza delle ripercussioni negative in termini d’immagine presso i clienti (mancate
vendite future). La diffusione dei prodotti contraffatti e dei prodotti pirata conduce, infatti, ad una
banalizzazione che si ripercuote negativamente sulla notorietà e sull’originalità dei prodotti
autentici, soprattutto quando le imprese fondano la propria pubblicità sulla qualità e la rarità dei
loro prodotti.
Questo fenomeno comporta, inoltre, costi supplementari per le imprese (costo della protezione,
delle indagini, delle perizie e delle controversie) e, in alcuni casi, può anche portare ad azioni
contro il titolare, qualora non gli sia possibile comprovare la sua buona fede, per i prodotti
commercializzati dagli autori degli atti di contraffazione o di pirateria.
Secondo lo studio “Economic Impact of Counterfeiting in Europe”, realizzato nel giugno 2000 dal
Centre for Economics and Business research (CEBR) per conto del Global Anti-Counterfeiting
Group (GACG), nell'Unione europea le attività di contraffazione e pirateria comportano ogni anno
una perdita di 17 000 posti di lavoro. In alcuni settori il problema è particolarmente grave: per
quanto riguarda l'industria del software si ritiene che il 37% del software utilizzato nell'UE sia
piratato, con una conseguente perdita di 2,9 miliardi di euro; nel 2001 l'industria della musica ha
subito nell'Unione europea un calo medio globale di vendite pari al 7,5%; nel settore delle
calzature e dell'abbigliamento i prodotti contraffatti e pirata rappresentano il 22% delle vendite.
La situazione, soprattutto per l'industria del software e per il settore culturale (musica, film e video
su CD o DVD), si è aggravata con il facile accesso al mercato globale reso possibile da Internet.
Esistono inoltre prove dei sempre maggiori legami esistenti tra tali attività e crimine organizzato o
2
Ad esempio, in tale quadro Confindustria ha elaborato un’analisi comparata dei modelli di “agenzia nazionale per
l’internazionalizzazione” presenti in Europa ed in altri paesi. L’obiettivo dello studio è di avviare un dibattito tecnico con il
Governo sull’opportunità di dotare l’Italia di una struttura analoga, alla luce anche di nuovi orientamenti in corso di
definizione in sede comunitaria.
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attività terroristiche a causa degli elevati profitti e del rischio finora relativamente ridotto di essere
scoperti e condannati.
Anche la tutela dei consumatori costituisce una delle preoccupazioni principali in Europa. La
ricerca di un livello elevato di tutela dei consumatori, in particolare per quanto riguarda la salute e
la sicurezza, è un elemento essenziale dell’azione comunitaria.
La contraffazione e la pirateria, e più generale le violazioni della proprietà intellettuale, producono
spesso conseguenze pregiudizievoli per i consumatori. Quando acquista prodotti contraffatti o
pirata al di fuori dei legittimi canali commerciali, il consumatore non beneficia, in genere, di una
garanzia né di un servizio post vendita, né di difese efficaci in caso di danni. Oltre a questi
inconvenienti il fenomeno può costituire un reale pericolo per il consumatore in quanto può
danneggiare la sua salute (contraffazione di medicinali, adulterazione di alcolici, materiale sanitario
difettoso, detersivi con agenti caustici, antibiotici adulterati, sostanze cancerogene negli indumenti,
olio per motore di scarsa qualità, bevande alcoliche tossiche, elettrodomestici difettosi, vaccini
antirabbici inefficaci, filtri difettosi per motori diesel, ecc.) o la sua sicurezza (contraffazione di
giocattoli o di parti di automobili o aeroplani).
L’armonizzazione delle legislazioni nazionali in tema di strumenti finalizzati ad assicurare il rispetto
dei diritti di proprietà intellettuale contribuirà alla tutela dei consumatori e sarà utile per completare
l’insieme di atti legislativi già esistenti in questo settore a livello comunitario, in particolare le
direttive europee sulla responsabilità civile dei prodotti e sulla sicurezza generale dei prodotti.
In relazione alla tutela dei consumatori, la Commissione ha adottato una proposta di “Direttiva del
Parlamento Europeo e del Consiglio relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei
confronti dei consumatori” [COM (2003) 356 definitivo].
La direttiva prevede l'interdizione generale delle pratiche commerciali sleali che alterano il
comportamento economico dei consumatori. Le pratiche sleali si suddividono in due categorie
principali: le pratiche ingannevoli e le pratiche aggressive.
Una pratica commerciale può essere ingannevole tramite azione o tramite omissione. L'obbligo
imposto alle imprese consiste, in particolare, nel non omettere informazioni "sostanziali" di cui il
consumatore medio ha bisogno per prendere una decisione fondata su una transazione, nel caso
in cui tali informazioni non siano desumibili dal contesto.
All’articolo 6 della proposta di direttiva viene definita ingannevole una pratica commerciale che in
qualsiasi modo, compresa la sua presentazione complessiva, spinga o sia idonea a spingere il
consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti
preso in quanto lo induca o sia idonea ad indurlo in errore in rapporto a quanto di seguito elencato:
•
le caratteristiche principali del prodotto, […] quali l'origine geografica o commerciale […];
•
la natura, le qualifiche e i diritti del professionista o del suo agente, quali […] i diritti di
proprietà industriale, commerciale o intellettuale […].
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2. Gli aspetti economici.
Il processo di integrazione della Cina nell’economia mondiale è culminato nell’accesso al WTO nel
dicembre 2001 e nella crescita significativa della sua quota negli scambi mondiali, rendendola
uno dei principali beneficiari del processo di globalizzazione e potenza commerciale planetaria.
Nel 2002 la Cina si è, infatti, posizionata al quinto posto negli scambi mondiali, con un valore
dell'interscambio complessivo pari a oltre 620 miliardi di dollari ed un tasso di crescita del 22%
rispetto al 2001. Nel corso degli ultimi dodici anni la Cina ha più che quintuplicato il valore degli
scambi tali da portare la quota del commercio cinese sul commercio mondiale da poco più del 2%
a oltre il 5,5%. (cfr. Tav.1).
I dati di previsione per il 2003 sembrano confermare un mutamento strutturale storico: la Cina
diviene il terzo importatore mondiale in assoluto dopo gli Stati Uniti e la Germania con un valore
stimato di circa 400 miliardi di dollari e con una crescita di oltre il 40% rispetto al 2002 .
Dal lato delle importazioni cinesi i principali paesi esportatori sono, nell'ordine, il Giappone con
53,5 miliardi di dollari e con un tasso di crescita di oltre il 25 %, l'Unione Europea con 38,5 miliardi
di dollari ma con un tasso di crescita del 7,9% (in significativa riduzione rispetto ai tre anni
precedenti) e gli Stati Uniti con 27,2 miliardi di dollari e con un tasso di crescita del 3,9%,
anch'esso in significativa riduzione rispetto alla media del 15% registrata nei tre anni precedenti
(cfr. Tav.2).
Dal lato delle esportazioni cinesi, gli Stati Uniti sono al primo posto con 70 miliardi di dollari
(+28,9% rispetto al 2001), seguono il Giappone con 48,4 miliardi di dollari (+7,8% rispetto al 2001)
e l'Unione Europea con 48,2 miliardi dollari (+17,9% rispetto al 2001).
In considerazione di tali trend, la Cina ha accumulato oltre 400 miliardi di dollari di riserve valutarie.
Previsioni più di lungo periodo parlano di un incremento pari a 1000 miliardi dollari di importazioni
nel corso dei prossimi due anni, mentre la crescita delle esportazioni sarà più lenta. Tale
andamento potrebbe determinare a breve la formazione di un deficit commerciale.
Inoltre, essa ha raggiunto gli Stati Uniti nell’attrarre investimenti stranieri diretti a livello mondiale,
con flussi stimati intorno a 53 miliardi di dollari, con una crescita del 12,5% rispetto all'anno
precedente (cfr. Tav.4).
Anche gli scambi bilaterali tra l’UE e la Cina sono aumentati notevolmente: nel 2002 la Cina è
divenuta il secondo partner commerciale dell’UE, superando il Giappone. Gli scambi bilaterali
hanno raggiunto i 115 miliardi di euro ed il deficit commerciale dell’UE con la Cina è stimato essere
stato di oltre 47 miliardi di euro nel 2002.
Nel corso degli ultimi due anni le importazioni europee si sono ridotte sia dagli USA (-11,0%) sia
dal Giappone (-11,1%) mentre le esportazioni sono rimaste statiche verso gli Stati Uniti, facendo,
invece, segnare una riduzione di oltre il 6% di quelle dirette verso il Giappone (cfr. Tav.2).
L’UE è uno dei maggiori investitori stranieri in Cina con uno stock di investimenti stranieri diretti di
34 miliardi di dollari alla fine del 2002.
Nel corso del 2002 la distribuzione delle importazioni UE dalla Cina vede al primo posto la
Germania con oltre 19 miliardi di euro, seguita dalla Gran Bretagna con circa 17 miliardi di euro,
dall'Olanda con circa 12 miliardi di euro, dalla Francia e dall'Italia con oltre 8 miliardi di euro (per il
nostro paese con una crescita di oltre l'11% rispetto all'anno precedente).
Anche dal lato delle esportazioni UE verso la Cina, nel corso del 2002 la Germania è al primo
posto con oltre 14 miliardi di euro, seguita dall’Italia con 4 miliardi di euro (ed una crescita del 23%
circa rispetto all'anno precedente), dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dall’Olanda (quest'ultima
con una crescita del 27% circa rispetto al 2001 (cfr. Tav.6).
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Nel corso del primo trimestre del 2003, dal lato delle importazioni UE dalla Cina l’Olanda registra
rispetto al 2002 una crescita di circa il 27%, la Germania del 18% e l’Italia del 15% circa. Per
quanto riguarda le esportazioni UE verso la Cina, una crescita significativa è registrata dalla
Francia con il 43% e dall’Italia con oltre il 27% rispetto al 2002 (cfr. Tav.7).
L'analisi merceologica dei flussi commerciali tra l’Unione Europea e la Cina nel 2002 registra le
seguenti principali tendenze:
•
dal lato delle importazioni europee, la voce "Macchinari ed attrezzature" è al primo posto
con circa 30 miliardi di euro, pari a oltre il 35% del totale delle importazioni; seguono le
voci "Prodotti tessili e dell'abbigliamento" (oltre 11 miliardi di euro), "Giocattoli e articoli
sportivi" (oltre 6,5 miliardi di euro), "Calzature" (oltre 3 miliardi di euro) seguito dai "Prodotti
farmaceutici" e dai "Profumi e cosmetici".
E' importante rilevare che la voce "Macchinari ed attrezzature" nel corso degli ultimi cinque
anni si è più che triplicata mentre, sempre nello stesso periodo, i "Prodotti tessili e
dell'abbigliamento" hanno registrato una crescita più lenta (sono quasi raddoppiati).
Quanto sopra dimostra un processo di specializzazione produttiva non solo limitato a
prodotti labour intensive ma anche a produzioni con un crescente contenuto tecnologico.
•
dal lato delle esportazioni europee verso la Cina la voce "Macchinari ed attrezzature" è al
primo posto con oltre 16 miliardi di euro, pari a circa il 50% del totale esportato dell'Unione
Europea.
2.1 Dimensione contraffazione e pirateria.
Una analisi statistico-quantitativa del fenomeno variegato e complesso della contraffazione e della
pirateria negli scambi può essere condotta mediante l'analisi dei dati statistici doganali
periodicamente pubblicati dall'Unione Europea e mediante analisi econometriche di impatto
specifico per singoli prodotti.
Per quanto riguarda i primi, i dati riferiti al 2001 su prodotti contraffatti intercettati dalle dogane
europee mostrano un fenomeno in forte esplosione con circa 95 milioni di articoli bloccati (cfr.
Tav.9), pari ad un valore di mercato di oltre 2 miliardi di euro, con una crescita di oltre il 900%
rispetto al 1998.
Nel corso degli ultimi anni la contraffazione si è allargata ad ogni tipo di bene prodotto, compresi
beni di uso giornaliero difficili da controllare. I profitti della contraffazione derivano sempre più dalle
quantità piuttosto che dalla qualità (ad esempio, beni di lusso, ecc).
Oltre la metà dei prodotti contraffatti intercettati riguardano medicine, parti staccate di macchine,
shampoo, articoli in legno, insetticidi, ecc. L'altra componente rilevante riguarda il settore della
elettronica di consumo (CD, videogames, software, ecc) (cfr. Tav.10). Preoccupante è anche la
presenza di prodotti alimentari come cioccolato, caramelle, e champagne. Negli ultimi anni la
contraffazione si è anche estesa ai macchinari e alle attrezzature.
La Cina ha una quota di oltre il 18% sul totale dei prodotti bloccati dalle dogane europee. Altri
paesi che producono beni contraffati sono, nell'ordine, la Thailandia, la Turchia, Hong Kong (cfr.
Tav.12).
La Germania risulta il paese europeo con la maggiore quota (circa il 20% nel 2001) di beni
contraffatti bloccati nelle dogane seguita, nell'ordine, dalla Spagna, dalla Grecia, dalla Francia e
dall'Italia (cfr. Tav.11).
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Per quanto riguarda i mezzi di trasporto utilizzati dalla contraffazione, al primo posto c'è il trasporto
aereo seguito da quello terrestre e marittimo (cfr. Tav.13).
Le tipologie di contraffazione maggiormente utilizzate riguardano il marchio (83% del numero di
casi contraffatti), i diritti d'autore e disegni e modelli (cfr. Tav.14).
Sul fronte della valutazione dell'impatto della contraffazione sull'economia dell'Unione Europea, le
ricerche condotte dal GACG3 hanno evidenziato rilevanti riduzioni sia dal lato del reddito prodotto
sia dal lato dei profitti delle imprese. La ricerca, limitata ai prodotti tessili e scarpe, ai profumi e
cosmetici, ai giocattoli e agli articoli sportivi, oltre ai prodotti farmaceutici, ha evidenziato una
riduzione del PIL europeo di 8,042 milioni di euro e una riduzione dell'occupazione di oltre 17.000
posti di lavoro.
3
Vedi Economic Impact of counterfeiting in Europe, Global Anticounterfeiting Group, June 2000
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3. Gli aspetti giuridici.
3.1. Il Made in nel diritto italiano.
Il quadro normativo relativo al Made in nell’ordinamento italiano è basato sulle seguenti norme:
La Convenzione di Madrid del 14 aprile 18914 sulla repressione delle false o ingannevoli
indicazioni di provenienza, ratificata dall’Italia con legge n. 676 del 4 luglio 19675 e tuttora in
vigore, prevede all’art. 1(1) il sequestro o il divieto all’importazione di “qualsiasi prodotto recante
una falsa o ingannevole indicazione di provenienza, nella quale uno dei paesi, cui si applica [la
Convenzione] fosse direttamente o indirettamente indicato come paese [...] d’origine.”
Il DPR del 26 febbraio 1968, n. 656 ha previsto le norme per l’applicazione della Convenzione.
Esso prevede all’art. 1 che “[l]e merci per le quali vi sia il fondato sospetto che rechino una falsa o
fallace indicazione di provenienza sono soggette a fermo all’atto della loro introduzione nel
territorio della repubblica, a cura dei competenti uffici doganali che ne danno immediatamente
notizia all’autorità giudiziaria e agli interessati.”
Il DL n. 74 del 25 gennaio 1992 e n. 67 del 25 febbraio 2000, che hanno dato attuazione alle
direttive 84/450/CEE e 97/55/CE in materia di pubblicità ingannevole e comparativa. L’art. 3 del
testo coordinato dei due decreti legge (all. III) prevede che “[p]er determinare se la pubblicità sia
ingannevole se ne devono considerare tutti gli elementi, con riguardo in particolari ai suoi
riferimenti: a) alle caratteristiche dei beni e dei servizi, quali [...] l’origine geografica o commerciale
[...].”
L’art. 517 del codice penale. L’art 517 del codice penale italiano (all. IV) sanziona la vendita di
prodotti industriali con segni mendaci. Esso statuisce che “chiunque pone in vendita o mette
altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi
nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità
dell’opera o del prodotto, è punito, se il fatto non è previsto come reato da altra disposizione di
legge, con la reclusione fino a un anno, o con la multa fino a euro 1.033.”
Le circolari 384/1987 e 226/1989 del Ministero delle Finanze. Infine, per la ricostruzione del
quadro esistente in Italia, rilevano due circolari adottate dal Ministero delle Finanze.
Nella prima, adottata nel 19876, è stato precisato che, a seguito della giurisprudenza comunitaria
(vedi infra), “l’art. 3 della [Convenzione] non si applica ai prodotti fabbricati nella Comunità ed in
libera circolazione nella stessa, in quanto è incompatibile con l’art. [28CE]. Pertanto, non potrà,
nello specifico caso, pretendersi che ai prodotti stessi, recanti il nome o l’indirizzo del venditore
ovvero un qualsivoglia marchio di fabbrica, venga apposto il correttivo con l’indicazione
dell’effettivo luogo di produzione”.
Nella seconda, del 19897, è stato chiarito che “l’art. 1 della [Convenzione] deve essere limitato per quanto riguarda le importazioni di prodotti fabbricati in Paesi terzi alle Comunità europee,
anche se già immessi in libera pratica – alla sola ipotesi di origine falsa o fallace e che, pertanto, le
disposizioni di cui [...] al DPR 656/68 dovranno essere ricondotte esclusivamente a tale ipotesi, e
non anche all’apposizione di marchi di fabbrica legalmente utilizzati, che non contengono [...]
anche indicazioni di origine falsa o fallace”. Questa circolare crea quindi un’opportuna linea di
4
Riveduta a Washington il 2 giugno 1911, all’Aia il 6 novembre 1925, a Londra il 2 giugno 1934, a Lisbona il 31
ottobre 1958 e a Stoccolma il 14 settembre 1967.
5
In GURI n. 202 del 12 agosto 1967.
Circolare 384/1987 prot. 5159/77.29/VI, del 5 dicembre 1987.
6
7
Circolare 226/1989 prot. 358/77.29/VI, del 22 luglio 1989.
10
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
demarcazione fra le norme riguardanti la contraffazione e le norme relative ai marchi di origine:
queste ultime, nel determinare se un’indicazione di provenienza è falsa o ingannevole, non
possono prendere in considerazione marchi di fabbrica, privi di indicazioni di origine.
Da quanto precede, si evince che, allo stato attuale non esiste un obbligo di apporre un marchio di
origine sulle merci, a meno che il venditore non indichi il proprio nome o indirizzo su prodotti
originari di Paesi terzi8; esiste invece il divieto di apporre marchi di origine ingannevoli, o
comunque non veritieri, su prodotti. L’apposizione di tali marchi li rende passibili di sequestro,
all’atto dell’importazione e, comunque, espone chi li metta in vendita o commercio in Italia alle
sanzioni di cui all’art. 517 c.p. oltre ai provvedimenti di cui ai DL 74/92 e 67/00.
3.2. Le proposte di Confindustria.
Confindustria ha accolto ed elaborato le istanze presentate dal sistema associativo per assicurare
maggiore protezione alla proprietà intellettuale dei produttori nazionali. Tale azione è sfociata nel
DdL n° 2512 - Senato - (Finanziaria 2004), che accoglie le proposte di Confindustria. Pertanto,
questa prima fase di intervento sulla legislazione nazionale può considerarsi positivamente
conclusa, fino ai prossimi interventi sui regolamenti e/o decreti attuativi.
La sezione Seconda della Legge Finanziaria (artt. 22 - 39) detta interventi a sostegno del Settore
agricolo e del "Made in Italy". Per tale ultimo aspetto in particolare gli art. da 27 a 38 recepiscono,
di massima, quanto sostenuto dalla Confindustria e sono, in via generale, coerenti con le iniziative
proposte sia a livello nazionale che comunitario dalla Confederazione. In particolare sono
condivisibili i disposti:
8
•
dell'art. 27 che assoggetta a tutela penale anche l'importazione e non solo la
commercializzazione come attualmente previsto, di prodotti in violazione della
denominazione di origine;
•
degli artt. 28, 29, e 30 che potenziano le attività di analisi, conoscitive, e procedurali
dell'Agenzia delle Dogane per finalità antifrode e semplificano le operazioni di
import/export, (rilevante, per i riflessi pratici, l'istituzione dello sportello unico doganale di
cui all'art. 30 da noi più volte richiesto, e che consentirebbe un coordinamento delle varie
Amministrazioni coinvolte nelle operazioni di import/export);
•
dell'art. 34 che prevede l'istituzione, presso il MAP, di un Comitato nazionale anticontraffazione aperto alla rappresentanza degli interessi privati, recependo l'esigenza di un
"osservatorio" sulla contraffazione contenuta nella nostra proposta di disciplina nazionale
del Made in Italy;
•
dell'art. 36 che introduce il concetto di “merce contraffatta” mutuandolo dal combinato
disposto delle norme comunitarie in materia di contraffazione (Reg/CE/n° 1383/2003 in
GUCE L. 196 del 02.08.2003);
•
dell'art. 37 che reca modifiche alla normativa vigente in materia di proprietà industriale al
fine di includervi anche la tutela del design italiano conformemente alle nostre richieste;
•
dell'art. 38 che propone forme di intervento e sanzioni da noi sempre condivise e proposte,
in tema di rafforzamento dei poteri della autorità Amministrativa in materia di sequestro e
distruzione delle merci contraffatte.
Tale obbligo non sussiste invece, come chiarito dalla Circolare 384/1987, nel caso di merce importata da Stati
membri.
11
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
Per l'articolato che rinvia a regolamenti o decreti ministeriali attuativi, è opportuno che
Confindustria sia attivamente coinvolta nella definizione dei contenuti e della concreta attuazioni
dei relativi disposti. In particolare:
•
l'Art 32 (fondo di promozione straordinaria del Made in Italy) prevede la possibile istituzione
di un marchio a tutela delle merci integralmente prodotte, o che abbiano avuto una
lavorazione - in Italia - che attribuisce l'origine a norma degli artt. 22 e 24 Regolamento
(CE) 2913/92, rinviando ad un successivo regolamento ex art. 17, legge 400/88 la
definizione delle modalità di istituzione ed uso dello stesso marchio.
A tale proposito Confindustria aveva a suo tempo osservato che l'indicazione " Made in Italy "
veicola un messaggio ulteriore rispetto a quello di mera indicazione di provenienza geografica
testimoniando numerosi valori (qualità, estetica, design, tecnologie, ecc.) esattamente come il
marchio che - grazie alla riforma della Legge relativa ai marchi di impresa del 1992 (D. Lgs.n.
480/1992 in attuazione della direttiva CE n. 89/104) - ha ormai assunto un valore suggestivo
rappresentativo della qualità del prodotto.
•
L’art 33 (Istituzione dell'Esposizione permanente del design italiano e del Made in Italy)
recepisce l'esigenza di valorizzare lo stile della produzione nazionale (design.., ecc).
La previsione di un apposito "Istituto" con organizzazione e funzionamento da definire con Decreto
Ministeriale fa però assumere al suddetto Istituto carattere di diritto pubblico con riflessi sulla
autonomia gestionale e costi che, dato il carattere permanente del suddetto Istituto, saranno
comunque da valutare in relazione a quanto indicato nel comma 3 dello stesso art. 33 (10 milioni di
Euro per il 2004, ecc).
•
L'Art 35 (Uffici di consulenza per la tutela del marchio) ove vengono previste - con decreto
del MAP - "nuove" strutture autonome presso l'ICE o presso gli uffici di rappresentanza
diplomatica e consolari, con compiti di consulenza e tutela del marchio e l'assistenza legale
alla imprese nella registrazione di marchi e brevetti e nel contrasto alla contraffazione ed
alla concorrenza sleale.
3.3. Il livello europeo.
Confindustria ha effettuato un’analisi approfondita del fenomeno ed ha incaricato un gruppo di
lavoro interno di identificare soluzioni percorribili dal legislatore nazionale e da quello comunitario.
Le linee guida qui sotto riportate sono state predisposte per favorire l’adozione di un Regolamento
UE sulla imposizione della denominazione obbligatoria dell’origine dei prodotti importati in Europa.
Tali linee guida sono state trasmesse alla Presidenza italiana dell’Unione, affinché si faccia
promotrice dell’istanza in sede legislativa europea.
Gli obiettivi:
•
rafforzare i controlli doganali soprattutto, ma non esclusivamente, sui prodotti provenienti
dai paesi “a rischio contraffazione”, attraverso, ad esempio, la costituzione di unità
specifiche dedicate al controllo e, in particolare, alla ricerca di beni contraffatti. Sempre in
tema di controlli doganali, occorre rivedere ed aggiornare le norme in materia doganale (in
particolare, eliminare il vincolo dei 3 giorni per il blocco dei prodotti non conformi in
dogana). In tal senso, già il recente Regolamento (CE) n° 1383/2003 (in GUCE- L 196 del
02.08.2003) rafforza le possibilità di intervento delle Dogane estendendo il concetto di
abuso della proprietà intellettuale. Tale Regolamento europeo anti-contraffazione sostituirà
quello attualmente in vigore (Reg. (CE) n.3295/94) a partire dal 1 luglio 2004.
12
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
•
avviare negoziati bilaterali con i paesi di origine dei prodotti contraffatti (es. Cina, Corea,
Taiwan, ecc.) per stimolare l’adozione di politiche più efficaci di lotta alla contraffazione (es.
controlli sulle imprese cinesi e, a livello doganale, sui prodotti in uscita), eventualmente
minacciando l’applicazione di sanzioni economiche;
•
A livello internazionale: portare l'esigenza del rafforzamento della tutela contro le
contraffazione, prevedendo regole più stringenti in tema di origine geografica dei prodotti;
•
introdurre una normativa obbligatoria - in forma di Regolamento comunitario
immediatamente applicabile - che disciplini l'applicazione di indicazioni di origine geografica
(“Made in”) per i prodotti in ingresso nella Comunità. Tale soluzione dovrebbe essere
coerente con il sistema comunitario di regolamentazione delle regole di origine non
preferenziale e, comunque, valutata nell'ottica della realtà del Mercato Comune,
caratterizzato da ampio ricorso alla delocalizzazione produttiva.
L’applicazione della denominazione obbligatoria non modificherebbe i criteri finora individuati dalla
UE per l’apposizione della denominazione stessa, poiché si tratterebbe soltanto di introdurre, per il
produttore extracomunitario, l’obbligo della apposizione della denominazione.
Il meccanismo non potrà sortire tutti i propri effetti positivi per i produttori comunitari se anche
questi ultimi non identificheranno l’origine dei propri prodotti con una denominazione come “Made
in Paese di origine – UE”. Nel caso i prodotti siano destinati all’esportazione, tale denominazione
potrà essere sostituita od integrata con quella eventualmente prevista dalle leggi doganali del
paese di destinazione delle merci.
L’apposizione - obbligatoria - della denominazione dei prodotti con origine UE dovrebbe essere
perseguita nonostante vi siano importanti pronunce della Corte di Giustizia UE che hanno
condannato alcuni Stati Membri per avere introdotto norme volte a rendere obbligatoria
l’apposizione di certificazioni di origine su prodotti interamente realizzati sul proprio territorio
nazionale.
Secondo la Corte, infatti, disposizioni siffatte sono in contrasto con gli artt. 28 e seguenti del
Trattato Istitutivo della UE che stabiliscono i principi di libera circolazione di merci e persone
capitali e servizi sul territorio comunitario, sanzionando la frapposizione di ostacoli volti a
compartimentare i singoli mercati nazionali.
Occorre sollecitare un cambiamento di questo orientamento nella convinzione che alla fase della
costituzione del mercato interno, fondata sull’abbattimento delle barriere, deve seguirne ora una
più orientata alla tutela ed alla promozione dei prodotti nazionali, eliminando altresì, discriminazioni
tra questi ultimi ed i prodotti importati.
Lo scopo principale della proposta è quello di introdurre, per i prodotti in ingresso nella Comunità,
l’obbligo di apposizione della denominazione di origine.
Tuttavia, sarà opportuno prevedere - come accennato - nel corpo del futuro provvedimento,
alcune esigenze particolarmente sentite dagli operatori: in particolare, quella che imporrebbe la
indicazione del Paese comunitario di origine, oltre la indicazione UE per i prodotti di origine
comunitaria, anche nell’ ottica di una maggiore informazione al consumatore.
Del resto, l’indicazione del Paese (e non di un generico “UE”) è richiesta per l’export ad esempio
negli Stati Uniti.
Quanto sopra è la risposta alla esigenza, fortemente sentita dalle Aziende, che sia evitata la
disciplina di un generico “Made in EU”.
13
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
Bisognerà poi tenere conto della circostanza che vi sono prodotti che, pur provenendo da un
Paese terzo, sono di origine europea in quanto una lavorazione sostanziale è stata fatta in uno o
più Paesi della Comunità, e prodotti importati da Paesi terzi o che comunque non subiscono una
lavorazione sostanziale in territorio comunitario.
Sottesa ad ogni eventuale normativa - nonché da considerare presupposto indispensabile - è la
esigenza che si armonizzi il sistema dei controlli e delle sanzioni in caso di violazioni per evitare
che la merce sia "dirottata" verso Paesi di immissione in libera pratica, più "favorevoli".
Una futura disciplina comunitaria nel senso ipotizzato dovrebbe salvaguardare le specificità di
determinati settori, quale, ad esempio, l’agroalimentare e recepire, per quanto possibile, quanto
previsto dalla normativa USA in tema di denominazione obbligatoria dell’origine dei prodotti.
Alla luce di quanto esposto, in concreto, riterremmo che si debba insistere per un Regolamento
relativo alla apposizione della indicazione del Paese di origine su prodotti importati all'interno del
territorio della Comunità, che dovrà considerare i seguenti punti:
•
la denominazione di origine dei prodotti in ingresso nella UE, frequentemente, costituisce
un motivo di scelta di un prodotto da parte dell’utilizzatore;
•
la denominazione di origine dei prodotti in ingresso nella UE viene frequentemente
contraffatta, inducendo così in errore l’utilizzatore dei beni ed i consumatori;
•
l’introduzione dell’obbligo per il fabbricante extracomunitario di apposizione della
denominazione di origine costituisce un’iniziativa di trasparenza per il mercato a vantaggio
dei produttori comunitari, degli utilizzatori e per la valorizzazione della responsabilità
sociale dell’impresa;
•
la denominazione dovrebbe essere apposta sui prodotti in ingresso nella UE con
riferimento al paese extracomunitario di origine;
•
occorre - necessariamente - armonizzare il sistema dei controlli e delle sanzioni in ambito
comunitario.
L’articolato dovrà dunque prevedere che i prodotti importati nel territorio della Comunità - fatta
eccezione per i prodotti agroalimentari che restano fuori dalla proposta normativa - devono recare
l’indicazione del Paese d’origine dei prodotti stessi.
Inoltre, per i prodotti individuati anche con il coinvolgimento delle Associazioni di Settore - ad
eccezione di quelli appartenenti al settore agroalimentare - di origine comunitaria, tale indicazione
fa riferimento al Paese della Comunità ove sono state realizzate le lavorazioni sostanziali o
prevalenti.
La normativa quadro dovrà comunque assicurare che sia possibile, per la natura del prodotto,
apporre una etichetta tale da consentire la tracciabilità dello stesso, salvaguardando esigenze
settoriali specifiche, quali ad esempio quelle del Tessile Abbigliamento, di avere una etichettatura
con informazioni chiare e sintetiche che garantiscano il consumatore.
Dovrà poi prevedersi che le Dogane Comunitarie, che espletano le formalità di importazione,
dovranno effettuare i necessari controlli e che l’importazione ovvero la commercializzazione di
prodotti con omessa, o recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o, comunque indicazioni
non conformi sia sanzionata pecuniariamente con riferimento al valore dichiarato della merce.
E, comunque, qualora si tratti di merci non comunitarie, in caso di non osservanza della
indicazione di origine, la Dogana dovrebbe impedire l’ingresso nel territorio doganale dell’Unione,
14
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
la immissione in libera pratica della merce, il suo collocamento in zona franca od in deposito
franco.
3.4. L’analisi e le proposte di Confindustria per un diverso orientamento della UE.
E’ opportuno anzitutto chiarire che con “marchio di origine” si indica il Made in o altre indicazioni
simili che attengono al paese di origine della merce e che, pertanto, tale fattispecie va tenuta
distinta da altre quali, il marchio comunitario (il marchio di fabbrica, di proprietà di un’impresa)9, le
denominazioni di origine e indicazioni di provenienza10 o le indicazioni geografiche e le
denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari11, con le quali è talora confusa.
Per valutare le prospettive di successo nel richiedere una norma europea che renda obbligatoria
l’apposizione del marchio d’origine sulle merci in circolazione nel mercato interno comunitario, è
necessario considerare gli aspetti relativi a:
a) apposizione del marchio di origine per i prodotti originari di paesi terzi;
b) apposizione del marchio di origine nazionale per i prodotti originari dell’UE;
c) criteri per determinare le condizioni di apposizione di questi marchi di origine.
a) Normativa che preveda l’obbligo di riportare il Made in sui prodotti originari di paesi terzi.
Il riferimento è l’art. IX del GATT. Il primo comma stabilisce che le condizioni attinenti ai marchi non
possono essere discriminatorie vis-à-vis i paesi terzi. La dottrina12 aveva inizialmente ventilato la
possibilità che l’Art. IX fosse coperto dall’obbligo del Trattamento Nazionale, di cui all’Art. III, il che
avrebbe comportato che le normative sui marchi sarebbero dovute essere non discriminatorie in
senso completo cioè le stesse per i prodotti importati e nazionali. Il Panel del 1991 relativo alle
restrizioni statunitensi sulle importazioni di tonno13 ha chiarito invece che l’art. IX non prevede un
obbligo di Trattamento Nazionale, ma soltanto il rispetto del principio della Nazione Più Favorita.
Il secondo comma stabilisce che bisogna ridurre al minimo indispensabile le difficoltà al commercio
derivanti da normative sui marchi di origine. Al riguardo, un Gruppo di Lavoro ha adottato nel 1958
una Raccomandazione volta a ridurre le difficoltà derivanti dall’adozione di normative sui marchi di
origine14. Tale Rapporto raccomanda di non prevedere un obbligo di marchi di origine su tutti i
prodotti, in maniera sistematica, ma solo per quei casi in cui esso sia ritenuto necessario. Inoltre,
propone di accettare la dicitura Made in, seguita dal nome del paese, come sufficiente per
soddisfare i requisiti posti da normative sui marchi di origine. Raccomanda, infine, di adottare
9
Si veda il regolamento (CE) del Consiglio del 20 dicembre 1993, n. 40, sul marchio comunitario (GUCE 1994
L11/1).
10
Secondo la Corte di giustizia, “le denominazioni di origine e le indicazioni di provenienza [...] devono, a
prescindere dagli elementi che possono più particolarmente caratterizzarle, possedere un requisito minimo:
esse devono mettere in rilievo la provenienza del prodotto da una determinata zona geografica. Nella misura in
cui le predette denominazioni sono giuridicamente tutelate, esse devono giustificare tale protezione, cioè
apparire necessarie non solo per difendere i produttori interessati dalla concorrenza sleale, ma altresì per
impedire che i consumatori siano tratti in inganno da indicazioni fallaci. La loro ragion d’essere consiste
precisamente nel designare un prodotto che possiede in effetti qualità e caratteristiche intimamente connesse
alla zona di provenienza. Per quanto riguarda più specificamente le indicazioni di provenienza, il collegamento
con la zona geografica d’origine deve poter evocare una qualità e caratteristiche tali da consentire una precisa
individuazione del prodotto”. Commissione delle C.E. c. Germania in Racc. 1975 pag. 181 (punto 7).
11
Vedi il regolamento (CEE) del Consiglio 14 luglio 1992, n. 2081, sulla protezione delle indicazioni geografiche e
delle denominazioni d’origine sui prodotti agricoli ed alimentari (GUCE 1992 L208/1).
12
Vedi, e.g., Jackson, The World Trade and the Law of GATT, 1969, pag. 460.
13
DS21/R, 3 settembre 1991, 39S/155, 203, par. 5.41.
14
7S/30; Rapporto L/912/Rev. 1, adottato il 21 novembre 1958, 7S/117.
15
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
norme sui marchi di origine che non prevedano obblighi che vadano aldilà dell’indicazione del
paese d’origine del prodotto importato.
Al di là di queste limitazioni, ogni Parte Contraente dell’OMC può adottare normative che
prevedano l’obbligo dell’indicazione dell’origine sui prodotti. Questo è quanto hanno fatto, ad
esempio, gli Stati Uniti d’America la cui Sezione 304 del Tariff Act prevede che ogni prodotto di
origine straniera importato negli USA debba recare il marchio indicante il paese di origine.
La norma, pertanto, mira a regolare i marchi di origine di prodotti importati e non i marchi di origine
dei prodotti in genere.
b) Normativa che preveda l’obbligo di riportare il Made in sui prodotti originari della UE.
Il primo riferimento è ai principi relativi alla libera circolazione delle merci, che sanciscono il divieto
di misure nazionali che pongano in essere restrizioni quantitative all’importazione o misure aventi
effetto equivalente a dette restrizioni fra Stati membri, salvo che per fattispecie eccezionali. Questi
principi sono stati interpretati dalla giurisprudenza nel senso che “qualsiasi normativa degli Stati
membri atta ad ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, il commercio
intracomunitario va considerata una misura d’effetto equivalente a restrizioni quantitative”15.
La giurisprudenza ha successivamente riconosciuto che in assenza di una normativa comune, una
norma nazionale indistintamente applicabile ai prodotti nazionali ed importati può derogare alle
esigenze poste dall’art. 28CE qualora possa ammettersi come necessaria per rispondere ad
esigenze imperative attinenti, inter alia, alla difesa dei consumatori16.
Un secondo elemento è la giurisprudenza comunitaria in materia di marchi di origine, che però
risale ai primi anni ottanta, quando l’obiettivo dell’instaurazione di un mercato unico era la priorità
assoluta della Comunità. Questa giurisprudenza si è ovviamente soffermata su misure nazionali e
ne ha verificato la compatibilità con le regole sulla libera circolazione delle merci. Pur nella
consapevolezza che la nostra valutazione verte su una possibile normativa comunitaria e non
nazionale, è pur tuttavia opportuno analizzare tale giurisprudenza per ricavarne linee guida utili per
approfondire l’analisi della problematica.
Un terzo elemento sono le precedenti iniziative di addivenire ad una norma comunitaria sui marchi
di origine. E’ interessante notare che per far fronte alle richieste ed iniziative nazionali, nello stesso
periodo la Commissione aveva presentato al Consiglio una proposta di direttiva sul
riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’indicazione dell’origine di taluni
prodotti tessili e d’abbigliamento.17
La proposta prevedeva la possibilità per gli Stati membri di rendere obbligatoria l’indicazione
dell’origine nella fase di vendita e facoltativa nella fase industriale o commerciale precedente la
vendita e ciò perché si riteneva che l’indicazione obbligatoria dell’origine in una fase precedente la
vendita potesse creare ostacoli agli scambi delle merci (quarto considerando). L’iniziativa della
Commissione fu però bloccata da una decisa opposizione del Comitato economico e sociale18, che
sostenne che “l’indicazione del paese d’origine dei prodotti non risponda ad una vera e propria
esigenza dei consumatori: per essi rivestono un’importanza maggiore altri tipi di informazione,
quali il prezzo, la composizione, la categoria, la qualità e le istruzioni per l’uso”.
Inoltre, il Comitato ritenne che l’indicazione, sul prodotto, del paese di provenienza avrebbe potuto
rivelarsi inutile o addirittura fuorviante per il consumatore, dato che l’indicazione non si riferiva al
15
Dassonville in Racc. 1974 pag. 837 (punto 5).
16
Vedi, e.g., Rewe in Racc. 1979 pag. 649.
17
GUCE 1980 C294/3.
18
GUCE 1981 C185/32.
16
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
paese d’origine delle materie prime o al paese dove erano state effettuate le fasi di lavorazione,
bensì unicamente al paese nel quale era avvenuta l’ultima fase del processo di lavorazione.
Il Comitato fece altresì notare che molti degli articoli che formavano oggetto della proposta di
Direttiva venivano prodotti mediante una serie di processi di lavorazione (in questi casi,
sembrerebbe quindi che le disposizioni intese a determinare in quale fase della lavorazione il
prodotto vada considerato ormai “fabbricato”, non abbiano alcuna importanza per il consumatore)
e che non era previsto alcun provvedimento per le merci che subivano una prima trasformazione
all’interno della CEE, che venivano esportate e, quindi, reimportate sotto forma di prodotto finito
(outward processing).
A parere del Comitato, inoltre, non era certo che l’etichetta “fabbricato nella CEE”, proposta in
alternativa, fosse un elemento essenziale o anche solo utile per l’informazione del consumatore,
né tantomeno il consumatore avrebbe tratto alcun vantaggio qualora l’indicazione dell’origine fosse
stata resa obbligatoria nella fase di vendita del prodotto, poiché il costo dell’etichettatura a carico
dei dettaglianti sarebbe ricaduta, in definitiva, sul consumatore stesso.
Fallito quindi l’approccio armonizzatore, la Commissione fu obbligata a contrastare le iniziative
nazionali con i ricorsi per inadempimento dinanzi alla Corte e la giurisprudenza comunitaria si è
attestata sulla seguente posizione: la tutela del consumatore non richiede, in tutti quei casi in cui
un prodotto non abbia qualità specifiche ricollegabili ad un certo territorio, che il produttore sia
obbligato ad apporre il marchio di origine di uno degli Stati membri dell’UE. La facoltà di cui
dispone di far questo, allorché lo ritenga opportuno, è sufficiente per proteggere l’interesse del
consumatore.
E’ opportuno osservare che la giurisprudenza fu provocata dall’esigenza di frenare iniziative
nazionali, non altrimenti controllabili visto il fallimento della proposta di direttiva, in un momento
particolarmente delicato dello sviluppo del progetto comunitario. Il rischio attuale è che l’imminente
allargamento potrebbe riportare in prima linea la prospettiva dell’integrazione comunitaria.
Dopo il fallimento di questo primo tentativo di armonizzazione, la Commissione sta nuovamente
tentando di avviare un processo di armonizzazione degli ordinamenti nazionali.
Nel 1998, infatti, ha avviato una consultazione successiva alla pubblicazione del “Libro verde sulla
lotta alla contraffazione ed alla pirateria nel mercato interno”. I settori d’intervento riguardavano, in
particolare, l’azione esercitata dal settore privato, l’efficacia dei dispositivi tecnici di sicurezza e
d’autenticazione, le sanzioni e gli altri strumenti finalizzati ad assicurare il rispetto dei diritti di
proprietà intellettuale, nonché la cooperazione amministrativa tra le autorità nazionali.
Il 30 novembre 2000, la Commissione ha quindi pubblicato una Comunicazione contenente un
ambizioso piano d’azione. Fra le iniziative contemplate vi è una proposta di “Direttiva relativa alle
misure e alle procedure volte ad assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale” intesa ad
armonizzare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in tema di
strumenti finalizzati ad assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale e a garantire che i
diritti disponibili godano di un livello di protezione equivalente nel mercato interno.
La proposta di direttiva riguarda le violazioni di tutti i diritti di proprietà intellettuale (diritti d'autore e
proprietà industriale, come ad esempio marchi, disegni e modelli).
La proposta di direttiva si basa sulle pratiche ottimali già presenti nelle legislazioni degli Stati
membri che sono risultate maggiormente efficaci. Tra i provvedimenti in applicazione di tale
Direttiva rientrano ingiunzioni per bloccare la vendita di prodotti contraffatti e pirata, misure
provvisorie quali il blocco cautelare dei conti bancari dei presunti contravventori, l'attribuzione alle
autorità giudiziarie della competenza ad acquisire prove e ordinare agli autori delle violazioni di
risarcire i titolari dei diritti per compensare le perdite subite.
17
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
La proposta di direttiva chiede inoltre agli Stati membri di garantire che tutte le violazioni gravi dei
diritti di proprietà intellettuale (deliberate e su scala commerciale), come pure qualsiasi tentativo,
complicità o istigazione di una violazione siano considerati reati passibili di sanzioni penali che
possono arrivare fino a pene detentive.
La proposta va oltre gli accordi WTO (TRIPs - aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al
commercio). La proposta di direttiva completa tali disposizioni aggiungendo le seguenti:
¾ divieto delle apparecchiature utilizzate per falsificare i dispositivi di sicurezza così da
indurre i consumatori a ritenere autentici articoli che in realtà non lo sono;
¾ introduzione per gli organismi di tutela professionale e gli enti di gestione dei diritti (oltre
che direttamente per i titolari dei diritti) del diritto d'iniziare procedimenti giudiziari;
¾ attribuzione alle autorità giudiziarie delle competenze necessarie per ordinare a chi venda
prodotti contraffatti o pirata di fornire informazioni sulla provenienza delle merci, le quantità
prodotte, consegnate e ordinate e sui prezzi e di identificare le persone coinvolte nelle reti
di produzione e distribuzione;
¾ pubblicazione delle decisioni giudiziarie;
¾ ritiro, a spese dell'autore della violazione, delle merci oggetto di violazione di un diritto
poste in vendita.
c) Criteri per determinare la legittimità dell’indicazione di origine riportata nel marchio.
Tutte le iniziative finora intraprese hanno fatto ricorso, come parametro di riferimento, alle regole
doganali sull’origine non preferenziale. Anche l’Accordo sulle Regole di Origine del GATT 1994
prevede, all’art. 1.2., che le regole di origine non preferenziale siano utilizzate anche per gli scopi
di cui all’art. IX GATT 1947, i.e. marchi di origine.
Il Regolamento di Attuazione del Codice Doganale Comunitario contiene due allegati che indicano,
per alcuni prodotti (tessili all. 10; non tessili, all. 11), le operazioni sufficienti a conferire l’origine
non preferenziale. Come criterio residuale, tuttavia, la prassi riconosce quello cd. del 45%, i.e.
l’origine è conferita al paese in cui il valore acquisito grazie alle operazioni di montaggio e,
eventualmente, all’incorporazione di pezzi originari del paese dove viene effettuato il montaggio,
rappresenta almeno il 45 % del prezzo franco fabbrica degli apparecchi.
Beni immateriali, come diritti di proprietà intellettuale, non sono di per sé riconosciuti come originari
del paese in cui sono stati prodotti o registrati, pertanto, nel quadro della regola del 45%, essi
sarebbero presi in conto in quanto riflessi nel prezzo e profitto del prodotto. Ad esempio, se un
prodotto fosse fabbricato in Vietnam usando un disegno italiano, e questo elemento si riflettesse in
un maggior livello del prezzo, il valore aggiunto verrebbe computato come originario del Vietnam19.
Queste regole, che rispondono ad esigenze doganali, potrebbero, in alcune fattispecie, mal
prestarsi alle esigenze collegate al marchio di origine. Ad esempio, l’origine doganale di un
autoveicolo, i cui maggiori componenti fossero importati dagli Stati Uniti, avrebbe probabilmente
l’origine americana anche se l’assemblaggio finale avesse luogo in Italia. In tal caso, esso
dovrebbe portare il marchio Made in USA.
Alla luce di quanto precede, risulta che non esistono profili di illegittimità di un’eventuale normativa
che preveda l’obbligatoria indicazione del Made in su prodotti originari di paesi terzi all’atto della
loro messa in libera pratica nell’UE. Per quel che riguarda una normativa che preveda
l’obbligatorietà dell’indicazione di origine nazionale (Made in Stato membro) per prodotti aventi
origine di Stati membri, si possono esprimere le seguenti osservazioni:
19
Se il prezzo franco fabbrica in Vietnam è 100, di cui 70 per costi di produzione (di cui 45 per
materiale di origine italiana e 25 per materiale e valore aggiunto di origine vietnamita) e profitto pari a 30,
l’origine non preferenziale è vietnamita in quanto il valore acquisito sarebbe pari a 55% (25+30) del valore
franco fabbrica.
18
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
¾ la giurisprudenza ha bocciato in maniera categorica normative nazionali che prevedevano
l’obbligatoria indicazione del marchio di origine nazionale per prodotti nazionali ed importati
da altri Stati membri. Nel far ciò, ha dato una chiara priorità all’esigenza dell’integrazione
europea rispetto a quella della protezione del consumatore;
¾ sebbene siano trascorsi circa venti anni dalla sentenza “Indicazioni di origine”,
sembrerebbe che la posizione della Commissione non sia modificata20, ciò ancor più in
vista dell’imminente allargamento dell’UE a dieci nuovi Stati, che probabilmente riproporrà
nuove esigenze di rafforzamento della nozione di mercato unico. Pertanto, è altamente
probabile che un marchio di origine nazionale, pur se accompagnato dal marchio CE
(CE/Stato membro o, ancor più, Stato membro/CE), in quanto “consente al consumatore di
effettuare una distinzione fra le merci nazionali e quelle importate e [dando] quindi loro la
possibilità di far valere gli eventuali pregiudizi contro i prodotti stranieri”, sia considerato
inaccettabile alla luce di questa giurisprudenza.
3.5. Conclusioni.
Una normativa che richieda l’obbligatorietà dell’indicazione dell’origine nazionale (made in Italy),
anche se accompagnata (seguita, o anche preceduta) dall’indicazione made in CE, per i prodotti
originari di Stati membri si porrebbe, con grande probabilità, in contrasto con la giurisprudenza
della Corte e la pratica sviluppata dalla Commissione. Un’iniziativa in tal senso potrebbe avere
successo solo nel caso in cui beneficiasse del sostegno delle istituzioni comunitarie, sul
presupposto che le esigenze (protezione del consumatore e facilitazione delle esportazioni
comunitarie verso Paesi terzi) ad essa sottese siano compatibili con la tutela del mercato interno,
soprattutto alla vigilia dell’allargamento.
Un’alternativa potrebbe essere costituita da una normativa che preveda l’obbligatorietà, del tutto
legale, del solo “made in CE” per i prodotti originari di Stati membri. Una norma di tal genere
avrebbe il pregio di evitare discriminazioni fra le imprese comunitarie, in quanto comporterebbe un
costo paritetico per tutte. Essa darebbe però la possibilità, alle imprese che lo desiderassero, di far
uso della facoltà di aggiungere, presumibilmente senza costi ulteriori, anche l’indicazione del
Paese di produzione, con l’ovvio vantaggio di fornire questa informazione al consumatore e di
conformarsi, allo stesso tempo, alle normative di Stati terzi che richiedessero questa indicazione.
Tale soluzione non avrebbe profili di incompatibilità con le norme e giurisprudenza comunitarie, in
quanto prevederebbe l’obbligo di apporre il marchio made in CE e la mera facoltà di riportare
l’indicazione made in Italy.
Per portare avanti un’iniziativa volta all’emanazione di normativa comunitaria per l’istituzione del
marchio di origine sui prodotti comunitari, gli argomenti a sostegno dovrebbero essere:
¾ con l’avvenuta globalizzazione, la Ue deve bilanciare le esigenze di integrazione del
mercato interno e dei nuovi paesi aderenti con quelle del commercio internazionale e della
competitività delle imprese. Se la Commissione europea intende limitare il ricorso a
strumenti di difesa commerciale, essa deve prevedere norme per regolamentare gli scambi
commerciali equiparando le merci prodotte e quelle importate, nel senso di assoggettarle
agli stessi obblighi in materia di marchio d’origine.
20
Vedi, e.g., la Comunicazione della Commissione al Consiglio, Parlamento europeo, Comitato Economico e
Sociale e Comitato delle Regioni del 7 maggio 2003, Strategia sul Mercato Interno, che ribadisce la
fondamentale importanza della difesa dei principi su cui poggia il Mercato Interno.
19
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
¾ un’iniziativa comunitaria in tal senso eliminerebbe le discriminazioni fra prodotti nazionali ed
importati, in quanto li porrebbe tutti su uno stesso piano. Pertanto, avrebbe il vantaggio di
evitare costi aggiuntivi soltanto per alcuni produttori;
¾ le imprese europee non sarebbero più costrette a produrre e stoccare merci
separatamente, a seconda o meno che siano dirette verso paesi che richiedono il Made in
nazionale, oppure, nel caso volessero evitare questo problema, ad apporre su tutte le merci
il Made in, con aggravio dei costi rispetto ad altri concorrenti che non esportano. Al
riguardo, si noti che la Commissione nel criticare le normative nazionali che richiedevano il
Made in ha sovente richiamato, ricevendone l’avallo della Corte, lo svantaggio che avrebbe
subito la merce importata per effetto dei costi di produzione necessari per la marchiatura
dei prodotti21;
¾ tale iniziativa potrebbe essere riportata nell’alveo della precedente iniziativa del 1980, ed
opportunamente preparata per evitare una nuova bocciatura. Al riguardo, andrebbe fatta
attenzione per individuare la base legale e lo chef de file più idonei ad assicurare il più forte
sostegno possibile alla causa;
¾ con le riserve già formulate, l’idea di un marchio CE/Stato membro potrebbe essere
presentata come una soluzione di compromesso sul punto. Infatti, da una parte
rafforzerebbe l’idea di un mercato in primis comunitario e, solo subordinatamente, darebbe
indicazioni dell’origine nazionale della merce, anche per soddisfare i requisiti imposti da
taluni Paesi terzi.
21
Vedi, e.g., sentenza “Indicazioni di origine”, punto 8; conclusioni dell’A.G. Darmon nella stessa causa, punto 2,
in cui evidenzia che “[s]econdo la Commissione, l’Order imporrebbe agli esportatori nel Regno Unito ulteriori
spese dovute alla marchiatura come pure alla necessità di predisporre delle serie e delle scorte speciali”.
20
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
4. Tavole statistiche.
Tav.1
21
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
Tav.2
22
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
Tav.3
23
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
Tav.4
24
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
Tav.5 - EU-15 Trade with China (Jan. – Dec. 2001)
Source: Eurostat
Unit: million Euro
YEAR TO DATE
Change y-o-y %
IMPORT
France
EXPORT
IMPORT
EXPORT
8.343,05
3.551,75
2,3%
3,8%
Netherlands
10.347,33
1.240,76
23,9%
14,5%
Germany
28,4%
18.117,40
12.064,15
6,1%
Italy
7.480,56
3.272,14
6,5%
37,5%
UK
15.529,86
2.744,34
10,3%
14,8%
113,0%
Ireland
768,26
354,01
-10,6%
1.466,93
449,79
2,9%
Greece
884,40
41,05
22,2%
23,5%
Portugal
350,83
60,17
-8,2%
14,1%
Spain
4.417,14
633,75
7,8%
16,7%
Belgium
3.961,19
1.484,30
5,1%
17,5%
75,09
52,72
-15,3%
-22,3%
Denmark
Luxembourg
Sweden
8,3%
1.809,10
1.743,19
-2,6%
-14,7%
Finland
866,71
1.264,75
-6,6%
-9,6%
Austria
1.044,23
852,44
24,0%
48,2%
EU15
75.462,09
29.809,31
8,3%
18,2%
Tav.6 - Eu-15 Trade with China (Jan. – Dec. 2002)
Source: Eurostat
Unit: Million Euro
YEAR TO DATE
France
Netherlands
Germany
Italy
UK
Ireland
Denmark
Greece
Portugal
Spain
Belgium
Luxembourg
Sweden
Finland
Austria
EU15
IMPORT
8.572,2
11.827,7
19.058,0
8.307,4
16.811,4
760,4
1.472,7
1.023,3
344,7
4.755,3
4.536,6
74,4
1.786,7
952,0
1.162,5
81.445,1
Change y-o-y %
EXPORT IMPORT
EXPORT
3.708,5 2,7%
4,4%
1.570,2 13,3%
26,8%
14.494,9 5,2%
19,6%
4.018,4 11,1%
22,8%
2.363,7 8,3%
-13,9%
547,6 5,9%
60,0%
541,6 0,2%
18,6%
60,2 8,7%
22,0%
80,6 -1,8%
34,0%
785,4
7,7%
23,9%
1.865,9
5,1%
10,3%
58,9 -7,9%
-1,2%
1.502,7 -1,2%
-13,1%
1.207,6
9,8%
-4,5%
1.177,8 11,2%
34,5%
33.983,8
25
7,3%
13,0%
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
Tav.7 - EU –15 Trade with China (Jan. – Mar. 2003)
Source: Eurostat
Unit: million euro
2003-Jan
IMPORT
France
2003-Feb
EXPORT
IMPORT
2003-Mar
EXPORT
IMPORT
YEAR TO DATE
EXPORT
IMPORT
Change year on year %
EXPORT
IMPORT
EXPORT
844,0
368,5
689,9
337,9
658,6
365,2
2.192,5
1.071,6
7,5%
43,0%
Netherlands
1.261,7
144,9
1.181,7
131,2
1.142,6
158,9
3.586,0
435,0
28,6%
20,7%
Germany
2.089,6
1.382,7
1.660,1
1.291,7
1.565,1
1.327,9
5.314,8
4.002,3
18,1%
25,9%
Italy
908,0
285,4
766,9
313,2
725,8
355,2
2.400,7
953,9
14,9%
27,3%
UK
1.351,4
176,4
1.225,9
174,1
1.137,9
188,9
3.715,2
539,3
-0,7%
-28,3%
94,9
35,3
81,2
43,4
86,0
58,7
262,1
137,5
36,2%
-9,4%
119,3
22,4%
41,2%
-6,4%
120,8%
Ireland
Denmark
156,9
44,5
140,7
39,9
59,1
417,0
143,6
Greece
80,2
4,1
74,3
1,0
-
-
154,5
5,1
Portugal
30,8
5,1
26,6
10,1
24,2
14,5
81,7
29,8
Spain
462,8
78,2
423,6
94,0
402,1
87,6
1.288,5
259,8
6,9%
58,1%
Belgium
407,2
137,5
373,0
203,3
373,7
142,1
1.153,9
482,9
15,0%
21,5%
8,0
8,1
31,9
11,7
59,5
10,5
99,4
30,3
462,8%
214,9%
172,6
120,5
218,9
140,0
227,9
222,8
619,4
483,2
43,2%
53,1%
Luxembourg
Sweden
Finland
78,9
74,2
82,2
83,2
94,3
94,8
255,4
252,3
34,9%
8,8%
Austria
129,6
63,5
99,8
74,9
106,6
62,7
336,0
201,1
53,2%
22,1%
8.076,5
2.929,0
7.076,7
2.949,6
6.723,8
3.148,9
21.877,0
9.027,5
16,1%
23,0%
EU15
Tav. 8 - Flussi commerciali UE – Cina per voce merceologica
Machinery & mechanical applicances
Target
CHINA
Year
Import(Euro)
Export(Euro)
1996
6,829,013,940
8,125,162,380
1997
8,802,222,130
7,688,821,590
1998
10,937,420,050
8,403,623,120
1999
13,972,807,140
9,155,443,540
2000
23,247,731,810
12,304,494,110
2001
25,638,848,080
15,243,440,080
2002
29,893,126,720
16,742,901,090
Textiles & textile articles
Target
CHINA
Year
Import(Euro)
Export(Euro)
1996
5,269,481,130
207,583,750
1997
6,459,794,420
237,334,430
1998
6,775,976,220
224,217,570
1999
7,845,237,620
285,036,520
2000
9,665,292,900
450,139,730
2001
10,233,246,080
510,563,670
2002
11,175,080,020
563,117,360
26
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
Toys, games, and sports requisites
Target
CHINA
Year
Import(Euro)
Export(Euro)
1996
2,917,316,380
40,783,000
1997
3,617,955,590
27,560,760
1998
3,676,643,580
15,776,980
1999
4,377,099,780
12,696,780
2000
5,860,452,910
16,406,480
2001
5,930,038,400
21,957,120
2002
6,512,591,210
19,893,430
Footwear, headgear
Target
CHINA
Year
Import(Euro)
Export(Euro)
1996
1,874,251,070
7,731,940
1997
2,127,305,940
13,640,930
1998
2,094,735,590
16,990,910
1999
2,242,653,230
12,405,240
2000
2,889,052,800
13,597,380
2001
3,096,437,950
17,604,850
2002
3,124,223,090
20,594,220
Pharmaceutical products
Target
CHINA
Year
Import(Euro)
Export(Euro)
1996
57,744,230
156,966,350
1997
89,056,120
161,534,270
1998
127,542,070
179,711,330
1999
121,557,760
190,725,330
2000
153,783,820
328,343,720
2001
145,349,490
380,233,180
2002
214,639,230
462,055,920
Essential oils and resinoids; perfumery, cosmetic or toilet
preparations
Target
CHINA
Year
Import(Euro)
Export(Euro)
1996
50,755,990
10,133,650
1997
60,069,540
18,107,410
1998
60,231,330
17,820,480
1999
64,465,570
20,227,850
2000
115,568,880
43,124,170
2001
146,547,250
43,445,400
2002
172,852,080
57,268,290
Source: DG Trade, European Commission – Statistical Tradeflow Database
27
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
Tav.9
Tav.10
28
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
Tav.11
29
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
Tav.12
30
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
Tav.13
31
Rapporti Unione Europea – Cina. Linee guida per la tutela dei prodotti di origine europea
Tav.14
32