la letteratura italiana nel settecento

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la letteratura italiana nel settecento
UTE
Anno 2013-14
LA LETTERATURA ITALIANA
NEL SETTECENTO
Programma
(per punti sintetici)
1. Il quadro storico- culturale in Europa e in Italia
nel Settecento
2. Dall’Arcadia alla letteratura “teatrale”:
il melodramma e PIETRO METASTASIO
3. L’Illuminismo in Italia e la cultura lombarda nell’età
di Maria Teresa:
PIETRO VERRI, CESARE BECCARIA, GIUSEPPE PARINI
4. La cultura veneziana e il teatro di CARLO GOLDONI
5. Dal Neoclassicismo alla scrittura tragica di
VITTORIO ALFIERI
L’ETÀ DELLA RAGIONE E DELLE RIFORME
1. UN NUOVO ORIZZONTE STORICO
Tra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento sembra entrare in crisi, in gran parte d'Europa, il
sistema sociale e culturale di Antico regime: cominciano a porsi le basi di trasformazioni radicali, che
nel corso del secolo XVIII provocheranno un'accelerazione senza precedenti di tutti gli aspetti della
vita umana e produrranno rapporti sociali e culturali completamente nuovi. Si rompono vecchi
equilibri e i primi segni di questa frattura si verificano in ambito politico-militare e culturale;
nell'esistenza quotidiana le novità appaiono invece limitate, anche se fortemente significative.
La maggioranza della popolazione europea vive come nei secoli precedenti: permangono la nettissima
distanza tra città e campagna, gli invalicabili e feroci confini tra le classi, il dominio assoluto dei valori
della Controriforma nei paesi cattolici, il monopolio del potere economico (e degli strumenti culturali) da
parte della nobiltà e del clero; e poi l'estrema precarietà della vita umana, gli altissimi tassi di mortalità,
aggravati dalle guerre che insanguinano l'Europa.
Ma, ai margini del sistema di vita e di controllo sociale che caratterizza il vecchio continente, è in
pieno movimento il mondo avventuroso dei traffici, dei nuovi commerci, della colonizzazione: anche
grazie ai progressi tecnici compiuti dalla navigazione a vela, gli oceani sono percorsi da un numero
crescente di navi; mercanti, imprenditori e pirati si volgono verso il continente americano o verso
l'Oriente, sfruttando quasi sempre in modo spietato le popolazioni con cui entrano in contatto, e
trasferendo su quel più vasto orizzonte le rivalità e i conflitti che hanno luogo all'interno dell'Europa.
La lotta per il dominio economico e politico si proietta, per la prima volta nella storia, sull'intero pianeta,
dando avvio a un processo che ai nostri giorni trova il suo pieno compimento.
(…)
L’Italia è ormai un elemento non primario nel quadro della politica europea: non è il centro dello
scontro tra le potenze, come era stata nel secolo XVI, né l’oggetto di un dominio stabile e chiuso (come
quello spagnolo del secolo XVII); è diventata, piuttosto, una semplice pedina in gioco di equilibri i cui
centri irradiatori si trovano in altri paesi: anzitutto in Inghilterra, poi nella Francia dei Borbone – a cui si
collega ora, ma in posizione sempre più marginale, la Spagna – e nell’Austria degli Asburgo. Intanto
assumono crescente rilievo altre compagini statali, come la Russia degli zar e la Prussia di Federico II.
2. UN SAPERE IN MOVIMENTO
Una febbrile attività di riflessione e di ricerca, che si manifesta soprattutto in Inghilterra, in Francia
e in Olanda, mette in questione, già nella fase finale del secolo XVII, le certezze ideologiche e
morali dell'assolutismo, il dogmatismo religioso e politico, ogni concezione statica e monolitica del
sapere e della conoscenza. Lo storico Paul Hazard ha parlato, per questi anni, di una «crisi della
coscienza europea» e ne ha individuato il carattere fondamentale in una disponibilità tutta nuova alla
discussione e all'indagine razionale. Si tratta di un processo che riguarda soltanto le punte più avanzate
della cultura europea e che sembra sviluppare quelle istanze di rigore, di spregiudicatezza e di
coerenza che erano state sostenute dal razionalismo cartesiano e dalla nuova scienza galileiana; ma
ad esso contribuisce anche quella ribellione al principio d'autorità che aveva improntato la Riforma
protestante, l'opera di alcuni grandi filosofi del secolo XVI e il libertinismo miscredente, molto vivo negli
ambienti nobiliari colti del secolo XVII.
Queste e altre componenti concorrono a provocare una integrale laicizzazione del sapere, che non
intende più essere il diretto sostegno di sistemi sociali, la riproduzione di valori già dati e considerati
indiscutibili: intende piuttosto essere ricerca, interrogazione della realtà nelle sue pieghe più concrete,
e nel contempo mira a fissare autonomamente le proprie leggi e i propri limiti. La conoscenza non
deve avere altre responsabilità e altri scopi che il suo stesso approfondimento: qualsiasi oggetto può
essere illuminato dalla luce del sapere; e si diffonde la convinzione che una religione autentica non può
aver nulla da temere dall'indagine razionale. Si pongono insomma le basi del moderno concetto laico e
borghese di cultura, necessaria premessa del movimento illuministico. Quasi tutti gli esponenti di
questa nuova cultura appartengono però ancora al mondo del clero o della nobiltà (nei paesi cattolici è
molto diffusa la singolare figura intellettuale dell'abate).
Questa volontà di conoscenza si confronta continuamente con l'errore e con l'impostura: sa che
la menzogna, cosciente o no, si annida in ogni momento della comunicazione tra gli uomini e che la
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stessa razionalità, se allenta il proprio rigore, rischia di tradursi in inganno. È già ampiamente diffuso il
concetto della conoscenza come «illuminazione», come fuga dalle tenebre dell'errore; nasce cosi la
critica in senso moderno: come analisi senza pregiudizi dei discorsi e dei fatti umani. Essa, tenendo
conto degli insegnamenti della filologia umanistica, si propone di esplorare i fondamenti del sapere
storico, di indagare la credibilità dei testi e dei documenti trasmessi dalla tradizione, e non arretra
nemmeno di fronte alla Sacra Scrittura. (…)
Al di là degli schieramenti politici e religiosi, si sviluppa un nuovo terreno comune per gli uomini
di cultura, un terreno in cui devono valere le regole della discussione tollerante, del dissenso
argomentato, della collaborazione civile, della dimostrazione razionale: si tratta di una libera
«repubblica delle lettere», dove non si danno autorità e poteri precostituiti, ma in cui tutti gli
intellettuali cooperano, impegnandosi in ricerche che ammettono vari punti di vista.
(da STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA – Dal Cinquecento al Settecento, G. FERRONI
Ed. EINAUDI, Milano 1991, pag. 337-340)
3. L’ITALIA DI FRONTE ALL’EUROPA
Gli intellettuali italiani non possono ora guardare agli stranieri con la superiorità e la sufficienza
a cui erano abituati nel Cinquecento: paesi come la Francia e l'Inghilterra si impongono ora come
necessari punti di riferimento della vita civile e culturale. L'Italia si accorge di non poter fare a
meno dell'Europa, ed è costretta a confrontarsi con una cultura elaborata altrove e indifferente
all'ormai vecchio modello «rinascimentale» italiano.
Ciò non significa che la cultura italiana sia in una condizione totalmente marginale: la
persistente tradizione scientifica galileiana produce risultati notevolissimi, e i grandi intellettuali
italiani del primo Settecento ottengono riconoscimenti e suscitano attenzione in tutta Europa;
l'italiano è una lingua ancora nota nelle corti del continente e, grazie alla diffusione della commedia
dell'arte e del melodramma, esso resta lo strumento espressivo internazionale dello spettacolo. La
nostra penisola è ancora una meta privilegiata nei viaggi degli intellettuali, che in questo periodo
crescono straordinariamente di numero (si pensi ai viaggi in Italia di tre grandi scrittori europei:
Montesquieu, Gibbon e Goethe); ma sempre più numerosi sono anche gli intellettuali italiani che
viaggiano o addirittura emigrano in paesi stranieri.
Da molte parti si comincia ad avvertire il ritardo dell'Italia, ma è ancora molto diffusa la
convinzione che esso possa essere superato con l'impegno intellettuale e con la rivitalizzazione di
una gloriosa tradizione. Prende allora avvio quel tentativo di adeguarsi alle più avanzate civiltà
europee che diventerà un tratto permanente della moderna cultura italiana: ne scaturiscono analisi
impietose delle condizioni «depresse» della vita del paese, accessi improvvisi di orgoglio
nazionale, propositi di rilanciare un patrimonio illustre, richieste appassionate di
«sprovincializzazione», chiusure rabbiose verso tutto ciò che viene d'Oltralpe.
Questo alternarsi di adesioni e di rifiuti lascia intravedere, al di là della frantumazione nei vari
Stati, il senso di una identità nazionale, che è non solo etnica, linguistica o letteraria (come era
accaduto in passato), ma propriamente culturale, e che coincide con una comunità intellettuale,
definibile in rapporto e in confronto con altre comunità nazionali europee.
L'apertura all'Europa è verificabile anche attraverso una notevole serie di scambi linguistici,
specialmente col francese: grazie a questi si modifica e si arricchisce la struttura stessa
dell'italiano, che cerca di sfuggire ai rigidi limiti imposti dal purismo dell'Accademia della Crusca; la
lingua riflette così quella laicizzazione culturale che anche in Italia si mette in moto alla fine del
Seicento, sia pure tra ostacoli e contraddizioni. Rispetto a quel che avviene in Francia, in
Inghilterra e in Olanda, da noi ogni iniziativa culturale sembra rallentata da mancanza di audacia,
dalla preoccupazione di non turbare eccessivamente i rapporti sociali e istituzionali esistenti.
(…)
In Italia il quadro sociale e la stessa vita quotidiana rimangono sostanzialmente immobili. Alla
depressione e alla miseria delle campagne si accompagnano la separazione sempre più netta tra
vita urbana e vita campestre e lo sviluppo di una nuova nobiltà di origine borghese, nata
dall’acquisto dei terreni e dei corrispondenti titoli nobiliari; in forte espansione sono anche i
possedimenti ecclesiastici, con i relativi benefici e prebende.
Salvo alcune eccezioni, l’attività culturale è in tutta Italia prerogativa dei nobili e degli abati; in
alcuni grande centri (come Napoli, che è la città più popolosa d’Italia) si sviluppa un «ceto civile»
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Di uomini di legge e di funzionari, che ha un ruolo determinante nell’elaborazione di una cultura
storica e giuridica. Anche per il livello bassissimo di alfabetizzazione, il pubblico coincide quasi
completamente con questi strati sociali, sebbene esistano differenze nettissime tra i vari centri
(dove si svolge un’intensa attività teatrale, come a Venezia, il pubblico può includere strati
borghesi e perfino popolari).
All’interno di questo universo statico, che cerca di sfuggire all’isolamento e aspira a più intensi
contatti con altre realtà, si svolgono comunque molteplici fenomeni che diventano più chiaramente
individuabili a metà del Settecento, provocando una radicale trasformazione della vita quotidiana,
dei rapporti tra le classi sociali e della comunicazione culturale.
4. L’ARCADIA E IL MODELLO PASTORALE
La ricerca di una poesia più razionale e la reazione agli eccessi del marinismo costituirono la
linea programmatica dell'Accademia dell'Arcadia, fondata a Roma il 5 ottobre 1690 da un gruppo di
scrittori, tra i quali Giovan Mario Crescimbeni, Vincenzo Leonio, Gian Vincenzo Gravina,
Giambattista Felice Zappi. L'Arcadia raccoglie immediatamente l'eredità delle accademie formatesi
nella Roma del tardo Seicento (come quella Reale, fondata nel 1674 dall'ex regina di Svezia Maria
Cristina) e ottiene in poco tempo l'adesione di quasi tutti i maggiori scrittori italiani.
Determinante, nella struttura accademica arcadica, è il travestimento pastorale: ogni socio deve
assumere un nome pastorale greco fittizio e tutte le attività accademiche devono svolgersi nel
bucolico stile di vita dell'antica Arcadia: il luogo delle riunioni viene definito Bosco Parrasio;
l'insegna dell'accademia è la siringa di Pan, ma il protettore è Gesù Bambino, visitato e onorato dai
pastori; a capo dell'Accademia si trova un custode generale (…).
L'«antica favola» classica dell'Arcadia si pone quindi come occasione di rapporti tra i letterati e
di iniziative culturali: si rinnova cosi l'uso che del modello pastorale la letteratura italiana aveva già
fatto, con una fortuna e una diffusione europee. Il mondo dei salotti contemporanei si trasferisce in
ambienti campestri e boscherecci, frequentati da pastori e da pastorelle; e, al di là delle stesse
intenzioni dei fondatori dell'Arcadia, questa moda si espande e si afferma trionfalmente per tutto il
Settecento. Una società ideale prende il posto di quella reale, e ne riproduce, purificate e
distanziate, le stesse forme e le stesse regole. In questo mondo dell’evasione e dell'artificio, la
stessa natura diventa artificio: i paesaggi sono stilizzati e culturalizzati, come in un teatro
sapientemente costruito, dove va in scena il superficiale rito quotidiano dell'elegante società
aristocratica.
Si ha cosi una «riforma» che intende rilanciare la tradizione nazionale, restaurare i valori
classici, trasferendoli sul piano di un'utopia che coincide con la finzione: il suo recupero di
razionalità è compromesso fino in fondo dall'artificio. L'«antica favola» pastorale non può
assolvere quelle funzioni civili e razionali che avrebbe voluto attribuirle il Gravina, ma solo
consacrare il valore della società presente, nascondendo tutte le scorie e le contraddizioni che la
contaminano.
(op. cit., pag. 347-352)
5. IL MONDO DEL MELODRAMMA
La lingua e la letteratura italiana sono presenti in tutta Europa nel Settecento nella forma del
libretto melodrammatico, necessario supporto (spesso molto convenzionale) per quegli elementi
spettacolari su cui si fonda il successo dell'opera in musica. Varie esperienze portano in primo
piano l'aspetto drammatico e letterario del libretto, creando un modello che, nel corso del secolo e
fino all'Ottocento, si rivela tra i più essenziali e resistenti di tutta la storia letteraria.
Poeta d'occasione o di professione, il librettista deve possedere capacità di sintesi drammatica
e un buon controllo delle formule più correnti del linguaggio poetico. Deve lavorare per lo più su
temi e situazioni teatrali e narrativi preesistenti, disponendo di tutto il repertorio della tradizione e
dell'invenzione letteraria, da cui deve ricavare un intreccio drammatico capace di adattarsi agli
schemi, alle convenzioni, alle necessità e ai mezzi tecnici in voga nello spettacolo operistico e
utilizzabili dagli organizzatori; il linguaggio deve possedere qualità foniche e ritmiche che rendano
possibile la sovrapposizione della musica e del canto (e i musicisti sono in genere pronti a
modificare le parole del libretto secondo le proprie esigenze); lessico e sintassi devono
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mantenersi a un livello facilmente comunicabile all'eterogeneo pubblico che segue gli spettacoli, e
spesso legge le parole nel libretto appositamente stampato.
Dal punto di vista metrico, nel primo Settecento, la struttura del libretto è già definita, con una
precisa distinzione tra recitativi e arie: nei recitativi - composti secondo uno schema di selva, in
endecasillabi e settenari con rima libera o senza rima - si concentrano l'azione e il dialogo vero e
proprio; nelle arie, composte di strofe molto brevi e variamente rimate, si presentano situazioni
liriche, sentenze o «paragoni», su cui devono appuntarsi l'impegno compositivo dei musicisti e la
bravura dei cantanti.
Attraverso la struttura del libretto il tradizionale linguaggio poetico italiano raggiunge una
diffusione internazionale e tocca strati di pubblico molto vasti (anche popolari, come, in modo più
marcato, accadrà nell'Ottocento).
(op. cit., pag. 375)
6. L’ILLUMINISMO
Dalla «crisi della coscienza europea» si sviluppa, nel corso del secolo XVIII, l’ILLUMINISMO: la
denuncia dell’errore e dell’inganno e l’impegno critico della «repubblica delle lettere» sfociano in
nuove forme di comportamento culturale, guidate da una spinta di rinnovamento che percorre tutta
la società europea. Il concetto di Illuminismo, a differenza di altri concetti storiografici, ha origine
nell’epoca stessa a cui si riferisce, è definito dalla coscienza stessa di uomini e di intellettuali che
sentono di far parte del «secolo dei lumi», dell’âge des lumières, e che in vari modi si impegnano
per «illuminare» l’orizzonte intero del mondo contemporaneo, per rovesciare valori e norme sociali
e creare modi di vita più razionali e più felici.
L’Illuminismo è insieme un movimento e un atteggiamento: come movimento esso vede
impegnati gruppi di intellettuali dotati di eccezionale rigore teorico e conoscitivo, studiosi delle più
diverse discipline (philosophes, “filosofi”, è il termine con cui essi sono designati in Francia e
filosofia viene spesso definito, anche in Italia, il procedimento razionale illuministico); come
atteggiamento si diffonde in forme anche superficiali ed esteriori tra le classi dominanti europee.
Esso imprime una svolta radicale alla cultura occidentale, imponendo una nuova concezione dei
rapporti tra cultura, società e realtà, e creando in tal modo le premesse della società moderna.
Sulla base dell’esperienza storica del secolo XVIII, l’Illuminismo si presenta così come elemento
peculiare e stimolo costante di tutta l’evoluzione della società occidentale: e, almeno in apparenza,
anche le società industriali contemporanee continuano a reggersi su alcuni dei valori da esso
proposti e definiti. In questa più ampia prospettiva, l’Illuminismo può essere riconosciuto come un
tentativo di sottoporre tutto lo sviluppo della realtà al controllo della ragione: non ci sono territori
della conoscenza che sfuggono al processo di «rischiaramento»; l’occhio dell’uomo non subisce
più proibizioni o inibizioni, si rivolge a conoscere e a interpretare tutto ciò che è aperto o nascosto,
nella natura e nella coscienza.
La «ragione», che guida questa ricerca, è tutt’altro che rigida e aprioristica: si misura e si
confronta con il reale, e sulla base dell’esperienza verifica i propri limiti. L’Illuminismo non è
caratterizzato da un semplice «razionalismo», ma dall’intento di emancipare l’uomo dalla tradizione
e dal mito, di delegare all'uomo ogni responsabilità e decisione per il proprio destino, contribuendo
a farlo «uscire di minorità», secondo la definizione che ne diede Kant nel 1784. C'è una
sostanziale fiducia nelle capacità di progresso dell'uomo: la sua storia gli appartiene integralmente,
e solo lui può allontanare e dissolvere gli errori, i pregiudizi, l'ignoranza, l'oppressione che
appartengono alle società del passato; la sua intelligenza può far nascere una storia nuova in cui
costruire un mondo umano, felice, civile. Si tenga presente che l'Illuminismo settecentesco non è
affatto «antistorico»: esso scopre e afferma in modo definitivo il carattere umano della storia.
L'uomo viene posto al centro dell'universo - e in ciò ci si riallaccia alla tradizione umanistica mentre la natura, vista come fondamentalmente buona e razionale, appare «rischiarabile»:
secondo la concezione illuminista, natura e civiltà tendono a coincidere e l'uomo deve ripercorrere
e riscoprire da solo, senza i vincoli dei limiti e delle leggi imposti dalla tradizione, l'ordine delle cose
e quello delle parole. Il linguaggio e la cultura possono e devono controllare non soltanto la natura
ma anche la società; tutti i valori elaborati dalla morale e dalla cultura devono avere una
corrispondenza sul piano della vita civile e sociale e realizzarsi nell'ambito dell'esistenza concreta:
nasce cosi una concezione integralmente «laica» della dimensione collettiva.
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Dato che nulla può essere sottratto all'indagine umana, l'uomo può conquistare tutto, la civiltà
può tendere allo sfruttamento di ogni risorsa terrestre: la realtà materiale, gli spazi fisici della terra,
ma anche le culture «diverse», quelle degli strati «inferiori» delle popolazioni europee e delle civiltà
con cui l'Europa coloniale entra in contatto, quelle dei cosiddetti «selvaggi», non possono sfuggire
alla razionalizzazione da parte della civiltà illuminata.
Si creano cosi le premesse per l'unificazione, per la fusione delle varie culture in una cultura
universale, che annullerà quelle più deboli, marginali, subalterne e locali, incapaci, come tali, di
controllare tutti gli spazi della natura e del comportamento umano. Fattori che possono contribuire
a realizzare questo processo, tuttora in corso, sono l'espansione mondiale dell'industria e dei
sistemi di controllo tecnologico: l'Illuminismo settecentesco avverte i primi sintomi della rivoluzione
industriale e sostiene a suo modo l'espansione della tecnica e la trasformazione della realtà ma,
ben lungi dal vederne le conseguenze distruttive, vi scorge solo nuove occasioni di felicità,
possibilità di più tollerabili condizioni di esistenza per larghe masse di uomini.
All'interno dell'Europa, la spinta all'unificazione culturale presenta poi un fortissimo elemento
positivo: la rottura delle barriere tra le diverse culture nazionali, l'affermazione di un aperto
cosmopolitismo, di una nuova civilissima sete di conoscenze e di scambi internazionali. (…)
Fino allo scoppio delle rivoluzioni americana e francese, la cultura illuministica rivolge le sue
critiche all’interno della società di Antico Regime, evitando conflitti espliciti con i regimi assoluti che
sono al potere in quasi tutta Europa; molti illuministi appartengono alla nobiltà o al clero, e
giungono anche a collaborare con alcuni sovrani propensi a introdurre riforme nei loro Stati. ( v.
figure di sovrani «illuminati», come Federico II di Prussia, ndr ). (…) Ma la collaborazione tra gli
intellettuali e il potere assoluto comporta varie contraddizioni, difficoltà e sospetti; in alternativa alla
collaborazione si formano organizzazioni segrete, nelle quali si elaborano critiche a quello stesso
potere a cui si presta formalmente ossequio, ma che in realtà si progetta di sostituire: ad esempio,
ha una rapida e travolgente fortuna in tutta Europa la massoneria.
Se queste sono le tendenze generali, le concrete esperienze degli intellettuali illuministi
presentano una ricca varietà di posizioni e di punti di vista: gli stessi problemi e gli stessi fenomeni
vengono affrontati secondo prospettive contrastanti e alternative. L’Illuminismo acquista caratteri e
sfumature diverse a seconda della nazione in cui si sviluppa; e i temi del dibattito culturale dividono
gli intellettuali in diversi schieramenti (…).
Per quanto riguarda la più specifica dimensione letteraria, l’Illuminismo mantiene una
sostanziale fiducia nella tradizione classica e nella poetica oraziana dell’utile dulci, ricercando una
nitidezza espressiva sorretta da un linguaggio chiaro e razionale; ma nello stesso tempo si
confronta con le «cose», con gli oggetti della realtà presente, superando i limiti di un classicismo
troppo chiuso e dogmatico. Necessarie anche qui molteplici distinzioni (…).
Riconoscendo la sua estrema varietà di prospettive, la recente storiografia ha ribadito la vitalità
e la validità dell’Illuminismo, smentendo i luoghi comuni di origine romantica e idealistica, che gli
attribuivano un cieco razionalismo, un facile progressismo ottimistico, una indifferenza alla storia, e
ha anzi mostrato come molti dei problemi e delle soluzioni fondamentali del Romanticismo e
dell’idealismo sono stati impostati proprio dall’Illuminismo.
Ma nel riaffermare il valore e la forza di questo movimento, che ha create le basi della cultura
laica e di tutte le moderne concezioni della vita, non si dovrà dimenticare che in esso trovano la
loro radice anche molte contraddizioni del mondo moderno: nella sua aspirazione a «rischiarare»
tutta la terra l’Illuminismo non può vedere le stragi e le distruzioni che segneranno il suo cammino.
(op. cit., pag. 387-392)
7. UNA CULTURA NUOVA
La partecipazione responsabile dei cittadini alla vita dello Stato implicava un'ampia diffusione
della nuova cultura. L’aspetto essenziale dell’Illuminismo fu appunto il suo impegno divulgativo,
nella convinzione che la diffusione dei «lumi», ossia del sapere e della verità, avesse una funzione
liberatrice per la società.
Tramontano così la figura del filosofo o quella dello scienziato chiusi nella loro specializzazione e
nel loro linguaggio tecnico compreso da pochi. Anche qui, come nella loro volontà di attenersi al
mondo dell'esperienza e all'analisi razionale, gli Illuministi rivelavano l'influsso esercitato sulla loro
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mentalità dal grande pensiero scientifico, da Galileo a Newton. Questi soprattutto, formulando la
legge della gravitazione universale, sembrava aver squarciato le tenebre da cui l'uomo era stato
fino allora avvolto «per rivelare la norma universale e immutabile, da cui sono rette tutte le cose,
senza eccezione, nella terra e nei cieli» (Chabod). Il grande ideale era ora quello di trasportare la
certezza del metodo matematico e scientifico in tutti i campi dello scibile, compreso lo studio
dell'uomo.
L'atteggiamento decisamente laico del nuovo pensiero, il suo rifiuto di ogni rivelazione
trascendente, l'esaltazione assoluta della ragione individuale e della filosofia come unico criterio di
verità, pongono spesso gli Illuministi in contrasto con l'ortodossia cattolica, o in una posizione di
larghissima tolleranza religiosa che rasenta l'indifferenza. Una parte dei «filosofi» condusse invece
una serrata battaglia contro la Chiesa, accusata di indebite ingerenze politiche e, sui piano
ideologico, di «fanatismo» e superstizione. La filosofia che godette allora di maggior favore fu il
Sensismo, che faceva cominciare dall'esperienza dei sensi ogni reale forma di conoscenza: ma
non mancarono atteggiamenti di pensiero decisamente materialistici (Holbach, Lamettrie).
Gli Illuministi accettavano, al più, una religione naturale, che prese il nome di Deismo: una
religione senza dogmi che identificava Dio con l'ordine supremo della natura. Allo stesso modo
vollero fondare criticamente un «diritto naturale» e una «morale naturale», conformi, cioè, alla vera
natura dell'uomo e capaci di assicurargli l’utile e la felicità, stabilendo su basi più razionali la
convivenza umana.
Uso della ragione per ritrovare e liberare la nativa spontaneità dell'uomo o natura, per consentirgli,
quindi, di raggiungere la felicità; sono questi, in sintesi, i concetti fondamentali e la parola d'ordine
dei nuovi filosofi. Su questa base il movimento assunse il suo tipico carattere riformistico e
rivoluzionario. Esso si accorse che le leggi e le istituzioni tradizionali, pur essendo opera dell'uomo
e non nate da ispirazione celeste (si ricordi che si parlava allora di re per diritto divino), non gli
assicuravano la felicità, ma garantivano i privilegi ingiusti di pochi (re, nobili, clero! E la schiavitù,
l’ignoranza, la miseria del popolo. Ne derivò un serrato processo al passato, alla storia, vista come
un susseguirsi di errori, violenze, oppressione. Alcuni uomini o classi, lasciando il popolo
nell'ignoranza, diffondendo in esso la superstizione, il terrore della loro potenza e dell'interno
(usando, cioè, la religione come strumento di regno), avevano stabilito la presente disuguaglianza
sociale e la tirannide. Compito della ragione era ora quello di portare la luce, di criticare principi e
istituzioni, di diffondere la cultura della verità, sì che tutti gli uomini comprendessero di essere per
natura uguali e liberi. «Libertà, uguaglianza, fraternità» sarà il motto della Rivoluzione francese,
preparata da tutta la filosofia illuministica, che si aprirà con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino.
Di là dalla presente battaglia contro il fanatismo gli Illuministi intravedevano una nuova aurora: il
trionfo della libertà e dell’eguaglianza avrebbe ricondotto gli nomini a una vita secondo natura,
cioè secondo ragione, e quindi alla felicità e a una fraternità che avrebbe accomunato tutti i popoli,
come ora il comune culto del vero già affratellava gli scrittori di tutte le nazioni. Ogni uomo sarebbe
diventato cittadino del mondo.
(da LETTERATURA ITALIANA – 2 Dal Rinascimento all’Illuminismo, M. PAZZAGLIA
Ed. ZANICHELLI, Bologna 1993, pag. 622)
8. I GRANDI MUTAMENTI SOCIALI
Nel corso del Settecento quelle nuove tendenze già presenti nella società europea alla fine del
Seicento accelerano a tal punto da produrre degli autentici mutamenti strutturali e avviare una
radicale trasformazione della stessa vita quotidiana. Questo processo è molto intenso in Inghilterra
e in Francia; il fenomeno più travolgente è senza dubbio la rivoluzione industriale, particolarmente
rapida in Inghilterra nella seconda metà del secolo, che crea i modi e i rapporti di produzione del
moderno capitalismo, modifica lo stesso ambiente fisico in cui si svolgono il lavoro e l’esistenza
degli uomini e genera nuovi conflitti e nuovi equilibri sociali.
(…) Alla modificazione dell’ambiente, determinata dalle macchine e dalle tecniche industriali, si
aggiunge la presenza di un nuovo proletariato urbano che offre sul mercato la propria forza-lavoro
e vive un’esistenza miserabile, soggetta alle fluttuazioni e alle crisi del mercato stesso; l’attività
imprenditoriale permette vertiginosi arricchimenti e, fatto radicalmente nuovo nella storia, crea la
possibilità di ulteriori investimenti, innescando un processo di continua espansione produttiva.
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(…) Nel corso del Settecento muta profondamente la stessa «qualità della vita». In termini
molto generali, si può dire che la vita degli europei comincia per la prima volta a sfuggire al terribile
circolo della mera sopravvivenza: il ridursi delle epidemie e delle carestie, l’espansione della
produzione agricola e vari altri fattori, portano a una notevole riduzione della mortalità e a un
sensibile aumento demografico in quasi tutto l’Occidente.
(…) Questi grandi mutamenti sono legati in prima istanza all’espansione e allo sviluppo della
classe borghese: tutti i processi di trasformazione sono essenzialmente frutto dell’iniziativa di una
borghesia sempre più libera dal ruolo sociale intermedio che le toccava nella struttura dell’Antico
regime e che si pone come soggetto di primo piano della trasformazione economica e produttiva.
In questo suo progredire la borghesia entra in contrasto con tutto il sistema dei valori tradizionali
della società nobiliare ed ecclesiastica. Ha bisogno di una estrema libertà di mercato e
dell’eliminazione delle barriere e dei privilegi feudali: si schiera naturalmente dalla parte del
movimento illuministico e della sua critica alla tradizione e anzi, secondo uno schema storiografico
molto diffuso, sono proprio i nuovi valori del mondo borghese a ispirare direttamente l’Illuminismo.
(…) Lo sviluppo di queste forze si intreccia in vari modi con le strutture istituzionali e i rapporti di
potere dell’Antico regime (particolare è la situazione della monarchia costituzionale inglese).
L’assolutismo cerca da una parte la strada delle riforme, andando incontro alle richieste di
rinnovamento e trasformazione e limitando soprattutto lo spazio della struttura in quel momento più
debole, la Chiesa; ma dall’altra attraversa una serie di crisi e di conflitti (il più rovinoso dei quali è
costituito dalla Guerra dei Sette Anni, 1756-1763) che ne acuiscono le contraddizioni, fino
all’esplosione delle grandi rivoluzioni borghesi americana e francese, direttamente promosse dallo
spirito dell’Illuminismo.
La seconda metà del Settecento rappresenta per l’Italia un periodo eccezionale di pace:
l’equilibrio venutosi a creare tra i Borbone e gli Asburgo dopo la pace di Aquisgrana (1748) esclude
il nostro paese dai più gravi conflitti tra le potenze europee (un episodio a parte, che pure ebbe
grande eco, è costituito dalla sfortunata lotta per l’indipendenza della Corsica). Anche se in misura
ridotta rispetto alla Francia e all’Inghilterra, si avvia anche da noi il processo di trasformazione
della vita sociale e di liberazione dalle ancestrali condizioni di immobilità. (...)
Grazie a questo lungo periodo di pace, vennero promosse importanti riforme da parte
dell’assolutismo illuminato, specialmente negli Stati asburgici: nel Ducato di Milano, direttamente
dipendente dall’imperatrice Maria Teresa, soprattutto per iniziativa del figlio di lei, Giuseppe II,
prima associato al trono e poi imperatore dal 1780 al 1790; nel Granducato di Toscana, per
iniziativa del fratello di Giuseppe, Pietro Leopoldo, granduca dal 1765 al 1790. Queste riforme
furono rivolte soprattutto alla politica economica e agraria e a quella giurisdizionale, e videro una
forte limitazione dei poteri e delle attribuzioni della Chiesa, in nome della sovranità dello Stato;
risultati particolarmente significativi si ottennero nel campo della scuola e dell’educazione, oltre che
in quelli amministrativo e finanziario, con l’elaborazione dei catasti e l’eliminazione di antiquati
modi di riscossione delle imposte.
(da STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA – Dal Cinquecento al Settecento, G. FERRONI
Ed. EINAUDI, Milano 1991, pag. 392-393)
9. CARATTERI DELL’ILLUMINISMO ITALIANO
Le diverse realtà dei paesi europei fanno sì che il movimento illuministico, se pure
internazionale e cosmopolita, presenti caratteri diversi nei vari paesi. In Inghilterra, per esempio,
non si può nemmeno parlare di un vero e proprio «movimento», ma piuttosto di un diffuso
atteggiamento empirico e di un pragmatismo sempre pronto a confrontarsi con problemi e
situazioni concrete; più chiaramente individuabili appaiono invece i caratteri dell’Illuminismo
scozzese, che ha in David Hume (1711-1776) il suo esponente più celebre e prestigioso, e che
presenta audaci e originali prospettive teoriche, ma, sul piano politico e sociale, è attestato su
posizioni moderate e conservatrici. L’Illuminismo francese, costretto a svilupparsi sotto una
monarchia assoluta, che non gli concede possibilità di diretta azione «pratica», parte da una forte
matrice razionalistica e ne ricava posizioni assai più radicali, giungendo fino all’utopia.
In Italia c’è una fortissima presenza dell’Illuminismo francese: Montesquieu, Voltaire, Diderot,
Rousseau vengono letti e tradotti tempestivamente, mentre la cultura inglese è più conosciuta
attraverso la produzione romanzesca e letteraria che non attraverso quella teorica e filosofica. Ma
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gli illuministi italiani sembrano spesso attenuare gli aspetti più audaci del lavoro dei philosopbes,
preferendo affrontare i problemi che riguardano la vita civile e sociale del nostro paese, di cui
avvertono i limiti e l’arretratezza.
Gli intellettuali che iniziano la loro attività intorno agli anni Quaranta si muovono in una
situazione molto più favorevole rispetto a quella toccata ai loro predecessori. Il nuovo equilibrio
politico e la nuova attività riformatrice dei governi degli Stati italiani sollecitano spesso la
collaborazione e l’appoggio degli uomini di cultura. I rapporti tra intellettuali e potere vengono così
a costituire l’elemento determinante di tutta la storia politica del secondo Settecento.
Gli storici distinguono una prima fase, tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta,
caratterizzata da una forte diffusione, tra gli uomini di cultura italiani, di punti di vista riformatori e
illuministici; una seconda fase contraddistinta da una fattiva collaborazione tra intellettuali e potere
illuminato (1760-75); una terza fase, infine, in cui questa collaborazione si interrompe per dare
inizio a un riformismo più autocratico e diretto dall’alto (1775-90).
Nell’ambito di questi rapporti, che naturalmente variano secondo i diversi Stati, l’Illuminismo
italiano è spesso costretto a compromessi e cautele e pare talvolta essere privo di audacia teorica
e speculativa: evitando rotture troppo forti con la tradizione, esso sembra mirare soprattutto a uno
svecchiamento della nostra cultura rivolgendo lo sguardo a realtà concrete e circostanziate.
Del resto la maggior parte dei riformatori e degli illuministi italiani appartiene alla nobiltà e al clero,
di cui raramente rifiuta fino in fondo i privilegi e le regole sociali. (…) La tradizione culturale italiana,
costretta comunque a confrontarsi col predominio intellettuale dell’Illuminismo, dovette aprirsi alla
realtà concreta e a una rinnovata responsabilità civile. La mancanza di una solida borghesia
capace di sostenere le riforme, la frantumazione politica del paese e il suo estremo particolarismo,
indebolirono la capacità di azione e di penetrazione della cultura illuministica italiana e limitarono la
sua incidenza sui successivi sviluppi della nostra letteratura.
(op. cit., pag. 398-399)
10. VENEZIA NEL SETTECENTO: PUBBLICO, LETTERATURA, SPETTACOLO
Alla società veneziana del Settecento si pensa generalmente come a un affascinante universo
che consuma i ricordi del proprio glorioso passato in un disincantato edonismo: tagliata fuori dalla
più vivace vita economica e intellettuale del tempo, Venezia appare rinchiusa in una testarda
conservazione delle strutture della propria repubblica aristocratica, offrendosi a tutta l'Europa come una città-spettacolo, patria del carnevale e del divertimento, animata da feste e da avventure
che hanno luogo nello scenario fantastico delle sue calli, dei suoi canali, dei suoi palazzi. Le
maschere, la musica, le finzioni del melodramma, le damine provocanti e sfuggenti, gli incontri
pieni di sorprese, sembrano rivelare il fascino di una raffinata decadenza, di un logorio sontuoso e
apatico.
Questo quadro ha nutrito l'immaginario europeo, che nei secoli successivi ha fatto di Venezia
uno dei suoi luoghi privilegiati: ma esso deve essere corretto, per avvertire che la decadenza
veneziana del Settecento si collega a conflitti e a tensioni tutt’altro che trascurabili e a una
circolazione di cultura difficilmente riscontrabile in altri centri europei. Secondo una tradizione già
avviatasi nel secolo XVI, Venezia continua a essere il più attivo centro editoriale italiano, smercia
la sua produzione in Italia e all'estero, importa libri stranieri e li fa circolare. I libri degli illuministi si
diffondono ampiamente a Venezia e nella terraferma veneta: malgrado ciò, non riesce a
svilupparsi una riflessione «riformatrice» che affronti concretamente i problemi della Repubblica.
Ma è soprattutto attraverso il mondo dello spettacolo che circolano ampiamente i nuovi modelli
di cultura, raggiungendo anche un pubblico popolare: la stagione teatrale veneziana si apre in
ottobre e si chiude col carnevale, e può contare su sette teatri pubblici, la cui concorrenza da luogo a un vero e proprio mercato; si accende una forte rivalità tra le compagnie e gli stessi scrittori
che forniscono i testi drammatici. (…) la valutazione delle opere, il loro successo e il loro
insuccesso, non sono più affidati a élites di corte, ma a un'opinione pubblica dagli umori mutevoli,
sollecitata da una pubblicistica satirica e polemica che si sviluppa attorno al mondo teatrale.
Nonostante l'arretratezza che caratterizza in generale la situazione veneziana, si viene cosi ad
affermare una nuova dimensione pubblica del teatro, che solo alla fine del secolo si imporrà in tutta
Europa come caratteristica del nuovo teatro borghese. L'opera di Goldoni si radica fortemente in
questo contesto, approfondendone le possibilità, i limiti e le contraddizioni.
(op. cit., pag. 407-408)
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11. LA CULTURA LOMBARDA NELL’ETÀ DI MARIA TERESA
Alla metà del Settecento il centro più attivo della cultura lombarda è costituito dalla vecchia
Accademia dei Trasformati, riorganizzata a partire dal 1743 dal conte Carlo Maria Imbonati; essa
proponeva una letteratura strettamente legata ai modelli del classicismo rinascimentale e al diretto
insegnamento degli autori antichi, cercando di superare in un’ottica moderata e conservatrice
l’angustia del modello pastorale arcadico, e aprendosi ai temi della vita contemporanea, alla realtà
milanese e alla stessa tradizione letteraria lombarda. (…)
Un certo fastidio suscitato dalle polemiche letterarie, l’esigenza di uscire da una cultura
esteriore e formalistica, un più vivo contatto con l’Illuminismo europeo, e infine l’aspirazione a un
intervento più attivo sulla realtà politica e sociale, portarono nel 1761 alla formazione della nuova
Accademia dei Pugni e alla nascita del vero e proprio movimento illuministico milanese. Gli anni
Sessanta sono per varie ragioni i più vitali di tutta la cultura milanese del Settecento; inoltre la
spinta del movimento illuministico viene a incontrarsi, dopo la fine della Guerra dei Sette Anni, con
il rilancio della politica riformatrice di Maria Teresa, guidata dal primo ministro Kaunitz e dal
plenipotenziario per il Ducato di Milano, il conte Carlo di Firmian. Pur tra difficoltà e ostacoli di vario
genere, la maggior parte degli esponenti dell’Illuminismo lombardo entrano, sul finire degli anni
Sessanta, nell’amministrazione statale, iniziando una politica di collaborazione con il potere
asburgico, che, pur con alcuni importanti risultati, si risolve in una serie di delusioni e di distacchi
già a partire dagli anni Settanta e poi soprattutto durante il regno di Giuseppe II.
(op. cit., pag. 429-430)
12. IL NEOCLASSICISMO
La cultura illuministica europea manteneva una sostanziale continuità con le forme della
tradizione classica; ma la nuova visione laica e razionale della società comportava anche una
frattura con tanti usi che in passato erano stati fatti di quella tradizione: si affermava infatti che quei
modelli classici erano stati a lungo interpretati in maniera distorta e che occorreva invece
recuperarne i valori più autentici e originali. D'altra parte lo sviluppo della civiltà moderna, la
coscienza delle possibilità di progresso offerte dalla scienza e dalla tecnica costringevano a
riconoscere la distanza che separava il mondo greco e latino da quello presente (…).
Da questo senso di lontananza e di diversità si sviluppa, nella seconda metà del Settecento, un
atteggiamento che più tardi fu chiamato neoclassico, e che si collega alle nuove forme di
sensibilità e d'inquietudine che percorrono l'Europa. Esso si differenzia notevolmente dai
precedenti tipi di classicismo affacciatisi nella storia della nostra cultura: non poggia su una visione
unilaterale e assoluta del passato «classico» da imitare; non pretende di affermare valori indiscutibili ed eterni; si fa guidare da un inquieto spirito di ricerca, partecipando in pieno della cultura
illuministica. Si ambisce dunque a recuperare una classicità autentica, a riscoprire nella loro
purezza le condizioni storiche originali del mondo greco e latino; la volontà di imitare i classici si
regge su una passione composta e misurata, ma piena di fremiti di nostalgia per la distanza del
loro mondo da quello presente.
Il campo in cui questo atteggiamento trova la più ampia diffusione è costituito dalle arti figurative.
Nelle sue esperienze più significative, il Neoclassicismo contiene il segno della nuova
inquietudine che percorre l'Europa nella seconda metà del Settecento, in concomitanza delle
grandi trasformazioni materiali, sociali e culturali che si stanno lentamente verificando, sotto la
spinta della critica radicale rivolta dall'Illuminismo alla tradizione.
Negli anni che precedono le grandi rivoluzioni americana e francese, sembra già di avvertire le
avvisaglie del terremoto che devasterà le fondamenta della cultura europea: Si riduce e si attenua
ogni serena fiducia nella ragione, si definiscono in forme svariate e molteplici i suoi limiti e le sue
contraddizioni. Partendo spesso dagli stessi presupposti dell'Illuminismo, se ne ricavano atteggiamenti sempre più «negativi»: non più la fiducia o la battagliera sicurezza di chi combatte per la
giustizia e per la ragione, ma il rimpianto nostalgico per tutto ciò che l'uomo è costretto a perdere
in questa battaglia, l'insoddisfazione per gli sviluppi della civiltà e per il carattere dei nuovi rapporti
tra gli uomini.
(op. cit., pag. 453-455)
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NOTE BIOGRAFICHE ESSENZIALI
PIETRO METASTASIO (1698-1782)
1698 – nasce a Roma PIETRO TRAPASSI, figlio di un negoziante di alimentari; lo scrittore arcadico
Gravina, attratto dal suo precoce ingegno, gli impartisce una severa educazione classicistica e lo
introduce allo studio della filosofia cartesiana.
1714 – riceve gli ordini religiosi minori, divenendo Abate.
1719 – si trasferisce a Napoli, attratto dal vivace ambiente musicale teatrale della città; si lega
sentimentalmente alla cantante Marianna Benti, che lo incoraggia a scrivere testi destinati al
melodramma, che hanno un enorme successo.
1729 – accetta di trasferirsi a Vienna, presso gli Asburgo, come poeta e organizzatore di spettacoli
e feste di corte; ma dopo un ventennio la sua vena si isterilisce, ed egli appare sempre più
insoddisfatto e deluso. Rimane comunque a Vienna, pressoché inattivo dagli anni ’50.
1782 – il 12 aprile muore a Vienna.
PIETRO VERRI (1728-1797)
1728 – nasce a Milano il conte PIETRO VERRI, che riceve un’educazione severa e tradizionale
(presso i Gesuiti) a cui presto si ribella, ponendosi in conflitto col padre.
1750 – frequenta l’Accademia dei Trasformati, dove conosce il Parini.
1759/60 – si arruola nell’esercito imperiale e prende parte alla Guerra dei Sette Anni
1761 – rientra a Milano, dove fonda, assieme al fratello Alessandro, il Beccaria e altri amici
l’Accademia dei Pugni, iniziale nucleo redazionale del foglio periodico Il Caffè.
1764 – inizia la sua scalata politico/amministrativa, allo scopo di mettere in opera le riforme
propugnate nella rivista.
1786 – lascia ogni incarico pubblico, è critico verso Giuseppe II d’Austria.
1797 – partecipa alla fondazione della Repubblica Cisalpina. Muore il 28 giugno.
CESARE BECCARIA (1738-1794)
1738 – nasce a Milano il marchese CESARE BECCARIA.
1760 – sposa, contro la volontà paterna, la sedicenne Teresa Blasco, sostenuto dall’amico Pietro
Verri; da lei avrà 4 figli, tra cui Giulia (1762), futura madre di Alessandro Manzoni.
1761 – entra nel cenacolo dei fratelli Verri, collabora al Caffè e contribuisce a creare l’Accademia
dei Pugni. Su sollecitazione dei Verri scrive un libro contro la tortura e la pena di morte,
propugnando una riforma della giustizia (Dei delitti e delle pene, 1764).
1771 – dopo un viaggio in Francia, entra nell’amministrazione austriaca, dove rimane per
vent’anni, contribuendo alla realizzazione delle riforme illuminate degli Asburgo.
1774 – rimasto vedovo, sposa la contessa Anna Barbò.
1794 – il 28 novembre muore a Milano, a causa di un ictus.
GIUSEPPE PARINI (1729-1799)
1729 – nasce a Bosisio, in Brianza, GIUSEPPE PARINI, da una famiglia della piccola borghesia.
1740 – si trasferisce a Milano, dove studia; entrerà poi nell’Accademia dei Trasformati.
1754 – è ordinato sacerdote ed entra al servizio del duca Serbelloni come precettore dei figli: lì ha
modo di osservare la vita della nobiltà, sotto molteplici aspetti.
1763 – lascia i Serbelloni, dopo un litigio, ed entra al servizio degli Imbonati.
1770 – dirige la Gazzetta di Milano ed è nominato professore delle Scuole palatine, che vengono
collocate nel Palazzo di Brera e si trasformano nel Regio Ginnasio.
1791 – è sovrintendente delle Scuole di Brera. Esce la prima raccolta delle Odi.
1795 – con l’arrivo dei francesi a Milano, viene invitato a lavorare per la nuova Municipalità,
incarico che però lascia quasi subito.
1799 – il 15 agosto muore a Milano.
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CARLO GOLDONI (1707-1793)
1707 – nasce a Venezia, da una famiglia borghese, CARLO GOLDONI.
1719 – segue il padre medico a Perugia e studia presso i gesuiti; l’anno seguente è a Rimini, dove
studia filosofia presso i domenicani, ma fugge per ricongiungersi alla famiglia a Chioggia.
1723 – studia giurisprudenza a Pavia, al Collegio Ghislieri dal quale viene espulso ne 1725, a
causa di un suo scritto satirico sulle donne della città.
1731 – morto il padre, per far fronte alle difficoltà della famiglia, torna a Venezia; laureatosi,
intraprende la carriera di avvocato.
1733 – per motivi di denaro e per sottrarsi a un matrimonio, ripara a Milano, da dove nuovamente
fugge.
1734 – incontra il capocomico Giuseppe Imer e torna con lui a Venezia con l’incarico di scrivere
testi teatrali per il teatro San Samuele.
1736 – è a Genova con la compagnia Imer; sposa Nicoletta Conio.
1741 – riceve l’incarico di console della Repubblica di Genova presso Venezia; ma di nuovo dovrà
fuggire dalla sua città, per debiti, e riparare a Rimini e poi in Toscana.
1745-48 – esercita la professione di avvocato a Pisa.
1748-53 – accetta l’offerta del capocomico Girolamo Medebac e diventa autore stabile del teatro
Sant’Angelo di Venezia, entrando subito in polemica con altri autori; scrive decine di commedie, tra
cui La vedova scaltra, La bottega del caffè, La locandiera.
1753-58 – passa al teatro San Luca e inizia per lui un periodo travagliato e difficile, ma continua a
scrivere (La villeggiatura, Il campiello).
1759 – è a Roma, poi torna al San Luca ed entra in polemica con Carlo Gozzi.
1762 – parte con la famiglia per Parigi, con l’incarico di dirigere la Comédie Italienne; in breve
viene nominato maestro di italiano a Versailles e, qualche anno dopo, ottiene una pensione di
corte. Scrive commedie in francese.
1784 – scrive in francese la sua autobiografia (Mémoires), dedicata a Luigi XVI.
1792 – in piena rivoluzione francese, l’Assemblea legislativa sopprime le pensioni di corte.
1793 – muore in miseria il 6 o 7 febbraio.
VITTORIO ALFIERI (1749-1803)
1749 – nasce ad Asti, da una famiglia di ricca nobiltà terriera, VITTORIO ALFIERI; l’anno seguente
muore il padre.
1758-68 – frequenta la Reale Accademia di Torino e compie il suo primo viaggio in Europa,
visitando Parigi, l’Inghilterra e l’Olanda; intanto legge Montesquieu, Voltaire, Rousseau e Plutarco.
1769-72 – compie il suo secondo viaggio in Europa, recandosi in Austria, Germania, Danimarca,
Svezia, Russia, Olanda, Inghilterra, Spagna e Portogallo.
1775 – al teatro Carignano di Torino si recita la sua prima tragedia (Antonio e Cleopatra) e il
successo lo spinge a dedicarsi definitivamente alla letteratura; si immerge nella lettura dei classici
italiani e latini.
1777 – si stabilisce a Siena e poi a Firenze, dove s’innamora di Luisa Stolberg, contessa d’Albany,
moglie di Carlo Stuart.
1778 – dona i beni piemontesi alla sorella Giulia.
1780 – si trasferisce a Roma, a seguito della Stolberg, ma qualche tempo dopo, per evitare lo
scandalo del suo legame con la donna, lascia Roma per l’Alsazia; qui la contessa lo raggiungerà,
dopo aver ottenuto la separazione dal marito.
1785-92 – si stabilisce a Colmar, alternando il soggiorno alsaziano a lunghi periodi a Parigi, dove
cura la nuova edizione delle sue Tragedie e la prima delle Rime.
1792 – fugge da Parigi e si stabilisce definitivamente a Firenze, qui inizia a lavorare alle
Commedie.
1803 – muore l’8 ottobre a Firenze.
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LA LETTERATURA ITALIANA
NEL SETTECENTO
TESTI
13
PAOLO ROLLI
(1687-1765)
dalle RIME (1717)
Solitario bosco ombroso
Solitario bosco ombroso,
a te viene afflitto cor,
per trovar qualche riposo
fra i silenzi in quest’orror.
Ogni oggetto ch’altrui piace,
per me lieto più non è:
ho perduta la mia pace,
son io stesso in odio a me.
La mia Fille, il mio bel foco,
dite, o piante, è forse qui?
Ahi! la cerco in ogni loco;
e pur so ch’ella partì.
Quante volte, o fronde grate,
la vostr’ombra ne coprì!
Corso d’ore sì beate
Quanto rapido fuggì!
Dite almeno, amiche fronde,
se il mio ben più rivedrò:
ah! che l’eco mi risponde,
e mi par che dica no.
Sento un dolce mormorio:
un sospir forse sarà;
un sospir dell’idol mio,
che mi dice: tornerà.
Ah! ch’è il suon del rio, che frange
tra quei sassi il fresco umor,
e non mormora ma piange
per pietà delmio dolor.
Ma, se torna, vano e tardo
il ritorno, oh Dei!, sarà;
ché pietoso il dolce sguardo
su ’l mio cener piangerà.
Gioite, o Grazie, scherzate, Amori
Gioite, o Grazie, scherzate, Amori,
non ha il mio bene più il volto pallido,
tutti vi tornano gli almi colori.
Amori e Grazie, voi già tornate
alle sue gote, a gli occhi lucidi
pieni d’imperio e di pietate.
Quel riso amabile già in voi ravviso,
molli pozzette, labbra purpuree,
riso dolcissimo, soave riso.
Del vetro, Egeria, torna al consiglio,
ché, come grana sparsa in avorio,
nel tuo bel candido sorge il vermiglio.
Col terso pettine tutta inanella
la lunga chioma, e bianca polvere,
qual neve in albero, spargi su quella.
Pon su bell’ordine de’ vaghi crini
i ricchi nastri, le gemme tremule
e i sottilissimi stranieri lini.
Le orecchie adornati con fila d’oro,
onde, com’astri, brillan purissimi
diamanti penduli in bel lavoro.
Di perle candide doppio monile
al collo cingi e i polsi avvolgine
pur della morbida mano gentile:
dell’alba ditemi, o pure figlie,
non v’è più grato quel collo latteo
che il seno argenteo delle conchiglie?
Dov’è la nobile pomposa vesta,
cui frange d’oro d’intorno ondeggiano,
tutta pur d’auree fila contesta?
Il cocchio splendido d’auro e cristalli
t’aspetta, o cara: senti che strepito
con l’unghia ferrea fanno i cavalli:
oh come danzano, come inquieti
il ricco freno di spuma imbiancano,
di te che traggono superbi e lieti!
Sotto l’imperio delle tue ciglia
vedrai dovunque gli occhi si volgono,
diletto nascere e meraviglia;
ma non accendere d’orgoglio il core,
ché in un istante bellezza e grazie
illanguidiscono qual molle fiore.
14
PIETRO METASTASIO
(1698-1782)
ENEA.
Fin ch'io viva, o Didone,
dolce memoria al mio pensier
sarai;
né partirei giammai,
se per voler de' Numi io non
dovessi
consacrare il mio affanno
all'impero latino.
DIDONE.
Veramente non hanno
altra cura gli Dei che il tuo
destino.
ENEA.
Io resterò, se vuoi
che si renda spergiuro un
infelice.
DIDONE.
No, sarei debitrice
dell'impero del mondo a' figli
tuoi.
Va' pur, segui il tuo fato,
cerca d'Italia il regno;
all'onde, ai venti confida
pur la speme tua. Ma senti:
farà quell'onde istesse
delle vendette mie ministre il
Cielo;
e tardi allor pentito
d'aver creduto all'elemento
insano,
richiamerai la tua Didone in vano.
ENEA.
Se mi vedessi il core...
DIDONE.
Lasciami traditore.
ENEA.
Almen dal labbro mio
con volto meno irato
prendi l'ultimo addio.
DIDONE.
Lasciami, ingrato.
ENEA.
E pur con tanto sdegno
non hai ragion di condannarmi.
DIDONE.
Indegno!
Non ha ragione, ingrato,
un core abbandonato
da chi giurògli fé?
Anime innamorate,
se lo provaste mai
ditelo voi per me.
Perfido! tu lo sai
se in premio un tradimento
io meritai da te.
E qual sarà tormento
anime innamorate
se questo mio non è?
da DIDONE ABBANDONATA (1724)
Atto Primo, Scena XVII
DIDONE.
Enea, salvo già sei
dalla crudel ferita,
per me serban gli Dei sì bella
vita.
ENEA.
Oh dio regina.
DIDONE.
Ancora forse
della mia fede incerto stai?
ENEA.
No; più funeste assai son
le sventure mie.
Vuole il destino...
DIDONE.
ENEA.
Chiari i tuoi sensi esponi.
Vuol (mi sento morir) ch'io
t'abbandoni.
DIDONE.
M'abbandoni! Perché?
ENEA.
Di Giove il cenno,
l'ombra del genitor, la patria,
il cielo, la promessa,
il dover, l'onor, la fama
alle sponde d'Italia oggi mi
chiama.
La mia lunga dimora
pur troppo degli Dei mosse lo
sdegno.
DIDONE.
E così fin ad ora,
perfido mi celasti il tuo
disegno?
ENEA.
Fu pietà...
DIDONE.
Che pietà? Mendace il labbro
fedeltà mi giurava
e intanto il cor pensava come
lunge da me volgere il piede!
A chi misera me darò più fede?
Vil rifiuto dell'onde
io l'accolgo dal lido; io lo ristoro
dall'ingiurie del mar; le navi e
l'armi già disperse io gli rendo
e gli do loco nel mio cor,
nel mio regno; e questo è
poco.
Di cento re per lui
ricusando l’amor, gli sdegni
irrìto: ecco poi la mercede.
A chi, misera me! darò più
fede?
15
PIETRO VERRI (1728-1797)
da DISCORSO SULL’INDOLE DEL PIACERE E DEL DOLORE (1773)
II. Dei piaceri e dei dolori fisici e morali
Tutte le nostre sensazioni si dividono in due classi, e le chiamerò sensazioni fisiche e
sensazioni morali. Chiamo sensazione fisica quella, l’origine di cui si vede cagionata da una
immediata azione sulla nostra macchina. Chiamo sensazione morale ogni altra, in cui questa
immediata azione non si conosca. (…)
Ai piaceri e dolori fisici ogni uomo anche rozzo e selvaggio è sensibile; ai piaceri e dolori morali
tanto più l’uomo è sensibile, quanto è più dirozzato dall’educazione, cioè quanto è maggiore la folla
delle idee che ha aggiunte alla propria esistenza. Noi osserviamo anche nelle intere nazioni della
diversità su tal proposito; i popoli più inciviliti sono più sensibili alla gloria e al disprezzo; i popoli
ancora più rozzi lo sono alle percosse e alla mercede. I piaceri e i dolori morali sono tanto
maggiori, quanto maggiore è il numero dei bisogni e delle relazioni che un uomo sente d’avere
cogli altri.
Quantunque però io creda che la virtù stessa non basti a rendere perfettamente felice l’uomo in
terra, dico che l’uomo virtuoso a circostanze eguali sarà più felice dell’uomo malvagio. Dico di più
che se l’uomo potesse avere i sentimenti sempre subordinati alla ragione, sarrebbe certamente
meno soggetto ai dolori morali di quello ch’egli è. Ogni dolore morale è semplice timore. Questo
dolore è una mera aspettazione d’un dolore contingibile. Quando siam tormentati da un dolor
morale, altro male non soffriamo in quel momento fuorché il timore di soffrirne; questo timore
spesse volte è chimerico, e sempre ha un grado di probabilità contro la sua ventura realizzazione;
può dunque colla ragione o togliersi, o almeno scemarsi, o almeno, vistane l’inutilità di soffrirlo,
procurarsene la distrazione. Quanto maggiori progressi facciamo nella vera filosofia tanto più ci
liberiamo da questi mali. (…)
Se dunque i sentimenti nostri potessero essere sempre posti al prisma della ragione e
analizzarsi, una gran folla di dolori morali verrebbe ad annientarsi per noi, e faremmo come quel
cinico, il quale scoprendo che comodamente potea ber l’acqua nella cavità della sua mano, gittò il
bicchiere come un peso inutile nel suo fardello. Ma la previsione dei mali è talmente nebbiosa e
tumultuaria nell’uomo appassionato, che non dà luogo sì tosto a sminuzzarli uno ad uno; anzi
quantunque talvolta ci avvediamo che il dolor nostro è una mera apprensione di dolori possibili o
probabili, sendo questi tanto vagamente e scontornatamente dipinti alla fantasia, non possiamo né
conoscerli né apprezzarli con distinzione; ma ci rattristano per le tenebre medesime che in parte li
involgono, e questo sconoscimento accresce in noi la diffidenza di superarli.
Un’altra difficoltà incontra l’uomo per uniformare ai dettami della tranquilla ragione tutti i suoi
sentimenti, ed è questa: che difficilmente possiamo noi stessi ritrovar l’origine e la genesi di molti
de’ sentimenti nostri. È come un fiume di cui propriamente non sai indicare qual sia la prima
sorgente, poiché lo formano mille piccoli, divisi e lontani ruscelletti, i quali si frammischiano col
discendere; così i sentimenti sono conseguenze di tante e sì varie e sì mischiate idee in tempi
diversi e successivamente avute, sicché la mente umana si smarrisce e si perde rintracciando i
capi di tanti piccolissimi e intralciatissimi fili che ordiscono la massa d’una passione; e come d’un
fiume non puoi toccare con sicurezza il punto onde comincia, così nemmeno esattamente puoi
toccare il più delle volte l’idea primordiale da cui nasce un sentimento.
Se però né tutti i dolori morali, né la maggior parte di essi è sperabile di prevenirli coll’uso della
sola umana ragione, ella è però cosa certa che vari possono da quella essere scemati, come dissi.
L’uomo selvaggio ha pochissimi dolori morali: l’uomo incivilito ne acquista in gran copia; l’uomo
che perfeziona l’incivilimento addestrando la sua ragione, e applicandola alle azioni della vita
costantemente quanto si può, torna, riguardo ai dolori morali, ad accostarsi al selvaggio. Così
quale nelle scienze dall’ignoranza si comincia, e all’ignoranza si ritorna, passata che siasi la
mediocrità, tale nella coltura si parte dalla tranquillità, si va al tumulto, e da quello progredendo si
avvicina di nuovo alla tranquillità.
16
CESARE BECCARIA (1738-1794)
da DEI DELITTI E DELLE PENE (1764)
CAPITOLO VII - Errori nella misura delle pene
(…) L’unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, e però errarono coloro che
credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi gli commette. Questa dipende dalla impressione
attuale degli oggetti e dalla precedente disposizione della mente: esse variano in tutti gli uomini e
in ciascun uomo, colla velocissima successione delle idee, delle passioni e delle circostanze.
Sarebbe dunque necessario formare non solo un codice particolare per ciascun cittadino, ma una
nuova legge ad ogni delitto. (…) Altri misurano i delitti piú dalla dignità della persona offesa che
dalla loro importanza riguardo al ben pubblico. Se questa fosse la vera misura dei delitti, una
irriverenza all’Essere degli esseri dovrebbe piú atrocemente punirsi che l’assassinio d’un monarca,
la superiorità della natura essendo un infinito compenso alla differenza dell’offesa.
Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse nella misura dei delitti.
La fallacia di questa opinione risalterà agli occhi d’un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra
uomini e uomini, e tra uomini e Dio. I primi sono rapporti di uguaglianza. La sola necessità ha fatto
nascere dall’urto delle passioni e dalle opposizioni degl’interessi l’idea della utilità comune, che è la
base della giustizia umana; i secondi sono rapporti di dipendenza da un Essere perfetto e creatore,
che si è riserbato a sé solo il diritto di essere legislatore e giudice nel medesimo tempo, perché egli
solo può esserlo senza inconveniente. Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce alla sua
onnipotenza, qual sarà l’insetto che oserà supplire alla divina giustizia, che vorrà vendicare
l’Essere che basta a se stesso, che non può ricevere dagli oggetti impressione alcuna di piacere o
di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce senza reazione? La gravezza del peccato dipende
dalla imperscrutabile malizia del cuore. Questa da esseri finiti non può senza rivelazione sapersi.
Come dunque da questa si prenderà norma per punire i delitti? Potrebbono in questo caso gli
uomini punire quando Iddio perdona, e perdonare quando Iddio punisce. Se gli uomini possono
essere in contradizione coll’Onnipossente nell’offenderlo, possono anche esserlo col punire.
CAPITOLO XVI - Della tortura
Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo
mentre si forma il processo, o per constringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni nelle
quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile
purgazione d’infamia, o finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è
accusato.
Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la
pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata.
Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una
pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il
delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili
sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, e’ non devesi tormentare un
innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati. Ma io aggiungo
di piú, ch’egli è un voler confondere tutt’i rapporti l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo
accusatore ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo della verità, quasi che il criterio di essa
risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti
scellerati e di condannare i deboli innocenti.
CAPITOLO XXVII – Dolcezza delle pene
Uno dei piú gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per
conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere
un’utile virtú, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione. La certezza di un castigo,
benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro piú terribile,
unito colla speranza dell’impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano
sempre gli animi umani, (…).
Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal
delitto, e in questo eccesso di male dev’essere calcolata l’infallibilità della pena e la perdita del
bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di piú è dunque superfluo e perciò tirannico.
17
GIUSEPPE PARINI (1729-1799)
IL GIORNO
da Il Mattino (1763)
Il risveglio del Giovin Signore
(vv. 32-168)
Sorge il mattino in compagnia dell’alba
dinanzi al Sol che di poi grande appare
su l’estremo orizzonte a render lieti
gli animali e le piante e i campi e l’onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
letto cui la fedel sposae e i minori
suoi figlioletti intiepidìr la notte;
poi sul dorso recando i sacri arnesi
che prima ritrovò Cerere e Pale
move seguendo i lenti bovi, e scote
lungo il picciol sentier da i curvi rami
fresca rugiada che di gemme al paro
la nascente del Sol luce rifrange. (…)
Ma che? Tu inorridisci e mostri in capo
qual istrice pungente irti i capelli
al suon di mie parole? Ah non è questo
Signor, il tuo mattin. Tu col cadente
sol non sedesti a parca mensa, e al lume
dell’incerto crepuscolo non gisti
ieri a corcarti in male agiate piume,
come dannato è a far l’umile vulgo.
A voi, celeste prole, a voi concilio
di Semidei terreni, altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
per novo calle a me convien guidarvi.
Tu tra le veglie e le canore scene
e il patetico gioco oltre più assai
producesti la notte: e stanco alfine
in aureo cocchio col fragor di calde
precipitose rote, e il calpestio
di volanti corsier, lunge agitasti
il queto aere notturno; e le tenèbre
con fiaccole superbe intorno apristi (…).
Così tornasti alla magion; ma quivi
a nuovi studi ti attendea la mensa
cui ricoprien pruriginosi cibi
e licor lieti di Francesi colli
o d’Ispani o di Toschi o l’Ungarese
bottiglia (…). Alfine il Sonno
ti sprimacciò le morbide coltrìci
di propria mano, ove, te accolto, il fido
servo calò le seriche cortine:
e a te soavemente i lumi chiuse
il gallo che li suole aprire altrui.
Dritto è perciò che a te gli stanchi sensi
non sciolga da’ papaveri tenaci
Morfèo prima che già grande il giorno
tenti di penetrar fra gli spiragli
de le dorate imposte; e la parete
pingano a stento in alcun lato i raggi
del sol, ch’eccelso a te pende sul capo.
Or qui principio le leggiadre cure
denno aver del tuo giorno: e quindi io debbo
sciorre il mio legno, e co’ precetti miei
te ad alte imprese ammaestrar cantando.
Già i valetti gentili udìr lo squillo
del vicino metal cui da lontano
scosse tua man col propagato moto;
e accorser pronti a spalancar gli opposti
schermi a la luce; e rigidi osservàro
che con tua pena non osasse Febo
entrar diretto a saettarti i lumi.
Ergi dunque il bel fianco, e sì ti appoggia
alli origlier che lenti degradando
all’omero ti fan molle sostegno;
poi coll’indice destro, lieve lieve
sovra gli occhi trascorri, e ne dilegua
quel che riman de la Cimmeria nebbia;
ei de’ labbri formando un picciol arco
dolce a vedersi tacito sbadiglia. (…)
Ma il damigel ben pettinato i crini
ecco s’inoltra; e con sommessi accenti
chiede qual più de le bevande usate
sorbir tu goda in preziosa tazza.
Indiche merci son tazza e bevande:
scegli qual più desii. S’oggi ti giova
porger dolci a lo stomaco fomenti,
sì che con legge il natural calore
v’arda temprato, e al digerir ti vaglia,
scegli il brun cioccolatte, onde tributo
ti dà il Guatimalese e il Caribeo
che di barbare penne avvolto ha il crine;
ma se noiosa ipocondria ti opprime,
o troppo intorno a le vezzose membra
adipe cresce, de’ tuoi labbri onora
la nettarea bevanda ove abbronzato
arde e fumica il grano a te d’Aleppo
giunto, e da Moca che di mille navi
popolata mai sempre insuperbisce. (…)
Cessi ’l cielo però, che in quel momento
che la scelta bevanda a sorbir prendi,
servo indiscreto a te improvviso annunci
il villano sartor che non ben pago
d’aver teco diviso i ricchi drappi
oso sia ancor con polizza infinita
a te chieder mercede: ahimè! che fatto
quel salutar licore agro e indigesto
tra le viscere tue, te allor farebbe
e in casa e fuori e nel teatro e al corso
ruttar plebeiamente il giorno intero!
18
da Il Mezzogiorno (1765)
Il «giuoco» dell’amore
(vv. 30-111)
Alfin di consigliarsi al fido speglio
la tua Dama cessò. Quante uopo è volte
chiedette e rimandò novelli ornati;
quante convien de le agitate ognora
damigelle, or con vezzi or con garriti,
rovesciò la fortuna; a sé medesma
quante volte convien piacque e dispiacque;
e quante volte è d’uopo a sé ragione
fece, e a’ suoi lodatori. I mille intorno
dispersi arnesi alfin raccolse in uno
la consapevol del suo cor ministra;
alfin velata d’un leggier zendado
è l’ara tutelar di sua beltate;
e la seggiola sacra, un po’ rimossa,
languidetta l’accoglie. Intorno ad essa
pochi giovani eroi van rimembrando
i cari lacci altrui, mentre da lungi
ad altra intorno i cari lacci vostri
pochi giovani eroi van rimembrando.
Il marito gentil queto sorride
a le lor celie; o s’ei si cruccia alquanto,
del tuo lungo tardar solo si cruccia.
Nulla però di lui cura te prenda
oggi, o Signore, e s’egli a par del vulgo
prostrò l’anima imbelle, e non sdegnosse
di chiamarsi marito, a par del vulgo
senta la fame esercitargl’in petto
lo stimol fier degli oziosi sughi
avidi d’esca: o s’a un marito alcuna
d’anima generosa orma rimane,
ad altra mensa il piè rivolga; e d’altra
dama al fianco s’assida, il cui marito
pranzi altrove lontan d’un’altra a lato
ch’abbia lungi lo sposo: e così nuove
anella intrecci a la catena immensa
ode, alternando, Amor l’anime annoda.
Ma sia che vuol, tu baldanzoso innoltra
ne le stanze più interne: ecco precorre
per annunciarti al gabinetto estremo
il noto stropiccìo de’ piedi tuoi.
Già lo Sposo t’incontra. In un baleno
sfugge dall’altrui man l’accorta mano
de la tua Dama: e il suo bel labbro intanto
t’apparecchia un sorriso. Ognun s’arretra
che conosce i tuoi dritti, e si conforta
con le adulte speranze a te lasciando
libero e scarco il più beato seggio.
(…)
Ora imponi, o Signor, che tutte a schiera
si dispongan tue grazie; e a la tua Dama
quanto elegante esser più puoi ti mostra.
Tengasi al fianco la sinistra mano
sotto il breve giubbon celata; e l’altra
sul finissimo lin posi, e s’asconda
vicino al cor: sublime alzisi ’l petto,
sorgan gli omeri entrambi, e verso lei
piega il duttile collo; ai lati stringi
le labbra un poco; ver lo mezzo acute
rendile alquanto, e da la bocca poi
compendiata in guisa tal sen esca
un non inteso mormorìo. La destra
ella intanto ti porga: e molle caschi
sopra i tiepidi avorj un doppio bacio.
Siedi tu poscia; e d’una man trascina
più presso a lei la seggioletta. Ognuno
tacciasi; ma tu sol curvato alquanto
seco susurra ignoti detti a cui
concordin vicendevoli sorrisi,
e sfavillar di cupidette luci
che amor dimostri, o che lo finga almeno.
da Il Mezzogiorno (1765)
La vergine cuccia
(vv. 510-556)
Tal ei parla, o Signore; e sorge intanto
al suo pietoso favellar dagli occhi
de la tua Dama dolce lagrimetta
pari a le stille tremule, brillanti
che a la nova stagion gemendo vanno
dai palmiti di Bacco entro commossi
al tiepido spirar de le prim’aure
fecondatrici. Or le sovviene il giorno,
ahi fero giorno! allor che la sua bella
vergine cuccia de le Grazie alunna,
giovenilmente vezzeggiando, il piede
villan del servo con l’eburneo dente
segnò di lieve nota: ed egli audace
con sacrilego piè lanciolla: e quella
tre volte rotolò; tre volte scosse
gli scompigliati peli, e da le molli
nari soffiò la polvere rodente.
Indi i gemiti alzando: «aita aita»
parea dicesse; e da le aurate volte
a lei l’impietosita Eco rispose:
e dagl’infimi chiostri i mesti servi
asceser tutti; e da le somme stanze
le damigelle pallide tremanti
precipitàro. Accorse ognuno; il volto
fu spruzzato d’essenze a la tua Dama;
ella rinvenne alfin: l’ira, il dolore
l’agitavano ancor; fulminei sguardi
gettò sul servo, e con languida voce
chiamò tre volte la sua cuccia: e questa
al sen le corse; in suo tenor vendetta
chieder sembrolle: e tu vendetta avesti
vergine cuccia de le grazie alunna.
19
L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo
udì la sua condanna. A lui non valse
merito quadrilustre; a lui non valse
zelo d’arcani uficj: in van per lui
fu pregato e promesso; ei nudo andonne
dell’assisa spogliato ond’era un giorno
venerabile al vulgo. In van novello
Signor sperò; chè le pietose dame
inorridìro, e del misfatto atroce
odiàr l’autore. Il misero si giacque
con la squallida prole, e con la nuda
consorte a lato su la via spargendo
al passeggiere inutile lamento:
e tu vergine cuccia, idol placato
da le vittime umane, isti superba.
da La Notte (incompiuta)
La «sfilata degli imbecilli»
(vv. 351-408)
Quanta folla d’eroi! Tu, che modello
d’ogni nobil virtù, d’ogn’atto eccelso,
esser dei fra’ tuoi pari, i pari tuoi
a conoscere apprendi; e in te raccogli
quanto di bello e glorioso e grande
sparse in cento di loro arte o natura.
Altri di lor ne la carriera illustre
stampa i primi vestigi; altri gran parte
di via già corse; altri a la meta è giunto.
In vano il vulgo temerario a gli uni
di fanciulli dà nome; e quelli adulti,
questi già vegli di chiamare ardisce:
tutti son pari. Ognun folleggia e scherza;
ognun giudica e libra; ognun del pari
l’altro abbraccia e vezzeggia: in ciò sol tanto
non simili tra lor, che ognun sua cura
ha diletta fra l’altre onde più brilli.
Questi è l’almo garzon, che con maestri
da la scutica sua moti di braccio
desta sibili egregi; e l’ore illustra
l’aere agitando de le sale immense,
onde i prischi trofei pendono e gli avi.
L’altro è l’eroe, che da la guancia enfiata
e dal torto oricalco a i trivj annuncia
suo talento immortal, qualor dall’alto
de’ famosi palagi emula il suono
di messagger, che frettoloso arrive.
Quanto è vago a mirarlo allor che in veste
cinto spedita, e con le gambe assorte
in amplo cuoio, cavalcando a i campi
rapisce il cocchio, ove la dama è assisa
e il marito e l’ancella e il figlio e il cane!
Quegli or esce di là dove ne’ fori
si ministran bevande ozio e novelle.
Ei v’andò mattutin, partinne al pranzo,
vi tornò fino a notte: e già sei lustri
volgon da poi che il bel tenor di vita
giovinetto intraprese. Ah chi di lui
può sedendo trovar più grati sonni
o più lunghi sbadigli; o più fiate
d’atro rapé solleticar le nari;
o a voce popolare orecchi e fede
prestar più ingordo e declamar più forte?
Ecco che il segue del figliuol di Maia
il più celebre alunno, al cui consiglio
nel gran dubbio de’ casi ognaltro cede;
sia che dadi versati, o pezzi eretti,
o giacenti pedine, o brevi o grandi
carte mescan la pugna. Ei sul mattino
le stupide micranie o l’aspre tossi
molce giocando a le canute dame.
ei, già tolte le mense, i nati or ora
giochi a le belle declinanti insegna.
Ei la notte raccoglie a sè dintorno
schiera d’eroi, che nobil estro infiamma
d’apprender l’arte, onde l’altrui fortuna
vincasi e domi; e del soave amico
nobil parte de’ campi all’altro ceda.
da Il Mezzogiorno (1765)
Il calar della notte
(vv. 13271376)
(…)
O sommi numi,
sospendete la Notte; e i fatti egregi
del mio Giovin Signor splender lasciate
al chiaro giorno. Ma la Notte segue
sue leggi inviolabili, e declina
con tacit’ombra sopra l’emispero;
e il rugiadoso piè lenta movendo,
rimescola i color varj infiniti,
e via gli spazza con l’immenso lembo
di cosa in cosa: e suora de la morte
un aspetto indistinto, un solo volto
al suolo, ai vegetanti, agli animali,
a i grandi, ed a la plebe equa permette;
e i nudi insieme ed i dipinti visi
de le belle confonde, e i cenci e l’oro.
Nè veder mi concede all’aer cieco
qual de’ cocchi si parta, o qual rimanga
solo all’ombre segrete; e a me di mano
toglie il pennello; e il mio Signore avvolge
per entro al tenebroso umido velo.
20
CARLO GOLDONI (1707-1793)
da LA LOCANDIERA (1752)
Atto Primo – Scena Prima
Sala di locanda.
Il Marchese di Forlipopoli ed il Conte d’Albafiorita
MARCHESE: Fra voi e me vi è qualche differenza.
CONTE: Sulla locanda tanto vale il vostro denaro, quanto vale il mio.
MARCHESE: Ma se la locandiera usa a me delle distinzioni, mi si convengono più che a voi.
CONTE: Per qual ragione?
MARCHESE: Io sono il Marchese di Forlipopoli.
CONTE: Ed io sono il Conte d’Albafiorita.
MARCHESE: Sì, Conte! Contea comprata.
CONTE: Io ho comprata la contea, quando voi avete venduto il marchesato.
MARCHESE: Oh basta: son chi sono, e mi si deve portar rispetto.
CONTE: Chi ve lo perde il rispetto? Voi siete quello, che con troppa libertà parlando...
MARCHESE: Io sono in questa locanda, perché amo la locandiera. Tutti lo sanno, e tutti devono
rispettare una giovane che piace a me.
CONTE: Oh, questa è bella! Voi mi vorreste impedire ch’io amassi Mirandolina? Perché credete
ch’io sia in Firenze? Perché credete ch’io sia in questa locanda?
MARCHESE: Oh bene. Voi non farete niente.
CONTE: Io no, e voi sì?
MARCHESE: Io sì, e voi no. Io son chi sono. Mirandolina ha bisogno della mia protezione.
CONTE: Mirandolina ha bisogno di denari, e non di protezione.
MARCHESE: Denari?... non ne mancano.
CONTE: Io spendo uno zecchino il giorno, signor Marchese, e la regalo continuamente.
MARCHESE: Ed io quel che fo non lo dico.
CONTE: Voi non lo dite, ma già si sa.
MARCHESE: Non si sa tutto.
CONTE: Sì! caro signor Marchese, si sa. I camerieri lo dicono. Tre paoletti il giorno.
MARCHESE: A proposito di camerieri; vi è quel cameriere che ha nome Fabrizio, mi piace poco.
Parmi che la locandiera lo guardi assai di buon occhio.
CONTE: Può essere che lo voglia sposare. Non sarebbe cosa mal fatta. Sono sei mesi che è
morto il di lei padre. Sola una giovane alla testa di una locanda si troverà imbrogliata. Per me, se si
marita, le ho promesso trecento scudi.
MARCHESE: Se si mariterà, io sono il suo protettore, e farò io... E so io quello che farò.
CONTE: Venite qui: facciamola da buoni amici. Diamole trecento scudi per uno.
MARCHESE: Quel ch’io faccio, lo faccio segretamente, e non me ne vanto. Son chi sono. Chi è di
là? (Chiama.)
CONTE: (Spiantato! Povero e superbo!). (Da sé.)
Atto Primo – Scena Quarta
II Cavaliere di Ripafratta dalla sua camera, e detti.
CAVALIERE: Amici, che cos’è questo romore? Vi è qualche dissensione fra di voi altri?
CONTE: Si disputava sopra un bellissimo punto.
MARCHESE: II Conte disputa meco sul merito della nobiltà. (Ironico.)
CONTE: Io non levo il merito alla nobiltà: ma sostengo, che per cavarsi dei capricci, vogliono esser
denari.
CAVALIERE: Veramente, Marchese mio...
MARCHESE: Orsù, parliamo d’altro.
CAVALIERE: Perché siete venuti a simil contesa?
CONTE: Per un motivo il più ridicolo della terra.
MARCHESE: Sì, bravo! il Conte mette tutto in ridicolo.
21
CONTE: Il signor Marchese ama la nostra locandiera. Io l’amo ancor più di lui. Egli pretende
corrispondenza, come un tributo alla sua nobiltà. Io la spero, come una ricompensa alle mie
attenzioni. Pare a voi che la questione non sia ridicola?
MARCHESE: Bisogna sapere con quanto impegno io la proteggo.
CONTE: Egli la protegge, ed io spendo. (Al Cavaliere.)
CAVALIERE: In verità non si può contendere per ragione alcuna che io meriti meno. Una donna vi
altera? vi scompone? Una donna? che cosa mai mi convien sentire? Una donna? Io certamente
non vi è pericolo che per le donne abbia che dir con nessuno. Non le ho mai amate, non le ho mai
stimate, e ho sempre creduto che sia la donna per l’uomo una infermità insopportabile.
MARCHESE: In quanto a questo poi, Mirandolina ha un merito estraordinario.
CONTE: Sin qua il signor Marchese ha ragione. La nostra padroncina della locanda è veramente
amabile.
MARCHESE: Quando l’amo io, potete credere che in lei vi sia qualche cosa di grande.
CAVALIERE: In verità mi fate ridere. Che mai può avere di stravagante costei, che non sia comune
all’altre donne?
MARCHESE: Ha un tratto nobile, che incatena.
CONTE: È bella, parla bene, veste con pulizia, è di un ottimo gusto.
CAVALIERE: Tutte cose che non vagliono un fico. Sono tre giorni ch’io sono in questa locanda, e
non mi ha fatto specie veruna.
CONTE: Guardatela, e forse ci troverete del buono.
CAVALIERE: Eh, pazzia! L’ho veduta benissimo. È una donna come l’altre.
MARCHESE: Non è come l’altre, ha qualche cosa di più. Io che ho praticate le prime dame, non ho
trovato una donna che sappia unire, come questa, la gentilezza e il decoro.
CONTE: Cospetto di bacco! Io son sempre stato solito trattar donne: ne conosco li difetti ed il loro
debole. Pure con costei, non ostante il mio lungo corteggio e le tante spese per essa fatte, non ho
potuto toccarle un dito.
CAVALIERE: Arte, arte sopraffina. Poveri gonzi! Le credete, eh? A me non la farebbe. Donne? Alla
larga tutte quante elle sono.
(…)
Atto Primo – Scena Quinta
Mirandolina e detti.
MIRANDOLINA: M’inchino a questi cavalieri. Chi mi domanda di lor signori?
MARCHESE: Io vi domando, ma non qui.
MIRANDOLINA: Dove mi vuole, Eccellenza?
MARCHESE: Nella mia camera.
MIRANDOLINA: Nella sua camera? Se ha bisogno di qualche cosa verrà il cameriere a servirla.
MARCHESE: (Che dite di quel contegno?). (Al Cavaliere.)
CAVALIERE: (Quello che voi chiamate contegno, io lo chiamerei temerità, impertinenza). (Al
Marchese.)
CONTE: Cara Mirandolina, io vi parlerò in pubblico, non vi darò l’incomodo di venire nella mia
camera. Osservate questi orecchini. Vi piacciono?
MIRANDOLINA: Belli.
CONTE: Sono diamanti, sapete?
MIRANDOLINA: Oh, li conosco. Me ne intendo anch’io dei diamanti.
CONTE: E sono al vostro comando.
CAVALIERE: (Caro amico, voi li buttate via). (Piano al Conte.)
MIRANDOLINA: Perché mi vuol ella donare quegli orecchini?
MARCHESE: Veramente sarebbe un gran regalo! Ella ne ha de’ più belli al doppio.
CONTE: Questi sono legati alla moda. Vi prego riceverli per amor mio.
CAVALIERE: (Oh che pazzo!). (Da sé.)
MIRANDOLINA: No, davvero, signore...
CONTE: Se non li prendete, mi disgustate.
MIRANDOLINA: Non so che dire... mi preme tenermi amici gli avventori della mia locanda. Per non
disgustare il signor Conte, li prenderò.
CAVALIERE: (Oh che forca!). (Da sé.)
22
CONTE: (Che dite di quella prontezza di spirito?). (Al Cavaliere.)
CAVALIERE: (Bella prontezza! Ve li mangia, e non vi ringrazia nemmeno). (Al Conte.)
MARCHESE: Veramente, signor Conte, vi siete acquistato gran merito. Regalare una donna in
pubblico, per vanità! Mirandolina, vi ho da parlare a quattr’occhi, fra voi e me: son Cavaliere.
MIRANDOLINA: (Che arsura! Non gliene cascano). (Da sé.) Se altro non mi comandano, io me
n’anderò.
CAVALIERE: Ehi! padrona. La biancheria che mi avete dato, non mi gusta. Se non ne avete di
meglio, mi provvederò.(Con disprezzo.)
MIRANDOLINA: Signore, ve ne sarà di meglio. Sarà servita, ma mi pare che la potrebbe chiedere
con un poco di gentilezza.
CAVALIERE: Dove spendo il mio denaro, non ho bisogno di far complimenti.
CONTE: Compatitelo. Egli è nemico capitale delle donne. (A Mirandolina.)
CAVALIERE: Eh, che non ho bisogno d’essere da lei compatito.
MIRANDOLINA: Povere donne! che cosa le hanno fatto? Perché così crudele con noi, signor
Cavaliere?
CAVALIERE: Basta così. Con me non vi prendete maggior confidenza. Cambiatemi la biancheria.
La manderò a prender pel servitore. Amici, vi sono schiavo. (Parte.)
Atto Primo – Scena Nona
MIRANDOLINA (sola): Uh, che mai ha detto! L’eccellentissimo signor Marchese Arsura mi
sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi
piace l’arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi,
oh, avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s’innamorano, tutti mi fanno
i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono di sposarmi a dirittura. E questo signor Cavaliere, rustico
come un orso, mi tratta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il
quale non abbia avuto piacere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto s’abbiano a
innamorare: ma disprezzarmi così? è una cosa che mi muove la bile terribilmente. É nemico delle
donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la
troverà. La troverà. E chi sa che non l’abbia trovata? Con questi per l’appunto mi ci metto di picca.
Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la
stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa
è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso
nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma
non m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio
usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di
noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.
Atto Primo – Scena Quindicesima
Mirandolina colla biancheria, e il Cavaliere.
MIRANDOLINA: Permette, illustrissimo? (Entrando con qualche soggezione.)
CAVALIERE: Che cosa volete? (Con asprezza.)
MIRANDOLINA: Ecco qui della biancheria migliore. (S’avanza un poco.)
CAVALIERE: Bene. Mettetela lì. (Accenna il tavolino.)
MIRANDOLINA: La supplico almeno degnarsi vedere se è di suo genio.
CAVALIERE: Che roba è?
MIRANDOLINA: Le lenzuola son di rensa. (S’avanza ancor più.)
CAVALIERE: Rensa?
MIRANDOLINA: Sì signore, di dieci paoli al braccio. Osservi.
CAVALIERE: Non pretendevo tanto. Bastavami qualche cosa meglio di quel che mi avete dato.
MIRANDOLINA: Questa biancheria l’ho fatta per personaggi di merito: per quelli che la sanno
conoscere; e in verità, illustrissimo, la do per esser lei, ad un altro non la darei.
CAVALIERE: Per esser lei! Solito complimento.
MIRANDOLINA: Osservi il servizio di tavola.
CAVALIERE: Oh! Queste tele di Fiandra, quando si lavano, perdono assai. Non vi è bisogno che le
insudiciate per me.
23
MIRANDOLINA: Per un Cavaliere della sua qualità, non guardo a queste piccole cose. Di queste
salviette ne ho parecchie, e le serberò per V.S. illustrissima.
CAVALIERE: (Non si può però negare, che costei non sia una donna obbligante). (Da sé.)
MIRANDOLINA: (Veramente ha una faccia burbera da non piacergli le donne). (Da sé.)
CAVALIERE: Date la mia biancheria al mio cameriere, o ponetela lì, in qualche luogo. Non vi è
bisogno che v’incomodiate per questo.
MIRANDOLINA: Oh, io non m’incomodo mai, quando servo Cavaliere di sì alto merito.
CAVALIERE: Bene, bene, non occorr’altro. (Costei vorrebbe adularmi. Donne! Tutte così). (Da sé.)
MIRANDOLINA: La metterò nell’alcova.
CAVALIERE: Sì, dove volete. (Con serietà.)
MIRANDOLINA: (Oh! vi è del duro. Ho paura di non far niente). (Da sé, va a riporre la biancheria.)
CAVALIERE: (I gonzi sentono queste belle parole, credono a chi le dice, e cascano). (Da sè.)
MIRANDOLINA: A pranzo, che cosa comanda? (Ritornando senza la biancheria.)
CAVALIERE: Mangerò quello che vi sarà.
MIRANDOLINA: Vorrei pur sapere il suo genio. Se le piace una cosa più dell’altra, lo dica con
libertà.
CAVALIERE: Se vorrò qualche cosa, lo dirò al cameriere.
MIRANDOLINA: Ma in queste cose gli uomini non hanno l’attenzione e la pazienza che abbiamo
noi donne. Se le piacesse qualche intingoletto, qualche salsetta, favorisca di dirlo a me.
CAVALIERE: Vi ringrazio: ma né anche per questo verso vi riuscirà di far con me quello che avete
fatto col Conte e col Marchese.
MIRANDOLINA: Che dice della debolezza di quei due cavalieri? Vengono alla locanda per
alloggiare, e pretendono poi di voler fare all’amore colla locandiera. Abbiamo altro in testa noi, che
dar retta alle loro ciarle. Cerchiamo di fare il nostro interesse; se diamo loro delle buone parole, lo
facciamo per tenerli a bottega; e poi, io principalmente, quando vedo che si lusingano, rido come
una pazza.
CAVALIERE: Brava! Mi piace la vostra sincerità.
MIRANDOLINA: Oh! non ho altro di buono, che la sincerità.
CAVALIERE: Ma però, con chi vi fa la corte, sapete fingere.
MIRANDOLINA: Io fingere? Guardimi il cielo. Domandi un poco a quei due signori che fanno gli
spasimati per me, se ho mai dato loro un segno d’affetto. Se ho mai scherzato con loro in maniera
che si potessero lusingare con fondamento. Non li strapazzo, perché il mio interesse non lo vuole,
ma poco meno. Questi uomini effeminati non li posso vedere. Sì come abborrisco anche le donne
che corrono dietro agli uomini. Vede? Io non sono una ragazza. Ho qualche annetto; non sono
bella, ma ho avute delle buone occasioni; eppure non ho mai voluto maritarmi, perché stimo
infinitamente la mia libertà.
CAVALIERE: Oh sì, la libertà è un gran tesoro.
MIRANDOLINA: E tanti la perdono scioccamente.
CAVALIERE: So io ben quel che faccio. Alla larga.
MIRANDOLINA: Ha moglie V.S. illustrissima?
CAVALIERE: Il cielo me ne liberi. Non voglio donne.
MIRANDOLINA: Bravissimo. Si conservi sempre così. Le donne, signore... Basta, a me non tocca
a dirne male.
CAVALIERE: Voi siete per altro la prima donna, ch’io senta parlar così.
MIRANDOLINA: Le dirò: noi altre locandiere vediamo e sentiamo delle cose assai; e in verità
compatisco quegli uomini, che hanno paura del nostro sesso.
CAVALIERE: (È curiosa costei). (Da sé.)
MIRANDOLINA: Con permissione di V.S. illustrissima. (Finge voler partire.)
CAVALIERE: Avete premura di partire?
MIRANDOLINA: Non vorrei esserle importuna.
CAVALIERE: No, mi fate piacere; mi divertite
MIRANDOLINA: Vede, signore? Così fo con gli altri. Mi trattengo qualche momento; sono piuttosto
allegra, dico delle barzellette per divertirli, ed essi subito credono... Se la m’intende, e’ mi fanno i
cascamorti.
CAVALIERE: Questo accade, perché avete buona maniera.
MIRANDOLINA: Troppa bontà, illustrissimo. (Con una riverenza.)
CAVALIERE: Ed essi s’innamorano.
24
MIRANDOLINA: Guardi che debolezza! Innamorarsi subito di una donna!
CAVALIERE: Questa io non l’ho mai potuta capire.
MIRANDOLINA: Bella fortezza! Bella virilità!
CAVALIERE: Debolezze! Miserie umane!
MIRANDOLINA: Questo è il vero pensare degli uomini. Signor Cavaliere, mi porga la mano.
CAVALIERE: Perché volete ch’io vi porga la mano?
MIRANDOLINA: Favorisca; si degni; osservi, sono pulita.
CAVALIERE: Ecco la mano.
MIRANDOLINA: Questa è la prima volta, che ho l’onore d’aver per la mano un uomo, che pensa
veramente da uomo.
CAVALIERE: Via, basta così. (Ritira la mano.)
MIRANDOLINA: Ecco. Se io avessi preso per la mano uno di que’ due signori sguaiati, avrebbe
tosto creduto ch’io spasimassi per lui. Sarebbe andato in deliquio. Non darei loro una semplice
libertà, per tutto l’oro del mondo. Non sanno vivere. Oh benedetto in conversare alla libera! senza
attacchi, senza malizia, senza tante ridicole scioccherie. Illustrissimo, perdoni la mia impertinenza.
Dove posso servirla, mi comandi con autorità, e avrò per lei quell’attenzione, che non ho mai avuto
per alcuna persona di questo mondo.
CAVALIERE: Per quale motivo avete tanta parzialità per me?
MIRANDOLINA: Perché, oltre il suo merito, oltre la sua condizione, sono almeno sicura che con lei
posso trattare con libertà, senza sospetto che voglia fare cattivo uso delle mie attenzioni, e che mi
tenga in qualità di serva, senza tormentarmi con pretensioni ridicole, con caricature affettate.
CAVALIERE: (Che diavolo ha costei di stravagante, ch’io non capisco!). (Da sé.)
MIRANDOLINA: (Il satiro si anderà a poco a poco addomesticando). (Da sé.)
CAVALIERE: Orsù, se avete da badare alle cose vostre, non restate per me.
MIRANDOLINA: Sì signore, vado ad attendere alle faccende di casa. Queste sono i miei amori, i
miei passatempi. Se comanderà qualche cosa, manderò il cameriere.
CAVALIERE: Bene... Se qualche volta verrete anche voi, vi vedrò volentieri.
MIRANDOLINA: Io veramente non vado mai nelle camere dei forestieri, ma da lei ci verrò qualche
volta.
CAVALIERE: Da me... Perché?
MIRANDOLINA: Perché, illustrissimo signore, ella mi piace assaissimo.
CAVALIERE: Vi piaccio io?
MIRANDOLINA: Mi piace, perché non è effeminato, perché non è di quelli che s’innamorano. (Mi
caschi il naso, se avanti domani non l’innamoro). (Da sé.)
Atto Secondo – Scena Sedicesima
CAVALIERE (solo): Tutti sono invaghiti di Mirandolina. Non è maraviglia, se ancor io principiava a
sentirmi accendere. Ma anderò via; supererò questa incognita forza... Che vedo? Mirandolina?
Che vuole da me? Ha un foglio in mano. Mi porterà il conto. Che cosa ho da fare? Convien soffrire
quest’ultimo assalto. Già da qui a due ore io parto.
Atto Secondo – Scena Diciasettesima
Mirandolina con un foglio in mano, e detto.
MIRANDOLINA: Signore. (Mestamente.)
CAVALIERE: Che c’è, Mirandolina?
MIRANDOLINA: Perdoni. (Stando indietro.)
CAVALIERE: Venite avanti.
MIRANDOLINA: Ha domandato il suo conto; l’ho servita. (Mestamente.)
CAVALIERE: Date qui.
MIRANDOLINA: Eccolo. (Si asciuga gli occhi col grembiale, nel dargli il conto.)
CAVALIERE: Che avete? Piangete?
MIRANDOLINA: Niente, signore, mi è andato del fumo negli occhi.
CAVALIERE: Del fumo negli occhi? Eh! basta... quanto importa il conto? (legge.) Venti paoli? In
quattro giorni un trattamento si generoso: venti paoli?
MIRANDOLINA: Quello è il suo conto.
25
CAVALIERE: E i due piatti particolari che mi avete dato questa mattina, non ci sono nel conto?
MIRANDOLINA: Perdoni. Quel ch’io dono, non lo metto in conto.
CAVALIERE: Me li avete voi regalati?
MIRANDOLINA: Perdoni la libertà. Gradisca per un atto di... (Si copre, mostrando di piangere.)
CAVALIERE: Ma che avete?
MIRANDOLINA: Non so se sia il fumo, o qualche flussione di occhi.
CAVALIERE: Non vorrei che aveste patito, cucinando per me quelle due preziose vivande.
MIRANDOLINA: Se fosse per questo, lo soffrirei... volentieri... (Mostra trattenersi di piangere.)
CAVALIERE: (Eh, se non vado via!). (Da sé.) Orsù, tenete. Queste sono due doppie. Godetele per
amor mio... e compatitemi... (S’imbroglia.)
MIRANDOLINA (senza parlare, cade come svenuta sopra una sedia.)
CAVALIERE: Mirandolina. Ahimè! Mirandolina. È svenuta. Che fosse innamorata di me? Ma così
presto? E perché no? Non sono io innamorato di lei? Cara Mirandolina... Cara? Io cara ad una
donna? Ma se è svenuta per me. Oh, come tu sei bella! Avessi qualche cosa per farla rinvenire. Io
che non pratico donne, non ho spiriti, non ho ampolle. Chi è di là? Vi è nessuno? Presto?... Anderò
io. Poverina! Che tu sia benedetta! (Parte, e poi ritorna.)
MIRANDOLINA: Ora poi è caduto affatto. Molte sono le nostre armi, colle quali si vincono gli
uomini. Ma quando sono ostinati, il colpo di riserva sicurissimo è uno svenimento. Torna, torna. (Si
mette come sopra.)
CAVALIERE (torna con un vaso d’acqua.): Eccomi, eccomi. E non è ancor rinvenuta. Ah,
certamente costei mi ama. (La spruzza, ed ella si va movendo.) Animo, animo. Son qui cara. Non
partirò più per ora.
Atto Terzo – Scena Diciottesima
Mirandolina, Fabrizio, il Cavaliere, il Conte, il Marchese.
FABRIZIO: Alto, alto, padroni.
MIRANDOLINA: Alto, signori miei, alto.
CAVALIERE: (Ah maledetta!). (Vedendo Mirandolina.)
MIRANDOLINA: Povera me! Colle spade?
MARCHESE: Vedete? Per causa vostra.
MIRANDOLINA: Come per causa mia?
CONTE: Eccolo lì il signor Cavaliere. È innamorato di voi.
CAVALIERE: Io innamorato? Non è vero; mentite.
MIRANDOLINA: Il signor Cavaliere innamorato di me? Oh no, signor Conte, ella s’inganna. Posso
assicurarla, che certamente s’inganna.
CONTE: Eh, che siete voi pur d’accordo...
MIRANDOLINA: Si, si vede...
CAVALIERE: Che si sa? Che si vede? (Alterato, verso il Marchese.)
MARCHESE: Dico, che quando è, si sa... Quando non è, non si vede.
MIRANDOLINA: Il signor cavaliere innamorato di me? Egli lo nega, e negandolo in presenza mia,
mi mortifica, mi avvilisce, e mi fa conoscere la sua costanza e la mia debolezza. Confesso il vero,
che se riuscito mi fosse d’innamorarlo, avrei creduto di fare la maggior prodezza del mondo. Un
uomo che non può vedere le donne, che le disprezza, che le ha in mal concetto, non si può
sperare d’innamorarlo. Signori miei, io sono una donna schietta e sincera: quando devo dir, dico, e
non posso celare la verità. Ho tentato d’innamorare il signor Cavaliere, ma non ho fatto niente.
CAVALIERE: (Ah! Non posso parlare). (Da sé.)
CONTE: Lo vedete? Si confonde. (A Mirandolina.)
MARCHESE: Non ha coraggio di dir di no. (A Mirandolina.)
CAVALIERE: Voi non sapete quel che vi dite. (Al Marchese, irato.)
MARCHESE: E sempre l’avete con me. (Al Cavaliere, dolcemente.)
MIRANDOLINA: Oh, il signor Cavaliere non s’innamora. Conosce l’arte. Sa la furberia delle donne:
alle parole non crede; delle lagrime non si fida. Degli svenimenti poi se ne ride.
CAVALIERE: Sono dunque finte le lagrime delle donne, sono mendaci gli svenimenti?
MIRANDOLINA: Come! Non lo sa, o finge di non saperlo?
CAVALIERE: Giuro al cielo! Una tal finzione meriterebbe uno stile nel cuore.
26
MIRANDOLINA: Signor Cavaliere, non si riscaldi, perché questi signori diranno ch’è innamorato
davvero.
CONTE: Sì, lo è, non lo può nascondere.
MARCHESE: Si vede negli occhi.
CAVALIERE: No, non lo sono. (Irato al Marchese.)
MARCHESE: E sempre con me.
MIRANDOLINA: No signore, non è innamorato. Lo dico, lo sostengo, e son pronta a provarlo.
CAVALIERE: (Non posso più). (Da sé.) Conte, ad altro tempo mi troverete provveduto di spada.
(Getta via la mezza spada del Marchese.)
MARCHESE: Ehi! la guardia costa denari. (La prende di terra.)
MIRANDOLINA: Si fermi, signor Cavaliere, qui ci va della sua riputazione. Questi signori credono
ch’ella sia innamorato; bisogna disingannarli.
CAVALIERE: Non vi è questo bisogno.
MIRANDOLINA: Oh sì, signore. Si trattenga un momento.
CAVALIERE: (Che far intende costei?). (Da sé.)
MIRANDOLINA: Signori, il più certo segno d’amore è quello della gelosia, e chi non sente la
gelosia, certamente non ama. Se il signor Cavaliere mi amasse, non potrebbe soffrire ch’io fossi
d’un altro, ma egli lo soffrirà, e vedranno...
CAVALIERE: Di chi volete voi essere?
MIRANDOLINA: Di quello a cui mi ha destinato mio padre.
FABRIZIO: Parlate forse di me? (A Mirandolina.)
MIRANDOLINA: Sì, caro Fabrizio, a voi in presenza di questi cavalieri vo’ dar la mano di sposa.
CAVALIERE: (Oimè! Con colui? non ho cuor di soffrirlo). (Da sé, smaniando.)
CONTE: (Se sposa Fabrizio, non ama il Cavaliere). (Da sé.) Sì, sposatevi, e vi prometto trecento
scudi.
MARCHESE: Mirandolina, è meglio un uovo oggi, che una gallina domani. Sposatevi ora, e vi do
subito dodici zecchini.
MIRANDOLINA: Grazie, signori, non ho bisogno di dote. Sono una povera donna senza grazia,
senza brio, incapace d’innamorar persone di merito. Ma Fabrizio mi vuol bene, ed io in questo
punto alla presenza loro lo sposo...
CAVALIERE: Sì, maledetta, sposati a chi tu vuoi. So che tu m’ingannasti, so che trionfi dentro di te
medesima d’avermi avvilito, e vedo sin dove vuoi cimentare la mia tolleranza. Meriteresti che io
pagassi gli inganni tuoi con un pugnale nel seno; meriteresti ch’io ti strappassi il cuore, e lo recassi
in mostra alle femmine lusinghiere, alle femmine ingannatrici. Ma ciò sarebbe un doppiamente
avvilirmi. Fuggo dagli occhi tuoi: maledico le tue lusinghe, le tue lagrime, le tue finzioni; tu mi hai
fatto conoscere qual infausto potere abbia sopra di noi il tuo sesso, e mi hai fatto a costo mio
imparare, che per vincerlo non basta, no, disprezzarlo, ma ci conviene fuggirlo. (Parte.)
da LE BARUFFE CHIOZZOTTE (1762)
Atto Secondo – Scena Seconda
PASQUA e LUCIETTA escono dalla loro casa, portando le loro sedie di paglia, i loro scagni e i loro
cuscini, e si mettono a lavorare merletti.
LUC. Àle mo fatto una bela còssa quele pettazze? Andare a dire a Titta-Nane che Marmottina m’è
vegnù a parlare?
PAS. E tì àstu fatto ben a dire ai to fradei quelo che tì gh’ha dito?
LUC. E vù, siora? No avé dito gnente, siora?
PAS. Sì ben; ho parlà anca mì, e ho fatto mal a parlare.
LUC. Malignazo! avéa zurà anca mì de no dire.
PAS. La xé cusì, cugnà, credéme, la xé cusi. Nu altre fémene, se no parlèmo, crepèmo.
LUC. Oe, no voleva parlare, e no m’ho podèsto tegnir. Me vegniva la parole a la bocca, procurava
a inghiottire, e me soffegava. Da una rècchia i me diseva: tasi; da quel’altra i diseva: parla. Oe,
ho serà la recchia del tasi e ho slargà la recchia del parla, e ho parlà fina che ho podèsto.
27
PAS. Me despiase che i nostri òmeni i ha avùo da precipitare.
LUC. Eh gnente. Tòffolo xé un martuffo; no sarà gnente.
PAS. Beppo vôl licenziar Orsetta.
LUC. Ben! El ghe ne troverà un’altra! a Chioza no gh’è carestia de putte.
PAS. No, no; de quaranta mile àneme che sèmo, mi credo che ghe ne sia trenta mile de donne.
LUC. E quante che ghe ne xé da maridare!
PAS. Per questo, védistu? Me despiase, che se Titta-Nane te lassa, ti stenterà a trovàrghene un
altro.
LUC. Cossa gh’òggio fatto mì a Titta-Nane?
PAS. Gnente non ti gh’ha fatto, ma quele pettegole l’ha messo suso.
LUC. Se el me volesse ben, nol ghe crederàve.
PAS. No sàstu che el xé zeloso?
LUC. De cossa? No se può gnanca parlare? No se può ridere? No se se può divertire? I òmeni i
stà diese mesi in mare; e nu altre avèmo da star qua muffe muffe a tambascare co ste
malignaze mazzocche?
PAS. Oe, tasi, tasi; el xé qua Titta-Nane.
LUC. Oh! el gh’ha la smara. Me n’accorzo, co ’l gh’ha la smara.
PAS. No ghe star a fare el muson.
LUC. Se el me lo farà elo, ghe lo farò anca mì.
PAS. Ghe vùstu ben?
LUC. Mì sì.
PAS. Mòlighe, se ti ghe vôl ben.
LUC. Mi no, varé.
PAS. Mo via, no buttare testarda.
LUC. Oh! piuttosto crepare.
PAS. Mo che putta morgnona!
Atto Secondo – Scena Terza
TITTA-NANE, e dette,
(…)
TIT. (da sé) (Orsù l’ho dita, e la vòggio fare.) Donna Pasqua, parlo co vù, che sé donna, a vù v’ho
domandà vostra cugnà Lucietta, e a vù ve digo che la licenzio.
PAS. Varé che sesti! Per còssa?
TIT. Per còssa, per còssa...
LUC. (s’alza per andar via.)
PAS. Dove vàstu?
LUC. Dove che vòggio. (va in casa e a suo tempo ritorna)
PAS. (a Titta) No sté a badare ai pettegolezzi.
TIT. So tutto, e me maraveggio de vù, e me maraveggio de ela.
PAS. Mo se la ve vôl tanto bèn!
TIT. Se la me volesse ben, no la me voltaràve le spare.
PAS. Poverazza! La sarà andada a piànzere, la sarà andada.
TIT. Per chi a piànzer? Per Marmottina?
PAS. Mo no, Titta-Nane, mo no che la ve vol tanto bèn; che co la ve vede andar in mare, ghe vien
l’angóssa. Co vien suso dei temporali, la xé meza matta; la se stremisse per causa vostra. La
se leva suso la notte, la va al balcon a vardar el tempo. La ve xé persa drio, no la varda per altri
occhi che per i vostri.
TIT. E perché mo no dirme gnanca una bona parola?
PAS. No la puòl, la gh’ha paura; la xé propriamente ingroppà.
TIT. No gh’ho rason fursi de lamentarme de ela?
PAS. Ve conterò mi, come che la xé stà.
TIT. Siora no: vói che ela me’l diga, e che la confessa, e che la me domanda perdon.
PAS. Ghe perdonaréu?
TIT. Chi se? Poderàve esser de sì. Dove xéla andà?
PAS. Vèla qua, vèla qua che la vien.
28
LUC. Tolé, sior, le vostre scarpe, le vostre cordèle, e la vostra zendalina che m’avé dà. (getta tutto
in terra)
PAS. Oh poveretta mi! Xèstu matte? (raccoglie la roba, e la mette sulla seggiola)
TIT. A mì sto affronto?
LUC. No m’avéu licenzià? Tolé la vostra robe, e pettévela.
TIT. Se parleré co Marmottina, lo mazzerò.
LUC. Oh viva diana! M’avé licenzià, e me voressi anca mo comandare?
TIT. V’ho licenzià per colù, v’ho licenzià.
PAS. Me maraveggio anca, che credié che Lucietta se voggia taccare con quel squartáo.
LUC. So brutta, so poveretta, so tutto quel che volé; ma gnanca co un battelante no me ghe tacco.
TIT. Per còssa ve lo féu sentar arente? Per còssa toléu la zucca barucca?
LUC. Varé, che casi!
PAS. Varé, che gran criminali!
TIT. Mì co fazzo l’amore, no vòggio che nissun possa dire. E la vòggio cusì, la vòggio. Mare de
diana! A Titta-Nane nissùn ghe l’ha fatta tegnire. Nissùn ghe la farà portare.
LUC. (si asciuga gli occhi) Varé là, che spuzzetta!
TIT. Mì so omo, savéu? so omo. E no so un puttelo, savéu?
LUC. (piange mostrando di non voler piangere.)
PAS. (a Lucietta) Còssa gh’àstu?
LUC. Gnente. (piangendo dà una spinta a donna Pasqua)
PAS. Ti pianzi?
LUC. Da rabbia, da rabbia, che lo scanneràve co le mie man.
TIT. (accostandosi a Lucietta) Via, digo! Còssa xé sto fiffare?
LUC. Andé in malora.
TIT. (a donna Pasqua) Sentìu, siora?
PAS. Mo no gh’àla rasón? Se sé pèzo d’un can.
TIT. Voléu ziogare, che me vago a trar in canale?
PAS. Via, matto!
LUC. (come sopra piangendo) Lassé che el vaga, lassé.
PAS. Via, frascona!
TIT. (intenerendosi) Gh’ho volèsto ben, gh’ho volèsto.
PAS. (a Titta) E adesso no più?
TIT. Còssa voléu? Se no la me vuòle.
PAS. Còssa dístu, Lucietta?
LUC. Lassème stare, lassème.
PAS. (a Lucietta) Tiò le to scarpe, tiò la to cordela, tiò la to zendalina.
LUC. No vòggio gnente, no vòggio.
PAS. (a Lucietta) Vien qua, sènti.
LUC. Lassème stare.
PAS. Dighe una parole.
LUC. No.
PAS. Vegnì qua, Titta-Nane.
TIT Made.
PAS. (a Titta). Mo via.
TIT. No vòggio.
PAS. Debòtto ve mando tutti do a far squartare.
_______________
29
da SIOR TODERO BRONTOLON (1762)
Atto Primo – Scena Quinta
Camera di Todero. TODERO e GREGORIO
TOD. Vegnì qua mo, sior.
GREG. La comandi.
TOD. Saveu cossa che v’ho da dir? Che son stà in cusina che ho visto un fogaron del diavolo, che
le legne no i me le dona, e che no vôi che se butta suso in quella maniera.
GREG. Ah! la xe stada ela in cusina?
TOD. Sior sì, son stà mi. Cossa voressi dir?
GREG. Mi no digo gnente; ma co son vegnù a casa da spender, ho trovà el fogo desfatto, la carne
no bogiva e ho crià co la serva.
TOD. No se pol far boger una pignatta senza un carro de legne?
GREG. Come vorla che la bogia con do stizzetti?
TOD. Suppiè.
GREG. Mi gh’ho cento cosse da far, no posso star miga là tutta la mattina a suppiar.
TOD. Co no ghe sè vu, che vaga a suppiar la massera.
GREG. Anca ela l’ha da far i letti, l’ha da scoar, l’ha da laorar.
TOD. Co no pol la massera, che vaga in cusina mia nezza, che ghe vaga so mare.
GREG. Figurarse, se ele vol andar in cusina.
TOD. Co no ghe xe nissun, disèmelo, che anderò a suppiar mi.
GREG. (Che el suppia quanto che el vuol, mi un de sti dì me la batto).
TOD. Chi ghe xe adesso in cusina?
GREG. Per adesso ghe xe Cecilia.
TOD. Mio fio dove xelo?
GREG. Za un poco el giera in camera co la patrona.
TOD. Coss’è sta patrona? In sta casa no ghe xe altri patroni che mi. Cossa fàveli in camera?
GREG. Giera la portiera tirada su; cossa vorla che sappia mi?
TOD. Dove xe la putta?
GREG. In tinello.
TOD. Cossa fala?
GREG. La laora.
TOD. Cossa laórela?
GREG. M’ha parso che la mettesse i doppioni a una camisa.
TOD. Sior Desiderio ghe xelo?
GREG. Sior sì, el xe in mezzà.
TOD. Cossa falo?
GREG. Mi ho visto che el scriveva.
TOD. E el putto?
GREG. El xe in mezzà co so pare.
TOD. Scrìvelo?
GREG. Mi no so dasseno, no gh’ho abbadà.
TOD. Andeghe a dir a sior Desiderio, che el vegna qua.
GREG. La servo. (in atto di partire)
TOD. E po andè in cusina.
GREG. Adesso no gh’ho gnente da far in cusina.
TOD. Mettè suso i risi.
GREG. A sta ora ho da metter suso i risi? Vorla disnar avanti nona?
TOD. Voggio disnar all’ora solita. Ma i risi i se mette suso a bonora, acciò che i cressa, acciò che i
fazza fazion. Son stà a Fiorenza, e ho imparà là come se cusina i risi. I li fa boger tre ore; e mezza
lira de risi basta per otto o nove persone.
GREG. Benissimo. La sarà servida. (Ma per mi me ne farò una pignatella a mio modo).
TOD. Vardè cossa che fa mia niora e mio fio, e sappièmelo dir.
GREG. Sior sì, sior sì, ghe lo saverò dir. (Tutto sì; ma la spia no la voggio far). (parte)
30
VITTORIO ALFIERI (1749-1803)
SAUL (1782)
Atto Secondo – Scena Prima
Saul, Abner
Saul. Bell’alba è questa. In sanguinoso ammanto
oggi non sorge il sole; un dì felice
prometter parmi. - Oh miei trascorsi tempi!
Deh! dove sete or voi? Mai non si alzava
Saùl nel campo da’ tappeti suoi,
che vincitor la sera ricorcarsi
certo non fosse.
Abner.
Ed or, perché diffidi,
o re? Tu forse non fiaccasti or dianzi
la filistea baldanza? A questa pugna
quanto più tardi viensi, Abner tel dice,
tanto ne avrai più intera, e nobil palma.
Saul. Abner, oh! quanto in rimirar le umane
cose, diverso ha giovinezza il guardo,
dalla canuta età! Quand’io con fermo
braccio la salda noderosa antenna,
ch’or reggo appena, palleggiava; io pure
mal dubitar sapea... Ma, non ho sola
perduta omai la giovinezza... Ah! meco
fosse pur anco la invincibil destra
d’Iddio possente!... o meco fosse almeno
David, mio prode!
Abner.
E chi siam noi? Senz’esso
più non si vince or forse? Ah! non più
mai snudar vorrei, s’io ciò credessi, il brando,
che per trafigger me. David, ch’è prima,
sola cagion d’ogni sventura tua...
Saul. Ah! no: deriva ogni sventura mia
da più terribil fonte... E che? celarmi
l’orror vorresti del mio stato? Ah! s’io
padre non fossi, come il son, pur troppo!
Di cari figli,... or la vittoria, e il regno,
e la vita vorrei? Precipitoso
già mi sarei fra gl’inimici ferri
scagliato io, da gran tempo: avrei già tronca
così la vita orribile, ch’io vivo.
Quanti anni or son, che sul mio labro il riso
non fu visto spuntare? I figli miei,
ch’amo pur tanto, le più volte all’ira
muovonmi il cor, se mi accarezzan... Fero,
impaziente, torbido, adirato
sempre; a me stesso incresco ognora, e
altrui;
bramo in pace far guerra, in guerra pace:
entro ogni nappo, ascoso tosco io bevo;
scorgo un nemico in ogni amico; i molli
tappeti assiri, ispidi dumi al fianco
mi sono; angoscia il breve sonno; i sogni
terror. Che più? chi ’l crederìa? Spavento
m’è la tromba di guerra; alto spavento
è la tromba a Saùl. Vedi, se è fatta
vedova omai di suo splendor la casa
di Saùl; vedi, se omai Dio sta meco.
E tu, tu stesso, (ah! ben lo sai) talora
a me, qual sei, caldo verace amico,
guerrier, congiunto, e forte duce, e
usbergo
di mia gloria tu sembri; e talor, vile
uom menzogner di corte, invido, astuto
nemico, traditore...
Abner.
Or, che in te stesso
appien tu sei, Saulle, al tuo pensiero,
deh, tu richiama ogni passata cosa!
Ogni tumulto del tuo cor (nol vedi?)
dalla magion di que’ profeti tanti,
di Rama egli esce. A te chi ardiva primo
dir, che diviso eri da Dio? l’audace,
torbido, accorto, ambizioso vecchio,
Samuèl sacerdote; a cui fean eco
le sue ipocrite turbe. A te sul capo
ei lampeggiar vedea con livid’occhio
il regal serto, ch’ei credea già suo.
Già sul bianco suo crin posato quasi
ei sel tenea; quand’ecco, alto concorde
voler del popol d’Israello al vento
spersi ha suoi voti, e un re guerriero
ha scelto.
Questo, sol questo, è il tuo delitto. Ei quindi
d’appellarti cessò d’Iddio l’eletto,
tosto ch’esser tu ligio a lui cessasti.
Da pria ciò solo a te sturbava il senno:
coll’inspirato suo parlar compieva
David poi l’opra. In armi egli era prode,
nol niego io, no; ma servo appieno ei
sempre
di Samuello; e più all’altar, che al campo
propenso assai: guerrier di braccio egli era,
ma di cor, sacerdote. Il ver dispoglia
d’ogni mentito fregio; il ver conosci.
Io del tuo sangue nasco; ogni tuo lustro
è d’Abner lustro: ma non può innalzarsi
David, no mai, s’ei pria Saùl non calca.
Saul. David?... Io l’odio... Ma, la propria figlia
gli ho pur data in consorte... Ah! tu non sai.
La voce stessa, la sovrana voce,
che giovanetto mi chiamò più notti,
quand’io, privato, oscuro, e lungi tanto
stava dal trono e da ogni suo pensiero;
or, da più notti, quella voce istessa
fatta è tremenda, e mi respinge, e tuona
in suon di tempestosa onda mugghiante:
"Esci Saùl; esci Saulle"... Il sacro
venerabile aspetto del profeta,
che in sogno io vidi già, pria ch’ei mi avesse
manifestato che voleami Dio
31
re d’Israèl; quel Samuèle, in sogno,
ora in tutt’altro aspetto io lo riveggo.
Io, da profonda cupa orribil valle,
lui su raggiante monte assiso miro:
sta genuflesso Davide a’ suoi piedi:
il santo veglio sul capo gli spande
l’unguento del Signor; con l’altra mano,
che lunga lunga ben cento gran cubiti
fino al mio capo estendesi, ei mi strappa
la corona dal crine; e al crin di David
cingerla vuol: ma, il crederesti? David
pietoso in atto a lui si prostra, e niega
riceverla; ed accenna, e piange, e grida,
che a me sul capo ei la riponga... - Oh vista!
Oh David mio! tu dunque obbediente
ancor mi sei? genero ancora? e figlio?
e mio suddito fido? e amico?... Oh rabbia!
Tormi dal capo la corona mia?
Tu che tant’osi, iniquo vecchio, trema...
Chi sei?... Chi n’ebbe anco il pensiero, pera...
Ahi lasso me! ch’io già vaneggio!...
Abner.
Pera,
David sol pera: e svaniran con esso,
sogni, sventure, vision, terrori.
Atto Secondo – Scena Seconda
Gionata, Micol, Saul, Abner
Gionata. Col re sia pace.
Micol.
E sia col padre Iddio.
Saul. ... Meco è sempre il dolore. - Io men sorgea
oggi, pria dell’usato, in lieta speme...
ma, già sparì, qual del deserto nebbia,
ogni mia speme. - Omai che giova, o figlio,
protrar la pugna? Il paventar la rotta,
peggio è che averla; ed abbiasi una volta.
Oggi si pugni, io ‘l voglio.
Gionata.
Oggi si vinca.
Speme, o padre, ripiglia: in te non scese
speranza mai con più ragione. Il volto
deh! rasserena: io la vittoria ho in core.
Di nemici cadaveri coperto
fia questo campo; ai predatori alati
noi lasceremo orribil esca...
Micol.
A stanza
più queta, o padre, entro tua reggia, in breve,
noi torneremo. Infra tue palme assiso,
lieto tu allor, tua desolata figlia
tornare a vita anco vorrai, lo sposo
rendendole...
Saul.
... Ma che? tu mai dal pianto
non cessi? Or questi i dolci oggetti sono
che rinverdir denno a Saùl la stanca
mente appassita? Al mio dolor sollievo
sei tu così? Figlia del pianto, vanne;
esci; lasciami, scostati.
Micol.
Me lassa!...
Tu non vorresti, o padre, ch’io piangessi?...
Padre, e chi l’alma in lagrime sepolta
mi tiene or, se non tu?...
Gionata.
Deh! taci; al padre
increscer vuoi? - Saùl, letizia accogli:
aura di guerra, e di vittoria, in campo
sta: con quest’alba uno spirto guerriero,
che per tutto Israèl de’ spandersi oggi,
dal ciel discese. Anco in tuo cor, ben tosto,
verrà certezza di vittoria.
Saul.
Or, forse
me tu vorresti di tua stolta gioia
a parte? me? - Che vincere? che spirto?...
Piangete tutti. Oggi, la quercia antica,
dove spandea già rami alteri all’aura,
innalzerà sue squallide radici.
Tutto è pianto, e tempesta, e sangue, e
morte:
i vestimenti squarcinsi; le chiome
di cener vil si aspergano. Sì, questo
giorno, è finale; a noi l’estremo, è questo.
son sangue mio; nol sai?... Taci: rimembra.
(…)
Atto Secondo – Scena Terza
David, Saul, Abner, Gionata, Micol
Saul. Che veggio?
Micol.
Oh ciel!
Gionata.
Che festi?
Abner.
Audace...
Gionata.
Ah! padre...
Micol. Padre, ei m’è sposo; e tu mel desti.
Saul.
Oh vista!
David. Saùl, mio re; tu questo capo chiedi;
già da gran tempo il cerchi; ecco, io tel reco;
troncalo, è tuo.
Saul.
Che ascolto?... Oh David,... David!
Un Iddio parla in te: qui mi t’adduce
oggi un Iddio...
David.
Sì, re; quei, ch’è sol Dio;
quei, che già in Ela me timido ancora i
nesperto garzon spingeva a fronte
di quel superbo gigantesco orgoglio
del fier Goliatte tutto aspro di ferro:
quel Dio, che poi su l’armi tue tremende
a vittoria vittoria accumulava:
e che, in sue mire imperscrutabil sempre,
dell’oscuro mio braccio a lucid’opre
valer si volle: or sì, quel Dio mi adduce
a te, con la vittoria. Or, qual più vuoi,
guerriero, o duce, se son io da tanto,
abbimi. A terra pria cada il nemico:
sfumino al soffio aquilonar le nubi,
che al soglio tuo si ammassano dintorno:
32
men pagherai poscia, o Saùl, con morte.
Né un passo allora, né un pensier costarti
il mio morir dovrà. Tu, re, dirai:
David sia spento: e ucciderammi tosto
Abner. - Non brando io cingerò né scudo;
nella reggia del mio pieno signore
a me disdice ogni arme, ove non sia
pazienza, umiltade, amor, preghiere,
ed innocenza. Io deggio, se il vuol Dio,
perir qual figlio tuo, non qual nemico.
Anco il figliuol di quel primiero padre
del popol nostro, in sul gran monte il sangue
era presto a donar; né un motto, o un cenno
fea, che non fosse obbedienza: in alto
già l’una man pendea per trucidarlo,
mentre ei del padre l’altra man baciava. Diemmi l’esser Saùl; Saùl mel toglie:
per lui s’udia il mio nome, ei lo disperde:
ei mi fea grande, ei mi fa nulla.
Saul.
Oh! quale
dagli occhi antichi miei caligin folta
quel dir mi squarcia! Oh qual nel cor mi
suona!... David, tu prode parli, e prode fosti;
ma, di superbia cieco, osasti poscia
me dispregiar; sovra di me innalzarti;
furar mie laudi, e ti vestir mia luce.
E s’anco io re non t’era, in guerrier nuovo,
spregio conviensi di guerrier canuto?
Tu, magnanimo in tutto, in ciò non l’eri.
Di te cantavan d’Israèl le figlie:
"Davidde, il forte, che i suoi mille abbatte;
Saùl, suoi cento". Ah! mi offendesti, o David,
nel più vivo del cor. Che non dicevi?
"Saùl, ne’ suoi verdi anni, altro che i mille,
le migliaia abbatteva: egli è il guerriero;
ei mi creò".
David.
Ben io ‘l dicea; ma questi,
he del tuo orecchio già tenea le chiavi,
dicea più forte: "Egli è possente troppo
David: di tutti in bocca, in cor di molti;
se non l’uccidi tu, Saùl, chi ’l frena?" Con minor arte, e verità più assai,
Abner, al re che non dicevi? "Ah David troppo
è miglior di me; quindi io lo abborro;
quindi lo invidio, e temo; e spento io ’l voglio".
(…)
Saul.
Mio figlio, hai vinto;... hai vinto.
Abner, tu mira; ed ammutisci.
Micol.
Oh gioia!
David. Oh padre!...
Gionata.
Oh dì felice!
Micol.
Oh sposo!...
Saul.
Il giorno,
sì, di letizia, e di vittoria, è questo.
Te duce io voglio oggi alla pugna (…)
Atto Quinto – Scena Terza
Saul, Micol
Saul. Ombra adirata, e tremenda, deh! cessa:
lasciami, deh!... Vedi: a’ tuoi piè mi prostro...
Ahi! dove fuggo?... - ove mi ascondo? O fera
ombra terribil, placati... Ma è sorda
ai miei preghi; e m’incalza?... Apriti, o terra,
vivo m’inghiotti... Ah! pur che il truce sguardo
non mi saetti della orribil ombra...
Micol. Da chi fuggir? niun ti persegue. O padre,
me tu non vedi? me più non conosci?
Saul. O sommo, o santo sacerdote, or vuoi
ch’io qui mi arresti o Samuèl, già vero
padre mio, tu l’imponi? ecco, mi atterro
al tuo sovran comando. A questo capo
già di tua man tu la corona hai cinta;
tu il fregiasti; ogni fregio or tu gli spoglia;
calcalo or tu. Ma,... la infuocata spada
d’Iddio tremenda, che già già mi veggo
pender sul ciglio,... o tu che il puoi, la svolgi
non da me, no, ma da’ miei figli. I figli,
del mio fallir sono innocenti...
Micol.
Oh stato,
cui non fu il pari mai! - Dal ver disgiunto,
padre, è il tuo sguardo: a me ti volgi...
Saul.
Oh gioia!...
Pace hai sul volto? O fero veglio, alquanto
miei preghi accetti? io da’ tuoi piè non sorgo,
se tu i miei figli alla crudel vendetta
pria non togli. - Che parli?... Oh voce! "T’era
David pur figlio; e il perseguisti, e morto
pur lo volevi". Oh! che mi apponi?... Arresta.
Sospendi or, deh!... Davidde ov’è? si cerchi:
ei rieda; a posta sua mi uccida, e regni:
sol che a’ miei figli usi pietade, ei regni... Ma, inesorabil stai? Di sangue hai l’occhio;
foco il brando e la man; dalle ampie nari
torbida fiamma spiri, e in me l’avventi...
Già tocco m’ha; già m’arde: ahi! dove
fuggo?...
per questa parte io scamperò.
Micol.
Né fia,
ch’io rattener ti possa, né ritrarti
al vero? Ah! m’odi: or sei...
Saul.
Ma no; che il passo
di là mi serra un gran fiume di sangue.
Oh vista atroce! sovra ambe le rive,
di recenti cadaveri gran fasci
ammonticati stanno: ah! tutto è morte
colà: qui dunque io fuggirò... (…)
Saul.
Squillan più forte
le trombe? Ivi si vada: a me il mio brando
basta solo. - Tu, scostati, mi lascia;
obbedisci. Là corro: ivi si alberga
morte, ch’io cerco.
33
LA «VITA» (1782)
Epoca Quarta – Capitolo XXII
Erasi frattanto rotta la guerra coll’imperatore, che poi divenne generale e funesta. Venuto il
giugno, in cui si tentò già di abbattere intieramente il nome del re, che altro piú non rimaneva; la
congiura di quel giorno 20 giugno essendo andata fallita, le cose strascinarono ancora malamente
sino al famoso dieci d’agosto, in cui la cosa scoppiò come ognuno sa.
Accaduto quest’avvenimento, io non indugiai piú neppure un giorno, e il mio primo ed unico
pensiero essendo di togliere da ogni pericolo la mia donna, già dal dí 12 feci in fretta in fretta tutti i
preparativi per la nostra partenza. Rimaneva la somma difficoltà dell’ottenere passaporti per uscir
di Parigi, e del regno. Tanto c’industriammo in quei due o tre giorni, che il dí 15, o 16, già gli
avevamo ottenuti come forestieri (…).
Muniti cosí di tutte queste schiavesche patenti, avevamo fissato la partenza nostra pel
lunedí 20 agosto; ma un giusto presentimento, trovandoci allestiti, mi fece anticipare, e si parti il dí
18, sabato, nel dopo pranzo. Appena giunti alla Barrière Blanche, che era la nostra uscita la piú
prossima per pigliar la via di San Dionigi per Calais, dove ci avviavamo per uscire al piú presto di
quell’infelice paese; vi ritrovammo tre o quattro soli soldati di guardie nazionali, con un uffiziale,
che visti i nostri passaporti, si disponeva ad aprirci il cancello di quell’immensa prigione, e lasciarci
ire a buon viaggio. Ma v’era accanto alla Barriera una bettolaccia, di dove sbucarono fuori ad un
tratto una trentina forse di manigoldi della plebe, scamisciati, ubriachi, e furiosi. Costoro, viste due
carrozze che tante n’avevamo, molto cariche di bauli, e imperiali, ed una comitiva di due donne di
servizio, e tre uomini, gridarono che tutti i ricchi se ne voleano fuggir di Parigi, e portar via tutti i
loro tesori, e lasciarli essi nella miseria e nei guai. Quindi ad altercare quelle poche e tristi guardie
con quei molti e tristi birbi, esse per farci uscire, questi per ritenerci. Ed io balzai di carrozza fra
quelle turbe, munito di tutti quei sette passaporti, ad altercare, e gridare, e schiamazzar piú di loro;
mezzo col quale sempre si vien a capo dei francesi. (…)
Si era frattanto ammassata piú gente intorno alle due carrozze, e molti gridavano:
«Diamogli il fuoco a codesti legni». Altri: «Pigliamoli a sassate». Altri: «Questi fuggono; son dei
nobili e ricchi, portiamoli indietro al Palazzo della Città, che se ne faccia giustizia». Ma insomma il
debole aiuto delle quattro guardie nazionali, che tanto qualcosa diceano per noi, ed il mio molto
schiamazzare, e con voce di banditore replicare e mostrare i passaporti, e piú di tutto la mezz’ora
e piú di tempo, in cui quei scimiotigri si stancarono di contrastare, rallentò l’insistenza loro; e le
guardie accennatomi di salire in carrozza, dove avea lasciato la signora, si può credere in quale
stato, io rientratovi, rimontati i postiglioni a cavallo si aprí il cancello, e di corsa si uscí,
accompagnati da fischiate, insulti e maledizioni di codesta genia. E buon per noi che non prevalse
di essere ricondotti al Palazzo di Città, che arrivando cosí due carrozze in pompa stracariche, con
la taccia di fuggitivi, in mezzo a quella plebaglia si rischiava molto; e saliti poi innanzi ai birbi della
Municipalità, si era certi di non poter piú partire, d’andare anzi prigioni, dove se ci trovavano nelle
carceri il dí 2 settembre, cioè quindici giorni dopo, ci era fatta la festa insieme con tanti altri
galantuomini che crudelmente vi furono trucidati.
Sfuggiti di un tale inferno, in due giorni e mezzo arrivammo a Calais, mostrando forse
quaranta e piú volte i nostri passaporti; ed abbiamo saputo poi che noi eramo stati i primi forestieri
usciti di Parigi, e del regno dopo la catastrofe del 10 agosto. Ad ogni Municipalità per istrada dove
ci conveniva andare e mostrare i nostri passaporti, quei che li leggevano, rimanevano stupefatti ed
attoniti alla prima occhiata che ci buttavan sopra, essendo quelli stampati, e cassatovi il nome del
re. Poco, e male erano informati di quel che fosse accaduto in Parigi, e tutti tremavano. Sono
questi gli auspici, sotto cui finalmente uscii della Francia, con la speranza, ed il proponimento di
non capitarvi piú mai. (…) Poi ci fu scritta la catastrofe e gli orrori ecc. seguiti in Parigi il di 2
settembre, e si ringraziò e benedí la Provvidenza che ce n’avea scampati.
Visto poi sempre piú oscurarsi il cielo di quel paese, e nata nel terrore e nel sangue quella
sedicente repubblica, noi saviamente ascrivendo a guadagno tutto quello che ci potea rimanere
altrove, ci posimo in via per l’Italia il dí 1° ottobre; e per Aquisgrana, Francfort, Augusta ed
Inspruch, venuti all’Alpi e lietamente varcatele, ci parve di rinascere il dí che ci ritrovammo nel bel
paese qui dove il sí suona. (…)
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da LE RIME (post. 1804)
Già il ferétro, e la Lapide, e la Vita
Già il ferétro, e la Lapide, e la Vita
che scritta resti, preparando io stommi;
né inaspettata sopraggiunger puommi
omai Colei ch’ogni indugiare irrita.
La schiavesca Tirannide inaudita,
che tutti schiaccia al par, minimi e sommi,
di ciò ringrazio, che il poter lasciommi
di furarle almen una anima ardita.
Ma non inulta l’Ombra mia, né muta
starassi, no: fia dei Tiranni scempio
la sempre viva mia voce temuta.
Né lunge molto al mio cessar, d’ogni empio
veggio la vil possanza al suol caduta;
me forse altrui di liber’uomo Esempio.
da Il Misogallo (1790-98)
Giorno verrà, tornerà ’l giorno, in cui
Giorno verrà, tornerà ’l giorno, in cui
redivivi omai gl’Itali, staranno
in campo audaci; e non col ferro altrui
in vil difesa, ma dei Galli a danno.
Al forte fianco sproni ardenti dui
lor virtù prisca, ed i miei carmi, avranno:
onde, in membrar ch’essi già fur, ch’io fui,
d’irresistibil fiamma avvamperanno.
E armati allor di quel furor celeste
spirato in me dall’opre dei lor Avi,
faran mie rime a Gallia esser funeste.
Gli odo già dirmi: «O Vate nostro, in pravi
secoli nato, eppur create hai queste
sublimi età, che profetando andavi».
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