Piero Camporesi Il pane selvaggio Il Saggiatore, 2016
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Piero Camporesi Il pane selvaggio Il Saggiatore, 2016
Piero Camporesi Il pane selvaggio Pages 224 Book Excerpt and Translation Sample Il pane selvaggio © 2016 Il Saggiatore English Translation © Emma Mandley Foreign Rights Marco Prato [email protected] Il Saggiatore, 2016 La fuga nei paradisi artificiali, nei mondi rovesciati, negli impossibili sogni di compensazione delle folle stracciate e affamate dei secoli moderni nasce dalla invivibilità del reale, dal basso dosaggio vitale, dalle carenze e (per contrapposto) dagli eccessi alimentari che inducono a una interpretazione sussultoria, incoerente, spasmodica della realtà e alla costruzione d’un modello d’esistenza e d’una immagine del mondo differenziata, dissimile da quella elaborata, nella stessa età, dagli intellettuali razionalisti che, come Galilei, Bacone, Cartesio, pongono ben squadrati mattoni nella fabbricazione d’una macchina del mondo, d’un «opificio» fisico e mentale regolato da un coerente congegno meccanico e logico, da un assetto d’incastri e di rimandi perfettamente organico e inesorabilmente condizionante. Nella parte bassa della società «civile», invece, nell’universo della subalternità, degli uomini strumentali e «meccanici», tiranneggiato dall’uso quotidiano di «pani ignobili», dove le miscele di cereali inferiori, spesso corrotti e deteriorati da una cattiva conservazione o, come non infrequentemente accadeva, miscelati (anche dolosamente) con vegetali e granaglie tossiche e stupefattive, il ritmo sconcertato d’una esistenza alle soglie dell’an imalità contribuiva alla; delineazione di modelli devianti e di ottiche .deliranti. La dicotomia fra «pane da prìncipi e da gran maestri» e «pan da cani» (efficacemente rilevata da Giovanni Michele Savonarola «fisico eccellentissimo» dello studio padovano nel secondo Quattrocento) si trasforma in metafora alimentare di due differenti sistemi culturali che nel pane trovano il loro luogo topico. Il pane, oggetto polivalente da cui dipendono la vita, la morte, il sogno, diventa nelle società povere soggetto culturale, il punto e lo strumento culminante, reale e simbolico, della stessa esistenza, impasto polisemico) denso di molteplici valenze nel quale la funzione nutritiva s’intreccia con quella terapeutica (nel pane si mescolavano le erbe, i semi, le farinate curative), la suggestione magico-ri- tuale con quella ludicofantastica, stupefattiva e ipnagogica. Il pane papaverina (il papavero veniva coltivato in vaste zone d’Europa con metodi, si direbbe oggi, industriali), il pane truccato e drogato, aromatizzato per sovrappiù con semi di coriandolo, di anice, di comino, con olio di sesamo, con tutti i possibili additivi voluttuosi reperibili in un «regno vegetale col quale gli uomini vivevano in intima domestichezza, oggi impensabile; o addirittura, nelle zone in cui veniva coltivata, la farina di semi di canapa, adoperata in cucina per preparare paste e pane la quale «fa perder lo intelletto» e «genera un’ubriachezza domestica e una certa stupidità», erano fra i più diffusi e popolari strumenti che consentivano il passaggio da una condizione umana alle soglie dell’invivibilità a una dimensione stupefattiva e paranoide che non è forse azzardato ritenere non tanto programmata dall’alto (come talvolta si può supporre) quanto voluta e ricercata dalle stesse plebi, macerate dai morbi, dalla fame, dalle paure notturne e dalle ossessioni diurne. Il viaggio collettivo nel sogno, perseguito con la «ubriachezza domestica», con l’ausilio dei semi e delle erbe allucinogene, nato da un sottofondo di cronica sottoalimentazione e molto spesso di fame (che è il più semplice e naturale produttore di alterazioni mentali e di stati sognanti), aiuta a spiegare il manifestarsi di deliri mentali collettivi, di transe di massa, d’esplosioni coreutiche d’intere comunità e di villaggi. Ma può anche essere la strada che ci permette d’intravedere una costruzione mentale del mondo a doppia faccia, nata sotto il segno ambiguo ed equivoco della bivalenza, condizionata da una presa di coscienza allucinata e alterata della realtà in cui i piani si sono capovolti, gli universali rovesciati, il mondo finito a «capinculo», con la testa per terra e i piedi nelle nuvole, in una misura alterata dello spazio e del tempo, in una geometria non euclidea e in una prospettiva magico-onirica in cui i rapporti e le proporzioni vengono regolati da strumenti d’accertamento e di misura diversi da quelli praticati nelle aree culturali ad alto livello di razionalità classica e che tuttavia non riescono a sottrarsi del tutto all’inquinamento inoculato dalla cultura della fame. Appare a questo punto evidente come la povertà, i bassi livelli di sussistenza, abbiano «inciso sulle categorie logiche, ancora una volta dimostrate non universali e, invece, generate dalle situazioni culturali» (A.M. Di Nola), investendo anche il senso del tempo che nel mondo dell’indigeno non si declina mai, se non ironicamente, al futuro (eredità dei ricchi), ma viene consumato nel presente o nella ossessiva ripetizione d’un passato sempre identico, immutabilmente ritornante come un incubo permanente, a data fissa. Così come dannazione ed incubo della carne guasta e dello spirito deteriorato erano i lombrichi che rodono i visceri ancor prima che sopraggiunga la morte, ospiti pressoché permanenti d’un corpo sociale infetto, ossessione ineliminabile d’una verminosità generale che si proiettava, divenuta metafora ripugnante, sopra il «popolo verminoso» degli straccioni e dei pitocchi, bruchi voraci dei granai dei ricchi. Ma anche proiezione globale d’una demonicità diffusa, d’una contaminazione maligna che, sotto il travestimento in repellenti insetti, servendosi della maschera d’ immondi animalcula, prendeva possesso, invasandoli e maleficandoli in nome di Satana, dei corpi e delle anime. Si profila il fantasma d’una vampiresca società d’ossessi, in fuga dal senso tormentoso della brevitas vitae e dalla paura della morte, che tenta disperatamente e crudelmente di prolungare la vita suggendo sangue giovane aprendo e chiudendo vene del proprio e dell’altrui corpo, posseduta da una cultura corporale nevroticamente sensibile alla circolazione interna degli umori e convinta del primato assoluto del buon sangue umano la cui «mirabile virtù», se distillato all’alambicco e divenuto «elixir di vita cioè fuoco vitale» (come scriveva nei Secreti diversi et miracolosi l’anonimo che si spacciava per il grande Gabriele Fallopio), non solo cura ogni infermità ma ritarda la morte e ridona la giovinezza. Piero Camporesi Il pane selvaggio Translation by Emma Mandley Il Saggiatore, 2016 The unbearable nature of real life, malnutrition, famine and (conversely) excessive consumption induced the ragged and starving masses of the early modern age to take refuge in artificial paradises, topsy-turvy worlds and impossible dreams of redress. This led to an interpretation of reality that was inconsistent, incoherent and unstable, as well as to the construction of a model for existence and an alternative view of the world unlike that proposed, concurrently, by rationalist intellectuals such as Galileo, Bacon and Descartes, whose world structure was created from solid building blocks: a physical and mental ‘factory’, regulated by a coherent and logical mechanism, by tidy connections and cross-references, perfectly consistent and irresistibly persuasive. At the bottom end of so-called civil society, on the other hand, the uneasy rhythm of a barely human life contributed to a framework of deviant models and deranged perceptions. In this world of dependency, of exploitation and drudgery, people were enslaved by the daily consumption of ‘base bread’: mixtures of poor quality grain, often deteriorating or spoilt as a result of ineffective storage. Nor was it unusual for plants and grains that were toxic and narcotic to be added (sometimes maliciously) to the mix. The dichotomy between ‘bread for princes and great masters’ and ‘bread fit for dogs’ (as described so pertinently in the second half of the fifteenth century by Giovanni Michele Savonarola, ‘most excellent physician’ at the University of Padua) becomes an alimentary metaphor for two different cultural structures that find their common theme in bread. That versatile substance, which rules life, death, and dreams, emerges as a cultural issue in poor societies: the focal point and the key, actual and symbolic, to life itself – a dough of many meanings, crammed with multiple values, its nutritional function linked to its therapeutic role (herbs, seeds and medicinal concoctions were mixed into the bread), and its magical, ritualistic associations interwoven with those that were recreational, illusory, narcotic and hypnotic. The most widespread and popular means to effect the transition from the barely tolerable human condition to a doped-up and paranoid dimension included bread made with the seed of opium poppies (widely cultivated in Europe, using methods that today would be called industrial); bread that had been adulterated, spiked, and finally flavoured with coriander seeds, aniseed, cumin and sesame oil, together with the whole range of tempting additives to be found in the plant kingdom – which at that time played such a familiar part in day-to-day life, something that’s unimaginable today. In areas where it was cultivated, even hempseed flour was used in the preparation of pastries and bread that would ‘cause the loss of one’s wits’ and ‘result in domestic inebriation and a sort of imbecility’. Rather than being masterminded from on high (as is sometimes assumed), perhaps it is not too outlandish to suggest that this was desired and actively sought by the poor themselves, consumed as they were by disease, hunger, nocturnal fears and daytime anxieties. The wholesale journey into a world of dreams, reached by means of ‘domestic inebriation’, aided by hallucinogenic seeds and herbs, against a background of chronic malnutrition and very often starvation (which offers the most simple and natural route to mental confusion and dreamlike states) helps to explain the phenomenon of collective delirium, mass trances and outbreaks of chorea that affected entire communities and villages. But along the way we may also catch a glimpse of a double-sided mind map of the world, created under the ambiguous and equivocal sign of duality, shaped by a deranged and distorted consciousness of reality. Here perspectives are inverted, universal truths are overturned and the world is upended, head over heels. In this altered evaluation of space and time, in this non-Euclidean geometry and this magical and dreamlike viewpoint, interrelationships and proportions are governed by instruments of measurement and validation that differ from those used in the exalted cultural realms of classical reason – and yet they still fail to escape altogether the injection of poison that comes from the culture of hunger. So it now seems clear that poverty and subsistence-level conditions ‘had a bearing on logical classifications, proving yet again that they are not universal rules, but are instead driven by cultural circumstances’ (A.M. Di Nola). This is true also of the sense of time that amongst the poverty-stricken never looks, except ironically, towards the future (the birthright of the wealthy) but is consumed in the present or in the relentless repetition of a past that is always identical, endlessly reliving the same day, like a recurring nightmare.