Detlef Heikamp
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Detlef Heikamp
Detlef Heikamp Palazzo Pitti, la Reggia rivelata Introduzione alla Mostra* Palazzo Pitti, “questa fabbrica, che di magnificenza non cede a nessuna altra” (1), vede riscoprire con questa Mostra sia le statue e gli affreschi che lo decorano, sia lo spazio che lo circonda. Con Reggia, infatti, intendiamo l’insieme del Palazzo e del suo Giardino: un insieme del quale si possono comprendere il significato e la grandiosità solo se si esplorano i legami e gli intrecci che lo vincolano all’intero tessuto urbano di Firenze, estesi in ogni direzione a simboleggiare l’onnipresenza del Principe. E rintracciare oggi, nelle strutture della città moderna, le vestigia di queste ramificazioni, ricostruirne mentalmente i percorsi, equivale a resuscitare nelle nostre coscienze una dimensione importante della Reggia, ora dispersa e quasi annullata nell’affollarsi di turisti e di cittadini. La società e la vita di corte, un tempo albergate nella Reggia e fissate in splendidi reportages pittorici e grafici (2) (fig. 1), già nel tardo Settecento cedono via via, come dimostrano le vedute dell’epoca, ai “benestanti” ammessi nel giardino di Boboli (3), mentre le immagini del secolo successivo mostrano come la borghesia abbia ormai conquistato pienamente questo spazio ricreativo (fig. 2). Ma il fasto sbalorditivo che, oggi come allora, sorprende il visitatore dietro la facciata bugnata è ancora quello del passato principesco. Per la Mostra, non è stato necessario trasportare tesori da lontano: essa considera e analizza l’ambiente stesso nel quale si svolge. E così, vi possiamo ammirare molte opere finalmente restaurate - delle quali solo ora siamo in grado di intendere il pregio, il fascino - rimaste sempre qui, o recuperate da Boboli (4), dai Depositi dei Musei fiorentini, dal Gabinetto dei Disegni e Stampe degli Uffizi, dalle Biblioteche, dagli Archivi e dalle collezioni private della città. Una messe ricchissima di materiale spesso mai studiato, oppure da secoli negletto, ritorna ora alla luce; ed esplorare e rivelare ciò che Firenze possiede e nasconde è la parola d’ordine dell’impresa. Il Catalogo dispensa una mole generosa di novità scientifiche, così che anche in futuro esso potrà restare uno stabile strumento di studio, e quasi un manuale di riferimento. Molte opere esposte rivelano ciò che gli anglosassoni definiscono “the association value”. Guardiamo ad esempio i Fauni antichi che, dal Primo Vestibolo, sono ora ritornati nella Sala degli Staffieri entro le fastose nicchie di breccia medicea, create apposta dall’Ammannati per ospitare sculture, nell’ambiente allungato dal quale, più tardi, fu ricavata anche la Galleria delle Statue (5). Negli anni Quaranta del Cinquecento Francesco Salviati aveva riprodotto uno di questi Fauni in un affresco della Sala dell’Udienza di Palazzo Vecchio (fig. 3): ma è singolare che, nella sua traduzione ‘murale’, alla statua si affianchino altri marmi celebri, a riprova del fatto che l’artista – e con lui probabilmenteil committente, e lo spettatore - considerava il Fauno una delle più significative sculture dell’antichità, tornata dopo tanti secoli alla luce del sole. Attraverso l’interpretazione del pittore noi siamo in grado di prendere parte all’eccitante clima di scoperte che allora dominava l’ambiente artistico e intellettuale di Roma, nel quale Salviati in gioventù si era trovato immerso in 1 compagnia dell’amicissimo Vasari, “non lasciando né in palazzo [del Vaticano] né in altra parte di Roma cosa alcuna notabile, la quale non disegnassono” (6). Ed è oltremodo probabile che a tali disegni del suo primo soggiorno nell’Urbe egli abbia attinto per la grande decorazione parietale fiorentina. Le opere sempre in situ - cioè le sculture monumentali e gli affreschi che si incontrano lungo il percorso - saranno dunque parte integrante della Mostra, ed affrontate nel relativo Catalogo alla stessa stregua di quelle aggiunte per l’occasione. Non sarà invece qui contemplato quel patrimonio mobile del Palazzo fatto di quadri, di arredi, di oggetti d’arte applicata, di oreficerie, di pietre dure, vale a dire appartenente a tutti quegli ambiti che negli ultimi decenni hanno già beneficiato di intensi studi. Le opere esposte ex novo saranno inserite con discrezione nel tessuto architettonico e museale preesistente, giacché Palazzo Pitti non offre altre possibilità: ma ciò che a prima vista può sembrare uno svantaggio, viene qui trasformato in un metodo di lettura che mette in luce le nuove acquisizioni storiche, che sfrutta le aggiunte per commentare ciò che invece è rimasto nel luogo d’origine, che si serve delle sculture nuovamente esposte per dare enfasi e maggiore significato a quelle che si trovano sempre in loco. Riscoprire la statuaria di Pitti è un primo passo per rintracciare la storia del suo magnifico arredo, che si è accresciuto nei secoli, ma che è stato anche via via depauperato dai vari passaggi e spostamenti. Grazie allo studio delle sculture si comprendono gli intenti politici alla base del collezionismo, così come le metamorfosi e lo zelo spietato del gusto, che di frequente combatte e condanna ciò che invece le generazioni precedenti ammiravano. E la conseguenza più evidente è l’inquieto peregrinare delle statue – malgrado l’ingente peso dei materiali - dagli Uffizi fino a Boboli, come segno di esilio e di condanna; o al contrario la loro nuova fortuna, quando ad esempio nel ventesimo secolo saranno accolte nei musei, per osannarle. Con questa Mostra abbiamo risarcito clamorose ingiustizie del passato, recuperando opere di rara qualità che, esposte alle intemperie, ancora languivano a Boboli. E abbiamo in parte ricostruito le collezioni di Cosimo I e dei suoi figli, risvegliando lo spirito delle passioni dei Granduchi collezionisti, e rendendo palesi i motivi che queste stesse passioni avevano acceso. Il maestoso Cortile è la prima tappa della Mostra. Alla morte di Cosimo I (1574) le sue nicchie erano ancora deserte, ma è difficile immaginare che il Granduca intendesse lasciarle così, come orbite vuote, senza immaginare e prevedere una serie di sculture monumentali nel prospetto verso il Giardino. E l’Ammannati stesso, prima di rientrare a Firenze, aveva creato a Roma nella Villa di Papa Giulio III quel Cortile della Fontana (fig. 4) che sotto molti rispetti anticipa l’ancora più grandioso Cortile del Palazzo fiorentino, a sua volta ispirato all’ordine rustico romano della Porta Maggiore nell’Urbe (7) (fig. 5). In rapporto a questo, i versi cantati dal Sanleonini non sono dunque solo retorica, poiché vi è riflessa con chiarezza l’ardente e determinata volontà del Granduca di creare un simbolo altissimo del proprio potere: ...Pyctana Palatia coelo Aemula, digna Iove, et genitis a Stirpe Deorum (Pulchrior Europa nec moles altera surgit) (8) 2 Come si coglie nella Sala delle Nicchie a Palazzo Pitti, e si vedrà più tardi nella Villa Medici a Roma, l’Ammannati architetto ed insieme scultore è uno dei principali protagonisti nell’ideazione di ampi e solenni spazi espositivi per la scultura classica, ed è grazie a lui che la Reggia fiorentina si troverà, già nel Cinquecento, a rivestire un ruolo chiave nello sviluppo di architetture museali ‘moderne’, adeguate ad accogliere l’antico. Sotto le arcate del Cortile abbiamo esposto il grande bassorilievo romano raffigurante un militare con il suo cavallo (9), forse uno scudiero germanico o balcanico del seguito di un imperatore. Per oltre trecento anni la lastra trovò posto agli Uffizi, da dove tuttavia nel 1919 venne esiliata nel Cortile dell’Aiace di Pitti, mancando spazio per l’esposizione dei quadri. Accanto al bassorilievo vediamo due opere, pure dell’antichità classica, interpretate nel Seicento come “gladiatori”: in realtà una raffigura il tirannicida Aristogitone, e l’altra una figura di Giovane, e insieme con l’Apollo-Dioniso esse provengono dal fitto esercito di statue che affiancano il viottolone di Boboli (11). La Mostra continua sullo Scalone del Palazzo, dove è esposta la Fama di Raffaello Curradi (12), figura alata sospesa nell’aria, che graziosamente danzava con i piedi incrociati sopra lo stemma mediceo, che oggi però manca, come manca la tromba nella mano destra e la corona di lauro nella sinistra della figura, mentre la testa è crudelmente mozzata. La statua era sepolta nel buio dei depositi fin dall’epoca neoclassica che aveva in odio ogni esuberanza barocca, ma il tempo non ha potuto spezzare l’eleganza indistruttibile del suo movimento e l’armonia fresca dei suoi movimenti, tali da renderla una delle opere più “berniniane” che si potessero concepire nella conservativa Firenze. Attraverso le sue lacerazioni, la scultura si carica ora, per noi, di nuovi significati allegorici, e diventa simbolo delle glorie medicee ferite. La scultura barocca è d’altra parte rappresentata anche dalle opere nella Grotta del Cortile (13), e da un busto monumentale già in Boboli (in marmo, ma con testa in porfido) di Andrea Ferrucci (14). I raffinati busti di Giuseppe Piamontini (15) sono stati di nuovo finalmente riuniti secondo quello che era il programma dell’artista, esaltandone così le qualità e svelando nel loro insieme una bellezza tra le più squisite di tutto il Settecento fiorentino. Si collocano idealmente a cavallo tra Maniera e soglie del Barocco le sculture della generazione “riformata”, ossia la Frode di Giovan Francesco Susini (16) nel Vestibolo della Galleria Palatina e il bel Mercurio di Pietro Francavilla (17), che ammiriamo nella Sala degli Staffieri. Dopo lo Scalone, il percorso prosegue dividendosi da un lato tra gli Appartamenti Reali – ricostruiti negli ultimi anni Novanta del secolo scorso secondo l’aspetto dell’ultimo regno dei Savoia, magica lezione museologica che resuscita pienamente una parabola del passato – e la Galleria Palatina dall’altro. Nella Sala Bianca sono raccolte le statue commissionate da Cosimo I ai suoi scultori di corte, quasi tutte recuperate da Boboli; e per una di queste, il grazioso Bacco, è qui riproposta in maniera convincente l’attribuzione a Vincenzo de’ Rossi. Su di esse domina la celeberrima statua di bronzo dell’Arringatore, dopo più di quattro secoli ritornato a Pitti ove Cosimo, negli ultimi 3 anni della sua vita, l’aveva collocato al piano terreno del Palazzo, nella sala dove era solito trascorrere i mesi più caldi dell’estate. Altri capolavori dell’epoca del primo Granduca si incontrano nella Sala degli Staffieri e nella Sala di Marte. Dal Giardino di Boboli provengono i marmi con soggetti scherzosi o di genere, ora riuniti in una stanza prossima alla Sala di Bona: fra questi è il ritratto del Nano Barbino, che Cosimo aveva inizialmente destinato a Boboli insieme al celebre Nano Morgante a cavalcioni di una tartaruga, ribattezzato “Bacco” dalla voce popolare, e non esposto in Mostra solo per motivi di statica. Come già si è detto, la Sala delle Nicchie era - insieme al Cortile - il luogo deputato per la scultura antica raccolta da Cosimo I: ora vi abbiamo aggiunto alcune delle sculture che vi furono esposte nel Cinquecento. Già all’epoca del regno sabaudo la Sala aveva visto tramontate e lontane le sue glorie, ma per il suo ruolo originario e avanguardistico di Museo delle antichità di Cosimo I ci è sembrato adesso pienamente giustificato riportarla, per quanto possibile, al suo splendore cinquecentesco, rafforzando le vestigia dell’epoca del Granduca. La ricostruzione grafica di questo ambiente restituisce l’idea della magnificenza e della drammaticità della sua decorazione parietale, che era concepita nei colori dell’arme medicea, mentre sul fondo delle nicchie foderate di nera pietra di paragone si stagliava il marmo candido delle statue (21). Fra le opere esposte in questa sala all’epoca di Cosimo era anche il famoso “porco cinghiale in atto di sospetto” come lo definisce il Vasari, statua antica regalata da papa Pio IV al duca e oggi agli Uffizi. Invece dell’originale marmoreo, è esposta in Mostra la copia in bronzo di Pietro Tacca (22) che per breve tempo aveva soggiornato a Pitti, prima di essere spostata nella loggia del Mercato nuovo. Altro importante nucleo di statue antiche è quello acquistato da Ferdinando I per Villa Medici a Roma: parte di esse è visibile nella Galleria delle Statue e nell’attigua Sala Castagnoli, con l’aggiunta di busti provenienti da Boboli. E infine, la scultura neoclassica trova il suo apice nella Venere Italica del Canova (22), ovviamente esposta nella Sala di Venere. Al centro della sala di Giove sta la Vittoria, marmo di Vincenzo Consani; nella sala dell’Iliade è posta la Carità Educatrice di Lorenzo Bartolini, aggiunte alla Galleria Palatina nel corso del secolo decimonono, mentre la sistemazione della Venere di Canova, è stata messa in atto solo di recente. In occasione della mostra, abbiamo ulteriormente arricchito le Sale dei Pianeti, consideranto che questi ambienti si prestano in modo meraviglioso all’esposizione della scultura: cambiando temporaneamente il volto della Galleria Palatina si rivelano al meglio, infatti, le molteplici potenzialità di queste sale. Ma la Mostra ha un intento più sottile o, se si vuole, più sottilmente storico, che è quello di porre di nuovo in luce il nesso fondamentale tra decorazioni parietali e scultura antica, rinascimentale e barocca: un capitolo d’importanza primaria nella storia di Pitti, e che affonda le proprie radici nell’humus culturale dell’epoca di Cosimo I de’ Medici. L’iniziativa provocatoria di aggiungere statue negli ambienti del piano nobile del Palazzo è ispirata al motto che si legge sotto un affresco nella Sala di Giovanni da San Giovanni (fig. 11): 4 Marmi e bronzi ammirar vivi E spiranti Ed in tele scolpiti affetti e moti Parole, dunque, che attribuiscono alla scultura la proprietà di ‘vitalizzare’ le immagini, e alla pittura lo stesso potere della scultura. Galilei rappresentava la collezione del Principe come “una galleria regia, ornata di cento statue antiche de’ più celebri scultori, con infinite storie intere, e le migliori, di pittori illustri...” (24). La sua visione era ispirata alla Galleria degli Uffizi, ma ciò che più conta nel nostro argomentare è il fatto che anche il grande scienziato intendesse l’accostamento di pitture e sculture come lo scenario della magnificenza del Principe. Abbandonato dunque il dogma didattico che caratterizza i musei contemporanei, abbiamo seguito il solo criterio applicabile alla Galleria Palatina, che ne è di fatto uno dei rari esempi giunti fino a noi: fasto e splendore principesco invece di insegnamento manualistico della storia dell’arte, invece di sobrio ordinamento per categorie e per sequenze cronologiche. Le opere di eccellente qualità che abbiamo recuperato da Boboli, e in gran parte già in origine destinate a un’esposizione d’onore entro i palazzi, si rivelano in tutto il loro pregio ora che sono di nuovo collocate in ambienti aulici e sontuosamente arredati, in un habitat dove si possa ancora avvertire il sedimentarsi della Storia: effetti tutti che il moderno e puritano musée clinique non è certo in grado di offrire. Al centro della Sala di Marte, il Nettuno in bronzo di Stoldo Lorenzi (25) risplende di nuovo, dopo un accurato restauro. Del resto, è agevole capire che solo in un ambiente di travolgente ricchezza questa statua può veramente palesare i suoi pregi. Ormai privo dell’acqua, sua linfa vitale, ora qui il Dio si sposa con le drammatiche scene marittime del soffitto, e affresco e scultura si uniscono in grandioso concerto. Liberato delle incrostazioni secolari che ne ottundevano la superficie, di nuovo armato del tridente ricostruito, il Nettuno riacquista il carattere che l’artista aveva voluto conferirgli, e riprende totalmente il suo ruolo di divinità che nella pienezza delle sue forze domina sul regno del Mare. Rinata in virtù del restauro, solo adesso la scultura si rivela e si attesta come capolavoro dell’epoca cosimiana. Nella Sala di Apollo è collocato l’Esculapio della cerchia del Tribolo (26) - capolavoro della scultura cinquecentesca rimasto ancora privoo di un’autografia certa - proveniente dal Giardino di Boboli. Va ricordato d’altra parte che, ancora nell’Ottocento, l’uso secolare di porre le statue al centro delle sale - cioè nel fulcro dell’attenzione - non era caduto in dimenticanza, dato che i Lorena fecero erigere nel cuore della Sala dell’Iliade la Carità Educatrice di Lorenzo Bartolini (27), e in quello della Sala di Giove la Vittoria di Vincenzo Consani (28), di cui s’è detto. A noi, peraltro, non è vietato incrementare questo fasto. Come si è detto, il percorso propone un nuovo metodo espositivo, che sia soft per l’impatto sull’osservatore, allo stesso tempo discreto per essere completamente fondato sulla storia, e rivoluzionario rispetto a criteri proposti nei decenni passati. Far rivivere Palazzo Pitti può significare forzarne temporaneamente lo spirito e rimetterne in discussione l’aspetto abituale, cristallizzato entro percorsi museografici dominati dalla pittura da cavalletto. Il ciclo di affreschi della Galleria Palatina di 5 Pietro da Cortona si pone in profondo contrasto con lo stile estenuato della scuola locale fiorentina. “Quanto noi altri siamo piccini!” esclama Matteo Rosselli ammirando gli affreschi del cortonese (30), e davvero a questo fenomeno ‘importato’ si deve principalmente la propagazione in riva d’Arno del nuovo verbo barocco. Nel primo Ottocento si vedrà l’ultima e nuova fioritura della tecnica ad affresco, prima della definitiva chiusura dell’arte entro i confini del gusto borghese, e prima del totale affermarsi della pittura da stanza. Nella Sala dell’Iliade Luigi Sabatelli, saturo delle nuove dottrine dell’Ottocento, cerca di gareggiare con l’inesauribile inventiva del cortonese. Ma quanti, tra i visitatori di Pitti, alzano gli occhi per vedere le volte dipinte, non meno belle dei quadri sulle pareti? A seguito dei recenti restauri di due soffitti delle Sale dei Pianeti, i nuovi studi da essi scaturiti sulla loro iconografia, sui disegni preparatori e sulla cronologia consentono ora d’intendere meglio le decorazioni e la loro genesi (31). Ma ciò che ci sta più a cuore è stabilire se è davvero possibile che Ferdinando II, educato da Galileo, si sia accontentato di far decorare queste stanze secondo la cosmologia tolemaicoaristotelica, che al principe di educazione illuminata doveva apparire totalmente superata. La portata delle scoperte galileiane fu infatti, all’epoca, sconvolgente: e infatti si comprende adesso che gli affreschi del Cortonese e di Ciro Ferri non sono affatto una pubblica abiura del pensiero di Galileo, bensì, grazie all’attenta rilettura di sottigliezze iconografiche rintracciate da Alberto Righini, astronomo e storico, possiamo ora affermare che vi si trovano cautamente cifrate citazioni delle teorie del grande scienziato. Nell’alta stagione turistica, il percorso concepito per evitare ingorghi nel flusso dei visitatori non mostra al pubblico il corretto dipanarsi delle sequenze tematiche negli affreschi di Pietro da Cortona e Ciro Ferri, ma costringe ad una lettura all’inverso, cui è obbligata (e per gli stessi motivi) anche la Mostra: ma una rilettura ‘corretta’ del Catalogo può ripagare di tale anomalìa. Tra le tante utopie della storia architettonica di Firenze, una delle più persistenti è quella di una grande Piazza davanti a Palazzo Pitti. E’ un sogno durato per secoli, regolarmente naufragato di fronte al conservatorismo e all’agorafobia dei fiorentini, o alla debolezza politica degli ultimi Medici, o alla parsimonia dei principi illuministi cui si ispira la dinastia lorenese, o ancora – durante il governo francese – alla brevità di questo intermezzo. Ma non cessano di nascere progetti, in pittura o sulla carta, e spesso di un’audacia aggressiva che esplode probabilmente proprio come reazione all’angustia dell’impianto urbanistico cittadino. Per contrasto, si cerca addirittura di proporre soluzioni improntate agli spazi di Versailles, o alle grandi residenze nate in Europa sull’esempio dell’assolutismo francese. Né mancano idee geniali, ma Pitti e la sua piazza sognata provocano spesso proposte megalomani o dilettantistiche, e i progettisti oscillano sempre fra le nuove regole grandiose codificate nella trattatistica francese sulla Cour d’Honneur, e il tenace sopravvivere dei concetti buontalentiani. Tanti arditi voli del pensiero non giungono a cambiare la realtà: la dimensione limitata della piazza rimane inalterata, così come il suo forte declivio, interrotto a distanza ravvicinata dalla linea di case d’onorata antichità che guarda il prospetto del Palazzo, e come i percorsi che ad essa si collegano, con l’eterno Sdrucciolo dei Pitti fuori asse, per il quale – come attraverso la cruna di un ago – i Granduchi dovevano passare anche durante il loro ultimo viaggio: quello per le esequie in San Lorenzo. 6 Eccezion fatta per i progetti del Buontalenti, questa storia secolare era stata finora ben poco esplorata, e le prime tracce d’interesse della critica si possono indicare in un pionieristico saggio di Gabriele Capecchi del 1996 (32), che ha aperto la strada per nuove ricerche. Se molti modelli, quadri e disegni con progetti riferiti alla Piazza sono stati distrutti in passato come inutili esercizi intellettuali, altri dipinti e piani sopravvissuti sono oggi esposti in Mostra nella Sala Bianca, ed insieme alle testimonianze grafiche presentate nella Stanza dei Disegni riescono a offrire, nel loro insieme, un’immagine fedele di questa secolare fucina onirica. Le vedute esterne della Sala delle Nicchie e della Galleria delle Statue, entrambe posizionate sull’asse centrale di Pitti, sono la prova più emozionante del legame scenografico fra gli interni del Palazzo e gli spazi della città intorno. Dalle finestre della Sala delle Nicchie lo sguardo corre sulla Firenze d’Oltrarno (fig. 5), sovrastata dal campanile e dalla cupola di Santo Spirito; volgendosi indietro verso la Galleria delle Statue la scena cambia radicalmente: in un cannocchiale prospettico di struggente teatralità (fig. 6), il verde del giardino, lo spazio privato del principe, è pausato prima dalla Fontana del Carciofo, e poi dalla monumentale Abbondanza del Giambologna e di Pietro Tacca, da sempre una delle immagini classiche di Firenze ripetuta più e più volte da artisti italiani e stranieri, e divenuta quasi tipica del vedutismo a Firenze nel succedersi dei secoli fino a oggi. Ma il drammatico contrappunto tra natura e spazio urbanizzato che si offre dalle finestre di Pitti non è un fenomeno isolato nella Firenze medicea, e già alla fine del secolo si ripeterà nella Fortezza del Belvedere, dalle cui logge il panorama si apre a nord verso la città dominata dalla cupola del Duomo, e a sud verso l’aperta campagna. D’altro canto, le celeberrime e incantevoli immagini della città che si ammirano senza mai saziarsi da Boboli sanno esprimere nel modo più poetico l’intimo nesso tra il Giardino e il Palazzo, tra il Giardino e la città (fig. 7). La Reggia si dirama in Firenze anche attraverso le arterie dei suoi acquedotti, malgrado la sempre scarsa disponibilità idrica della zona: l’acqua della ‘Fonte della Ginevra’ dal Pian dei Giullari scende fino al Giardino attraverso condotti ispezionabili, provvede il Palazzo e quindi attraverso il Ponte Vecchio giunge “di qua d’Arno”, fino in Piazza della Signoria, dove un tempo esplodeva in magnifici e rumoreggianti getti nella Fontana di Nettuno dell’Ammannati: spettacolo oggi ridotto a qualche scarsa parabola. L’acquedotto nutriva anche la fontana del Verrocchio, nel cortile di Palazzo Vecchio, e negli intenti avrebbe dovuto provvedere a quella grandiosa - ma mai messa in opera - che, progettata ancora una volta dall’Ammannati, secondo i voleri di Cosimo I avrebbe preso posto nella Sala Grande del Palazzo. Partendo invece dalla parte opposta della città, l’acquedotto di Montereggi, nei pressi di Fiesole, giunge in Piazza della Signoria; e da lì, attraverso il Ponte alle Grazie, porta l’acqua alla Fontana del Carciofo che sovrasta il Cortile di Palazzo Pitti. Di questo dialogo continuo tra le due sponde del fiume partecipa anche il Corridoio Vasariano che unisce Palazzo Pitti a Palazzo Vecchio, e che garantiva la presenza segreta del Principe, invisibile ma in grado di osservare i movimenti della città attraverso le finestrelle rotonde del Corridoio, o di ascoltare le sedute del Magistrato da un’apertura nascosta in Palazzo Vecchio. Da quando Ferdinando I farà costruire 7 quel sicuro osservatorio sovrastante la città che è la Fortezza del Belvedere - ossia dal 1590 in poi - al Granduca si offre la possibilità di spingersi addirittura fino al poggio del nuovo edificio, passando attraverso il Giardino. E Boboli non è soltanto un luogo di transito, un punto di vista panoramico o un luogo di delizie. Ad esso infatti era affidato anche il ruolo di spazio vitale per la difesa militare di Oltrarno, onde permettere le eventuali manovre dell’armata medicea: e il fatto che esso rimanesse non edificabile garantiva, anche prima della nascita del Giardino, un elemento cardinale di tutto il sistema difensivo di Firenze di là dal fiume (33). Con i suoi “in ogni tempo freschi boschetti, accomodati da mano artifiziosa, et seguendo l’ordine del Palazzo” (34), Boboli ne proseguiva le architetture nel verde. Ma la coscienza di questa unità indissolubile è andata affievolendosi fino a cadere nell’oblìo, soprattutto dopo la seconda Guerra Mondiale: sempre più considerato alla stregua di un giardino pubblico comunale, il Giardino ha subito un processo di degrado devastante, dal quale ha cominciato a risollevarsi soltanto negli ultimi decenni, e specialmente grazie alla spinta impressa dal Convegno Boboli 90, tenutosi nel 1989. Nella Mostra, l’esposizione delle sue vedute, che ne ripercorrono a partire dal Seicento (35) lo splendore che abbiamo perduto, è intesa come manifesto e come monito per l’auspicata rinascita del Giardino. Una rinascita della quale è già segno evidente, e motivo di speranza vivissima, l’impegnativa campagna di scavi intrapresa davanti alla Grotta Grande (36), che, abbassando il terreno del viottolo alla stessa quota cui si poneva nel Cinquecento, fa di nuovo apparire la Grotta - per chi entra nel Giardino dalla Porta di Bacco - in una prospettiva dominante. In occasione della mostra, della quale fa parte, la Grotta è stata di nuovo aperta al pubblico dopo anni, rivelando i suoi ambienti irreali e rari, dove pare che i tempi si siano arrestati all’epoca di Francesco I e del suo successore Ferdinando, senza contare il fatto che vi sono ambientate, nella cornice originale ed effimera, alcune delle più significative sculture del Manierismo fiorentino. Ma è vero che, nonostante Boboli sia una delle istituzioni museali più visitate a Firenze - oltre agli Uffizi e alla Galleria dell’Accademia - i mezzi a disposizione sono purtroppo molto inferiori alle esigenze di un recupero totale. Altrove, in Italia ma anche in Spagna, in Francia, in Inghilterra e in Germania, al mantenimento dei giardini storici sono devolute somme ingenti. I giardini del Parco Ducale di Colorno sono stati ripristinati quasi dal nulla; alle porte di Firenze, sulla Via Bolognese, la New York University restaura il giardino di Villa La Pietra; ma mentre i francesi risvegliano le antiche glorie dei giardini di Villa Medici a Roma, mentre lo stato italiano intraprende il ripristino della Villa d’Este di Tivoli, e mentre a Caserta viene resuscitato il romantico giardino inglese della Reggia, Firenze in confronto rimane in una situazione veramente poco brillante (37). Per poter ammirare di nuovo l’antico rigoglio del verde non bastano le potature delle siepi, l’estemporaneità delle decisioni quotidiane, la manutenzione ordinaria garantita da funzionari di buona volontà: occorrono grandi capitali per risarcire i peccati del passato. Proprio da queste esigenze di gestione moderna della struttura è nato il Masterplan di Giorgio Galletti (38), preceduto da una planimetria da lui curata in collaborazione con Stefano Brandi. Il Masterplan concepisce in maniera unitaria e organizzata gli interventi necessari, così da restituire a Boboli, i futuro, ’aura di paradiso terrestre che in origine gli era propria. 8 Un esempio: le fontane del Giardino sono ora secche, ad eccezione della Fontana del Carciofo restaurata recentemente, e della catena idrica denominata Fontana dei Mostaccini, anch’essa da non molto ripristinata. Ma non si deve dimenticare che proprio le fontane erano un tempo l’attrazione principale di quest’area. Una stella disegnata con un mosaico di ciottoli si trova ancora nel punto dove il declivio del Viottolone giunge in piano: nella descrizione del Giardino di Francesco Maria Soldini si legge che da essa “scaturisce con grandissima forza una sorgente, che per più di quaranta braccia [m 24,60] si solleva” (39) (fig. 7). E la Fontana dell’Oceano, sull’Isolotto, doveva fare un effetto addirittura più vivace dell’odierna fontana di Piazza Esedra a Roma, giacché le novantasette bocche d’acqua della ringhiera attestano che un pari numero di getti si versava nello specchio del bacino. Dal bordo della vasca di granito, sormontata dalla figura del Dio marino, traboccava un argenteo velo d’acqua. A complicare questa complessa architettura idrica, là dove l’orlo di questo velo toccava terra scaturiva un cerchio di basse e fitte parabole (40). Ma altri ricchi artifici acquatici corredavano i due ponti che conducono all’isola: le Arpie come il Perseo a cavallo erano a loro volta provvisti di getti, ed ai piedi dell’Andromeda, incatenata su una roccia che emerge dallo specchio d’acqua, restano il ranocchio (fig. 8) e un bizzarro delfino di bronzo, dalle cui narici un tempo scaturivano zampilli. Nel brillare delle dorature dei cancelli (41) (fig. 9) che serrano i ponti verso l’Isolotto, tutto l’insieme della Fontana dell’Oceano si presentava in definitiva come una festosa, esuberante girandola dell’elemento acquatico. Questo teatro ottico e acustico è oramai cancellato dalla memoria, e solamente le incisioni dei secoli passati ci tramandano un’immagine sbiadita di questa edenica visione, da esplorare a fatica con la lente d’ingrandimento; ma che potrebbe oggi essere ancora risvegliata in tutta la sua spettacolarità. Era la rete dei condotti sotterranei che permetteva questi fantastici giochi, che esibivano l’acqua in mille forme: una delle meraviglie dell’ingegneria idraulica fiorentina con le sue grandi tradizioni. Privo dell’abbondanza di questo elemento, Boboli è solo un’ombra di se stesso; e dunque è il suo intero sistema idrico che necessita di una revisione e di un aggiornamento, basilari per garantire un futuro alla vita stessa del Giardino. La fisionomia definitiva di Boboli si è configurata nell’ultimo periodo lorenese. Dopo la stasi dell’età sabauda e il degrado, soprattutto del secondo dopoguerra, è giunto il tempo della sua rinascita. Una rinascita irrinunciabile per il Giardino, che incarna il messaggio di magnificenza della Reggia e delle sue glorie nei secoli passati. Una rinascita non più procrastinabile, che recuperi finalmente il significato di uno dei più importanti Giardini storici d’Italia e d’Europa. 9