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... Ma, nel momento del cheshbon ha-nefesh,
facendo il bilancio della mia vita, devo
riconoscere che i miei veri maestri, per guidarmi e
per spingermi avanti, mi attendono non in luoghi
prestigiosi e lontani ma nelle piccole aule piene
d'ombre e di canti dove un ragazzo al quale
assomigliavo studia ancora oggi la prima pagina
del primo trattato del Talmud, sicuro di trovarvi
tutte le risposte a tutte le domande. Meglio:
tutte le risposte e tutte le domande. Perciò, spesso
per me l'atto di scrivere non è altro che il
desiderio inconfessato o cosciente di incidere
alcune parole su una pietra tombale: alla memoria
di una città scomparsa, di un'infanzia esiliata e di
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tutti coloro che ho amato e che se ne sono andati
prima che abbia potuto dirglielo.
Elie Wiesel
Nato nel 1928 a Sighet, in Transilvania, Elie
Wiesel venne deportato ad Auschwitz e
Buchenwald. Dopo la guerra ha fatto per alcuni
anni il giornalista in Francia e poi si è trasferito
negli Stati Uniti. Attualmente insegna all'Università di Boston. Nel 1986 ha ricevuto il premio
Nobel per la pace.
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Elie Wiesel
L'ebreo errante
Traduzione di Daniel Vogelmann
Giuntina
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e-book realizzato da filuc (2003)
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Titolo originale: Le chant des morts
Copyright © 1966 Editions du Seuil, Paris
Copyright © 1983 Editrice La Giuntina, Via
Ricasoli 26, Firenze
Terza edizione: 1991
ISBN 88-85943-01-2
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L'ebreo errante
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La morte di mio padre
L'anniversario della morte di un certo Shlomo
ben Nissel cade il diciottesimo giorno del mese di
Shevat. Era mio padre, il giorno è domani e, come
ogni anno, non so come pormi di fronte a questo
avvenimento.
Eppure nello Shulchan Aruch, il grande libro di
precetti di Rabbì Joseph Caro, lo straordinario
legislatore-visionario del sedicesimo secolo, ci
sono regole precise e rigorose su quest'argomento.
Potrei e dovrei semplicemente conformarmi ad
esse. Ubbidire alla tradizione. Seguirne le orme.
Fare ciò che in un giorno come questo fanno tutti:
recarmi per tre volte alla sinagoga, celebrare la
funzione, studiare un capitolo della Mishnàh,
recitare il Kaddìsh dell'orfano e, in presenza della
comunità vivente di Israele, proclamare la santità
e la grandezza del Signore, perché le sue vie sono
tortuose ma giuste, la sua grazia dura da
sopportare ma indispensabile, sia sulla terra che in
cielo, oggi e sempre. Che sia fatta la sua volontà,
e così sia.
Questo è indubbiamente ciò che farei se mio
padre fosse morto di vecchiaia, di malattia o
anche di disperazione. Ma le cose non stanno così.
Neppure la sua morte gli appartiene. Non so a
quale causa attribuirla, in quale libro iscriverla.
Non c'è nessun legame fra essa e l'esistenza che
ha condotto. La sua morte, perduta fra tutte le
altre, non ebbe nulla a che fare con la persona che
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egli era stato. Con altrettanta facilità avrebbe
potuto semplicemente sfiorarlo e risparmiarlo. Lo
ha colto inavvertitamente, distratta-mente. Per
sbaglio. Senza sapere che si trattava di lui. È stato
derubato della sua morte.
Disteso su un tavolaccio in mezzo a una
moltitudine di cadaveri coperti di sangue, gli
occhi sbarrati dalla paura, una maschera di
sofferenza sopra la maschera barbuta e sconvolta
del suo volto, così mio padre esalò l'anima a
Buchenwald. Un'anima inutile in quel luogo, e
che egli sembrava aver voluto rimandare in cielo.
Ma non la restituì al Dio dei suoi padri, ma
piuttosto all'impostore, crudele e insaziabile, al
Dio nemico. Gli avevano ucciso il suo Dio, glielo
avevano cambiato.
Come potrei quindi entrare domani nel tempio e
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immergermi nella sacra ripetizione del rituale
senza mentire a me stesso, senza mentire a lui?
Come potrei agire o pensare come tutti gli altri,
pretendere che la morte di mio padre abbia un
senso che esiga dolore o indignazione?
Forse, dopo tutto, dovrei correre alla sinagoga,
lodare il Dio dei bambini morti, se non altro per
provocarlo con la mia sottomissione?
Domani è l'anniversario della morte di mio
padre, e io cerco una nuova legge che mi
prescriva quali voti fare e quali non fare più; quali
parole dire e quali non dire più.
In realtà saprei come comportarmi se mio padre,
da vivo, fosse stato ciecamente pio, posseduto dal
fervore e dal tormento di un'anima religiosa. Mi
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direi: è mio dovere commemorare questa data
secondo le leggi e i costumi ebraici, perché questo
era il suo desiderio.
Ma per quanto osservante, mio padre non era
affatto un fanatico. Al contrario, predicava la
libertà dello spirito. Era un uomo del suo tempo.
Rifiutava di sacrificare il presente sull'altare di un
imprevedibile futuro, qualunque esso fosse.
Godeva dei semplici piaceri di ogni giorno e non
considerava il suo corpo come un nemico.
Raramente tornava a casa la sera senza portarci
qualche frutto esotico o qualche dolce. Curioso e
tollerante, frequentava i circoli chassidici perché
ammirava i loro canti e le loro storie, ma a
differenza di loro si rifiutava di imprigionare la
propria mente in un sistema.
Mia madre sembrava più devota di lui. Era lei
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che mi portava al cheder per fare di me un buon
ebreo, amante solo di quella sapienza e di
quell'amore che si possono attingere nella Toràh.
Era lei a mandarmi il più spesso possibile dal
Rebbe di Wizsnitz per sollecitare la sua
benedizione o per espormi semplicemente al suo
influsso.
L'ambizione di mio padre era quella di fare di
me un uomo piuttosto che un santo. «Il tuo dovere
è quello di combattere la solitudine, non di
coltivarla o di glorificarla», mi diceva. E
aggiungeva: «Dio forse ha bisogno di santi, ma gli
uomini possono farne a meno».
Lo si poteva trovare più spesso negli uffici
governativi che in sinagoga, e a volte, nei
momenti di pericolo, più in quegli uffici che a
casa. Ogni disgrazia che si abbatteva sulla nostra
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comunità lo coinvolgeva direttamente. C'era
sempre un malato bisognoso da inviare
urgentemente in una clinica di Kolozsvar o di
Budapest; un negoziante sfortunato da far uscire
di galera; un profugo disperato da salvare. Molti
dei sopravvissuti dei ghetti polacchi devono a lui
la propria vita. Riforniti di denaro e di documenti
falsi, grazie a lui e ai suoi amici poterono
abbandonare il paese per la Romania e da qui
emigrare negli Stati Uniti o in Palestina. Queste
sue attività gli costarono tre mesi di prigione. Una
volta uscito non fece parola delle torture a cui era
stato sottoposto e ricominciò daccapo come se
nulla fosse.
Mia madre mi insegnava l'amore di Dio. Mio
padre, invece, non mi parlava quasi mai dei
problemi concernenti le leggi che regolano le
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relazioni fra creatura e creatore. Nelle nostre
conversazioni il Kaddìsh non veniva mai nominato. Neanche in campo di concentramento.
Soprattutto non in campo di concentramento.
Non so dunque cosa avrebbe sperato vedermi
fare domani, anniversario della sua morte. Se
soltanto in vita sua fosse stato un uomo inebriato
d'eternità e di redenzione...
Ma il problema non è questo. Anche se Shlomo
ben Nissel fosse stato un fedele servitore del
veemente Dio di Abramo, un Giusto dall'anima
esigente e immacolata, immune da ogni debolezza
e da ogni dubbio, non saprei lo stesso come
interpretare la sua morte.
Perché ignoro l'essenziale: ciò che ha provato, in
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che cosa ha creduto nell'ultimo momento della sua
lotta rassegnata, mentre il suo essere già si
spengeva, già si allontanava verso quel luogo
dove non tormentano più i morti, dove,
finalmente, li lasciano riposare nella pace o nel
nulla.
Il volto tumefatto, terribile, esangue, mio padre
agonizzava in silenzio. Le sue labbra asciutte si
muovevano impercettibilmente. Mormorii privi di
senso: ne captavo i suoni ma non le parole. Stava
senza dubbio compiendo il suo dovere di padre
comunicandomi le sue ultime volontà, e forse mi
confidava anche le sue opinioni definitive sulla
storia, la conoscenza, la miseria del mondo, la sua
vita, la mia. Non lo saprò mai. Non saprò mai se
ha avuto sulle labbra il nome dell'Eterno per
lodarlo malgrado tutto o al contrario, a causa di
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tutto, per liberarsene.
Attraverso le palpebre gonfie e semichiuse mi
guardava, e a volte mi dico che mi guardava con
pietà. Se ne andava e soffriva di dovermi lasciare,
solo, senza appoggio, in un mondo che aveva
desiderato differente per me, per lui, per tutti gli
uomini come lui e me.
Altre volte la mia memoria si allontana da
questa immagine e va per conto suo. Allora credo
di ritrovare l'ombra di un sorriso sulle sue labbra:
la gioia contenuta di un padre che se ne va con la
speranza che suo figlio, almeno lui, rimanga in
vita un minuto, un giorno, una settimana di più, e
che forse vedrà l'angelo liberatore, il messaggero
di pace. La certezza che suo figlio gli
sopravviverà.
Ma, tuttavia, non esito a credere che la verità
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possa essere stata del tutto diversa. Morendo, mio
padre mi ha guardato, e nei suoi occhi, in cui si
addensava la notte, non c'era che un terrore
animale, il folle terrore di chi, a forza di voler
troppo comprendere, non comprende più niente.
Lo sguardo vuoto posato su di me, non so neanche
se mi ha visto, se era proprio me che vedeva.
Forse mi ha preso per un altro, forse addirittura
per l'angelo sterminatore. Non lo so, perché è
impossibile afferrare ciò che vedono o non
vedono gli occhi dei moribondi, interpretare il
rantolio del loro ultimo respiro.
So soltanto che quel giorno, divenuto orfano, io
non ho rispettato la tradizione, non ho recitato il
Kaddìsh. Innanzitutto perché nessuno, laggiù, mi
avrebbe ascoltato per rispondere amen, e poi
perché non sapevo ancora a memoria questa bella
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e solenne preghiera. E infine perché mi sentivo
vuoto, inutile: un oggetto superfluo, una cosa
priva di immaginazione. Del resto, non c'era più
nulla da dire, non c'era più nulla da sperare. Era la
sconfitta, la fine. Recitare il Kaddìsh in quella
baracca soffocante, nel regno della morte, sarebbe
stata la peggiore delle bestemmie. E io non avevo
neanche la forza di bestemmiare.
La ritroverò domani questa forza? Qualunque
sia la risposta, sarà sbagliata, o almeno imperfetta.
Non avrà nulla a che vedere con la morte di mio
padre.
Le ripercussioni dell'Olocausto sui credenti
come pure sui non credenti, sia per quanto
riguarda gli ebrei che per quanto riguarda i
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cristiani, non sono state ancora valutate. Non a
fondo, non abbastanza. Questo non sorprenderà
nessuno. Coloro che hanno vissuto l'Olocausto
mancheranno di obiettività: prenderanno sempre il
punto di vista dell'uomo di fronte all'assoluto.
Quanto agli studiosi e ai filosofi di ogni genere
che hanno potuto assistere alla tragedia, se sono
capaci di sincerità, e cioè d'umiltà, si ritireranno
senza osare di entrare nel vivo della questione; e
se non lo sono, che importanza potranno avere le
loro magniloquenti conclusioni! Auschwitz, per
definizione, è al di sopra del loro vocabolario.
I sopravvissuti, più realisti se non più onesti,
sono coscienti del fatto che la presenza di Dio a
Treblinka o a Majdanek, ovvero la sua assenza,
pone un problema che resterà fra i più insolubili.
Ho conosciuto un uomo profondamente
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religioso che, il giorno dell'Espiazione, stremato,
rimproverava il cielo urlando come un animale
ferito: «Cosa vuoi da me, o Signore? Cosa ti ho
fatto? Io voglio servirti e proclamarti re
dell'universo, ma tu me lo impedisci; voglio
cantare la tua misericordia e tu mi rendi ridicolo;
voglio riporre in te la mia fede, consacrarti il mio
pensiero e tu non me lo permetti: perché,
perché?».
Ho conosciuto anche un libero pensatore che,
una sera, dopo una selezione, si mise
improvvisamente a pregare singhiozzando come
un bambino. Si batteva il petto, si scopriva
martire. Aveva bisogno di un sostegno e ancor più
di una certezza: se soffriva, era perché aveva
peccato; se pativa il supplizio, era perché l'aveva
meritato.
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Alla perdita della fede per alcuni corrispondeva
la scoperta di Dio per altri. Sia l'una che l'altra
rispondevano alla stessa necessità di prendere
posizione, allo stesso movimento di rivolta. In
entrambi i casi era un'accusa. Perché forse un
giorno qualcuno ci spiegherà come è stato
possibile Auschwitz a livello umano, ma, a livello
di Dio, resterà per sempre il più inquietante dei
misteri.
Sono passati tanti anni da quando ho visto
morire mio padre. Io sono diventato adulto e le
candele che più volte all'anno accendo in memoria
dei membri defunti della mia famiglia diventano
sempre più numerose. Dovrei averci già fatto
l'abitudine, ma non ci riesco. E ogni volta che si
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avvicina il diciottesimo giorno del mese di Shevat
mi lascio invadere dalla desolazione e dall'apatia:
non so mai come commemorare la morte di mio
padre Shlomo ben Nissel, sopraggiunta come per
sbaglio.
Sì, una voce mi dice che in fondo mi basterebbe
seguire, come negli anni precedenti, il sentiero
battuto, studiare un capitolo della Mishnàh e
recitare ancora una volta il Kaddìsh, questo canto
così bello e così commovente dedicato ai defunti,
ma in cui la morte non è mai nominata. Perché
non inchinarmi? Sarebbe conforme alle usanze
stabilite da innumerevoli generazioni di saggi e di
orfani. Studiando i testi sacri, offriamo ai morti il
senso della continuità se non il riposo. È così che
mio padre commemorava la morte di suo padre.
Ma questo sarebbe troppo facile. L'Olocausto
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nega i riferimenti, le analogie. Fra la morte di mio
padre e quella di suo padre non è possibile nessun
confronto.
Imitare
mio
padre
sarebbe
insufficiente, perfino ingiusto. Dovrei inventare
altre preghiere, altri gesti. E temo di non esserne
capace, né degno.
Tutto sommato, credo che domani andrò
ugualmente alla sinagoga. Accenderò le candele,
reciterò il Kaddìsh, e ciò sarà per me un'ulteriore
prova della mia impotenza.
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I miei maestri
Per alcuni la letteratura è un ponte che unisce
l'infanzia alla morte. Mentre questa genera
angoscia, quella evoca nostalgia. Più la nostalgia è
profonda e la paura totale, e più la parola e
l'immagine guadagnano in purezza e in ricchezza.
Ma per me lo scrivere è piuttosto una matzevà,
un'invisibile pietra tombale, eretta alla memoria
dei morti senza sepoltura. Ogni parola corrisponde
a un volto, a una preghiera, avendo l'uno bisogno
dell'altra per non cadere nell'oblio.
Il fatto è che l'Angelo della Morte ha
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attraversato troppo presto la mia infanzia
marcandola col suo sigillo. Pensando a Lui, mi
capita di scorgerlo, l'aria vittoriosa, non in fondo
alla strada ma al punto di partenza. Si confonde
con l'origine, col primo slancio piuttosto che con
l'abisso in cui precipita l'avvenire.
Perciò è con nostalgia che evoco il vincitore
solitario, quasi senza timore. Forse perché
appartengo a una generazione sradicata, senza
cimiteri dove all'indomani del Capodanno
potremmo andare, secondo l'usanza, a prostrarci
sulle tombe e a raccoglierci con i morti. Hanno
preso tutto alla mia generazione, anche i cimiteri.
Ho lasciato la mia città natale nella primavera
del 1944. Era una bella giornata. Le verdeggianti
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montagne circostanti sembravano più alte. I nostri
vicini passeggiavano in maniche di camicia.
Alcuni voltavano la testa; gli altri ridacchiavano.
Dopo la guerra mi si è presentata diverse volte
l'occasione di ritornarci. Le tentazioni non
mancavano. Erano tutte ragionevoli: vedere quale
dei miei amici era sopravvissuto, dissotterrare gli
averi e gli oggetti di valore che avevamo nascosto
prima di partire, riprendere possesso, anche se
fugacemente, della nostra proprietà, del nostro
passato.
Non sono tornato indietro. Mi sono messo a
errare per il mondo pur sapendo che fuggire non
serviva a niente: tutte le strade riportano a casa. In
questo mondo in fermento essa resta l'unico punto
fermo. A volte mi dico che in fondo non ho mai
veramente abbandonato il luogo dove sono nato,
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dove ho imparato a camminare e ad amare:
l'universo non sarebbe che un'estensione di questa
piccola città situata da qualche parte in
Transilvania e chiamata Marmarosszighet.
Poi, studente o giornalista, dovevo incontrare
nel corso delle mie peregrinazioni uomini strani e
a volte edificanti che recitavano la loro parte o la
inventavano:
scrittori,
pensatori,
poeti
dell'esistenza, trovatori dell'apocalisse. Ognuno
mi dette qualcosa per andare avanti: una frase, una
strizzatina d'occhio, un enigma. E potevo
continuare.
Ma, nel momento del cheshbon hanefesh,
facendo il bilancio della mia vita, devo
riconoscere che i miei veri maestri, per guidarmi e
per spingermi avanti, mi attendono non in luoghi
prestigiosi e lontani ma nelle piccole aule piene
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d'ombre e di canti dove un ragazzo al quale
assomigliavo studia ancora oggi la prima pagina
del primo trattato del Talmud, sicuro di trovarvi
tutte le risposte a tutte le domande. Meglio: tutte
le risposte e tutte le domande.
Perciò, spesso per me l'atto di scrivere non è
altro che il desiderio inconfessato o cosciente di
incidere alcune parole su una pietra tombale: alla
memoria di una città scomparsa, di un'infanzia
esiliata e di tutti coloro che ho amato e che se ne
sono andati prima che abbia potuto dirglielo.
I miei maestri ne facevano parte.
Il primo era un vecchietto grassottello, con la
barba bianca, l'occhio furbo e le labbra esangui. Il
suo nome mi sfugge. In realtà non l'ho mai saputo.
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In città ci si riferiva a lui come al «maestro di
Betize»,
senza
dubbio
perché
veniva
dall'omonimo villaggio. Fu lui che per primo mi
aveva parlato con amore della nostra lingua. In
ogni sillaba, in ogni segno, metteva il suo cuore e
la sua anima. L'alfabeto costituiva la cornice e il
contenuto della sua vita, racchiudeva le sue gioie
e le sue delusioni, le sue ambizioni e i suoi
ricordi. Al di fuori delle ventidue lettere della
lingua sacra non esisteva nulla per lui. Ci diceva
con tenerezza: «La Toràh, bambini, che cos'è? Un
tesoro pieno d'oro e di pietre preziose. Per
penetrarvi ci vuole una chiave. Io ve la darò:
fatene buon uso. La chiave, bambini, che cos'è?
L'alfabeto. Allora, ripetete dopo di me, con me, a
voce alta, più alta: aleph, bet, ghimel. Ancora una
volta, bambini, e ditelo con forza, con fierezza:
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aleph, bet, ghimel. Così la chiave farà ormai parte
della vostra memoria, del vostro futuro: aleph,
bet, ghimel».
È «Zeide il Melamed» che mi insegnò in seguito
la Bibbia e, l'anno dopo, i commenti di Rashì. Con
la sua barba nera e folta, questo maestro taciturno,
eternamente in lutto, ci ispirava un malessere
misto a paura. Lo consideravano severo, perfino
crudele. Non ci metteva nulla a bacchettare sulle
dita chi arrivava in ritardo o chi deformava il
senso di una frase. «È per il vostro bene», ci
spiegava. Si arrabbiava facilmente, e allora noi
incassavamo la testa nelle spalle e tremavamo
aspettando che gli fosse passata. Ma, in realtà, era
un uomo tormentato e sentimentale. Soffriva
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quando doveva punire un allievo ribelle, anche se
non si vedeva perché non voleva che lo
credessimo debole. Non si affidava che a Dio.
Perché sono state sparse tante calunnie nei suoi
riguardi? Perché gli è stata attribuita una cattiveria
che non aveva? Forse perché era gobbo, perché
parlava senza alzare gli occhi. I bambini, che,
senza saperlo, l'intimidivano, amavano concludere
che la bruttezza è l'alleata della cattiveria se non
la sua espressione.
La sua scuola si trovava in una casa scalcinata,
in fondo al cortile, ed era composta di sole due
stanze. Lui occupava la prima. Nell'altra, il suo
assistente, un giovane erudito di nome Itzchak,
apriva per noi le pesanti porte della tradizione
orale. Cominciammo col trattato di Baba Metzia:
si tratta di una discussione fra due persone che
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avendo trovato un indumento non sanno decidere
chi lo debba prendere. Itzchak leggeva un passo e
noi lo ripetevamo canticchiando. Alla fine del
semestre eravamo in grado di assorbire un'intera
pagina alla settimana. L'anno dopo fu la volta
delle Tossafot, che commentano i commenti. E il
cervello, lentamente, si affinava, penetrava il
senso di ogni parola, emanava la luce che contiene
da che mondo è mondo. Chi dunque si avvicinava
di più a quella luce: la scuola di Shammai,
l'intransigente, o quella di Hillel, suo interlocutore
e rivale? Tutte e due. Tutti gli alberi si nutrono
della stessa linfa. Tuttavia, io mi sentivo più
vicino alla Casa di Hillel; essa si sforzava di
rendere l'esistenza più tollerabile, la ricerca più
meritevole.
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A dieci anni lasciai Itzchak e divenni discepolo
del «Selishter Rebbe», un uomo triste dagli occhi
selvaggi e dalla voce rauca, brutale. Davanti a lui
nessuno osava aprir bocca o distrarsi. Ci
terrorizzava. Quando distribuiva ceffoni - cosa
che capitava spesso e spesso senza ragione - ci
metteva tutta la sua forza; e ne aveva. Era il suo
metodo personale per far regnare la disciplina e
per prepararci alla condizione ebraica.
Sull'ora del crepuscolo, fra la preghiera di
minchà e quella di arvìt, ci obbligava ad ascoltarlo
mentre leggeva un capitolo tratto dalla letteratura
del Mussar. Mentre ci descriveva le torture che il
peccatore subisce nella tomba, ancora prima di
comparire davanti al tribunale celeste, il suo corpo
era scosso dai singhiozzi. Si interrompeva e si
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nascondeva il capo fra le mani. Era come se
vivesse in anticipo i tormenti del Giudizio
Universale. Non dimenticherò mai le sue
dettagliate descrizioni dell'inferno che, nella sua
ingenuità, situava in un luogo preciso e ben
delimitato dell'aldilà.
Di Shabbàt diventava un uomo diverso, quasi
irriconoscibile. Faceva la sua apparizione alla
sinagoga di fronte al Piccolo Mercato. In piedi
accanto al camino, a destra dell'entrata, un'aria da
animale braccato, si sprofondava nelle preghiere,
senza veder nessuno. Io lo salutavo, gli facevo gli
auguri senza ottenere risposta. Non mi sentiva.
Era come se non sapesse più chi fossi, o
semplicemente che fossi là. Il settimo giorno della
settimana lo consacrava al creatore e non vedeva
più niente di ciò che lo circondava: non vedeva
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neanche se stesso. Pregava in silenzio, in disparte,
non seguiva il cantore, le sue labbra si muovevano
appena. Una tristezza lontana si posava nel suo
sguardo smarrito. Durante la settimana, mi sembra
che mi facesse meno paura.
Avevo deciso di cambiare scuola e divenni
discepolo, in tempi successivi, di tre maestri,
anch'essi originari di villaggi vicini.
Il loro atteggiamento era più umano. Noi ci
consideravamo già come «grandi» che sanno
misurarsi senza bisogno di aiuto con un passo una sugya - difficile. Ogni tanto, disorientati, ci
rivolgevamo ancora a loro perché ci mostrassero
come continuare; appena i problemi posti dai
commenti del Marsha o del Maharam venivano
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risolti, la loro luce improvvisa ci abbagliava.
Dipanare a un tratto il groviglio di un pensiero
talmudico mi procurava sempre un'intensa
felicità; mi ritrovavo sulla soglia di un universo
luminoso, indistruttibile, e mi dicevo che al di
sopra e al di là dei secoli e dei roghi esiste sempre
un ponte che conduce da qualche parte.
Poi i tedeschi fecero irruzione nella nostra
piccola città e il canto nostalgico degli alunni e
dei loro maestri si interruppe. Darei tutto ciò che
possiedo, tutto ciò che mi è stato promesso, per
poterlo sentire di nuovo.
Mi capita di sedermi davanti a un trattato del
Talmud e una paura paralizzante mi invade: non
ho dimenticato le parole, saprei tradurle, perfino
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commentarle, ma dirle non basta, bisognerebbe
cantarle e io non so più come. Improvvisamente il
mio essere si tende, il mio sguardo vacilla e io ho
paura di voltarmi: dietro di me i miei Maestri si
raccolgono, il loro respiro mi brucia, aspettano
come un tempo che mi metta a leggere ad alta
voce e dimostri alle generazioni passate che il loro
canto non muore. I miei Maestri aspettano e io mi
vergogno di farli aspettare. Mi vergogno perché
loro non hanno dimenticato il canto. In loro il
canto è rimasto vivo, più forte delle forze che li
annientarono, più ostinato del vento che disperse
le loro ceneri. Ho voglia di supplicarli di ritornare
nelle loro tombe, di non confondersi più con i
vivi. Ma non sanno dove andare: il cielo e la terra
li hanno rinnegati. Così, per non umiliarli, mi
metto ugualmente a leggere una prima frase, poi
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la riprendo per aprirla, per chiuderla, prima di
unirla alla seguente. Ma la mia voce non è che un
mormorio. Li ho traditi: non so più cantare.
Tranne uno solo, tutti i miei Maestri sono morti
nelle fabbriche della morte, inventate e
perfezionate per la gloria del genio nazionale
tedesco.
Li ho visti, mal rasati, smagriti, incurvati; li ho
visti mentre si dirigevano in una domenica di sole
verso la stazione, per una destinazione
sconosciuta. Ho visto «Zeide il Melamed», con un
sacco così pesante che gli schiacciava le spalle. Io
mi stupii: e dire che questo nomade ci aveva terrorizzato. E, in mezzo al gregge, ho visto anche il
«Selishter Rebbe», con l'aria assorta, come se,
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chiuso nel suo mondo, avesse fretta di arrivare.
Pensai: il suo volto ha l'espressione dello Shabbàt,
anche se è domenica. Non piangeva, i suoi occhi
non lanciavano più fiamme; forse stava
finalmente per scoprire la verità: sì, l'inferno
esiste, come esiste questo fuoco nella notte.
Leggo dunque per la decima volta lo stesso
passo dello stesso libro, e i miei Maestri, con il
loro silenzio, mi comunicano la loro riprovazione:
ho perduto la chiave che mi avevano affidato.
Oggi, altri libri mi assorbono e io cerco di
imparare da altri narratori come penetrare il senso
di un'esperienza e come trasformarla in leggenda.
Ma i più parlano troppo. Il canto si perde nelle
parole come certi fiumi nella sabbia.
Fu il «Selishter Rebbe» a dirmi un giorno:
«Attento, le parole sono pericolose. Dovrai
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diffidarne. Esse generano demoni o angeli. Non
dipenderà che da te dar vita agli uni o agli altri.
Attento, ti dico, non c'è nulla di più pericoloso che
dar loro libero corso».
A volte, mi sembra che egli stia dietro di me,
rigido e severo, e che legga da sopra la mia spalla
ciò che cerco di dire; guarda per giudicare se il
suo discepolo arricchisce il mondo dell'uomo o
l'impoverisce, se invoca gli angeli o se invece si
inginocchia davanti ai demoni dagli innumerevoli
nomi.
Se il «Selishter Rebbe» dagli occhi selvaggi non
stesse dietro di me, forse avrei scritto
diversamente queste righe; forse non avrei scritto
nulla.
Forse io, suo discepolo, non sono altro che la
sua pietra tombale.
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L'ospite di una sera
Come tutti i bambini ebrei perseguitati, è con
passione che amavo il profeta Elia, il solo fra i
santi che sia salito vivo in cielo, in un carro di
fuoco, per diventare, attraverso i secoli, l'araldo
della liberazione.
Senza un'apparente ragione, lo immaginavo
sotto le spoglie di un ebreo yemenita: alto, cupo,
insondabile. Un principe senza età, senza legami,
che appare in qualunque luogo lo si attenda.
Avanza, indomito, bruciando le tappe. In tutto, è
la fine che lo attira, perché lui solo conosce il suo
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mistero. Passando, consola l'anziano, l'orfano, la
vedova abbandonata a se stessa. Cammina e
trascina il mondo dietro di sé. Porta negli occhi
una promessa che vorrebbe liberare, ma non ne ha
il diritto né il potere. Non ancora.
Nella mia fantasia, gli attribuivo la bellezza
maestosa di Saul e la forza di Sansone. Che
alzasse il braccio e i nostri nemici si sarebbero
gettati per terra. Che gridasse un ordine e
l'universo avrebbe tremato: il tempo avrebbe
corso più in fretta per permetterci di raggiungere
più rapidamente il palazzo celeste dove, dal primo
giorno della creazione e, secondo certi mistici, da
molto prima, ci attende il Messia.
Non saprei più dire perché un ebreo yemenita.
Forse perché non ne avevo mai visti. Per il
bambino che ero, lo Yemen si trovava non su una
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carta geografica, ma da qualche altra parte, in un
reame di sogno in cui tutti i bambini tristi, di tutte
le città e di tutti i secoli, si danno la mano per
sfidare l'oppressione, gli anni, la morte.
In seguito vidi il profeta e dovetti ammettere il
mio errore. Era un ebreo, ovviamente, ma veniva
semplicemente dalla Polonia. Inoltre, non aveva
nulla del gigante, dell'eroe sempre noi? E Dio,
perché non interviene? Dov'è il miracolo? Che
aspetta? Quando si interporrà fra noi e i carnefici?».
Le sue interruzioni inaspettate crearono un
senso di disagio intorno alla tavola. Appena uno
di noi apriva bocca, lui lo interrompeva:
- Vi occupate del passato tre volte millenario e
vi distogliete dal presente: Faraone non è morto,
aprite gli occhi e guardate, sta decimando il nostro
44
popolo. Mosè, lui è morto davvero, ma Faraone
no: è vivo, sta arrivando, fra poco sarà alle porte
di questa città, alle porte di questa casa; siete
sicuri che sarete risparmiati?
Poi, con un'alzata di spalle, lesse qualche passo
dalla Haggadà: in bocca a lui le lodi diventavano
blasfeme. Papà cercò di calmarlo, di rassicurarlo:
- Siete abbattuto, amico; non bisogna. Questa
sera entriamo nella festa sotto il segno della gioia
e della riconoscenza.
L'ospite gli lanciò uno sguardo bruciante e disse:
- Riconoscenza, dite? Per quale ragione? Avete
già visto sgozzare bambini davanti alle loro
madri? Io l'ho visto.
- Dopo - diceva mio padre. - Dopo ci
racconterete tutto.
Io ascoltavo l'ospite e mi domandavo: chi è?
45
Cosa vuole? Lo credevo malato e infelice, forse
pazzo. Soltanto più tardi capii: era il profeta Elia.
E se non assomigliava molto a quello della Bibbia
né a quello dei miei sogni, è perché ogni
generazione genera un profeta a propria
immagine. Al tempo dei re si rivelava predicatore
irascibile, incendiando le montagne e i cuori; poi,
pentito, percorreva mendicando i vicoli di
Gerusalemme assediata, per diventare studente a
Babilonia, messaggero a Roma, inserviente di
sinagoga a Magonza, a Toledo o a Kiev. Oggi
aveva il volto e il destino di un povero profugo
polacco che, coi suoi occhi, aveva visto troppe
volte e da troppo vicino la vittoria della morte
sull'uomo e sulla sua preghiera.
Sono ancora convinto che era lui il nostro
ospite. Certo, spesso non riesco a crederci.
46
Pochissimi sono coloro che hanno potuto vederlo.
La strada che porta a lui è oscura e pericolosa, il
minimo passo falso provocherebbe la perdita
dell'anima. Il mio rabbino avrebbe dato
allegramente la sua vita per intravederlo il tempo
di un baleno, di un battito del cuore. Perché allora
avrei meritato ciò che è rifiutato a tanti altri? Non
lo so. Ma sostengo che l'ospite era lui. Del resto,
ne ebbi subito la prova.
La tradizione impone che dopo la cena, prima di
riprendere le preghiere, una coppa di vino venga
offerta al profeta, che, quella sera, visita tutte le
famiglie ebraiche nello stesso momento, come per
sottolineare il carattere indistruttibile dei loro
legami con Dio. Così papà prese la bella coppa
d'argento di cui nessuno si era mai servito e la
riempì completamente. Poi fece segno alla mia
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sorellina di andare a pregare l'illustre visitatore di
venire a gustare il nostro vino. E noi volevamo
dirgli: guarda, abbiamo fiducia in te; malgrado i
nostri nemici, malgrado il sangue versato, la gioia
non ci abbandona, e noi te la offriamo perché
crediamo nella tua promessa.
In silenzio, coscienti dell'importanza del
momento, ci alzammo per salutare solennemente
il profeta con l'onore e il rispetto che gli son
dovuti. La mia sorellina lasciò la tavola e si
diresse verso la porta, quando improvvisamente
l'ospite esclamò:
- No! Torna indietro, bambina! Andrò ad aprire
io. Qualcosa nella sua voce ci fece trasalire. Lo
vedemmo lanciarsi verso la porta e aprirla
rumorosamente.
- Guardate! - urlò. - Non c'è nessuno! Nessuno!
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Mi sentite?
Poi si precipitò fuori lasciando la porta aperta.
In piedi, il bicchiere in mano, pietrificati, noi
attendemmo il suo ritorno. La mia sorellina,
sull'orlo delle lacrime, si copriva la bocca con le
mani. Papà si riebbe per primo. Con voce dolce
chiamò l'ospite:
- Dove siete, amico? Tornate!
Silenzio. Papà ripetè il suo invito con tono più
pressante. Niente. Le guance infocate, io corsi
fuori, sicuro di trovarlo sulla veranda: non c'era.
Scesi le scale: non doveva essere lontano. Ma i
soli passi che risuonavano nel cortile erano i miei.
Il giardino? C'erano parecchie ombre sotto gli
alberi, tranne la sua.
Papà, la mamma, le mie sorelle e anche la
vecchia domestica, non sapendo cosa pensare,
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vennero a raggiungermi. Papà diceva:
- Non capisco.
La mamma mormorava:
- Dove può essersi nascosto? E perché?
Io e le mie sorelle uscimmo in strada e
arrivammo fino all'angolo: nessuno. Io mi misi a
gridare:
- Ehi, amico, dove siete? Parecchie finestre si
aprirono:
- Che succede?
- Avete visto un ebreo straniero con le spalle
curve?
- No.
Trafelati, ci ritrovammo tutti in cortile. La
mamma mormorava:
- Si direbbe che sia stato inghiottito dalla terra.
E papà ripeteva:
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- Non capisco.
Allora un pensiero insolito mi attraversò la
mente e si trasformò in certezza: la mamma si
sbaglia, è il cielo e non la terra che si è aperto per
accoglierlo. Inutile inseguirlo, non è più qui. Nel
suo carro di fuoco, è appena ritornato nella sua
dimora, lassù, per comunicare al Signore la storia
che il suo popolo benedetto vivrà fra poco.
- Amico, ritornate! - gridò mio padre un'ultima
volta. - Ritornate, vi ascolteremo.
- Non può più sentirti - dissi. - È già lontano.
Il cuore pesante, ritornammo a tavola e
alzammo i nostri bicchieri ancora una volta.
Recitammo le consuete benedizioni, i salmi e, per
finire, cantammo Chad Gadjà, Questo terribile
canto in cui, in nome della giustizia, il male attira
il male, la morte chiama la morte, finché l'angelo
51
sterminato re non si fa a sua volta sgozzare
dall'Eterno stesso, benedetto egli sia. Amavo
questo canto ingenuo dove tutto sembrava
semplice, primitivo: il gatto e il cane, l'acqua e il
fuoco, di volta in volta carnefici e vittime,
destinati a subire la stessa punizione all'interno di
uno stesso disegno. Ma quella sera il canto non mi
piacque. Mi ribellavo contro la rassegnazione che
esso implicava. Perché Dio agisce sempre in
ritardo? Perché non ha eliminato l'Angelo della
Morte prima che fosse stato commesso il primo
omicidio? Se l'ospite fosse rimasto con noi,
sarebbe stato lui a porre queste domande. In sua
assenza, le feci mie.
La cerimonia stava per finire e noi non osavamo
guardarci. Papà alzò la sua coppa per l'ultima
volta e noi ripetemmo dopo di lui: «L'anno
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prossimo a Gerusalemme». Nessuno poteva
sospettare che era la nostra ultima cena di Pasqua
in famiglia.
Rividi il nostro ospite qualche settimana dopo.
Faceva parte del primo convoglio che lasciò il
ghetto. Sembrava più a suo agio dei suoi
compagni, come se avesse già percorso migliaia
di volte quel cammino. Uomini, donne, bambini,
tutti portavano zaini, coperte, valige. Lui solo
aveva le mani vuote.
Oggi so ciò che allora ignoravo: che alla fine di
un lungo viaggio che sarebbe durato quattro giorni
e tre notti egli scese in una piccola stazione,
vicino a una cittadina tranquilla, da qualche parte
della Slesia, dove già l'attendeva il suo carro di
fuoco per portarlo in cielo. Ciò non prova abbastanza che era il profeta Elia?
53
L'orfano
Il Talmud consiglia all'uomo
di procurarsi un maestro e di
comprarsi un amico.
Il mio primo amico era un orfano. Questo è
pressappoco tutto ciò che ricordo di lui. Ho
dimenticato il suo nome, il suo volto, le sue
qualità. Il colore dei suoi occhi, il ritmo dei suoi
passi: anch'essi dimenticati. Amava cantare,
ridere, correre al sole, rotolarsi nella neve? Mi è
impossibile ricordarlo e, a volte, ne provo un vago
54
rimorso come se si trattasse di un rinnegamento.
Mi capita di frugare nella memoria, sperando di
ritrovarlo, di salvarlo o almeno di restituirgli un
volto, un passato: risalgo a mani vuote. Mentre
non ho alcuna difficoltà a rivedere me bambino,
lui, l'orfano, resta inafferrabile: eco senza voce,
ombra senza riflesso. Della nostra amicizia è
rimasta intatta solo la tristezza che la sua presenza
mi ispirava. Ancora oggi, mi basta di scoprire in
ogni essere l'orfano perché si riapra in me una
ferita antica, mal cicatrizzata.
Dovevo avere cinque anni. Forse un po' di più.
Cominciavo appena a frequentare la scuola
elementare, il cheder. Fra i bambini che non
conoscevo e che mi rifiutavo di conoscere mi
sentivo, come senza dubbio ciascuno di loro, vittima di una ingiustizia da parte dei miei genitori.
55
Mi inventavo innumerevoli malattie per poter
restare un giorno di più a casa accanto a mia
madre, per sentirmi confermare che mi si amava
sempre, che non mi si stava per abbandonare a
degli estranei.
Ostinato, resistevo agli sforzi del vecchio
maestro dalla barba bianca che, con dolcezza,
insisteva nel volermi fare imparare l'alfabeto
ebraico. Il fatto è che, come tutti i bambini,
preferivo restare bambino. Temevo l'universo
dalle leggi severe che indovinavo dentro a quelle
lettere nere il cui misterioso potere si
impadronisce dell'immaginazione come di una
preda indifesa. Chi dice a dirà b, e, senza
accorgersene, si è già presi nell'ingranaggio: ci
accontentiamo delle parole, ne facciamo degli dei.
Oscuramente, presentivo che un giorno, una volta
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varcata questa soglia, le lettere dell'alfabeto
avrebbero finito per guastare la nostra innocenza,
per interporsi fra i nostri desideri e la loro
realizzazione.
Stessa diffidenza da parte degli altri scolari che
mostravano la mia stessa insofferenza. Solo
l'orfano era diverso. Non recitava mai la parte del
bambino viziato. Non metteva mai alla prova la
pazienza e la clemenza del nostro maestro.
Arrivava per primo ed era l'ultimo ad andarsene.
Non faceva confusione, non aveva crisi di pianto.
Diligente, ubbidiente, contrariamente a tutti noi
non si sentiva spaesato nella piccola stanza dai
muri umidi dove passavamo ore senza fine intorno
a una tavola rettangolare usata da tre generazioni
di scolari infelici.
Il suo comportamento esemplare non poteva che
57
irritarci: perché voleva apparire così diverso?
Dopo un po' di tempo capii: lo era. Sua madre era
morta mettendolo al mondo.
Io non sapevo cosa volesse dire morire; così,
essere orfano era ai miei occhi una specie di
distinzione, un onore che non toccava a tutti.
Segretamente mi misi a invidiarlo. Tuttavia il mio
atteggiamento nei suoi confronti si modificò. Per
conquistare la sua fiducia, divisi con lui i miei
beni, le mie merende, i miei regali. A casa non
riuscivano a capacitarsi: io che mi ribellavo a ogni
pasto, ecco che improvvisamente mi mettevo a
portare a scuola doppie razioni.
Mia madre era viva, e ciò mi sembrava una
ingiustizia. Accanto all'orfano mi sapevo in colpa:
possedevo una ricchezza che a lui era rifiutata. E
né lui né io ne eravamo responsabili. Avrei dato
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tutto per ristabilire l'equilibrio. Per riscattarmi ero
pronto a diventare non soltanto suo debitore ma
anche suo ammiratore, suo benefattore. Da parte
sua, lui accettava i miei sacrifici e non mi ricordo
più se mi ringraziava, se ne aveva veramente
bisogno. Non so perché, ma lo credevo povero.
Anzi, so perché: bambino coccolato, vedevo in
ogni orfano un povero orfano. Concepivo la sventura solo nella sua totalità: chi perde una parte
d'affetto, una possibilità d'amore, ha perso tutto.
Il giorno del suo compleanno coincideva con
l'anniversario della morte di sua madre, e io lo
sentii recitare il Kaddìsh in sinagoga. Dovetti
trattenermi con tutte le mie forze per non
staccarmi da mio padre e lanciarmi verso il mio
amico, abbracciarlo piangendo e ripetere con lui,
parola per parola, la preghiera funebre che loda il
59
Signore, il quale deve sapere ciò che fa quando
toglie la gioia ai bambini.
Con gli anni le nostre strade si separarono.
L'orfano finì per scomparire. Io ebbi nuovi amici
e oggi ho altre ragioni per rivendicare la mia parte
di colpevolezza; ma all'origine di questo
sentimento è sempre lui che ritrovo.
Eppure so bene che il mio primo amico ha
cessato da molto tempo di essere un caso unico:
apparteniamo tutti a una generazione di orfani, e il
Kaddìsh è diventata la nostra preghiera
quotidiana. Ma ogni volta che la morte mi rapisce
qualcuno, è lui, il mio amico dimenticato, che
piango. A volte mi domando se non aveva il mio
volto, il mio destino forse, e se non era già ciò che
io stavo per diventare. Allora mi dico che dovrei
mettermi a studiare l'alfabeto con impegno, se non
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altro per assomigliargli ancora di più.
La mia memoria si rivela più fedele con gli altri
amici che lo hanno seguito: Haimi Kahan, Itzu
Yunger, Yerachmiel, Mermelstein, Itzu Goldblat.
Yerachmiel scomparve nella tormenta. Itzu
Yunger non gli ha sopravvissuto che per spengersi
a New York, qualche anno dopo, di un cancro al
fegato. Da Parigi gli avevo comunicato la mia
intenzione di andare a trovarlo: troppo tardi.
Avevo inviato la mia lettera a un amico morto.
Haimi Kahan vive attualmente a Brooklin, Itzu
Goldblat è andato a stare in Israele. Ci vediamo
raramente. Non ci scriviamo quasi mai, tranne che
per banalità, per gli auguri di prammatica, prima
delle grandi feste del nuovo anno. A volte mi
capita di incontrare l'uno o l'altro, e allora il
presente svanisce: ti ricordi? Sì, mi ricordo. Un
61
breve silenzio imbarazzato ed è tutto. In fondo è
abbastanza. L'infanzia, dopo tutto, non è che una
sorgente che acquista profondità con gli anni; man
mano che ce ne allontaniamo, beneficiamo della
sua purezza se non della sua freschezza. Come
fare per aver sempre sete? Non c'è più risposta:
anch'essa è annegata nella sorgente.
Con Haimi Kahan, durante i nostri rari incontri,
ci dilettiamo a ricordare un'avventura nella quale
ci eravamo lanciati con tutta la foga dei nostri
tredici anni. Avevamo deciso di fondare la nostra
propria sinagoga, la nostra propria scuola dove i
giovani potessero pregare e studiare fra di loro.
Suo padre - Nochem Hersh, segretario e aiutante
del rabbino capo - ci teneva, tutte le mattine alle
sei, un corso di Talmud, di cui ci faceva scoprire
il rigore e la radiosa bellezza.
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Come per le generazioni precedenti, la legge
scritta e la legge orale rappresentavano per noi la
sola salvaguardia possibile: finché ci saremmo
impegnati nello studio approfondito dei trattati di
Baba-Kama (la Prima Porta) o di Baba-Batra
(l'Ultima Porta), finché avremmo letto con fervore, prima e dopo la preghiera del mattino,
qualche capitolo dei salmi, nulla di male avrebbe
potuto accaderci.
Gli avvenimenti si incaricarono di dimostrarci il
contrario. I tedeschi occuparono la città e noi
dovemmo chiudere la nostra sala di riunione.
Nochem Hersh ci lasciò per entrare nel ghetto.
Ma la sua voce cantilenante continua a vibrare
nella mia tutte le volte che apro il Talmud per
sottomettermi alle sue leggi, per respirare nel suo
sistema chiuso e per imbevermi del suo splendore.
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Oggi sarei propenso ad ammettere che Nochem
Hersh aveva ragione, ma non totalmente: la Toràh
contiene il riflesso della verità se non la sua
fiamma; ma non costituisce una salvaguardia,
soprattutto a livello dell'umanità. Oggi credo di
avere la prova che la Toràh stessa è diventata
orfana.
Con Itzu Goldblat, orefice, figlio d'orefice,
avevo condiviso un'ambizione tanto ingenua
quanto smisurata: quella di affrettare la venuta del
Messia. Ne eravamo ossessionati. Affascinati
dalla Cabbalà pratica, impiegavamo il nostro
tempo libero a mortificarci il corpo col digiuno e i
pensieri col silenzio. Decisi a ottenere in sogno il
«Ghilui Eliyahu», un incontro col profeta Elia,
l'annunciatore della liberazione, arrivammo a
dimenticare la realtà del mondo in guerra.
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Soltanto la realizzazione interiore ci stava a cuore.
I nostri incantesimi duravano ore. Per la strada ci
prendevano per sonnambuli. Prima di ogni
funzione andavamo al Mikvéh, il bagno rituale,
per purificarci, altrimenti le nostre richieste non
sarebbero arrivate a destinazione. A volte,
afferrati da una folle esaltazione, ci sembrava
quasi di sentire i passi del Salvatore: presto lo
scopo sarebbe stato raggiunto, il suono dello
shofàr, il corno del profeta, sarebbe riecheggiato
nel cuore stesso della storia e il sangue delle
vittime non sarebbe più sgorgato; presto i nostri
nemici, pieni di umiltà e di pentimento, avrebbero
riconosciuto che non sarebbero mai riusciti ad
annientare il popolo dell'Alleanza massacrando i
suoi figli. Presto, ma quando? Noi bruciavamo
d'impazienza, il tempo stringeva, bisognava fare
65
alla svelta. Ma l'occupazione tedesca mise fine al
nostro sogno e - chissà? - forse anche alla nostra
opera. Il carnefice arrivò prima del Messia, e da
qualche parte, sotto il cielo tranquillo di Slesia, il
popolo eterno, con tutto ciò che incarnava, si
consumava nelle fiamme, giorno e notte,
soprattutto la notte, per nulla.
Di tutti i miei amici, Yerachmiel era l'unico che
si rifiutava di vivere di chimere. Si attaccava alle
cose concrete, tangibili, realizzabili. Aveva
scoperto il sionismo politico e, da allora, la sua
attività non aveva requie. Senza trascurare i suoi
studi talmudici, trovava il tempo di andare a
raccogliere il denaro per il Fondo nazionale
ebraico e non perdeva nessuna occasione per
propagandare le sue idee fra i giovani. Agitatore
di talento, appariva dovunque prevedesse di
66
trovare un pubblico. Parlando si riscaldava, ma,
nei suoi discorsi, faceva appello alla ragione
piuttosto che a quella nostalgia che ogni ebreo
doveva provare per Sion.
Il sabato pomeriggio, per il terzo pasto
tradizionale, veniva nella nostra piccola sinagoga
e non ci parlava della Bibbia, della parashà
settimanale, ma della situazione in Palestina. È
così che appresi che la Terra Santa si trovava sotto
mandato britannico e che delle organizzazioni
clandestine ebraiche avevano preso le armi per
conquistare l'indipendenza nazionale.
Sebbene indifferente all'aspetto politico delle
sue esposizioni, io mi lasciavo trascinare dal suo
entusiasmo.
Ogni
volta
che
nominava
Gerusalemme, Safed o il monte Carmelo, il
sangue mi montava alla testa: così era dunque
67
possibile ricostruire il Tempio e il regno di David
con mezzi diversi dalla penitenza e dalle lacrime?
E Dio, che posto aveva in tutto ciò? Yerachmiel
aveva una risposta per tutto. Fu lui che mi spinse a
studiare l'ebraico moderno. Aveva scovato non so
dove un libro di grammatica da cui non si
separava mai. Me lo prestò per una settimana e
dovetti giurargli di trattarlo come se fosse la
pupilla dei miei occhi. Prima di restituirgli
quest'opera preziosa l'avevo imparata a memoria e
ancora oggi me ne ricordo pagine intere.
Ma il destino lo portò lontano da Gerusalemme
la maestosa, lontano dalla romantica Galilea. Fece
parte del primo trasporto. Io l'ho accompagnato
fino alle porte del ghetto. Perduto nella folla, non
mi ha visto. Sognava. Cosa? La rinascita
nazionale ebraica? La resistenza ebraica al tempo
68
dell'occupazione romana? Come tutti, aveva un
sacco sulle spalle. Credo di sapere cosa
contenesse. Oltre al cibo e al vestiario un piccolo
libro insostituibile di grammatica ebraica.
In seguito, sulle rovine, in Francia, in Israele e
altrove, mi legai a volte a questa o a quella
persona, il tempo di fare insieme qualche passo.
Ma mai più conoscerò l'intensità e il calore delle
avventure che hanno segnato l'inizio della mia
vita.
Sono invecchiato, e oggi conosco il valore delle
parole, il peso dell'attesa. Tutti i sentieri
conducono all'uomo, mentre lui continua a errare
da un deserto all'altro. E la sorgente, miraggio
all'ora del crepuscolo, si allontana sempre di più.
Chi afferma di sentire i passi e i battiti del cuore
del Messia non sente che i passi e le grida
69
soffocate dei miei amici che hanno abbandonato il
paese della mia infanzia dove li attendeva,
nascosta, l'insaziabile bestia che divora i nostri
morti fino all'anima.
È inutile che torni sui miei passi, che cerchi
traccia dell'orfano fino nella casa del mio primo
maestro. L'alfabeto lo conosco già.
70
Yom Kippur, il giorno senza perdono
Lo sguardo spento, un sorriso doloroso sul
volto, Pinchas, continuando a scavare, muoveva le
labbra in silenzio. Sembrava che discutesse con
qualcuno dentro di lui e, dalla sua espressione,
sembrava che si sarebbe presto dichiarato vinto.
Non l'avevo mai visto così abbattuto. Sapevo
che il suo corpo non avrebbe resistito ancora per
molto. Già le forze lo abbandonavano, i suoi
movimenti si facevano più lenti, disordinati.
Senza dubbio lo sapeva anche lui. Ma la morte
non figurava che raramente nelle nostre
71
conversazioni. Preferivamo negare la sua
presenza, ridurla, come un tempo, a una semplice
allusione, qualcosa d'astratto, d'inoffensivo, una
parola come le altre.
- A che pensi? Cosa c'è che non va?
Pinchas abbassò la testa, come per nascondere il
suo imbarazzo o la sua tristezza, o entrambe le
cose, e lasciò passare un lungo attimo prima di
rispondere con voce appena percettibile:
- Domani è Yom Kippur.
Di colpo anch'io mi sentii a terra. Il mio primo
Kippur in campo. L'ultimo forse. Giorno del
grande giudizio, del grande perdono. Domani si
riunirà il tribunale celeste e pronuncerà la
sentenza: «E come un gregge, le creature di
questo mondo sfileranno davanti a Te». Un tempo
- l'anno scorso - questo giorno di lacrime, di
72
penitenza e di timore mi faceva tremare. Domani
ci presenteremo davanti a Dio, che vede e che sa
tutto, e gli diremo: «Padre, abbi pietà dei tuoi
figli». Sarò ancora capace di pregare con fervore?
Pinchas si scrollò improvvisamente. Il suo
sguardo si immerse nel mio:
- Domani è il giorno del grande perdono e io ho
preso una decisione: non digiunerò. Mi senti? Non
digiunerò.
Non gli chiesi di spiegarsi. Sapevo che stava per
morire e improvvisamente ebbi paura che mi
dichiarasse a mo' di giustificazione: «È semplice,
ho deciso di non conformarmi più alla legge e non
digiunare più perché agli occhi degli uomini e di
Dio sono già morto, e i morti possono disubbidire
ai comandamenti della Toràh». Io abbassai la testa
e finsi di non pensare a niente, tranne che a quel
73
suolo che scavavo sotto un cielo più buio della
terra stessa.
Appartenevamo
allo
stesso
commando.
Facevamo sempre in modo di lavorare uno
accanto all'altro. La nostra differenza d'età non gli
impediva di comportarsi con me da amico.
Doveva aver passato i quarant'anni. Io ne avevo
quindici. Prima della guerra era stato roshyeshivà, direttore di una scuola rabbinica da
qualche parte della Galizia. Spesso, per ingannare
la fame e dimenticare le nostre ragioni di
disperare, studiavamo, a memoria, una pagina del
Talmud. Io rivivevo la mia infanzia sforzandomi
di non pensare agli assenti. Se uno dei miei
argomenti gli piaceva, se citavo un commento
senza deformarne il senso, gli capitava di
rivolgermi un sorriso e di dirmi:
74
- Mi sarebbe piaciuto averti fra i miei allievi. E
io rispondevo:
- Ma io sono tuo allievo, il luogo importa poco.
Non era vero, il luogo era di una importanza
capitale. Secondo la legge del campo ero un suo
pari, gli davo del tu. Ogni altro modo di
esprimersi era inconcepibile.
- Mi senti? - esclamò Pinchas con tono di sfida.
- Io non digiunerò.
- Ti capisco. Hai ragione. Non bisogna
digiunare. Non ad Auschwitz. Qui viviamo fuori
dal tempo, fuori dal peccato. Yom Kippur non si
addice ad Auschwitz.
Da Rosh Hashanà, la festa del nuovo anno, la
questione era del resto aspramente dibattuta in
tutto il campo. Digiunare significava una morte
più rapida. Qui digiunavamo tutto l'anno. Tutto
75
l'anno era Yom Kippur. E il libro della vita e della
morte non si trovava più nelle mani di Dio ma in
quelle del carnefice. Le parole Mi yichye umi
yamut, chi vivrà e chi morrà, avevano qui un
senso terribilmente reale, una portata immediata.
E tutte le preghiere del mondo non potevano
modificare il gzar-din, la marcia inesorabile del
destino. Qui, per vivere, bisognava mangiare e
non pregare.
- Hai ragione, Pinchas - dissi sforzandomi di
sostenere il suo sguardo. - Tu devi mangiare
domani. Tu sei qui da molto più tempo di me,
della maggior parte di noi. Hai bisogno delle tue
forze. Devi risparmiarti. Sorvegliarti. Proteggerti.
Non bisogna superare il limite. Né tentare la malasorte. Sarebbe un peccato.
Suo allievo, io? Gli facevo la predica, gli davo
76
dei consigli, come se fossi stato suo fratello
maggiore, la sua guida.
- Non si tratta di questo - disse Pinchas
innervosendosi. - Potrei resistere un giorno senza
mangiare nulla. Non sarebbe la prima volta.
- E allora di cosa si tratta?
- Di una decisione. Finora ho accettato tutto.
Senza amarezza, senza riserve mentali. Mi dicevo:
«Dio sa ciò che fa». Mi sottomettevo alla sua
volontà. Adesso ne ho abbastanza, ho raggiunto il
limite. Se lui sa ciò che fa, è grave; se non lo sa,
non è meno grave. Cosi ho deciso di dirgli: «Non
ci sto più».
Io tacqui. Che argomento potevo opporgli?
Attraversavo la stessa crisi. Ogni giorno mi
allontanavo un po' di più dal Dio della mia
infanzia. Mi diventava estraneo; a volte lo
77
credevo mio nemico.
La comparsa di Edek mise fine alla
conversazione. Era il nostro signore, il nostro re.
Il kapò. Questo giovane polacco dalle guance
rosse, dai gesti da animale selvaggio, amava
sorprendere i suoi schiavi e farli urlare di paura.
Ancora adolescente, possedere un tale potere su
tanti adulti lo divertiva. Temevamo i suoi
cambiamenti d'umore, le sue collere improvvise:
senza aprir bocca, gli occhi semichiusi, batteva a
lungo le sue vittime anche dopo che avevano
perduto conoscenza e cessato di gemere.
- Ebbene? - disse piazzandosi davanti a noi a
braccia incrociate. - Si fa la siesta? Ci
raccontiamo i ricordi? Vi credete in villeggiatura?
O in sinagoga?
Una fiamma crudele si accese nei suoi occhi
78
azzurri, ma per fortuna si spense subito. Noi ci
mettemmo a maneggiare la pala con foga, non
pensando a nient'altro che alla terra che, davanti a
noi, si apriva minacciosa. Edek ci lanciò ancora
qualche insulto e si allontanò.
Pinchas non aveva più voglia di parlare, e
neanch'io. Per lui il dado era tratto. La rottura con
Dio sembrava consumata.
Nel frattempo, la fossa sotto i nostri piedi era
diventata più larga e più profonda. Presto le nostre
teste superarono appena il livello del suolo. Io
ebbi la strana sensazione di scavare una tomba.
Per chi? Per Pinchas? Per me? Forse per i nostri
ricordi.
Ritornato al campo, lo trovai immerso in
un'attesa febbrile: ci si preparava ad accogliere il
giorno più santo e più lungo dell'anno. I miei
79
vicini di letto, un padre e suo figlio,
chiacchieravano sottovoce. L'uno diceva: «Purché
l'appello non duri troppo». L'altro aggiungeva:
«Purché la zuppa sia distribuita prima del
tramonto, altrimenti non potremo più toccarla».
Le loro speranze si avverarono. L'appello si
svolse senza incidenti, senza ritardi, senza
impiccagioni
pubbliche.
Rapidamente
il
capoblocco distribuì la zuppa; rapidamente io la
inghiottii. Poi corsi a lavarmi, a purificarmi.
Quando il sole cominciò a tramontare io ero
pronto.
Dieci giorni prima, la vigilia di Rosh Hashanà,
tutti gli ebrei del campo, kapò compresi, si erano
riuniti sul piazzale dell'appello, e insieme
avevamo implorato il Dio di Abramo, di Isacco e
di Giacobbe di metter fine alla nostra umiliazione,
80
di schierarsi dalla nostra parte, di rompere il suo
patto con il nemico. Avevamo recitato all'unisono
il Kaddìsh per i morti e anche per i vivi. Ufficiali
e soldati, spettatori divertiti, stavano, mitra in
mano, dall'altra parte dei reticolati.
Non ci siamo ritornati per la preghiera del Kol
Nidré. Temevamo una selezione: negli anni
precedenti essa aveva trasformato il giorno del
perdono in giorno di lutto. Yom Kippur era
diventato Tishà beAv, il giorno della distruzione
del Tempio.
Così ogni baracca ospitava la propria sinagoga.
Era più prudente. Ma a me dispiaceva perché
Pinchas era in un blocco diverso dal mio.
Un rabbino ungherese fu il nostro cantore. La
sua voce smosse i miei ricordi e vi risvegliò quella
leggenda secondo la quale, la sera di Yom Kippur,
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i morti si levano dalle loro tombe e vengono a
pregare con i vivi. Pensai: «Ma allora è vero,
allora è così che avviene. Ecco confermata questa
leggenda ad Auschwitz».
Per settimane, diversi ebrei eruditi si erano
riuniti la sera nel nostro blocco per trascrivere a
mano, su carta igienica, le preghiere per le grandi
feste. Ogni cantore ne ricevette una copia. Il
nostro leggeva ad alta voce e noi ripetevamo dopo
di lui ogni versetto. Il canto del Kol Nidré, che ci
liberava da tutti i nostri voti formulati sotto
costrizione, adesso mi sembrava anacronistico,
assurdo, benché fosse stato composto secoli prima
in circostanze simili, in Spagna, vicino ai roghi.
Una volta all'anno i convertiti si riunivano e
proclamavano davanti a Dio: «Sappi che tutto ciò
che abbiamo detto è come non detto, che tutto ciò
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che abbiamo fatto è come non fatto». Kol Nidré?
Triste scherzo. Qui e ora, non avevamo più voti
segreti da formulare né da rinnegare: tutto era
chiaro, irrevocabile.
Poi fu la volta del Vidui, la grande confessione.
Anche qui tutto suonava falso, nulla di tutto ciò ci
riguardava più. Ashamnu, noi abbiamo peccato.
Bagadnu, noi abbiamo tradito. Gazalnu, poi
abbiamo rubato. Che cosa? Noi? Noi abbiamo
peccato? Contro chi? Facendo cosa? Noi abbiamo
tradito? Chi? Senza dubbio era la prima volta da
quando Dio giudicava la sua creazione che le
vittime si battevano il petto accusandosi dei
crimini dei loro carnefici.
Perché avevamo preso su di noi peccati e delitti
che nessuno di noi avrebbe mai avuto il desiderio
né la possibilità di commettere? Forse ci
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sentivamo colpevoli malgrado tutto. Era più
semplice. Era meglio credere che il castigo da noi
subito avesse un senso, e che quindi l'avevamo
meritato; credere in un Dio crudele ma giusto era
meglio che non credere affatto. Era per non
provocare una guerra aperta fra Dio e il suo
popolo che noi avevamo scelto di risparmiarlo
gridando: «Tu sei il nostro Signore, benedetto tu
sia! Tu ci colpisci senza pietà, tu versi il nostro
sangue, e noi ti benediciamo, o Eterno, perché
vuoi mostrarci che sei giusto e che il tuo nome è
giustizia!».
Confesso di aver aggiunto la mia voce a quella
degli altri e implorato il cielo di concedermi
grazia e perdono. In disaccordo con tutto ciò che
le mie labbra pronunciavano, io mi incolpavo
soltanto per meglio volgere le cose in beffa, in
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farsa. A ogni istante mi aspettavo che il Signore
dell'Universo mi ammutolisse dicendomi: «Ora
basta, esageri». E amo pensare che allora gli avrei
risposto: «Anche tu, benedetto tu sia, anche tu».
Fu la campana del campo a disperdere le nostre
riunioni. I capiblocco si misero a urlare: «Va
bene, andate a dormire! Se Dio non vi ha sentiti è
perché è incapace di ascoltare!».
Il giorno dopo, al lavoro, Pinchas si unì a un
altro gruppo. Io pensai: «È per poter mangiare
senza che la mia presenza lo disturbi». Il giorno
dopo ritornò. Il volto ancora più pallido, ancora
più scavato di prima. La morte lo consumava. Io
mi sorpresi a pensare: «Morirà perché non ha
osservato le regole di Yom Kippur».
Per qualche ora scavammo senza guardarci. Di
lontano ci arrivavano le grida del kapò che andava
85
in giro colpendo alla cieca, senza tregua. Verso la
fine del pomeriggio Pinchas mi rivolse la parola:
- Devo farti una confessione.
Io trasalii, ma continuai a scavare. Uno strano
sorriso, quasi infantile, apparve sulle sue labbra
quando riprese a parlare:
- Sai, ho digiunato.
Io rimasi attonito. Il mio stupore lo divertì.
- Sì, ho digiunato. Come gli altri. Ma non per le
stesse ragioni. Non per sottomissione, ma per
sfida. Vedi, prima della guerra, alcuni ebrei si
ribellavano alla volontà divina andando al
ristorante nel giorno dell'Espiazione; qui, è
coll'osservare il digiuno che possiamo far sentire
la nostra sdegnata protesta. Sì, mio allievo e
maestro, sappi che ho digiunato. Non per amor di
Dio, ma contro Dio.
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Qualche settimana dopo mi lasciò, vittima della
prima selezione. Mi strinse la mano:
- Avrei voluto morire in altro modo e altrove.
Avevo sempre sperato di fare della mia morte,
come della mia vita, un atto di fede. Peccato. Dio
mi impedisce di realizzare il mio sogno; non ama
più i sogni.
Mi pregò ugualmente di recitare il Kaddìsh dopo
la sua morte che, secondo i suoi calcoli, sarebbe
avvenuta tre giorni dopo la sua partenza dal
campo.
- Ma perché dovrei farlo, - esclamai - visto che
non ci credi più?
Assunse il tono che aveva quando mi spiegava
un passo del Talmud:
- Oh, non afferri il nocciolo del problema. Qui e
ora, il solo modo di accusarlo è lodarlo. E se ne
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andò a morire ridendo.
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Una vecchia conoscenza
Su un autobus, una sera d'estate, a Tel Aviv. La
canicola, invece di attenuarsi, diffonde un calore
pesante che si insinua nel corpo, appesantisce i
movimenti e il respiro, annebbia tutte le
immagini. Si dorme in piedi, si sta per cadere nel
vuoto. Respirare, guardare, esigono uno sforzo
che si compie solo controvoglia.
Si avanza lentamente. Man mano che si risale
l'arteria principale, il viale Allenby, verso il
centro, la circolazione si fa sempre più lenta e
presto si bloccherà. Abituati a questo genere di
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calamità, i passeggeri danno prova di saggezza.
Alcuni leggono il giornale, altri chiacchierano o
scrutano i manifesti pubblicitari: vini, creme da
barba, sigarette. L'autista fischietta l'ultima
canzone di successo. Pazienza, scenderò alla
prossima fermata. Ho un appuntamento: a piedi
arriverò prima.
Ma è lunga fino alla prossima fermata. Non
sembra che ci muoviamo. Imbottigliamenti in
serie. Come se ci fossero tre colonne di veicoli in
panne. Io vorrei scendere: vietato aprire le porte
prima dell'arresto completo della vettura. Inutile
protestare: i nervi dell'autista sono a prova di
bomba. Non i miei. Irritato, mi maledico per non
aver previsto tutto ciò. Ho sbagliato a prendere
l'autobus. E dire che siamo nel paese dei profeti!
Per ingannare il tempo mi dedico al mio gioco
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preferito. Scelgo a caso una persona e, a sua
insaputa, stabilisco con lei uno scambio
silenzioso. Seduto sul sedile opposto al mio c'è un
uomo di mezza età, lo sguardo perduto. L'osservo
minuziosamente dalla testa ai piedi. Facile da
classificare. Impiegato, funzionario del governo,
caporeparto. Il tipo anonimo. Che fugge gli
estremi, le responsabilità. Riceve ordini solo per
trasmetterli. Pulito, puntuale, efficiente. Non è né
in cima alla scala né in fondo. Né ricco né povero,
né felice né infelice. Si guadagna la vita. Si
difende. Contro tutti.
Finisco per sostituirmi a lui: penso e sogno al
suo posto. È me che sua moglie accoglierà con
amore o rancore, sono io che affogherò il mio
risentimento nel sonno o nell'alcool; sono io che i
miei colleghi tradiscono e che i miei sottoposti
91
detestano; sono io che ho sciupato la mia vita e
adesso è troppo tardi per ricominciare.
Preso dal gioco, il passeggero mi sembra
improvvisamente familiare. Ho già visto questa
testa calva, questo mento duro, questo naso
sottile. Ho già visto questa fronte rugosa, queste
orecchie spioventi. Mentre lui si volta per dare
un'occhiata fuori osservo la sua nuca: rossa, nuda,
enorme. Ho già visto questa nuca. Un brivido mi
percorre. Non si tratta più di curiosità né di un
gioco. Il tempo cambia ritmo, paese. È il presente
alle prese con gli anni sepolti, tenebrosi. Adesso
sono contento d'aver accettato l'appuntamento per
stasera, e anche di aver rinunciato all'idea di
andarci in taxi.
Il mio uomo non sospetta nulla. Ha appena
perso il suo anonimato, è appena rientrato nella
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sua prigione, ma non lo sa ancora. Adesso che l'ho
in mano, non lo lascio più. A cosa pensa?
Probabilmente a niente. Pensare gli fa paura.
Parlare gli fa paura. I ricordi, le parole gli fanno
paura: lo si può leggere sul suo volto spento.
Questo passeggero riesco a individuarlo, lo
conosco; anch'io, un tempo, mi sono difeso così.
Il miglior modo per non attirare l'attenzione del
carnefice era quello di non vederlo. Per non farsi
notare bisogna uccidere l'immaginazione.
Dissolversi, fondersi nella massa impaurita,
ridursi allo stato di cosa. Lasciarsi andare a fondo
per sopravvivere. Ma il mio uomo continua a non
rendersi conto dell'interesse che provo per lui; se
fossimo in cento a sorvegliarlo, non se ne
accorgerebbe lo stesso.
Io lascio il mio posto e vado a piazzarmi davanti
93
a lui. Lo sfioro, i miei ginocchi toccano i suoi, ma
il suo sguardo mantiene la sua fissità. Dico a voce
molto bassa:
- Credo di conoscervi.
Non ha sentito. Fa il sordo, il cieco, il morto.
Come io un tempo. Si rifugia nell'assenza, ma,
tenace, io lo bracco. Ripeto la mia frase.
Lentamente, con precauzione, egli dà segno di
vita. Alza i suoi occhi stanchi verso di me:
- È a me che parlavate?
- A voi.
- Dicevate?
- Credo di avervi già incontrato da qualche
parte. Lui alza le spalle:
- Vi sbagliate, io non vi conosco.
L'autobus si muove per rifermarsi subito. Io mi
chino sopra al passeggero che finge di ignorarmi,
94
come se per lui la questione fosse chiusa.
L'ammiro: recita bene, non ha battuto ciglio.
Siamo così vicini l'uno all'altro che i nostri respiri
si confondono, una goccia del mio sudore cade
sulla sua camicia. Lui continua a non reagire. Se
lo prendessi a schiaffi non direbbe niente.
Questione d'abitudine, di disciplina. Prima
lezione: nascondere il dolore perché esso eccita il
carnefice più di quanto non lo plachi. Con me non
funzionerà: sono del mestiere.
- Voi non siete di qui - gli dico.
- Lasciatemi in pace.
- Voi venite da un altro paese. Dall'Europa.
- Mi state seccando. Vi sarei grato se smetteste
d'importunarmi.
- Il fatto è che mi interessate.
- Tanto peggio per voi, perché voi non mi
95
interessate affatto. Non ho voglia né di parlarvi né
di ascoltarvi. Tornate al vostro posto o mi
arrabbio davvero. Mi avete sentito? Forza,
sloggiate!
Il tono della sua voce mi fa sussultare. Per un
attimo i nostri sguardi si incrociano. Non mi
occorre altro perché mi riveda, vent'anni fa, con
una gamella in mano davanti a questo signore
onnipotente che distribuisce la zuppa della sera a
un branco di cadaveri affamati. La mia
umiliazione cede il posto a una gioia cupa che
contengo a fatica. Secondo il Talmud, solo le
montagne non si incontrano mai; per gli uomini
che le scalano nessun cerchio è chiuso, nessuna
esperienza è unica, nessun oblio è definitivo.
- Ho qualche domanda da farvi - gli dico.
- Me ne infischio di voi e delle vostre domande.
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- Dov'eravate durante la guerra?
- Questo non vi riguarda.
- In Europa, non è vero?
- Lasciatemi in pace.
- In un paese occupato, non è vero?
- Mi state scocciando.
- In Germania, forse?
L'autobus arriva finalmente a una fermata; il
mio uomo approfitta dell'occasione: si alza di
scatto e si precipita verso l'uscita; io lo seguo.
- Strano, scendiamo nello stesso posto.
Lui indietreggia rapidamente per lasciarmi
passare:
- Mi sono sbagliato, è più lontano.
Anch'io faccio finta di scendere e poi risalgo
subito:
- Strano, anche per me è più lontano. Restiamo
97
in piedi vicino alla porta; due donne hanno già
preso i nostri posti.
- Mi permettete di continuare la nostra
conversazione?
- Non so chi siete né cosa potete volere da me mi dice quasi senza aprire la bocca. - Non capisco
le vostre domande fuori luogo né i vostri modi
sgradevoli. Ignoro a che gioco giochiate, ma mi
rifiuto di parteciparvi. Non mi divertite.
- Che voi non vi ricordiate di me è normale.
Sono cambiato, sono cresciuto, sono ingrassato,
sono meglio vestito, sto bene, cammino senza
paura di cadere, non manco né di pane né
d'amicizie. Ma voi? Voi state bene? Rispondete,
questo mi interessa. Niente insonnia la notte,
niente crisi d'angoscia la mattina?
Di nuovo si rifugia dietro una maschera
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d'indifferenza, come se non esistesse. Così si
crede al sicuro, inattaccabile. Ma io lo incalzo,
instancabile:
- Ricominciamo, volete? Abbiamo stabilito il
vostro luogo di residenza durante la guerra: da
qualche parte della Germania. Dove esattamente?
In un campo. Naturalmente. Con altri ebrei.
Perché voi siete ebreo, non è vero?
Mi risponde a fior di labbra, con un tono che
non ha ancora perso nulla della sua sicurezza:
- Andate al diavolo, vi dico, e tacete. La mia
pazienza ha un limite. Non vorrei provocare uno
scandalo, ma se mi obbligate...
Io non presto attenzione alla sua minaccia, so
che non farà niente, che non mi querelerà, che non
si servirà dei suoi pugni, non lui, non qui, non in
pubblico: teme più di me l'intervento della polizia.
99
Cosi continuo:
- In che campo eravate? Su, aiutatemi, è
importante. Vediamo un po': Buchenwald? No.
Majdanek? Neanche. Bergen Belsen? Treblinka?
Ponar? No, no. Auschwitz? Sì? Sì. Auschwitz. Più
esattamente in un campo annesso ad Auschwitz.
Jacischowitz? Gleiwitz? Monowitz? Ecco, ci
sono: Monowitz-Buna. Mi sbaglio forse?
Recita bene, conosce perfettamente la sua parte.
Non un tremore, neanche la minima reazione.
Come se non parlassi a lui, come se le mie
domande fossero rivolte a qualcun altro, morto da
tempo. Tuttavia i suoi sforzi per non tradirsi si
fanno visibili; controlla male le mani che intreccia
e disintreccia; le dita gli si contraggono, e allora le
nasconde dietro la schiena.
- Veniamo a domande più specifiche. Che
100
facevate laggiù? Non eravate un semplice
deportato, non voi. Voi siete di quelli che non
hanno conosciuto la fame, né la fatica, né la
malattia. Voi non siete di quelli che hanno vissuto
nell'attesa della morte sperando che non tardasse
troppo per potere andarsene da uomini e non da
bestie che nessuno vuole, che anche la morte non
vuole più. Voi, voi eravate capobaracca, avevate
diritto di vita e di morte su centinaia di esseri
umani che non osavano guardarvi mentre
assaporavate i piatti preparati specialmente per
voi; era un peccato, un crimine di lesa maestà
sorprendervi durante i vostri pasti. E oggi?
Ditemi, mangiate bene? Con appetito?
Si inumidisce le labbra con la lingua.
Impercettibile, gli sfugge un sospiro. Deve
raddoppiare gli sforzi per non rispondere, per non
101
raccogliere la sfida. I muscoli gli si gonfiano, non
resisterà a lungo. La trappola si richiude su di lui;
comincia a capirlo.
- Il numero della baracca? La sede del vostro
regno? Lo ricordate? 57. Baracca 57. Si trovava al
centro del campo, a due passi dalla forca. Ho una
buona memoria, non è vero? E voi? È viva la
vostra memoria? Oppure ci ha sepolti una seconda
volta?
L'autista annuncia una fermata, il capobaracca
non si muove: tutto gli sembra indifferente. La
porta si apre, una coppia scende, una giovane
mamma sale spingendo avanti il suo bambino.
L'autista esclama: «Ehi, signora, mi dovete un
grush o un sorriso!». Lei gli dà tutte e due le cose.
Si riparte. Il mio prigioniero non si rende più
conto di nulla: ha perso contatto con la realtà.
102
Fuori è la città, così vicina e così irreale, la città
con le sue luci e i suoi rumori, le sue gioie, le sue
risate, i suoi odi, i suoi furori, le sue futili
avventure; fuori è la libertà, l'oblio se non il
perdono. Alla prossima fermata il prigioniero
potrebbe fuggire. Ma non lo farà, ne sono
convinto. Preferisce lasciare a me l'iniziativa: che
decida io per lui. So ciò che prova: un misto di
paura, di rassegnazione e anche di sollievo. Anche
lui è ritornato nel mondo dei reticolati: come
allora, preferisce qualunque cosa all'ignoto. Qui,
nell'autobus, sa ciò che lo minaccia e questo lo
rassicura: conosce il mio volto, la mia voce. Provocare una rottura equivarrebbe a scegliere un
pericolo la cui natura gli sfugge. In campo, ci si
irrigidiva così in una situazione e si faceva di tutto
perché durasse più a lungo possibile. Temevamo
103
le novità, le sorprese. Perciò, con me, l'accusato sa
come regolarsi: gli parlo senza odio, quasi senza
ira. Per la strada, la folla si mostrerebbe meno
comprensiva. Il paese trabocca di ex deportati che
si rifiutano di ragionare.
- Guardatemi: vi ricordate di me?
Non mi risponde. Impassibile, rigido, continua a
guardare nel vuoto sopra le teste dei passeggeri,
ma io so che i suoi occhi e i miei vedono gli stessi
corpi smagriti, sfiniti, lo stesso cortile illuminato,
la stessa forca.
- Ero nella vostra baracca. Davanti a voi
tremavo. Eravate l'alleato del male, della fame,
della crudeltà. Vi maledicevo.
Continua a non batter ciglio. La legge del
campo: farsi invisibile dietro la propria maschera
mortuaria. Io mormoro:
104
- Anche mio padre era nella vostra baracca. Ma
lui non vi malediceva.
Fuori il traffico diminuisce, l'autista accelera.
Presto griderà: «Capolinea, scendere!». Io ho
superato la mia fermata, pazienza. L'importante
appuntamento non mi sembrava più tale. Cosa
avrei fatto del mio prigioniero? Metterlo nelle
mani della polizia? La «collaborazione» è un
crimine punito dalla legge. Che altri finiscano
l'interrogatorio. Io andrò a testimoniare. Ho già
assistito a diversi processi di questo tipo: un ex
kapò, un ex membro dello Judenrat, un ex
poliziotto del ghetto, accusati di essere
sopravvissuti scegliendo la vigliaccheria.
Il procuratore: «Avete rinnegato il vostro
popolo, tradito i vostri fratelli, aiutato il nemico».
La difesa: «Non sapevamo, non potevamo
105
prevedere. Credevamo di far bene, soprattutto
all'inizio; speravamo di poter alleggerire le
sofferenze della comunità, soprattutto nelle prime
settimane. Poi era troppo tardi, non avevamo più
scelta, non potevamo tornare indietro e dichiararci
vittime fra le vittime».
Il procuratore: «Nel ghetto di Krilov, i tedeschi
nominarono un certo Ephraim presidente del
consiglio ebraico. Un giorno pretesero da lui una
lista di trenta persone da sottomettere ai lavori
forzati. Lui la consegnò scrivendoci trenta volte lo
stesso nome: il suo. Ma voi, per salvarvi la pelle,
vi siete venduti l'anima».
La difesa: «Non valevano molto né l'una né
l'altra. Al limite, la sofferenza le riduce e le
annienta, non insieme ma separatamente: c'è una
frattura a tutti i livelli. Il corpo e la ragione, il
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cuore e l'anima prendono direzioni diverse, così si
muore decine di volte anche prima di rassegnarsi
o di accettare il patto col diavolo, che è anch'esso
un modo di morire. Perciò vi supplico: non
giudicate i morti!».
Il procuratore: «Voi dimenticate gli altri, gli
innocenti, chi ha rifiutato di vendersi. Non
condannare i vigliacchi significa dar torto a coloro
che essi hanno abbandonato e a volte sacrificato».
La difesa: «Giudicare senza capire è un potere,
non una virtù. Dovete invece capire che gli
accusati, più soli e quindi più infelici degli altri,
sono anch'essi da annoverare fra le vittime; più
degli altri, essi hanno bisogno della vostra indulgenza, della vostra generosità».
Spesso lasciavo il tribunale depresso,
scoraggiato, incerto fra la pietà e la vergogna. Il
107
procuratore diceva la verità, la difesa anche; i
testimoni avevano tutti ragione, sia che fossero a
carico o a discarico. La sentenza suonava giusta e
tuttavia una flagrante ingiustizia scaturiva da
questi processi confusi e penosi: si aveva
l'impressione che nessuno avesse detto la verità,
perché la verità era altrove, con i morti; e chissà
se la verità non è morta con loro? Spesso mi
dicevo: «È ancora una fortuna che sia testimone e
non giudice: io condannerei me stesso». Ora lo
sono diventato. Senza volerlo, senza che me lo
aspettassi. Ecco la trappola: al punto in cui sono
non è possibile tornare indietro. Devo pronunciare
la sentenza. Ormai, qualunque sia il mio
atteggiamento, esso avrà il peso di un verdetto.
Percepisco l'odore del mare, sento il mormorio
delle onde mentre lasciamo il centro e le luci. Ci
108
avviciniamo al capolinea. Devo affrettarmi a
prendere una decisione, a processare il mio ex
capobaracca. Assumerò tutti i ruoli: prima quello
dei testimoni, poi quelli del giudice e del difensore. Il prigioniero non ne avrà che uno, quello
dell'imputato; quello della vittima? Avrò pieni
poteri, la mia sentenza sarà senza appello. Di
fronte all'imputato sarò Dio.
Cominciamo dall'inizio. Con le domande di
prammatica. Nome, cognome, professione, età,
domicilio. L'imputato non riconosce la legittimità
della procedura né quella del tribunale, si rifiuta di
partecipare al dibattimento. Preso atto di ciò, la
corte farà a meno delle sue risposte. Sono i suoi
crimini che ci interessano, non la sua identità.
Apriamo il dossier, esaminiamo le accuse mosse
nei suoi confronti. Rivedo il luogo del crimine, il
109
volto uniforme del dolore, sento lo schiocco della
frusta sui corpi emaciati. La sera, circondato dai
suoi vigorosi protetti, l'imputato dimostra la sua
abilità nel fare due cose contemporaneamente:
con una mano distribuisce la zuppa, con l'altra dà
colpi alla cieca per imporre il silenzio. Che le
lacrime e i gemiti lo turbino o lo irritino non
importa: colpisce più forte per farli smettere. La
vista dei malati lo rende furioso: vi coglie un
cattivo presagio per se stesso. È particolarmente
crudele con i vecchi: «Perché vi attaccate a questa
sporca vita? Spicciatevi a farla finita, non
soffrirete più! Date il vostro pane ai più giovani,
fate almeno una buona azione prima di crepare! ».
Un giorno scorse me e mio padre vicino alla
baracca. Mio padre, come d'abitudine, mi stava
dando la sua gamella mezza piena ordinandomi di
110
mangiare. «Non ho più fame», mi spiegò, e io
sapevo che mentiva. La rifiutai: «Neanch'io, papà;
veramente, non ho più fame». Mentivo, e anche
lui lo sapeva. Al che il capoblocco si avvicinò e si
rivolse a mio padre: «È tuo figlio?». «Sì». «E non
ti vergogni di prendergli la zuppa?». «Ma...».
«Stai zitto! Rendigli la gamella o ti do una lezione
che non dimenticherai così presto!». Per evitare
che mettesse in atto la sua minaccia io afferrai la
gamella e cominciai a mangiare. Dapprima ebbi
voglia di vomitare ma subito dopo sentii un
immenso benessere spandersi in tutto il mio
corpo. Mangiai lentamente per far durare quel
piacere più grande della mia vergogna.
Finalmente il capoblocco si allontanò. Io lo
odiavo e, tuttavia, in fondo ero contento del suo
intervento. Mio padre sussurrò: «È un brav'uomo,
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caritatevole». Mentiva, e anch'io mentii: «Sì,
papà, caritatevole».
Come vi dichiarate: colpevole o innocente? Mio
padre non nascondeva il suo orgoglio: suo figlio
gli ubbidiva. Come prima. Meglio di prima. C'era
dunque nel campo, in mezzo a questa follia
organizzata, un essere che dipendeva da lui e ai
cui occhi egli non era uno straccio d'uomo. Non si
rendeva conto che io non ubbidivo a lui, ma a voi.
Io ne ero cosciente, e anche voi, ma io mi
rifiutavo di pensarci; voi no. Sapevo anche che
ubbidendo a voi, nello stesso tempo vostro
schiavo e vostro complice, io accorciavo
l'esistenza di mio padre di un respiro, di un
risveglio. Affogai questo rimorso nella zuppa
giallastra. Ma più saggio e soprattutto più
perspicace di mio padre, voi non vi siete illuso;
112
allontanandovi avete sorriso come per dire: «È la
vita, il ragazzo l'imparerà, farà la sua strada e
chissà, forse un giorno mi succederà». E io, io non
ho restituito la zuppa a mio padre, non mi sono
gettato su di voi per strapparvi gli occhi e la
lingua e la vostra vittoria. Sì, avevo paura, ero
vigliacco. E poi la fame mi attanagliava; è su
questo che avevate puntato. E avete vinto.
Allora, imputato, avete da dire qualcosa in
vostra difesa?
Voi vincevate sempre, e a volte, la notte, mi
capitava di pensare che forse eravate voi ad avere
ragione. Per noi non eravate soltanto la frusta o
l'ascia nelle mani dell'assassino. Eravate il
principe che fa il gioco della morte, il suo profeta,
il suo portavoce. Solo voi sapevate interpretare le
ire del carnefice, i silenzi della terra: eravate la
113
guida da seguire; chi vi imitava, viveva; gli altri
marcivano. La vostra verità era l'unica valida,
l'unica possibile, l'unica conforme ai desideri e ai
disegni degli dei.
Colpevole o innocente?
Invece di unirvi alle vittime, di soffrire come noi
e con noi, invece di piangere senza lacrime e di
tremare davanti alle nuvole incandescenti, invece
di morire come noi e con noi, e forse anche per
noi, voi avete scelto di regnare sul mondo delle
tenebre, proclamando a chi voleva ascoltarvi che
la pietà era criminale, la generosità sterile,
insensata, inumana. Un giorno, dopo l'appello, ci
avete tenuto un lungo discorso sulla filosofia
concentrazionaria: ciascuno per sé, ognuno è il
nemico del suo prossimo perché vive a sue spese.
E avete concluso: «Ciò che vi dico è vero e
114
immutabile. Perché sappiate che il Signore è sceso
dal cielo e ha deciso di rendersi visibile: sono io».
Come vi dichiarate?
Il giudice ode i gemiti soffocati dei testimoni
viventi e scomparsi, vede l'imputato picchiare un
vecchio che si era tolto il berretto troppo
lentamente, e un altro perché la sua faccia non gli
piaceva. «Te mi sembri in salute», dice l'imputato,
e gli dà un pugno nello stomaco. «E te mi sembri
malato, sei pallido», e lo prende a schiaffi. Itzik
possiede una camicia pesante: l'imputato gliela
prende. Itzik protesta, e già si torce dal dolore.
Izso aveva ancora le sue vecchie scarpe:
l'imputato le afferra con un sorriso sprezzante:
guardate quest'imbecille, non reagisce neanche,
non merita di vivere.
Allora? Colpevole o innocente?
115
E se tornaste indietro? Cosa siete oggi
paragonato a ciò che eravate ieri? Parliamo del
vostro pentimento, della vostra espiazione. Cosa
dite a vostra moglie quando vi offre il suo
orgoglio, quando vi parla del futuro dei vostri
figli? Cosa vedete negli occhi del passante che vi
dice buongiorno, buonasera e shalom, che
significa «che la pace sia con voi»?
- Allora!? - grida l'autista. - Quante volte vi
devo ripetere che siamo arrivati?
Ci osserva nello specchietto retrovisivo e grida
ancora più forte. La nostra inerzia lo esaspera. Si
volta e ci urla:
«Ma siete sordi!? Non capite l'ebraico?».
Il mio prigioniero finge di non capire nessuna
lingua. Dorme, sogna, trasportato altrove, in un
tempo diverso, a un altro capolinea. Aspetta che
116
io faccia il primo passo, che rompa il cerchio
maledetto che ci separa dal resto degli uomini.
Come un tempo con i suoi padroni, seguirà, ubbidirà.
L'autista s'arrabbia. Questi due fantasmi muti e
immobili vogliono apparentemente passare la
notte nel suo autobus. Si credono all'albergo? Si
alza brontolando: «Ora vi faccio vedere io». Si
dirige verso di noi, l'occhio cattivo. Il mio
prigioniero lo attende senza batter ciglio,
indifferente a ciò che potrebbe accadergli. Io gli
tocco il braccio:
- Venite, andiamocene.
Lui ubbidisce macchinalmente. Una volta sceso,
non si muove e mi aspetta saggiamente sul
marciapiede. Potrebbe scappare nei vicoli oscuri
che portano al mare, ma non lo fa. Gli manca la
117
volontà. Non vuole turbare l'ordine delle cose,
speculare su un avvenire incerto. Soprattutto
nessuna iniziativa, la regola d'oro in campo.
L'autobus riparte. Eccoci soli. Non ho più nulla
da dirgli. Una vaga sensazione di imbarazzo mi
invade, come se avessi appena commesso una
stupidaggine. Di colpo ridivento timido. Ed è con
voce fievole che gli domando:
- Veramente non vi ricordate di me?
Nel buio non distinguo più il suo volto. Non lo
riconosco più. Un dubbio mi afferra: e se non
fosse lui?
- No, - dice dopo un lungo silenzio - non mi
ricordo di voi.
Non riconosco più il suono della sua voce. La
sua, un tempo, era rauca, tagliente. Adesso è
diventata chiara, umana.
118
- E voi? Vi ricordate chi eravate?
- Questo non riguarda che me.
- No. Questo riguarda anche me.
A un tratto mi dico che bisogna finirla, ma
come? Penso che se si metterà a piagnucolare, a
giustificarsi, a implorare il mio perdono, lo farò
arrestare. Lo stesso se continuerà a negare. Cosa
dovrebbe fare perché lo lasci andare? Non lo so.
Tocca a lui saperlo.
Improvvisamente si irrigidisce. So che i suoi
occhi hanno ritrovato la loro freddezza, la loro
durezza.
Sta
per
parlare.
Finalmente.
Difendendosi, sta per far luce su questo mistero a
cui noi resteremo legati per sempre. So che
parlerà senza muovere la linea sottile delle sue
labbra. Finalmente parla. No, grida. No, urla.
Senza preparazione, senza avvertimento. Mi
119
insulta, mi ingiuria. Non in ebraico ma in tedesco.
Non siamo più in Israele, ma da qualche parte
nell'universo dell'odio, in Germania. È il
capoblocco che, le mani dietro la schiena,
«consiglia» a uno dei suoi schiavi di sloggiare al
più presto se non vuole pentirsi di essere nato. Mi
picchierà, mi romperà le ossa, mi farà mordere la
polvere, come minaccia di fare? Nessuno verrà in
mio aiuto: in campo è il più forte e il più brutale
che ha ragione. Mi schiaccerà sotto i suoi piedi,
mi ucciderà? Se lo farà, porterò con me il suo
segreto. Si può dunque morire ad Auschwitz dopo
Auschwitz?
Il capoblocco mi fa un discorso come allora, e io
non sento ciò che mi dice. La sua voce mi
inghiottisce, io mi lascio andare a fondo. Non ho
più paura. Non ho paura di morire e neanche di
120
uccidere.
È un'altra
cosa,
è
peggio:
improvvisamente mi rendo conto della mia
impotenza, della mia sconfitta. So che lo lascerò
libero; ma non saprò mai se per coraggio o per
vigliaccheria. Non saprò mai se, di fronte al
carnefice, mi sono comportato da giudice o da
vittima. Ma avrò la certezza che l'uomo che si
misura con la realtà del male ne esce sempre
battuto e umiliato. Se un giorno incontrerò sulla
mia strada l'Angelo della Morte in persona, non lo
ucciderò, non lo torturerò; al contrario, gli parlerò
educatamente, il più umanamente possibile,
cercherò di capirlo, di indovinare il suo male, a
rischio di contrario.
Il capoblocco urla oscenità e minacce, ma io non
l'ascolto. Lo fìsso un'ultima volta senza riuscire a
distinguerlo nella notte. Le mani in tasca, mi volto
121
e mi metto a camminare, prima lentamente, poi
sempre più velocemente, fino a correre. Mi sta
seguendo?
Mi lasciò andare. Mi concesse la libertà.
122
Barbara
Avrei voluto raccontarvi la storia di una donna
chiamata Barbara, ma non la so. Lei non volle
dirmela; temeva meno il mio giudizio del ricordo
che ne avrei conservato. Anche lei la respingeva,
cercava di cancellarla dalle memorie a rischio di
perdere la sua. Diceva: «Gli uomini, questi
imbecilli, credono di comprare il mio corpo; ma è
la mia memoria che gli vendo».
Come per tutti, il suo passato era fatto di parole
e il suo futuro di immagini. Come tutti, aveva una
storia che non amava, una storia che divideva con
123
innumerevoli sconosciuti, le cui tristi figure e i cui
gesti volgari si susseguivano senza mai
scomparire del tutto, come in un gioco di specchi
in cui la stessa immagine estranea si ripete
all'infinito. Le piaceva mutilarla, truccarla. La
trascinava nel fango, l'ornava di menzogne da
quattro soldi: una storia di similoro. Ma sfigurarla,
non era per lei l'unico modo per non riconoscerla
più?
E poi? Poi farà in modo di procurarsi una sua
propria storia, interamente sua, una storia senza
porcherie che cominci e finisca con lei, una storia
che nessuno ha vissuto e che il Signore ancora
non conosce. Una storia che gli uomini, questi
imbecilli, non conosceranno mai.
Ero ancora molto giovane, così giovane che
d'istinto acceleravo il passo quando, nei miei giri,
124
mi capitava di passare per i vicoli senz'aria e male
illuminati dove, in piedi contro il muro, inquiete,
alcune creature notturne sembravano attendere
eternamente un amico o un nemico, mai lo stesso.
Come se fossero sempre pronte a parare un
attacco alle spalle.
Io mi allontanavo dalla loro strada, le fuggivo.
Mi ispiravano un oscuro timore. Ogni volta che
una di loro mi abbordava a bassa voce,
immergendo il suo sguardo lascivo nei miei occhi,
io abbassavo la testa e arrossivo. Balbettavo:
«No, grazie», conscio del peccato che
commettevo, perché era «Grazie, sì» che avrei
dovuto dire.
Nella Bibbia, kedoshà significa santa e kedeshà
prostituta; le due parole hanno la stessa radice. Io
vedevo in questa affinità un mistero che non
125
poteva che incuriosirmi. Ma generalmente
mancavo di coraggio; e anche di denaro. Resistevo alla tentazione pur rimproverandomelo.
Ma quella notte era differente. Non potendo
dormire, mi alzai e scesi a fare un giro sulle rive
della Senna. Ero depresso. Erano settimane che
vivevo in disparte e affondavo in una tristezza
paralizzante. Le mie letture mi annoiavano, i miei
amici mi irritavano. Inoperoso, camminavo per
giornate intere, affascinato da quella solitudine di
cui non riuscivo a individuare l'origine. Qualcosa
si frapponeva fra la vita e me; la vedevo
allontanarsi e non alzavo il braccio per ricondurla
a me: la lasciavo fuggire. Anche l'abisso che
sfioravo mi sembrava estraneo. L'assurdo era una
parola di moda.
Dopo una lunga camminata arrivai in un
126
giardinetto di me Saint-Denis, vicino alle Halles.
Doveva essere mezzanotte passata. Un vento
caldo soffiava sugli alberi. Sull'angolo quattro
ragazze passeggiavano. Ogni tanto si riunivano
per scambiarsi una battuta o per consultarsi, poi si
separavano di nuovo, in stato di allerta, gli occhi
in agguato. Avevano, per attirare il cliente, un
piano strategico altamente efficace e collaudato.
Sembravano una pattuglia notturna, al fronte, che
cerchi di stabilire un contatto col nemico.
A un tratto apparve un uomo, si piantò davanti a
una di loro, le disse qualche parola; poi scosse la
testa e se ne andò con disinvoltura per scomparire
all'angolo della strada. Era l'ultimo cliente. La
notte avanzava, la città si addormentava. «Ah, che
vita!», sospirò una di loro.
Gli ci volle più di un'ora per accorgersi della
127
mia
presenza.
Con
una
manovra
di
accerchiamento si avvicinarono venendo da
quattro diverse direzioni.
- Vieni, caro? - mi domandò la rossa. Io la fissai
a lungo prima di sentirmi rispondere, la mente
altrove:
- No. Non stasera.
- Perché no? - esclamò la sua compagna, piccola
e grassottella.
- Desidero restare qui.
- Ah, capisco, il birbante preferisce guardare fece la terza.
Tutte scoppiarono a ridere; io non reagii.
Avevano un riso osceno. A vedere aprirsi le loro
bocche, sembrava di veder nascere e allargarsi
una crepa in uno di quei muri del quartiere che
non stanno più in piedi. Fuggire? Non ora. Le loro
128
battute non mi toccavano: io non ero lì, non ero da
nessuna parte.
- Forse aspetti qualcuno? - disse la rossa per
stuzzicarmi.
- Sì. Qualcuno.
- Ti fa aspettare, non è gentile da parte sua.
- Non è gentile - dissi. - E gli piace farsi
attendere. E inoltre a me piace aspettarlo.
- Potremmo tenerti compagnia - propose la
rossa, portavoce del gruppo. - Siamo qui per
questo. Ti faremo uno sconto.
- No. Grazie. Solo, l'aspetto meglio.
- Forse sarebbe contento di trovarci con te, non
credi?
- No, non credo.
- Di' un po', parli per te o anche per lui?
- Per tutti e due. So che ama la solitudine. E il
129
silenzio.
- Allora dicci il suo nome. Forse lo conosciamo.
Sai, ne conosciamo di gente noi, non è vero,
ragazze? Dicci che aspetto ha, se è ricco, se gli
piace divertirsi, quali sono i suoi vizi, le sue
abitudini. Questo ce lo renderà un cliente interessante.
Io alzai le spalle e tacqui. Non avevo più voglia
di continuare un gioco che non aveva senso.
130
- Ma - continuò la rossa - è proprio maleducato!
Noi non vogliamo che il suo bene e lui non si
degna neanche di rispondere! Potresti dirci chi
aspetti: non te lo mangeremo mica.
- Qualcuno - dissi a fior di labbra.
Le fissavo con aria di sfida. Si rimisero a
sghignazzare. Altre volte avrei cercato un posto
dove rintanarmi, purificarmi, punirmi. Non
questa. Mi sentivo calmo, indifferente: non era
con me che se la prendevano.
Improvvisamente la quarta ragazza, quella che
non aveva detto ancora nulla, mi si accostò.
- E se ti dicessi che è me che aspetti? - mi
sussurrò perché le altre non la sentissero.
I capelli le scendevano sulla schiena mezza
scoperta. Mi osservava freddamente, con un'aria
seria e pensosa. Sentivo il suo respiro pesante e
131
amaro. Aveva bevuto. Io scoppiai a ridere. L'idea
si impadronì di me come una fiamma. Ecco ciò
che cercavo da così tanto tempo: una donna. Una
donna spudorata che si venda invece di
concedersi, una donna per la quale essere e avere
siano la stessa cosa, una donna che vada con chi
disprezza. E dire che, nella mia infanzia, intravedevo questo essere sulle cime delle montagne e
nelle profondità del raccoglimento! Le ragazze mi
esaminavano senza capire. Io ridevo e non
riconoscevo il mio riso più della mia voce.
- Allora? - mormorò la ragazza dai capelli
lunghi.
- Vieni, Barbara, lascia perdere - dissero le altre
tirandola per un braccio.
Per loro lo spettacolo era finito.
- Lasciatemi - fece Barbara con voce dura.
132
- Ma sei matta! Non vedi che il piccolo è in
bolletta?
- Lasciatemi.
- Hai battuto la testa!
Le compagne si allontanarono, i loro commenti
si persero nella notte.
- Le vostre amiche hanno ragione - dissi dopo
un momento. - Non ho un soldo.
- Me ne frego - rispose, gelida. - Mi piaci.
133
Mi toccò la spalla e aggiunse con un tono che
voleva essere più dolce, affettuoso:
- Mi piaci ed è ciò che conta. Dimentichiamo il
resto. Vieni con me.
- Dove?
- Da me. Non abito lontano. Staremo meglio.
Vieni.
- No, grazie.
- Hai paura? Sei timido? Allora andiamo a casa
tua.
- Non ho paura e non ho voglia di tornare a casa.
Mi fissò attentamente e aggrottò le sopracciglia:
- Sei ebreo, non è vero?
- Sì - risposi per niente stupito. - Come l'avete
indovinato?
- Il tuo accento, la tua voce, il tuo modo di dire
no.
134
- Sono ebreo e ciò significa che non ho più
paura di niente. La paura non m'interessa più.
Si sedette accanto a me senza smettere di
guardarmi. Nel buio, il suo volto eccessivamente
truccato sembrava terribile. Tutte le umiliazioni
del suo corpo e della sua anima vi si
accumulavano.
- Ti piace fare all'amore? - mi domandò con
tono deciso.
- Dipende.
- E con me? Ti piacerebbe fare all'amore con
me?
- Non so.
- Vuoi provare per saperlo?
- No, grazie.
- Perché no?
Io tacqui: non era me che lei interrogava, non
135
spettava a me rispondere. Mi prese la mano, io mi
svincolai.
- Ti disgusto? È così?
- No, niente affatto. Ho semplicemente caldo.
- Anch'io. E a volte mi disgusto.
Io cercavo qualcosa da dire, ma avevo la testa
vuota.
- Parliamo - dissi.
- Di che cosa?
- Di voi.
- Dammi del tu. Tutti gli uomini lo fanno.
136
Era la prima volta che venivo messo fra gli
uomini.
- Va bene, parliamo di te.
- Cosa vuoi sentirmi dire? - fece con una punta
di rabbia nella voce. - Non mi piace parlare di me.
Gli uomini, quando si spogliano, vogliono sempre
sapere chi sono per potermi meglio insozzare
dopo, con cognizione di causa. Ci tengono a
sapere su chi hanno l'onore e il piacere di sputare.
Io non rispondo. Non la verità. È già abbastanza
sporca cosi la mia verità. Allora invento. Ci
ricamo su. Abbiamo abbastanza immaginazione.
Capisci?
- Capisco - dissi.
Non capivo, non ascoltavo neanche, ma non
bisognava ferirla. Avevo troppo caldo. Tirai fuori
il fazzoletto e mi asciugai la fronte. Lei fece
137
altrettanto.
- Ti secco?
- Per niente.
- Se ti secco, dimmelo.
- Ma no. È il caldo.
- Dov'ero rimasta?
- Mi parlavi della verità.
- Ah si, cosa stavo dicendo? Gli uomini esigono
che gli racconti tutto, assolutamente tutto. Allora
invento una storia incredibile, fatta su misura: da
spezzarti il cuore. Questi imbecilli adorano le
storie, le confessioni. In ciascuno di loro c'è un
prete che vede in ogni donna una puttana infelice,
un'anima da salvare, da consolare, da ricondurre
all'ovile. Ciò permette loro di comportarsi da
generosi, da protettori della vedova e dell'orfano.
È per questo che vengono: non per fare all'amore 138
anche per questo, naturalmente - ma per portarci
la loro compassione e il loro affetto a buon
mercato. «Ah, piccola, hai proprio sofferto nella
tua infanzia, ecco cento franchi in più. È un
regalo, vedi, sono generoso. Ma in cambio,
bambina mia, sarai gentile con me, promesso?
Non ti sbrigherai troppo, promesso?». Allora io
intasco la mancia, dico grazie, signore, tante
grazie, padre, siete buono e dolce, avete un cuore
d'oro, un'anima santa, venite dunque, venite,
sdraiatevi su di me, mi concedo, vi lascio fare,
traete da me tutto il piacere che volete, che potete,
sono una macchina da piacere, non fate
complimenti, ne resterà per tutti, per tutti i preti e
i santi che vi seguiranno. Ecco ciò che dico loro
ridendo, piangendo o percuotendoli, secondo i
loro gusti: alcuni amano le mie lacrime, altri
139
prendono fuoco solo se divento furiosa. Vedi?
Non valgo più di cento franchi.
Si interruppe, si inumidì le labbra e disse:
- E tu? Cosa vuoi?
- Non so.
- Vuoi che ti racconti la verità?
- Se ci tieni. Ma ti avverto, non ho nulla da
offrirti. Mi prese di nuovo la mano con violenza e
questa volta la lasciai fare. Al suo contatto, per la
prima volta in quella serata, non potei fare a meno
di rabbrividire. Avevo ritrovato il mio corpo.
- Mi piaci - proseguì lasciandomi la mano. - Mi
piaci perché sei giovane e perché non hai nulla da
offrire; perché sei ebreo e perché non hai paura. E
anche perché non ti capisco.
Si scostò leggermente come per potermi vedere
meglio:
140
- So cosa pensi. Che sono ubriaca.
- Ti sbagli: non penso a niente.
- Non mi interrompere, ti prego. Non pensi a
niente, ma pensi che sono ubriaca, le due cose non
si escludono a vicenda. Ebbene, è vero. Ho
bevuto. Non molto. Con tre clienti. Tariffa di
lusso. Gli ho proposto di invitare le mie compagne
alla festa, ma loro non hanno voluto: te la caverai
benissimo da sola. Abbiamo bevuto, ci siamo
divertiti. Erano contenti e me l'hanno detto. Se ne
sono andati lasciandomi una bottiglia. Non l'ho
toccata, te lo giuro, insomma, non molto. Non mi
piace bere, non da sola, non così. Mi gira la testa.
Toccala: senti come gira?
Si mise a muovere la testa sempre più in fretta,
da farmi venire le vertigini. Le dissi:
- Effettivamente gira.
141
- Vedi? So ciò che dico. Ho l'aria svagata, ma so
ciò che voglio dire. Se tu non capisci, è perché sei
ebreo: ascolti bene, ma capisci male.
142
Si mise la mano davanti alla bocca come per
scusarsi di aver fatto una gaffe:
- Ti ho offeso? No? Tanto meglio. Comunque ti
chiedo scusa. So che capisci. Mi rimangio tutto:
sei ebreo, quindi devi capire. È te che io non
capisco. Sai, vedendoti seduto su quella panca,
seduto sulla notte - sì, non mi guardare così, ho
detto sulla notte: ci si può sedere, ci si può
sdraiare, ci si può perfino abitare - vedendoti là,
ho subito saputo che eri di quelli che capiscono, di
quelli che io non capirò. Ti piace sentirti dire
questo, non è vero? Sei giovane e i giovani
adorano che gli si dica queste cose. Ebbene, ti farò
piacere e ti dichiarerò solennemente che io non ti
capisco. Allora, sei contento? Del resto è bene che
sia così. Vorrei tanto non capire mai. Mi capita
così raramente. La maggior parte delle volte
143
capisco troppo bene, troppo rapidamente. Che
vuoi, sono pagata per questo. Gli uomini li
conosco, prevedo le loro mosse: «Su, vecchio
mio, fai la tua piccola scena, io so prima di te e
meglio di te dove vuoi arrivare». Bah, credono di
possedermi passandomi sul corpo, riempiendomi
del loro disgusto; in realtà sono io che li possiedo,
perché io non mi lascio imbrogliare, io sono
infallibile, li attraverso con lo sguardo e gli sputo
addosso.
Barbara mi raccontava la sua vita, mentre io
pensavo alla mia, alla nostra esistenza comune,
che un solo gesto, un solo avvenimento rischia di
deformare, di degradare per sempre. Una parola
che si dice o che si dice male, oppure che non si
dice, un treno che si perde, una mano che si
prende o che si respinge, e la vita non è più quella
144
che avrebbe potuto essere. La libertà? Una burla.
Il futuro non è che il prodotto del passato, il quale
è ormai fuori della nostra portata; non siamo più
liberi di modificarlo, diventa una divinità creata
da noi e contro di noi. Ciò che è fatto è fatto, non
si torna indietro, non ci si sceglie di nuovo. Così
un sì o un no, ogni si e ogni no impegnano l'essere
oltre il presente. Ecco il malinteso, ecco
l'ingiustizia fondamentale: accettiamo e rifiutiamo
situazioni che si presenteranno solo in seguito,
quando sarà troppo tardi.
Barbara aveva smesso di parlare già da un po' di
tempo.
145
Io avrei dovuto dire qualcosa. Lei interpretò
male il mio silenzio:
- Tu non dici niente. Mi hai soltanto ascoltato?
- Sì e no.
- Non hai niente da dire?
- No.
- Eppure ti ho appena raccontato la stupida
storia che chiamo la mia vita. Niente domande?
Nessun commento?
- No.
- Bene. Tanto meglio. Adesso ti chiedo un
favore.
- Quale?
- Dimentica la mia storia. Subito. Anch'io la
dimenticherò. Promesso?
- Certo, promesso.
Cercò di baciarmi; io la respinsi dolcemente.
146
- Fa troppo caldo.
Tirò fuori il suo fazzoletto e me lo passò sulla
fronte:
- Adesso vuoi parlare te? Noi sappiamo anche
ascoltare, sai, fa parte del mestiere.
- No, grazie.
- Hai paura che non capisca? È così? Ma è
proprio ciò che desidero! Dimmi qualunque cosa,
purché non capisca! Vorrei tanto non capire una
volta in questa vita di puttana!
Una grande tristezza mi invase. Barbara
avvicinò la sua faccia alla mia, io non
indietreggiai. Posò le labbra sulla mia guancia, io
la lasciai fare. Sapeva di vino. Pensai: «La prima
donna con la quale parlo d'amore è una puttana,
una puttana che ha bevuto e che ama gli ebrei
perché non li capisce». Non mi capivo.
147
- Sei triste. Io so quando un uomo è triste. Vieni
a fare all'amore. È ancora il miglior rimedio
contro la malinconia, te lo dico io. Sai perché è
stata data agli uomini la tristezza? Perché le donne
come me non crepino di fame.
Mi vedevo con gli occhi della mia infanzia e mi
dicevo:
«No, non te ne andrai, non te la caverai».
- Vieni? Non dovrai parlare né ascoltare. Sarai
libero. Mi alzai precipitosamente:
- No, grazie. Non ne ho voglia.
148
Era falso e vero allo stesso tempo. Avevo voglia
di lei e temevo che se ne accorgesse.
- Non vuoi proprio? Non sai quel che perdi.
Una luce grigia lacerava lentamente il cielo. La
città combatteva la sua ultima battaglia contro un
volo di corvi o di avvoltoi che essa spingeva oltre
l'orizzonte. Fra poco avrebbe fatto giorno.
Guardai la donna e le tesi la mano.
- Devo andare - dissi nascondendo il mio
turbamento. - Buona fortuna.
Lei mi prese la mano con esitazione e la richiuse
dentro la sua:
- Arrivederci, mio piccolo ebreo. Dove vai? A
ritrovare la tua donna? La tua amica?
- Non ne ho.
- I tuoi genitori?
- Forse.
149
Dopo un attimo aggiunsi:
- Sono morti.
Lei sorrise:
- Decisamente non ti capisco. Ti ringrazio.
Ciascuno se ne andò dalla sua parte, io a testa
bassa, lei guardando in alto. Dopo pochi passi la
sentii ancora che mi urlava un ultimo messaggio:
- Ho dimenticato una cosa importante. Non avrò
bambini, mi senti? Mai, mai! Questo è importante
come il resto della mia storia!
- La tua storia? Che storia?
Alzai le spalle e ripresi la mia strada nella
foschia del mattino. Una puttana ubriaca, ecco ciò
che è Barbara. Barbara? È questo il suo nome?
Probabilmente no. Marie, Suzanne, Blanche,
Elisabeth, Emma, Marcelle. Ma non Barbara. Ha
preso questo nome per potersi dire: non sono io
150
che batto il marciapiede, è Barbara. A chi ho
parlato dunque?
Durante i mesi seguenti feci in modo di evitare
quel quartiere. Poi una notte sentii il desiderio di
rivederla. Seduto su una panchina, nel piccolo
giardinetto vicino alle Halles, aspettai per ore che
arrivasse. Non c'era più: era stata senza dubbio
ripresa dalla notte, forse dalla propria storia che
nessuno mai conoscerà. Un'altra ragazza occupava
il suo posto. Mi si avvicinò e mi chiese:
- Cerchi qualcuno?
- Sì, qualcuno.
- Chi?
Aspettai un istante prima di rispondere:
- Un profeta.
- Continua a cercare, caro; è lassù, a fare
all'amore!
151
Il testamento di un ebreo di Saragozza
II grande Rebbe Israel Baal Shem Tov ordinò un
giorno al suo fedele cocchiere di attaccare al più
presto i cavalli e di condurlo dall'altra parte della
montagna:
- Sbrigati, mio buon Alexei, ho un
appuntamento. Si fermarono in una foresta. Il
sant'uomo scese, si appoggiò a una quercia, si
raccolse per un istante e risalì in carrozza.
- Andiamo, Alexei, - disse sorridendo possiamo rientrare.
Abituato a non comprendere il comportamento
152
del suo padrone, operatore di miracoli, il
cocchiere ebbe tuttavia l'ardire di stupirsi:
- Ma il vostro appuntamento? L'avete mancato?
Voi che siete sempre puntuale, voi che non
deludete mai nessuno? Siamo venuti per niente?
- Ma no, mio bravo Alexei, non siamo venuti
per niente da cosi lontano. Ho rispettato il mio
appuntamento.
E, come sempre dopo aver tolto un po' di
miseria dal mondo, il volto del Rebbe risplendeva
di felicità.
Secondo la tradizione chassidica non è dato
all'uomo di misurare l'effetto dei suoi atti né il
valore delle sue preghiere, così come non è dato al
viaggiatore di prevedere la meta precisa dei suoi
viaggi: è questo uno dei segreti del concetto di
Tikkùn - restaurazione - che domina l'azione
153
cabbalistica.
Il vagabondo che, per purificare il suo amore o
per disfarsene, percorre la terra, non sa che è
atteso dappertutto.
154
Ciascuno dei suoi incontri, ciascuna delle sue
soste è iscritta, a sua insaputa, da qualche parte ed
egli non è libero di scegliere le strade che vi
conducono.
Le anime morte e dimenticate ritornano quaggiù
a mendicare la loro parte di grazia, di eternità;
hanno bisogno dei vivi per staccarsi dal nulla.
Basterebbe un gesto, una lacrima, una scintilla.
Perché ogni essere partecipa al mistero rinnovato
della creazione; ogni uomo possiede, almeno una
volta nella propria esistenza, il potere assoluto
dello Zaddik, il privilegio irrevocabile del Giusto
di ristabilire l'equilibrio, di riparare la colpa, di
agire sugli assenti. Condannato a superarsi
continuamente, l'uomo giunge a possedere questo
potere senza rendersene conto e capisce il suo
ruolo solo a cose fatte.
155
E ora vi racconterò una storia.
Si svolge in Spagna. Attraversandola per la
prima volta, ebbi la strana sensazione di trovarmi
in un paese conosciuto. Il cielo assolato, la
luminosità tormentata degli sguardi: paesaggi e
volti familiari, già visti.
I fannulloni sulle ramblas a Barcellona, i
passanti e i loro figli nei vicoli di Toledo: come
indovinare chi fra di loro aveva sangue ebraico
nelle vene, chi discendeva dai famosi marranos?
A ogni istante mi aspettavo di vedere uscire da un
portico variopinto uno Shmuel Hanagid, un Ibn
Ezra, un Don Itzchak Abrabanel, un Yehuda
Halevi, questi principi e poeti della leggenda che
avevano costituito e cantato l'età d'oro del
pensiero del mio popolo. Essi visitavano le mie
letture e si introducevano nei miei sogni.
156
Il periodo dell'Inquisizione aveva esercitato
un'attrazione particolare sulla mia immaginazione.
Trovavo affascinanti quei sacerdoti enigmatici
che, in nome dell'Amore e per la santa gloria di un
giovane ebreo di Galilea, avevano torturato e
sottoposto a morte lenta coloro che preferivano il
Padre al Figlio. Le loro vittime le invidiavo. Per
loro la scelta si era posta in termini così semplici:
Dio o il rogo, il rinnegamento o l'esilio.
157
Molti hanno scelto l'esilio, ma non ho mai
condannato i marranos, quegli infelici convertiti
che, clandestinamente e sfidando il pericolo,
restavano fedeli alla fede dei loro padri. Li
ammiravo. Per la loro debolezza, per la loro sfida.
Partire con la comunità sarebbe stato più facile;
rompere i legami più comodo. Decidendo di
mantenersi contemporaneamente su due piani,
vivevano sul filo del rasoio, nell'abnegazione di
ogni istante.
Io non lo sapevo recandomi in Spagna, ma ero
atteso.
Mi trovavo a Saragozza.
Da buon turista coscienzioso esploravo
attentamente la cattedrale, quando un abitante del
luogo mi abbordò e si offrì di farmi da guida.
Perché? Perché no? Amava gli stranieri. Il
158
prezzo? Niente. Non faceva quel lavoro per
denaro. Ma solo per il piacere di far ammirare la
sua città. Me ne parlò con entusiasmo. E con
eloquenza. Passò in rassegna tutto: storia,
architettura, usanze. Poi, davanti a un bicchiere di
vino, spinse la sua amabilità fino a interessarsi
della mia persona: da dove venivo, dove andavo,
se ero sposato e se credevo in Dio. Io risposi:
vengo da lontano, la strada davanti a me sarà
lunga. Elusi le altre domande. Lui non insistè.
- Così viaggiate molto - disse educatamente.
- Sì, molto.
- Troppo, forse?
- Forse.
- Questo cosa vi dà?
- Dei ricordi, degli amici.
- È tutto? Perché non li cercate a casa vostra?
159
- Per il piacere del ritorno, senza dubbio. E
come bagaglio alcune parole che prima non
conoscevo.
- Quali?
- Non saprei rispondervi. Non ancora. Non ho
ancora il bagaglio.
Brindammo. Speravo che cambiasse argomento,
ma tornò alla carica:
160
- A proposito di parole: voi dovete parlare
parecchie lingue, non è vero?
- Troppe - dissi.
Gliele enumerai: jiddish, tedesco, ungherese,
francese, inglese ed ebraico.
- Ebraico? - fece rizzando le orecchie. Hebreo?Esiste?
- Esiste - dissi ridendo.
- Lingua difficile, eh?
- Non per gli ebrei.
- Ah, capisco, scusatemi. Voi siete ebreo.
- Esiste - dissi ridendo.
Convinto di aver fatto una gaffe, cercò il modo
di rimediare. Rifletté un momento prima di
proseguire, imbarazzato:
- L'ebraico come si scrive? Come l'arabo?
- Come l'arabo. Da destra a sinistra.
161
Un'idea gli attraversò la mente, ma esitò a
farmene partecipe. Io lo incoraggiai:
- Ancora domande? Non abbiate scrupoli.
Lui arrossì, ma si decise:
- Posso chiedervi un favore? Un grande favore?
- Certamente - dissi.
- Venite... Venite con me.
Non me l'aspettavo.
- Con voi? - esclamai. - Dove? E a far cosa?
- Venite. Ce la sbrigheremo in pochi minuti.
Forse è importante per me. Vi prego, venite.
C'era una tale insistenza nella sua voce che non
potevo rifiutare. Del resto la curiosità stava
prendendo
il
sopravvento.
Mi ricordai
all'improvviso che anche Saragozza occupa un
posto nella storia ebraica. È qui che nacque e
crebbe il mistico Abraham Abulafia, che aveva
162
pensato di convertire all'ebraismo lo stesso papa
Nicola III. In questa città tutto poteva dunque
capitare.
Seguii la mia guida fino a casa sua. Il suo
appartamento, situato al secondo piano,
comprendeva solo due minuscole stanze arredate
poveramente, ma con gusto. Una lampada a
petrolio illuminava da sotto un ritratto della
Vergine. Un crocifisso le stava di fronte. Lo
spagnolo mi invitò a sedermi:
- Perdonatemi, ne ho per poco.
Scomparve nell'altra stanza e ritornò dopo
qualche minuto. Teneva in mano un pezzo di
pergamena ingiallita che mi porse:
- È ebraico? Guardate.
Io presi la pergamena e l'aprii. Di colpo
l'emozione mi soggiogò, gli occhi mi si
163
annebbiarono. Le mie dita toccavano una reliquia
sacra, il frammento di un testamento redatto
alcuni secoli prima.
- Sì - dissi con voce strozzata. - È ebraico. Non
riuscivo a impedire alla mia mano di tremare. Lui
se ne accorse.
- Leggete - mi ordinò con un tono che non
ammetteva repliche.
Con un considerevole sforzo riuscii a decifrare
quei caratteri che quattrocento anni di tempo
avevano ormai reso indistinti: «Io, Moshé, figlio
di Abraham, costretto a rompere i legami col mio
popolo e con la mia fede, lascio queste righe ai
figli dei miei figli e ai loro figli perché il giorno in
cui Israele potrà nuovamente camminare sotto il
sole a testa alta, senza timore e senza rimorsi,
sappiano dove affondano le loro radici. Fatto a
164
Saragozza, questo nono giorno del mese di Av,
nell'anno del castigo e dell'esilio».
- A voce alta - si spazientì lo spagnolo. Leggete a voce alta.
Io dovetti schiarirmi la voce:
- Sì, è un documento. Un documento molto
antico. Ve lo compro.
- No - fece con tono reciso.
- Ve lo pago bene.
- Non insistete, ho detto di no.
- Mi dispiace.
- Questo oggetto non è in vendita, vi dico! Io
non capivo il suo comportamento:
- Non vi arrabbiate, non avevo l'intenzione di
offendervi. Semplicemente, questa pergamena ha
per me un valore storico e religioso; per me è più
di un souvenir, è un segno, un...
165
- Anche per me! - gridò.
Continuavo a non capire. Perché si era
improvvisamente indurito?
- Anche per voi? In che modo?
Mi spiegò brevemente: era tradizione nella sua
famiglia di trasmettersi questo oggetto di padre in
figlio. Lo consideravano come un amuleto la cui
scomparsa avrebbe portato male.
- Capisco, - mormorai - capisco.
Un cerchio che la storia aveva appena chiuso.
C'erano voluti quattro secoli perché il messaggio
di Moshé figlio di Abraham giungesse a
destinazione. Io dovevo avere una strana
espressione sul volto perché lo spagnolo me ne
domandò la ragione.
- Che succede? - volle sapere. - Voi non dite
niente, mi nascondete i vostri pensieri, mi
166
offendete. Avanti, dite qualcosa! Se non vi vendo
l'amuleto, non per questo avete il diritto di
volermene, non vi pare?
Rosso di indignazione, di inquietudine forse,
assunse improvvisamente un'aria cattiva, infida.
Due pieghe apparvero sul suo volto. Era dunque
lui che mi attendeva qui. Io ero portatore del suo
Tikkùn, della sua restaurazione, e lui non lo
sospettava neanche. Mi domandai come
rivelarglielo. Infine, non trovando niente di
meglio, lo fissai dritto negli occhi e gli dissi:
- Non succede niente, niente di niente. Non ve
ne voglio affatto. Sappiate soltanto questo: voi
siete ebreo. E ripetei subito le ultime parole:
- Sì, siete ebreo. Judio. Voi.
Lui impallidì. La parola gli venne meno. Stava
soffocando, dovette trattenersi per non saltarmi
167
alla gola e buttarmi fuori. Judio è un insulto,
questa parola evoca il diavolo. Offeso, lo
spagnolo stava per infliggermi una punizione per
averlo colpito nel suo onore. Poi alla collera
subentrò lo stupore. Mi guardò come se mi
vedesse per la prima volta, come se appartenessi a
un altro secolo, a una tribù dalla lingua
sconosciuta. Aspettava che gli dicessi che non era
vero, che mi burlavo di lui, ma io rimasi zitto.
Tutto era stato detto. Da tempo. Ciò che sarebbe
seguito sarebbe stato solo commento. Con
difficoltà, il mio ospite riprese il controllo di se
stesso e mi si avvicinò ancora di più.
- Parlate - mi disse.
Lentamente, accentuando ogni sillaba, ogni
parola, io mi misi a leggergli il documento in
ebraico, poi a tradurglielo. Il suo volto si
168
contraeva a ogni frase, come se fossero tante
bruciature.
- È tutto? - mi chiese quando ebbi finito.
- È tutto.
Strizzò gli occhi, aprì la bocca come per
azzannare avidamente l'aria. Per un attimo temetti
che svenisse. Ma si riprese, gettò la testa indietro
come per vedere, sul muro alle mie spalle, il
dolore immobile della Vergine, poi diresse di
nuovo la sua attenzione verso di me.
- No - disse risoluto. - Non è tutto. Continuate.
- Vi ho fatto una traduzione completa della
pergamena. Non ho omesso nessuna parola.
- Continuate, continuate, vi dico. Non fermatevi
a metà, andate avanti, vi ascolto.
Gli ubbidii. Mi rifeci dal passato e gli abbozzai
un quadro della Spagna alla fine del quindicesimo
169
secolo, quando Tomàs de Torquemada, nativo di
Valladolid, grande inquisitore della graziosa
regina Isabella la Cattolica, trasformò il paese in
un gigantesco rogo allo scopo di salvare gli ebrei
bruciandoli, perché la parola di Gesù Cristo fosse
ascoltata e divulgata, amata e accettata. Amen.
Lo spagnolo non tardò ad avere le lacrime agli
occhi. Non conosceva questo capitolo della sua
storia. Non sapeva che gli ebrei erano stati così
intimamente legati alla grandezza del suo paese
prima di esserne cacciati. Per lui gli ebrei
facevano parte della mitologia, ignorava che
esistessero veramente.
- Continuate - mi supplicò. - Continuate, non
fermatevi.
170
Dovetti risalire fino alle origini: il regno di
Giudea, i profeti, le guerre offensive e difensive, il
primo Tempio, la diaspora babilonese, il secondo
Tempio, gli assedi di Gerusalemme e di Massada,
la resistenza armata all'occupazione romana,
l'esilio, e poi la lunga attesa attraverso i secoli,
l'attesa del Messia dolorosamente presente e
dolorosamente assente. Gli raccontai di
Auschwitz, cosi come della rinascita di Israele.
Gli narrai tutto ciò che conteneva la mia memoria.
E lui mi ascoltava senza interrompermi, se non
per dire: «Ancora, ancora». Poi mi fermai. Non
avevo nient'altro da aggiungere. Come sempre
quando parlo troppo, mi sentii a disagio,
improvvisamente importuno. Mi alzai:
- Adesso devo andare, sono in ritardo.
La macchina doveva aspettarmi sulla piazza
171
della cattedrale. Lo spagnolo mi ci accompagnò, a
testa bassa, attento ai propri passi. La piazza era
deserta: nessuna macchina in vista. Io rassicurai la
mia guida: non c'era ragione di preoccuparsi, non
sarebbe partita senza di me.
Facemmo il giro dell'edificio una volta, due
volte, e la mia guida, ritornato alle sue funzioni,
mi fornì spiegazioni supplementari sulla cattedrale
di Nuestra Senora del Pilar. Poi, sotto l'effetto
della fatica, ci ritrovammo dentro, seduti su una
panca, e lì, in quella tranquilla penombra in cui
niente sembrava più esistere, mi pregò di leggergli
un'ultima volta il testamento che un ebreo di
Saragozza aveva scritto tanto tempo fa pensando a
lui.
Qualche anno dopo, di passaggio a
Gerusalemme, stavo andando alla Knesset dove si
172
svolgeva una seduta parlamentare particolarmente
tempestosa dedicata alla politica di Israele nei
confronti della Germania. All'angolo di via King
George un passante mi abbordò:
- Aspettate un attimo.
Il suo modo di fare non mi piacque. Non lo
conoscevo. E non avevo né il tempo né la voglia
di fare la sua conoscenza.
- Scusatemi, - dissi - ma vado di fretta. Lui mi si
attaccò al braccio.
173
- Non andatevene - disse con tono imperioso. Non ancora. Vi devo parlare.
Parlava un ebraico incerto. Doveva trattarsi
senza dubbio di un turista o di un immigrato
recentemente arrivato. Un pazzo forse, un
visionario o un mendicante: non ne mancano nella
città eterna. Io cercai di liberarmi, ma lui non
mollò la presa:
- Devo domandarvi una cosa.
- Domandate, ma fate presto.
- Vi ricordate di me?
Non volendo arrivare in ritardo, mi affrettai a
rispondere che si stava sicuramente sbagliando e
che mi confondeva con qualcun altro.
Mi spinse indietro con un gesto violento:
- Non vi vergognate?
- Per niente. Che volete, la mia memoria non è
174
infallibile. E a quanto pare, neanche la vostra.
Stavo per andarmene, quando l'uomo mi
sussurrò una sola parola: «Saragozza».
Rimasi inchiodato al suolo, incredulo, incapace
di pensare, incapace di muovermi. Lui qui? Di
fronte a me, con me? Mi trovavo
improvvisamente in un mondo in cui l'allucinazione sembrava la regola. Assistevo, come
dall'esterno, all'incontro di due città, di due
epoche fuori dal tempo e, per convincermi che
non stessi sognando, ripetei per dieci volte la
stessa parola: «Saragozza, Saragozza».
- Venite - mi disse l'uomo. - Ho qualcosa da
farvi vedere.
Quel pomeriggio non pensai più alla Knesset né
al dibattito che per molto tempo sarebbe pesato
sulla coscienza politica del paese. Seguii lo
175
spagnolo a casa sua. Anche qui occupava un
modesto appartamento di due stanze. Ma non c'era
nulla sui muri.
- Aspettate - mi disse.
Mi lasciai cadere in una poltrona mentre lui
andava nell'altra stanza. Riapparve subito dopo
con in mano una cornice contenente un pezzo di
pergamena ingiallita.
- Vedete, - mi disse - ho imparato a leggere.
176
Restammo insieme per tutto il pomeriggio.
Bevemmo del vino, chiacchierammo. Lui mi parlò
dei suoi amici, del suo lavoro, delle sue prime
impressioni del paese. Io gli parlai dei miei
viaggi, delle mie scoperte. Gli dissi:
- Mi vergogno di aver dimenticato.
Un sorriso indulgente gli illuminò la faccia:
- Forse avete bisogno anche voi di un amuleto
come il mio; vi impedirà di dimenticare.
- Ve lo compro.
- Impossibile, perché siete voi che me l'avete
dato.
Mi alzai per prender congedo. Fu soltanto al
momento di lasciarci che il mio ospite,
stringendomi la mano, mi disse con aria divertita:
- A proposito, non vi ho ancora detto il mio
nome. Aspettò qualche secondo per accentuare
177
l'effetto, mentre una luce calda e vivace animava
il suo sguardo:
- Mi chiamo Moshé ben Abraham, Moshé figlio
di Abraham.
178
Moshé il pazzo
Di tutti i volti che ossessionarono la mia
infanzia quello di Moshé il pazzo resta il più vivo
nella mia memoria. Come se io fossi per lui
l'unico legame con la realtà ed egli lo fosse per
me.
Con gli anni avrò dimenticato certi miei
compagni di giochi e la maggior parte degli amici
conosciuti prima e durante la guerra. Non lui.
Come se fossimo prigionieri l'uno dell'altro.
Dovunque vada, lui mi precede. A volte non so
più quale dei due segua l'altro.
179
Eppure so che è morto da tanto tempo; in realtà,
la sua morte coincise con quella della mia
infanzia. Ma lui si rifiuta di ammetterlo. Sembra
abusare dei suoi privilegi di fuoco e di morte per
negare i fatti.
I fatti sono irrefutabili: condannato doppiamente
in quanto ebreo e malato mentale senza mezzi di
sussistenza, faceva parte del primo convoglio che
lasciò il ghetto. Prima sosta: la vecchia sinagoga.
Moshé ne approfitta per officiare il servizio.
Rideva. Era il più grande giorno della sua vita:
mai avrebbe potuto immaginare che avrebbe
pregato in quel luogo illustre, davanti a
un'assemblea di tremila persone. Seconda sosta: la
stazione. Moshé cantava e ballava, forse per ridare
coraggio agli altri, forse semplicemente perché era
la prima volta che prendeva il treno. Terza e
180
ultima sosta: il marciapiede di un'altra piccola
stazione sperduta, da dove non si ripartiva più.
Marciando in testa al corteo silenzioso, Moshé
continuava a cantare, sempre più forte, fino alla
fine, come per farsi beffe di un nemico che solo
lui conosceva.
Quel nemico non è riuscito a far tacere quella
sua voce grave e inquietante. Essa percorre il
mondo, è pericoloso ascoltarla quanto non
ascoltarla. Spesso, la notte, mi strappa dal sonno.
Allora ritrovo la paura del bambino che ha paura
di dormire solo. Sento la sua presenza nella
camera, nell'angolo accanto allo specchio o
davanti alla finestra che dà sul fiume.
Rannicchiato nel letto, rimango sveglio fino al
mattino; aspetto per osare di muovermi che mi
giungano i primi rumori della città.
181
Un tempo mi avvicinavo a lui senza timore.
Veniva spesso a casa mia. Mio padre era suo
amico, suo confidente. Mi avevano avvertito: «Sii
gentile con lui, è pazzo!». Io ignoravo il
significato di questa parola. Lui stesso mi diceva:
«Guardami bene in faccia, sono pazzo». Io lo
guardavo senza capire. Alla gente che incontrava
dieci volte nella stessa giornata si presentava
sempre nello stesso modo: «Voi non mi
conoscete, sono Moshé il pazzo». «Lo sappiamo,
lo sappiamo», gli rispondevano scansandolo. «No,
non abbastanza, non lo saprete mai abbastanza».
Mi affascinava. La gente lo considerava con
pietà, ma lui la dominava. Era dappertutto il
centro, l'oracolo; si muoveva in un universo a
parte, in un tempo a parte, e non dipendeva che da
lui che noi vi fossimo inseriti. Indovinavamo in
182
lui una forza capace di distruggerci.
La torbida fissità del suo sguardo gli dava
un'aria beffarda, cattiva; con me, tuttavia, si
mostrava buono, affettuoso. Io interrompevo
volentieri le mie letture per andare ad ascoltare i
suoi canti strazianti. Mi raccontava anche delle
strane storie senza rivelarmene la conclusione.
Diceva: «Solo l'inizio mi interessa; della fine me
ne infischio, la conosco già». «E l'inizio?», gli
domandai. «Conosco anche quello, ma cerco di
cambiarlo».
Interrompere lo studio del Talmud non era più
un peccato se era per passare un'ora con lui. Ne
sapeva più lui dei saggi e dei loro discepoli di
duemila anni fa. Vedeva più lontano; i suoi silenzi
racchiudevano una verità più segreta. Forse vi
intravedeva il primo pazzo creato da Dio e al
183
quale doveva assomigliare. Ne derivava una
visione più che delle conoscenze, un'ispirazione
più che delle affermazioni. Fu lui il primo a farmi
capire che potevo - che dovevo - pensare a me
come a un estraneo; e che questo estraneo io
dovevo - potevo - ucciderlo, a costo di lasciarmi
annientare da lui.
Piuttosto che rifiutare la sua follia, egli la
invocava. Gli serviva da rifugio, da patria, e
quando mi capita di visitare un manicomio ritrovo
davanti a ogni malato quel terrore pieno di
ammirazione che Moshé il pazzo mi ispirava. È
lui il profeta che mi strizza l'occhio. È ancora lui
il perseguitato che mi respinge. La giovane donna
che culla beatamente un bambino invisibile: è lui
che essa cerca di calmare. Hanno tutti il suo
sguardo.
184
Mi capita anche di incontrarlo per la strada. E di
sfiorarlo al ristorante, a teatro, di averlo come
vicino in aeroplano. A volte mi dico che
l'universo non è abitato che da un solo essere, che
tutti i volti si fondono in un uno solo. Allora la
ragazza con la quale passeggio mi sembra stupida;
le parole di cui mi riempio suonano a vuoto; le
amicizie si fanno ingombranti. Ho voglia di
fuggire, ma Moshé il pazzo controlla le uscite.
Armato di non so quale potere, egli ordina e io
ubbidisco: la mia vita contro la sua. Per sfuggirgli
dovrei eliminarlo. Ma come assassinare un angelo
diventato pazzo?
Un giorno credetti di aver trovato la soluzione:
lo imprigionai in un romanzo. Con un tetto sopra
la testa, un indirizzo, una casa, circondato da
persone che gli dimostravano affetto, speravo che
185
mi avrebbe finalmente lasciato in pace. Fu solo
dopo, finito il lavoro, che mi resi conto dello
scherzo che mi aveva fatto: a mia insaputa, si era
introdotto, come un ladro, negli altri personaggi,
senza distinzione d'età, sesso o religione. Di volta
in volta diceva io, tu, egli. Due esseri si
parlavano: lui era entrambi contemporaneamente.
Essi si tormentavano: lui era la causa e
l'espressione della loro sofferenza. Sconvolto,
rilessi i miei racconti precedenti: vi regnava da
padrone. Anche qui mi aveva preceduto. E, cosa
ancora più grave, si era concesso lo stato di
residente temporaneo, entrando e uscendo a suo
piacimento. Appena scoperto, già filava, più
selvaggio che mai, verso nuove avventure dove
mi trascinava di forza.
A volte penso che io stesso non sia che un
186
errore, un malinteso: credo di vivere la mia vita
mentre in realtà non faccio che tradurre la sua.
Una mattina un lettore mi telefonò per
chiedermi un colloquio. Parlava jiddish, e il suo
accento strascicato e melodioso tradiva le sue
origini ungheresi. Fui colpito da quella voce che
mi sembrava familiare.
- Con chi ho il piacere di parlare? - mi informai
educatamente.
Se si vergognava del suo nome, non si dette la
pena di inventarsene uno. In compenso conosceva
l'arte di perdersi in banalità:
- Il mio nome? Perché me lo chiedete? Non lo
conoscete. Inoltre, non ha importanza. Un nome
cosa significa? Una convenzione, un'illusione.
Cosa c'è di più menzognero di un nome? Vedete,
il Signore non ne ha.
187
- Lui se lo può permettere - dissi fra il divertito e
l'irritato. - Non si rischia di confonderlo con un
altro.
- Voi non ne sapete niente. Del resto, chi vi dice
che questo non si potrebbe applicare anche a me?
Dopo tutto, sono fatto a sua immagine, no?
Ho già sentito questa voce aspra, inquieta,
inquietante: dove? Quando? In quali circostanze?
Forse è quella di un compagno dimenticato? Di un
amico risuscitato? Di un vecchio vicino che aveva
qualche debito nei miei confronti?
- Ma io vi conosco?
- Mi stupite: si può mai conoscere veramente
qualcuno?
Persi la pazienza. La stupidità, generalmente la
sopporto; non i luoghi comuni.
- Non perdiamo tempo, signore. Cosa desiderate
188
esattamente?
- Ve l'ho detto: incontrarvi.
- A che scopo?
- Oh, niente di particolare. Vorrei vedervi,
parlarvi, capirvi.
- Mi stupite - replicai. - Si può mai capire
veramente qualcuno?
- Vi rifiutate? Non ne avete il diritto.
Si degnò di spiegarsi: era ciò che si chiama un
ammiratore. Sosteneva di aver letto alcune opere
da me firmate. Voleva discuterne alcuni aspetti
che lo toccavano personalmente.
Non mi piace giocare al saggio in
comunicazione diretta con l'aldilà. Non abito al
castello, il principe non mi fa le sue confidenze.
Non capisco mai perché certi uomini arrivino fino
a sacrificare il loro prossimo per conquistare
189
gloria o felicità, quando alla fine è la notte che li
attende. Come non capisco coloro che godono
della propria disperazione, quando ogni istante
nasconde la sua gioia, la sua scintilla di eternità.
Ammiro il credente che osa proclamare che la vita
è bella o atroce, e il non credente che pretende di
governare l'uomo e la storia, da destra, da sinistra,
verso il futuro, come se sapesse ciò che bisogna
fare e quale lotta intraprendere: io non lo so. Ecco
un essere che guarda la gente passare per la
strada, i bambini che dormicchiano, troppo timido
per avvicinarsi o per voltarsi; ecco un uomo che si
cerca, e mi dico che le parole non sono che parole,
che hanno l'impronta della nostra inettitudine più
che della nostra sincerità. Non c'è alcun nesso? In
realtà è proprio qui il problema. Secondo il Rebbe
di Kotzk, fra le cose da dire ci sono quelle che si
190
possono dire e quelle che è meglio tacere; ma esse
non valgono quelle che non si possono dire.
- Allora vi rifiutate? - insistè il mio lettore. Non volete incontrarmi, solo perché il mio nome
non vi direbbe niente?
Ho già sentito questa voce, questo accento.
- Concedetemi un'ora. Devo assolutamente
vedervi. Si tratta della vostra città. Credo di
riconoscerla.
Non mi ero sbagliato. Veniva da un villaggio
della mia regione. Si ricordava della mia città
natale che aveva visitato parecchie volte all'anno.
Si ricordava anche di Moshé il pazzo che in due
occasioni funse da cantore per le grandi feste
nell'unica sinagoga del suo villaggio. Io trasalii:
Moshé il pazzo? Ma allora tutto cambiava.
- Davvero? - esclamai eccitato. - L'avete
191
conosciuto? Quando? Com'era, di che umore era?
Gli avete parlato? Cosa vi ha detto? Quando
l'avete visto per l'ultima volta?
- Mi fate troppe domande. Non sono cose di cui
parlare al telefono. È su di lui che volevo
interrogarvi. Ma il vostro tempo è prezioso.
Peccato. Mi dispiace.
- Aspettate! Non ho detto questo!
- Mi è sembrato di capire che...
- Dimenticate ciò che vi ho detto.
Adesso ero io a insistere per fissare un
appuntamento. Quando? Prima possibile. Subito?
Non poteva liberarsi. Nel pomeriggio? Troppo
occupato. La sera? Già impegnato. Faceva il
difficile: non poteva vedermi che la settimana
seguente. Io protestai, lui si lasciò convincere: per
farmi piacere si sarebbe reso libero per il giorno
192
dopo. Dopo il suo lavoro, alle sette. Lo invitai a
venire a casa mia. Troppo lontano: abitava a
Brooklyn. In mancanza di meglio ci demmo
appuntamento alla grande biblioteca comunale
della 42a Strada. All'entrata. Saremmo andati a
cena e avremmo passato la serata insieme.
D'accordo? D'accordo. Per ogni evenienza, volevo
dirgli com'ero fatto. Rispose che era inutile.
Riattaccò ridendo, e il suo riso, ancora più della
sua voce, mi sembrò familiare.
Così, in questa città di pietra, un'altra persona
aveva mantenuto viva l'immagine di questo
cantore che faceva il pazzo sovrano, poi il pazzo
decaduto, per provocare il cielo e divertire i
bambini.
Chi poteva essere? Un vecchio che ritornava sui
propri passi un'ultima volta prima di maledirsi?
193
Suo figlio in cerca di passato, di ferite? Un orfano
che voleva capire? Domani lo avrei saputo. Per il
momento mi sarebbe bastata l'attesa. Mi sentivo
già meno solo: la mia memoria stava per smettere
di servirmi da prigione racchiudente altre prigioni
sempre più anguste, sempre più soffocanti. Le
porte stavano per aprirsi dal di fuori. Avrei
finalmente avuto conferma che Moshé il pazzo era
veramente esistito, che aveva avuto una sua
propria vita, che non aveva fatto che forzare la
mia immaginazione.
Di questa prova tangibile, di questa
testimonianza, ne avevo grandemente bisogno.
Perché a forza di seguire il suo richiamo, di
sentire il suo respiro, ero arrivato a dubitare della
sua esistenza: la credevo il riflesso se non il
prolungamento della mia. Mi accompagnava così
194
spesso e così lontano che finivo per confondere i
nostri destini, i nostri slanci; cantavo come lui,
pregavo come lui, come lui amavo scandagliare i
silenzi degli altri, opporgli i miei. Ero lui.
Pertanto, era con un sentimento prossimo alla
gratitudine che pensavo al mio amico sconosciuto
di Brooklyn: grazie a lui sarei tornato me stesso.
Purché non gli capitasse nulla, non morisse prima,
non perdesse la memoria...
D'umore allegro mi recai nel mio ufficio alle
Nazioni Unite. Convocato d'urgenza, il Consiglio
di Sicurezza, incaricato di assicurare la pace e la
stabilità nel mondo, esaminava la situazione
esplosiva nel Congo. Scenario grandioso, pieno di
colore, ma la rappresentazione lasciava a
desiderare: azione lenta, testo debole, personaggi
anemici. Niente suspense, niente tensione, niente
195
d'avvincente. Parlavano del destino dei popoli
come se facessero quattro chiacchiere. Come
impiegati che si raccontino gli ultimi pettegolezzi.
Gli attori recitavano senza convinzione. Ognuno
aveva già recitato più di una volta sia la propria
parte che quella del vicino: conoscevano già le
battute. Tutto ciò che potevano dire era già stato
detto in una delle numerose crisi precedenti:
Cuba, Cipro, Suez. I monologhi non variavano.
Sembrava di sentire lo stesso discorso in tutte le
lingue. Gli onorevoli delegati si lanciavano le
stesse accuse, le respingevano nello stesso modo e
invocavano gli stessi dei della pace, della libertà e
del sacro diritto dei popoli a disporre di se stessi. I
giornalisti scrivevano, gli osservatori di ogni tipo
osservavano e i bravi turisti, nella galleria
riservata al pubblico, non avendo capito nulla, se
196
ne sarebbero andati ancora più convinti di aver
visto la Storia all'opera.
Un collega mi domandò:
197
- Che ne pensi?
- Vietato pensare in questo luogo, se non altro
per pura educazione...
- Credi che gli altri reagiranno? Abbassò la
voce:
- Credi che gli americani abbiano esagerato?
Che, presi nell'ingranaggio, abbiano superato il
livello di guardia?
Capivo la sua angoscia, la condividevo. Avrei
voluto poterlo rassicurare, dirgli: «Ma no, non ci
sarà la guerra, non ci sarà più la guerra; non sono
tutti pazzi i grandi di questo mondo». Ma il
ricordo del mio pazzo mi attraversò la mente e
non ebbi più voglia di parlare. Moshé il pazzo,
Moshé il cantore. Morto ad Auschwitz. È ad
Auschwitz che era nata la prossima guerra, è là
che era stato ucciso l'avvenire dell'uomo.
198
- Cosa scriverai nel tuo telex di stasera? Dovevo
preparare un lungo articolo sul dibattito in corso,
ma non riuscivo a interessarmene. Non c'era nulla
in comune fra l'indignazione dei diplomatici e i
gemiti di agonia degli uomini che, nell'odio, per
degli slogan, si uccidevano in Asia, in Africa, in
Medio Oriente.
- Oh, - dissi - il mio telex partirà in tempo.
Troverò pure qualcosa. Una preghiera forse.
- E domani?
- Non ci sarà un domani: sarò messo alla porta.
Il dibattito continuò fino alla fine del
pomeriggio. Poi, per mancanza di oratori, la
seduta fu aggiornata: gli illustri rappresentanti
delle grandi e piccole potenze avevano fame. La
pace del mondo poteva aspettare.
A prezzo di uno sforzo considerevole scrissi il
199
mio resoconto. E siccome non ci tenevo a perdere
il posto, omisi la preghiera.
Fu
mentre
ritornavo
a
casa
che,
improvvisamente, un certo malessere mi invase: e
se l'ebreo ungherese di Broo-klyn non fosse stato
uno sconosciuto? Dovetti fermarmi in mezzo di
strada e appoggiarmi al muro di un grattacielo.
Ripensai al nostro colloquio che mi sembrò più
strano di quanto mi fosse sembrato la mattina:
perché si era rifiutato di dirmi il suo nome e di
venire a casa mia? Perché aveva aspettato l'ultimo
momento per fare il nome del cantore? E che cosa
lo aveva fatto ridere? Ebbi coscienza di un oscuro
pericolo. Se non era uno sconosciuto, chi era?
Cosa voleva da me?
Mi scrollai e mi rimisi a camminare. Si faceva
tardi ed ero sfinito. Costeggiai il fiume: non c'era
200
anima viva. Eppure mi fermavo a ogni angolo per
voltarmi: mi stavano seguendo? Trattenni il
respiro: niente. I nervi, senza dubbio. Arriva una
macchina, i suoi fari mi accecano, indietreggio. È
passata. Chi la guidava? Non pensare a niente.
Finalmente a casa. Il portiere mi apre la porta e mi
guarda di traverso. Mi crede ubriaco, mi crede
accompagnato. Salgo al ventiquattresimo piano.
La mia camera. Ho paura ad accendere la luce. A
tentoni vado verso il letto, mi spoglio al buio. Mi
sento osservato. Dormire. Rifugiarsi nel sonno.
Mille mani si tendono verso di me e mi invitano:
io ho paura, ma lascio che mi prendano, voglio
arrendermi a quella voce, capire perché mi
suonava così familiare; ho paura, ma voglio capire
perché ho paura fino nel sonno.
Un'ora prima dell'appuntamento mi appostai
201
davanti all'entrata della biblioteca. I grandi
magazzini riversavano i loro clienti nella strada.
Pedoni e automobilisti ingaggiavano la loro
battaglia quotidiana per la disperazione dei vigili
urbani. Ingorghi a non finire. Il caldo dava ai
passanti un'aria rassegnata, spenta. Uomini e
donne, giovani e vecchi si tenevano per mano. Gli
uni per abitudine, gli altri per non perdersi. La
folla cresceva a vista d'occhio. Appena fatto un
passo, si doveva subito fermare. Si aveva
l'impressione che mai quella massa amorfa si
sarebbe allontanata da quel posto.
Immobile, in disparte, scrutavo quei volti sudati:
avrei riconosciuto colui che aspettavo? Nello
stesso tempo, speravo di non incontrare nessun
altro. Ovviamente, accadde subito. O quasi. Una
ragazza apparve in cima alle scale dell'immenso
202
edificio. Studentessa, mi veniva a trovare tutte le
volte che attraversava una «crisi». Cosa che le
capitava spesso. Mi piaceva, ma non mi offriva
l'occasione di dirglielo: solo i cosiddetti problemi
spirituali le interessavano. Io la invitavo a cena o
al concerto: lei preferiva parlare, parlare. Io
lodavo la sua bellezza, lei rispondeva «Grazie!».
E già cambiava argomento, voleva sapere che
spazio restasse all'azione individuale nella storia
del nostro tempo, o come un ebreo potesse, in un
secolo sanguinario, vivere da ebreo, pienamente,
senza ferire gli altri né umiliare se stesso, o ancora
se fosse possibile per un creatore assumere la
propria condizione in un ambiente che non gli
fosse ostile. Io la stuzzicavo: «E all'amore non ci
pensate mai?». No, non ci pensava mai. La
trovavo piena di attrattive quanto di complessi:
203
tanto affascinante quanto nevrastenica. Ma mi
piaceva.
Ed eccola lì che, con passo leggero, si mise a
scendere le scale, dritta su di me, nel momento
meno opportuno. Fuggire? La folla mi avrebbe
respinto. E poi avrei rischiato di mancare
all'appuntamento. Decisi dunque di restare. Pregai
che avvenisse un miracolo. Contro ogni
previsione, la mia preghiera venne esaudita. La
ragazza, fingendo di non avermi visto, corse
incontro a un ragazzo che si trovava a qualche
passo da me. Dal modo in cui si baciarono capii
che con lui non si limitava a discutere
dell'immortalità dell'anima.
Alle sette in punto un uomo mi si avvicinò e mi
fissò. Non mi aveva riconosciuto: sono cambiato
da quando ho lasciato la mia città. Ma io l'ho
204
riconosciuto. Gli occhi ardenti, le labbra gonfie, le
spalle curve. Il resto importava poco. L'apparenza
non contava. Un tempo andava vestito solo di
stracci. Adesso sembrava elegante nel suo vestito
grigio chiaro, con la sua cravatta intonata. Un
tempo giocava al mendicante; adesso giocava al
ricco.
- Moshé - mormorai con voce strozzata. Mi tese
la mano:
- Buongiorno. Piacere di fare la vostra
conoscenza. State bene?
La sua voce grave e melodiosa. I movimenti
esitanti. Lo
205
sguardo fosco, supplichevole e beffardo allo
stesso tempo.
- Non tanto bene, Moshé, non tanto bene. Non
credevo ai miei occhi. La testa mi scoppiava. Lui
teneva la mia mano nella sua e io non avevo la
forza di ritirarla. Mi dissi: «Bisogna riflettere, e
alla svelta». Ma non osai riflettere. Chissà dove
mi avrebbe portato il mio pensiero. Se Moshé il
pazzo era vivo, allora tutti gli scomparsi, perduti
nella nebbia, erano vivi; nel regno della notte era
accaduto qualcosa che noi ancora ignoravamo,
qualcosa di ben diverso da ciò che credevamo.
Mi lasciò la mano e mi fissò curiosamente,
come per mettermi alla prova:
- Mi avete chiamato Moshé: perché?
- Oh, non lo so. Per inavvertenza, per abitudine.
È un nome che amo, contiene la storia del nostro
206
popolo. Il primo ebreo a chiamarsi così fu il primo
sopravvissuto alla morte organizzata: MosèMoshé. Noi abbiamo ricevuto in eredità non
soltanto la sua Legge ma anche il suo nome. E ciò
che ne consegue.
Era lui, il mio amico, il cantore pazzo, che mi
fissava, non c'era dubbio. L'ho visto andarsene
verso la morte ed è ancora la migliore prova che
sia rimasto vivo: tutti coloro che sono entrati, di
notte, nel crogiolo della morte, ne sono emersi, di
giorno, più sani e più puri degli altri che non li
avevano seguiti.
Improvvisamente capii perché mi aveva
ossessionato dopo la liberazione: lo vedevo
dappertutto perché si trovava dappertutto, in ogni
occhio, in ogni specchio. I morti sono tornati sulla
terra, tutti simili a lui; lui era il primo anello di
207
questa dinastia di pazzi, era il destino fatto
persona.
Non aveva più la sua grande pancia né la sua
barba selvatica. Non portava più il suo scialle
rituale, il suo tallèth katàn, sotto la giacca
rattoppata. Ma era lo stesso Moshé che gridava
nella strada, davanti alla sinagoga, all'ora della
preghiera: «Brucio, ragazzi, brucio come il fuoco!
Guardate, ragazzi, guardate, e sappiate che tutti
possono bruciare senza consumarsi!». Lo
credevano ubriaco. Gli piaceva bere. Durante le
feste, si recava dai vari gruppi chassidici
interrompendo le loro riunioni, saltava sulla tavola
e vuotava d'un colpo le bottiglie che gli
porgevano. Era il re buffone, il profeta folle che si
poteva permettere tutto. Più beveva e più le sue
parole diventavano chiaroveggenti. Gridava: «Eh
208
sì, brucio, ragazzi, guardate e capite finalmente
che è col fuoco che si accende il fuoco, ed è col
fuoco che lo si spenge: guai a chi lo spenge, guai
a chi se ne allontana! Guardate, ragazzi, guardate
e vedete come mi ci precipito a testa bassa!».
- Andiamo a prendere qualcosa - suggerì il miocom-pagno.
- Perfetto. Andiamo a mangiare. E a bere.
Dobbiamo. Come una volta.
Trovammo un ristorante cashèr nella 46° Strada.
Il cameriere mise una bottiglia di slivovitz sul
tavolo. Brindammo. Io dissi:
- Moshé il pazzo beveva da solo. Io avrei dovuto
tenergli compagnia, ma ero troppo giovane. Mi
domando se adesso è troppo tardi..
Riempii i bicchieri una seconda volta. Una terza.
Vuotavo i miei d'un colpo; lui beveva lentamente.
209
Pensai: «È comunque cambiato. Un tempo si
mostrava impaziente, avrebbe voluto precedere il
tempo. Era forse già arrivato alla fine della
corsa?».
- Ho letto ciò che avete scritto su Moshé il
pazzo - mi disse abbozzando una smorfia. Sembra che lo conosciate meglio di me.
- Meglio di voi? Forse in modo diverso da voi.
- No. Meglio di me. La prova: voi ne parlate,
anima i vostri racconti. È per questo che ci tenevo
a conoscervi. Cosa sapete di lui, delle sue radici,
delle sue ambizioni, dei suoi progetti segreti?
Siete sicuro che era come lo descrivete? Che non
si serviva della sua follia per raggiungere uno
scopo che lui solo conosceva? E poi, siete certo
che fu ucciso ad Auschwitz?
Io avrei voluto interromperlo, dirgli: «Mi avete
210
capito male, mi sono espresso male, ho scritto
male e voi mi avete letto male. Adesso so la
verità, e la verità è che Moshé il pazzo non è
morto e non morirà mai, così come la sua
immaginazione non si spengerà mai». Ma non
dissi nulla e lasciai che le sue frasi mi piovessero
addosso come un castigo giusto e meritato. Alla
fine, non potendone più, esclamai:
- Cosa volete da me? Che vi ho fatto? Chi vi dà
il diritto di giudicarmi, di incriminarmi? Moshé il
pazzo? Lui non condannava nessuno; voi sì. In
nome di che cosa? In nome di chi?
Mise il braccio sul mio per calmarmi:
- Ve la state prendendo, ma non vogliatemene.
Vi ho irritato, vi chiedo scusa.
Pensai: «Eh sì, è cambiato. Moshé il pazzo non
ha mai chiesto scusa a nessuno, neanche a Dio,
211
soprattutto non a Dio».
Bevve un sorso e continuò su un tono un po' più
basso:
- Ero così curioso che mi sono approfittato della
vostra gentilezza, capite?
- Non ne parliamo più. Beviamo. Il modo
migliore di ricordare il cantore è bevendo.
Per farsi perdonare mandò giù il contenuto del
suo bicchiere e poi, dopo una esitazione, continuò:
- Un'ultima domanda. Forse vi ferirà. Voi
parlate di lui con amore. Sempre. Voi parlate di
lui come io di mio padre. Questo perché?
Volle raccontarmi la sua vita, le sue esperienze
di prima, durante e dopo la guerra. Io non ci
tenevo per niente a saperle. Mi imbrogliavo, mi
arrabbiavo, i pensieri mi si aggrovigliavano, mi ci
perdevo.
212
- Torniamo piuttosto alla vostra domanda.
Perché lo ricordo con amore? Perché nessuno lo
fa. Perché non era né padre né figlio di nessuno.
Senza famiglia, senza legami, senza lavoro: un
uomo libero. Nulla lo tentava o lo spaventava.
Volubile, solitario, faceva della sua follia una
gioia contagiosa e della sua solitudine un bene
pubblico. Guida, mostrava la via. Visionario, non
beveva mai due volte nello stesso bicchiere e non
iniziava mai due volte la stessa esperienza. Come
avrei potuto ricreare la sua immagine senza
amore, il suo destino senza invidia?
Avrei potuto continuare così fino al mattino, ma
tacqui. Improvvisamente mi venne in mente che
in fondo noi non sapevamo nulla di lui, tranne ciò
che lui ci costringeva a vedere. Forse aveva avuto
una famiglia in un villaggio vicino, forse aveva
213
amato una donna, nutrito dei bambini. Cosa
potevamo dire esattamente? Che si dichiarava
pazzo, che confondeva felicità e povertà, lucidità
e allucinazione. Ma il resto? Ma la faccia che non
mostrava mai? Fui assalito dai dubbi. Gettai un
altro sguardo all'ebreo di Brooklyn
- La verità - gli dissi sottovoce. - Esigo che mi
diciate la verità. Voi possedete delle informazioni
di cui ho bisogno. Datemele. Chi siete? Perché il
cantore vi interessa? Siete forse suo fratello? Suo
amico? Il suo vendicatore? Siete forse... suo
figlio?
La mia domanda sembrò sorprenderlo. Diventò
rosso, cominciò a sbattere le palpebre, preso da un
tic nervoso che non cercava neanche di
controllare. Dopo un attimo di silenzio si riprese e
scoppiò a ridere:
214
- Ma state scherzando! State sragionando! Ah,
che immaginazione che avete! Io, il suo
vendicatore! Io, suo figlio!
- Voi ridete, ma questo non prova niente. Ridete
per nascondere il vostro gioco, ma io vedo
attraverso di esso. Ditemi chi siete e spiegatemi
cosa fate qui, davanti a me. Devo sapere tutto, vi
dico.
Ridiventò serio e si mise a guardarsi le unghie.
Gli occhi mi si annebbiarono:
- Allora? Non avete più nulla da dire? Peccato.
Se Moshé il pazzo fosse qui saprebbe vincervi.
Ma non è più di questo mondo. Ciò non toglie che
io l'abbia conosciuto e seguito dappertutto e fin
qui. Questo deve provare pure qualcosa, ma
morirò senza sapere cosa.
Si mangiava le unghie, il sudore gli imperlava la
215
fronte. Gli facevo paura, era evidente. Per il fatto
che l'avrei smascherato? O perché egli aveva
appena intravisto l'altra faccia del cantore?
Oppure perché mi prendeva per Moshé il pazzo in
persona? Tristemente, scosse la testa più volte, poi
si alzò di colpo per annunciarmi con voce
balbettante e inebetita che doveva andarsene.
Come attraverso una nebbia, lo vidi dirigersi
verso l'uscita; si fermò alla cassa, pagò il conto,
dette una mancia al cameriere, si voltò per
lanciarmi un'ultima occhiata e sparì. Avrei dovuto
trattenerlo, corrergli dietro, costringerlo a
confessare tutto. Il cantore lo avrebbe fatto, ma io
ne ero incapace: avevo bevuto troppo.
Mi misi a osservare distrattamente i clienti che,
per fortuna, non si curavano di me. Giovani
coppie si sorridevano e dimenticavano di
216
mangiare; gente anziana degustava i piatti in
silenzio, come per dispetto. A poco a poco il
locale si vuotò. Mi alzai anch'io e uscii
barcollando. Mi ritrovai presto in Times Square,
questa fiera dove le anime disperate vengono a
liberarsi delle loro ombre angosciate. Immersi
nelle luci al neon, storditi dalla musica dei jukebox, alcuni passanti solitari si trascinavano da un
bar all'altro. Per tutta la notte camminai senza una
meta. Poi ripresi la strada di casa, lungo il fiume,
rinvigorito dal fresco vento del mattino. Gli effetti
dell'alcool scomparivano, riacquistavo il mio
equilibrio, cominciavo a veder chiaro. Il mio
comportamento al ristorante mi riempì di
vergogna: avevo dato spettacolo di me. Tutto
sommato, l'ebreo di Brooklyn, di cui ignoravo
ancora il nome, non era altro che un lettore
217
curioso che desiderava incontrare qualcuno del
suo paese. Il resto era opera della mia
immaginazione malata. Lui, il poveretto, non
c'entrava affatto.
Benedetto Moshé, pensai sorridendo: mi hai
giocato un altro tiro. Non cambierai mai.
Tuttavia, da questo episodio ricavo una
domanda che devo aggiungere a tutte quelle che
riguardano il cantore della mia città. Forse, nella
mia ubriachezza, avevo visto giusto dopo tutto.
Forse Moshé il pazzo, non essendo figlio di
nessuno, è padre di tutti noi.
218
L'ebreo errante
Nessuno conosceva il suo nome né la sua età.
Forse non ne aveva. Non voleva sentir parlare di
ciò che generalmente definisce un uomo, o
almeno lo individua. Col suo comportamento, il
suo sapere, le sue prese di posizione molteplici e
contraddittorie, pretendeva di incarnare l'ignoto,
l'incerto: la testa nelle nuvole, si serviva della sua
scienza per oscurare la chiarezza, qualunque essa
fosse, da qualunque luogo venisse. Amava
spostare i punti fissi, distruggere ciò che sembrava
solido: rimproverava a Dio di aver inventato
219
l'universo.
Da dove veniva? Quali erano state le sue gioie, i
suoi timori? Cosa cercava di raggiungere, di
dimenticare? Nessuno lo sapeva. Aveva mai
conosciuto in vita sua la donna, la felicità, la
delusione? Mistero sette volte sigillato. Parlava di
se stesso solo per disorientare: sì e no si
equivalevano, il bene e il male andavano nella
stessa direzione. Le sue teorie le costruiva e le
demoliva in un soffio, usando gli stessi mezzi. Più
lo si ascoltava e meno si sapeva sulla sua vita, sul
suo mondo. Possedeva il potere sovrumano di
rifarsi un passato.
Ispirava paura. Anche ammirazione, certamente.
Dicevano di lui: «È una persona pericolosa, sa
troppe cose». A lui piaceva che lo dicessero.
Voleva essere solo, strano, inaccessibile.
220
Appariva un po' dappertutto, sempre
all'improvviso, per scomparire una settimana
dopo, un anno dopo, senza lasciare tracce.
Sarebbe riapparso, sempre per caso, dall'altra
parte di una frontiera, di una montagna: come
rabbino miracoloso, uomo d'affari, inserviente di
sinagoga. Aveva fatto più volte il giro del mondo,
senza denaro, senza documenti; non si saprà mai
come e a che scopo. Forse lo aveva fatto proprio
perché nessuno sapesse mai il perché.
Il suo luogo di nascita era di volta in volta
Marrakech e Vilna, Kishinev e Safed, Calcutta e
Firenze. Forniva tante prove, tanti particolari che
ogni volta finiva col convincere tutti che era
finalmente quella la verità. Poi il giorno dopo
l'edificio crollava: descriveva, incidentalmente,
l'atmosfera incantata della sua città natale da
221
qualche parte della Cina o del Tibet. L'enormità
delle sue esagerazioni superava il livello della
menzogna: era già una concezione del mondo.
Risultato dei suoi viaggi reali o immaginari?
Parlava molto e bene. Conosceva una trentina di
lingue fra antiche e moderne, compreso lo hindi e
l'ungherese. Il suo francese era puro, il suo inglese
perfetto e il suo jiddish si armonizzava con
l'accento dell'interlocutore. I Veda e lo Zohar li
recitava a memoria. Ebreo errante, si sentiva a
casa propria in tutte le culture.
Sempre sporco, irsuto, aveva l'aria di un barbone
divenuto pagliaccio, o di un pagliaccio che
giocava a fare il barbone. Portava un cappello
minuscolo, sempre lo stesso, su una testa
immensa, rotonda, gonfia; i suoi occhiali, dalle
lenti spesse e polverose, gli annebbiavano lo
222
sguardo. Chiunque lo incontrasse per strada senza
conoscerlo lo scansava con disgusto. Con sua
grande soddisfazione, del resto.
Per tre anni, a Parigi, io fui suo allievo. Accanto
a lui, imparai molte cose sui pericoli del
linguaggio e della ragione, sui furori del saggio e
del folle, sul misterioso progredire di un pensiero
attraverso i secoli, di un dubbio attraverso i
pensieri, ma niente sul segreto che lo insidiava o
lo proteggeva da un'umanità malata.
Il nostro primo incontro fu breve e tempestoso.
Ebbe luogo in una piccola sinagoga, in rue Pavé,
dove andavo spesso il venerdì sera ad assistere
alla funzione nel corso della quale si accoglie il
regno dello Shabbàt.
223
Dopo la preghiera, i fedeli circondarono un
vecchio dal fisico ripugnante che, con grandi
gesti, si mise a spiegar loro la parashà - il passo
biblico - della settimana. La voce era rauca,
sgradevole. Parlava rapidamente, le frasi si
accavallavano, lo si seguiva difficilmente e lui lo
faceva apposta: confondere il suo pubblico lo
divertiva. Si capiva ogni parola, ogni idea, e
tuttavia si aveva l'impressione di sbagliarsi, che il
vecchio si burlasse di coloro che pretendessero di
capire. Ma non si riusciva a resistere: lasciarsi
afferrare diventava un piacere, malsano,
dell'intelligenza.
Improvvisamente, a metà di una frase, mi
intravide. Si interruppe:
- Chi sei?
Gli dissi il mio nome.
224
- Straniero?
- Sì.
- Profugo?
- Sì.
- Da dove?
- Oh, - dissi - da lontano, da laggiù.
- Osservante?
Non risposi. Lui ripetè:
- Osservante?
Io continuai a non rispondere. Lui fece:
- Ah, capisco.
E proseguì l'interrogatorio senza preoccuparsi
del mio imbarazzo:
- Studente?
- Sì.
- Di che cosa?
- Mi piacerebbe studiare filosofia.
225
- Perché?
Non risposi. Ma lui insistè:
- Perché?
- Cerco.
- Cosa cerchi?
Stavo per correggerlo: «chi» e non «cosa», ma
lasciai perdere e risposi:
226
- Non so ancora.
Lui non ne rimase convinto:
- Cosa cerchi?
- Una risposta.
La sua voce si fece tagliente:
- Una risposta a che cosa?
Stavo per correggerlo: «a chi» e non «a che
cosa», ma cercavo la strada più semplice:
- Alle mie domande.
Emise una risatina stizzosa:
- Ma ne hai domande?
- Sì, ne ho.
Allungò la mano:
- Dammele, te le renderò.
Confuso, lo guardai senza capire.
- Sì, - disse - te le renderò risolte.
- Come! - esclamai. - Voi possedete le risposte
227
alle domande? E lo dichiarate pubblicamente?
- Certamente - disse. - E se ne vuoi la prova, te
la fornirò seduta stante.
Tacqui per un secondo e poi dissi:
- No, in questo caso preferisco credervi sulla
parola.
- Questo non mi piace - replicò innervosendosi.
- Non ci posso far niente - dissi arrossendo. - Ma
se voi potete rispondere alle mie domande, allora
non ne ho più.
Il vecchio - settant'anni? di più? - mi fissò per
un lungo momento, come pure i fedeli.
Improvvisamente ebbi paura; mi sentivo
minacciato. Dove nascondermi?
Il vecchio piegò in avanti la sua pesante testa.
- Fammi lo stesso una domanda - disse con tono
conciliante.
228
- Ve l'ho detto: non ne ho più.
- Ma si. Una sola. Una qualunque. Vedrai, non
te ne pentirai. Non hai nulla da temere.
Io non ero così convinto. Al contrario, avevo
tutto da temere. La prima sottomissione ne
avrebbe portata un'altra. Non sarebbe più finita.
229
- Allora? - disse il vecchio, amichevolmente. Una sola domanda...
La mia ostinazione gli fece corrugare la fronte;
un nero bagliore gli attraversò lo sguardo:
- È pura stupidità, ragazzo mio. Ti offro una
scorciatoia e tu la rifiuti: sei sicuro di averne il
diritto? Chi ti dice che la tua venuta in Francia
avesse uno scopo diverso da quello d'incontrarmi?
Il cuore mi batteva forte, mentre stringevo le
labbra. Ascoltavo la voce interiore che mi metteva
in guardia; mi trovavo a un crocevia, bisognava
fare attenzione, aprire gli occhi, mantenere il
silenzio, evitare di avventurarsi su un sentiero che
non sarebbe stato il mio.
- Allora? Scegli la testardaggine? Hai perso la
lingua? La memoria? O ti credi abbastanza forte
da disubbidirmi?
230
Stava perdendo la pazienza. La mia paura
aumentava, soffocavo. Da bambino vedevo in
ogni straniero un messaggero: non dipendeva che
da me ricevere la sua promessa o la sua
maledizione. I miei maestri mi avevano insegnato
di non fidarmi mai delle apparenze, di subire mille
umiliazioni piuttosto che infliggerne una sola.
Secondo il Talmud, umiliare qualcuno in pubblico
equivale a versare il suo sangue. Rifiutarsi di
entrare nel gioco del vecchio significava colpirlo
nel suo onore.
- Ti decidi? - mi domandò con l'occhio cattivo. Aprirai finalmente la bocca?
Con difficoltà, prudentemente, per farla finita,
riuscii a interrogarlo su un passo qualunque della
Bibbia. Domanda troppo facile per i suoi gusti. Ne
pretese un'altra. Ancora troppo facile. Un'altra.
231
Con la faccia congestionata mi spinse a
continuare:
- Mi prendi in giro? Su, lanciati, corri fino in
fondo, fino all'oscurità e riportami ciò che ti
sfugge, ciò che ti sconcerta.
Al decimo o dodicesimo tentativo si dichiarò più
o meno soddisfatto. Chiuse gli occhi e si lanciò in
una spiegazione la cui acutezza e il cui rigore mi
sbalordirono. Già gli appartenevo, già gli affidavo
la mia volontà. Lui parlava e io non potevo che
ammirare l'ampiezza delle sue conoscenze, la
ricchezza del suo pensiero. Le sue parole
abolivano le distanze, gli ostacoli; non c'era più
inizio né fine, non c'era che la voce rauca e
sgradevole di un uomo che spiegava al Creatore i
misteri e le sconfitte della sua creazione.
- È bello - gli dissi quando ebbe finito. Ero
232
emozionato e avrei voluto stringergli la mano. E
dirgli: «Voi mi turbate, io vi seguirò». Ma
improvvisamente cambiò espressione e io non
osai muovermi. Il suo volto gonfio si fece di
porpora, indignato. Si avvicinò, mi afferrò per le
spalle, mi scosse violentemente e si mise a urlare
con disprezzo:
- È questo tutto ciò che trovi da dire? Che è
bello? Imbecille, della bellezza me ne infischio.
Non è che apparenza, scena: le parole svaniscono
nella notte senza arricchirla. Quand'è che capirai
che una bella risposta non è nulla? Nient'altro che
un'illusione. L'uomo si definisce per ciò che lo
inquieta e non per ciò che lo rassicura. Quand'è
che capirai che vivevi e cercavi nell'errore, perché
Dio significa movimento e non spiegazione?
Dopodiché si interruppe e uscì precipitosamente
233
lasciando dietro di sé la sua pesante e misteriosa
collera.
Qualcuno scoppiò a ridere e mi consolò:
- Non te la prendere, giovanotto. È strano nei
suoi rapporti con la gente che l'ammira o lo fugge.
Non bisogna volergliene, cosa che del resto
vorrebbe dire cadere nella sua trappola. Non
bisogna prendere a cuore i suoi insulti. Gli piace
provocare sofferenza, è il suo passatempo
preferito, il suo stimolante. Ha già ridicolizzato
persone più anziane di te, e anche più sapienti.
Non potrebbe vivere senza la sua vittima
quotidiana.
Così, per la prima volta, mi imbattevo nella sua
leggenda. Appresi diverse storie in cui si
esaltavano i suoi poteri; sapeva tutto sugli altri
mentre lui rimaneva nell'ombra. Aveva letto tutte
234
le opere importanti o singolari, penetrato ogni
segreto, visitato ogni paese; si sentiva a casa
dappertutto e in nessun luogo. Nessuno sapeva
dove abitasse, di che vivesse. Chi erano i suoi
amici, i suoi rivali? Lo chiamavano Rebbe e non
sapevano neanche se era osservante. Non riconosceva nessuna legge, nessuna autorità, né quella
della comunità né quella dell'individuo: si
sottometteva alla volontà divina? Mistero anche
su
questo.
Sembrava
sempre
arrivare
all'improvviso da qualche lontano lido, da qualche
contrada incantata. Gli anni non avevano effetto
sul suo corpo, né sul suo cervello; non
invecchiava. Restava uguale a se stesso, sfidando
l'immaginazione, provocando il tempo.
Fino a sera inoltrata gli ebrei mi parlarono di lui
e io ascoltavo, teso fino al dolore, come un tempo
235
avevo ascoltato, bambino meravigliato, i racconti
che i chassidim si narravano fra la preghiera di
minchà e quella di arvìt sui miracoli compiuti
dallo Zaddik, compagno e servitore del Signore.
- Non te la prendere, giovanotto - mi ripetè
l'uomo che cercava di consolarmi. - È un
privilegio farsi insultare dal nostro visitatore.
- Ma chi è? Cosa fa quando non ha vittime sotto
mano? Dove si nasconde e perché? Come
raggiungerlo?
Gli ebrei alzarono le spalle. Gli uni lo credevano
favolosamente ricco, gli altri totalmente povero.
«È un pazzo che se la ride a nostre spese»,
dichiarò un vecchio barbuto. Il suo vicino
protestò: «Ma no, è un santo, un Giusto, e la sua
missione sulla terra è quella di scuoterci; abbiamo
tutti bisogno di tanto in tanto di una scrollata, non
236
è vero?». Il barbuto assentì: «In effetti, hai
ragione, ne abbiamo bisogno, sennò l'anima
marcirebbe nel suo guscio; però vi dico che il
nostro visitatore non mi piace, non mi fido di chi
non si fida di me; credo che sia al servizio di
Satana, è Satana che lo protegge e gli assicura le
sue vittorie. A che fine, a che prezzo? Vorrei
saperlo, ma ho paura di saperlo».
Qualcuno si ricordò del seguente episodio.
Durante la guerra, il nostro oratore ambulante fu
arrestato dai tedeschi. Interrogato da un ufficiale
della Gestapo, si dichiarò alsaziano, ariano e, per
giunta, professore di matematica in una università
tedesca. L'ufficiale scoppiò a ridere:
- Tu insegni all'Università? Tu? E pensi che ci
creda?
- Certo - disse il barbone senza batter ciglio.
237
- Fammi vedere i tuoi documenti.
- Li ho perduti. In un bombardamento.
Allora l'ufficiale gli si accostò e gli disse:
- Sei cascato male, ebreuccio. Anch'io sono
professore di matematica.
L'ebreo non si perse d'animo:
- Che fortuna, caro collega! Piacere di fare la
vostra conoscenza! Potrei naturalmente proporvi
di interrogarmi, ma avrei una proposta migliore:
sarò io che vi sottoporrò a un esame. Ecco un
problema. Se ne trovate la soluzione, fucilatemi:
vi prometto che non protesterò. Se non la trovate,
lasciatemi partire senza volerne sapere di più.
L'ufficiale accettò l'offerta. Il «professore» si
ritrovò libero e poco dopo riuscì a passare in
Svizzera, dove il rabbino capo diventò uno dei
suoi devoti ammiratori. Come aveva fatto a
238
passare la frontiera?
- Nulla di più logico - disse il vecchio diffidente.
- È Satana che venne in suo aiuto.
- Ma no - replicò il suo vicino. - Ti immagini
Satana che aiuta un ebreo a salvarsi la pelle! Io
sostengo che il nostro visitatore è un santo, cosa
che spiegherebbe tutto. La morte non aveva potere
su re David quando cantava i suoi salmi, e così
non ha potere sul nostro visitatore quando disturba
il nostro torpore. Come tutti noi, essa teme le sue
collere.
Quella notte non potei né volli dormire. Lasciata
la sinagoga, camminai per le strade e i vicoli della
città assopita, trascinato dall'inconfessata speranza
di vederlo apparire davanti a me, dietro di me,
improvvisamente, come un malfattore, come un
saggio travestito da mendicante, per dirmi:
239
«Sta spuntando l'alba, seguimi». L'alba spuntò,
io tornai a casa solo.
Dovevo ritrovarlo a qualsiasi costo. Era lui che
cercavo dalla fine della guerra, dalla morte dei
miei maestri, da quando il loro fuoco si era
consumato in un rogo, da qualche parte della
Slesia. Lui solo avrebbe potuto prendere il loro
posto e indicarmi la via da seguire, e forse
rivelarmi anche dove portava. Ritrovarlo,
affrontarlo, supplicarlo. Ma dove? Con l'aiuto di
chi? A partire da quale indizio, da quali
complicità? Ritornai spesso nella sinagoga di rue
Pavé; i fedeli mi conoscevano già e sapevano il
vero scopo delle mie visite: non era Dio che mi
attirava. Si burlavano di me con indulgenza: «Ehi,
giovanotto, desideri ancora farti insultare?». Io
rispondevo: «Sì». Loro sorridevano: «Abbi
240
pazienza, giovanotto, vedrai che tornerà; torna
sempre, ma è impossibile prevedere quando, con
lui non si può prevedere niente».
Sì, l'ebreo errante era lui. Era ancora in Francia?
Lo si credeva qui, ed era già altrove, sempre
altrove, in India, in Marocco, a Katmandu, nel
cuore del deserto o in mezzo al mare: come
saperlo? Con lui le certezze diventavano polvere.
Alcuni mesi dopo. Gare du Nord. Prendevo il
treno per Taverny. Mi ci recavo due volte alla
settimana per tenere un corso sui profeti a un
gruppo di giovani profughi polacchi e ungheresi,
tutti reduci dai campi di concentramento; di passaggio in Francia, abitavano in un castello
dell'OSE mentre aspettavano il visto per la
Palestina.
Immerso nei miei quaderni, riguardavo la
241
lezione, quando qualcuno mi rivolse la parola.
Trasalii: quella voce rauca, sgradevole. Sì, era lui.
Mal rasato, coperto di stracci, con in testa il suo
eterno minuscolo cappello: un personaggio da
circo.
- Vieni! - mi gridò a pieni polmoni. - C'è un
posto qui accanto a me!
I passeggeri ci lanciarono occhiate di
disapprovazione. Io mi sentivo allo stesso tempo
imbarazzato e sollevato; imbarazzato di essere
visto in compagnia di un essere così brutto, ma
sollevato di averlo finalmente rincontrato quando
ormai non credevo più di rivederlo.
- Dove vai?
242
Gli spiegai lo scopo del mio viaggio. Lui dette
libero sfogo alla sua ironia:
- No, davvero? Straordinario! Mi aspettavo di
tutto, tranne questo. Eccoti professore, tu! Non ci
resta altro da vedere! Il cercatore diventato guida,
è così? Be', parlamene. Dimmi cosa gli racconti ai
tuoi allievi. Che ne approfitti anch'io, vuoi?
Io non volevo, ma lui insistè. Preso da un senso
di disagio, non potei fare a meno che ubbidire,
balbettando alcune frasi incoerenti sul libro di
Giobbe: era di moda, ogni sopravvissuto
all'Olocausto avrebbe potuto scriverlo. Nelle mie
lezioni parlavo della nascita del dialogo fra
l'uomo e il suo simile. E fra Dio e Satana. Mettevo
anche in risalto l'importanza attribuita al silenzio
come paesaggio spirituale. Mi occupavo poi
dell'idea d'amicizia e di giustizia, e in che misura
243
l'una diminuisce l'altra. E del concetto di vittoria
nel pensiero profetico. L'uomo che cos'è?
L'alleato di Dio o semplicemente il suo
giocattolo? Il suo trionfo o la sua caduta?
Fingendosi interessato, il mio compagno mi
fissava con condiscendenza. Si divertiva, era
evidente. Non mi interrompeva, ma emetteva
bruschi brontolii che aumentavano il mio
turbamento: non sapevo più cosa dicevo, né ciò
che cercavo di provare. Nella mia mente tutto si
confondeva, mi sentivo parlare ed era un altro che
recitava una lezione sconclusionata; tutto suonava
falso. Infine mi fermai, esausto, sull'orlo delle
lacrime.
- È tutto? - si informò il barbone, implacabile.
- Sì, credo...
- Ebbene, povero Giobbe, - ridacchiò - come se
244
non avesse sofferto abbastanza senza di te!
Dopodiché mi sottomise a un interrogatorio
serrato che doveva essere il colpo di grazia. Il mio
sapere, acquisito durante lunghi anni a prezzo di
tante notti insonni e di tante rinunce, si disperdeva
adesso come sabbia. Credevo di conoscere il
Talmud? Errore. Pensavo di capire i commenti di
Rashì? Illusione. I salmi li recitavo a memoria?
Pura presunzione, perché non ne afferravo
neanche il primo verso.
245
Il sangue mi martellava le tempie, un vago
dolore si diffondeva in tutto il mio corpo. Avevo
dunque vissuto per niente, barando, mentendo a
me stesso. Avevo dunque sprecato la mia infanzia,
la mia giovinezza; le mie esperienze non erano
che ostentazione. Come Giobbe, maledicevo il
giorno della mia nascita, mi auguravo di morire,
di scomparire, per cancellare la mia vergogna, per
riscattarmi. Il barbone trovava tutto questo
piuttosto buffo. Più parlavo e più affondavo nella
mia ignoranza. Sfioravo la follia, stavo per
perdere l'uso della parola, per ritornare bambino,
muto, innocente. Mi misi a pregare: «Fa', o
Signore, che si arrivi presto a Taverny, prima che
sia troppo tardi, perché non ne posso più».
Taverny significava la terra promessa; lì, torturatore e vittima si sarebbero detti arrivederci, o
246
meglio addio; il supplizio sarebbe terminato. La
lentezza del treno locale mi esasperava. Di solito
il viaggio durava un'ora, ma adesso mi sembrava
di viaggiare da un'eternità. E il barbone non mi
dava tregua, la sua voce rauca e sgradevole mi
braccava. Pensavo: «Il barbuto della sinagoga
aveva ragione, è Satana, vuole la mia rovina, non
voglio più incontrarlo, che se ne vada, che mi
lasci in pace, io non gioco più».
Improvvisamente il treno si fermò. Il controllore
gridò: «Taverny-y-y!». Io mi scrollai per tornare
in me. Ironico, il barbone seguiva i miei gesti. Gli
tesi la mano: «Io scendo qui». Lui si alzò e disse:
«Anch'io». E fece finta di non capire il mio
smarrimento.
Poi, vicino all'uscita, gli chiesi dove andasse.
- Che domanda! Con te, ovviamente!
247
- Con me? - esclamai, allibito.
- Sì, ho deciso di accompagnarti.
Per quale ragione? A che scopo? Ancora non lo
sapeva.
- Lo saprò là, sul posto.
Ma santo cielo, chi lo aveva invitato? Nessuno,
certamente.
- Mi considero un uomo libero. Vado dove
voglio, quando voglio, con chi voglio.
- E io? Che posto ho nei vostri piani?
- Troppo presto per saperlo; vedremo.
248
Dopo una marcia silenziosa di una ventina di
minuti arrivammo al castello, dove alla vista del
mio compagno si scatenò l'ilarità generale.
Pensavo di ripartire per Parigi la sera stessa.
Restai una settimana intera. Anche lui.
Il mio corso doveva tenersi all'aperto, all'inizio
del pomeriggio. Durante il pranzo il vecchio mi
osservò in silenzio; io cominciavo a sentirmi
male. Non toccai cibo. Neanche lui, del resto.
Nervoso com'ero, scoraggiai la conversazione a
tavola. Temevo un disastro: lui presente, la mia
lezione sarebbe stata certamente un fallimento.
Come allontanarlo? Dirgli:
«Vi supplico, signore sconosciuto, andate, di
grazia, a fare una passeggiata e tornate questa
sera»? Piuttosto seppellirmi vivo. Del resto, la mia
richiesta sarebbe stata inutile. Per lui l'occasione
249
era troppo bella, non l'avrebbe perduta.
Il direttore mandò fuori i ragazzi per la
conferenza. Io li seguii col cuore pesante. Sapevo
di essere perduto, non c'era più niente da fare: il
dado era tratto.
Il mio compagno prese posto alla mia sinistra.
Gli alunni, seduti a semicerchio sotto un enorme
albero dai rami pericolanti, ci esaminavano con
aria maliziosa. Il barbone mi intimoriva, era
chiaro, e loro non capivano perché.
Chiacchieravano fra di loro e si scambiavano su di
lui, e senza dubbio anche su di me, sgarbate
osservazioni. Io chiesi un po' di silenzio pur
rendendomi conto che avevo dimenticato tutto:
non sapevo neanche più quale capitolo fosse in
programma. Per fortuna, all'ultimo momento,
mentre stavo per cominciare, il vecchio mi toccò
250
il braccio e mi annunciò seccamente la sua
decisione di parlare al mio posto. I ragazzi
scoppiarono a ridere fragorosamente. Non ho mai
provato un simile senso di sollievo. L'oratore si
raschiò la gola:
- So che studiate la tragedia di Giobbe.
Propongo di lasciare che si medichi le sue ferite.
Ho l'impressione che sia stato un po' troppo
maltrattato qui in queste ultime settimane.
251
Mi lanciò un'occhiata di sbieco: avevo incassato
il colpo? I miei fedeli allievi apprezzarono
l'umorismo del mio sostituto; non ridevano più di
lui, ma di me.
- Ecco una proposta - proseguì l'oratore con
serietà. - Che ciascuno di voi mi indichi
l'argomento che gli sta a cuore: io li tratterò tutti
in blocco. Ma a una condizione: fate in modo che
i temi non si assomiglino. Ho orrore della
ripetizione.
Questo gioco retorico divenne un'esperienza
indimenticabile. La Bibbia, il Midrash, lo Zohar:
le domande piovevano da tutte le parti. Alcuni,
per spingere la prova fino all'assurdo, lo
interrogavano sulla politica internazionale, sulla
bomba atomica e perfino sulla superstizione nel
Medioevo. Il conferenziere non prendeva note; le
252
palpebre abbassate, aspettava che ciascuno
ponesse la sua domanda. Poi, senza un
movimento, senza osservazioni preliminari,
affrontò di petto gli argomenti e parlò su ciascun
tema in particolare e su tutti insieme. La sua voce
era rauca e sgradevole, ma nessuno se ne
accorgeva. Stregati, noi lo ascoltavamo, il cervello
in fiamme, trattenendo il respiro, trasformati,
trasportati in uno strano universo dove esseri e
oggetti si svelavano, dove tutto era collegato e
tendeva verso un assoluto, qualunque esso fosse, e
dove, per la sola forza della parola e della
sfumatura, l'uomo scopriva il potere e il dovere di
dissipare il caos che precede e spesso segue ogni
creazione, di imporgli un senso, un divenire.
Improvvisamente, ciascuno di noi si rese conto
che tutti quei temi, enunciati a caso, alla rinfusa,
253
come per divertimento, erano in realtà legati a un
centro, alla stessa fonte di luce. Si, il gesto di
Caino contiene quello di Tito. Si, il sacrificio di
Isacco preannunzia l'Olocausto, il canto di David
richiede quello di Geremia: hafoch ba vehafoch
ba dekula ba, la Toràh è un tutto e tutto si trova
nella Toràh. Perché la prima lettera di Bereshìt - il
primo libro del Pentateuco - è una bet e non una
aleph? Perché l'uomo è troppo debole per
cominciare: qualcuno ha già cominciato per lui.
Giacobbe aveva scelto l'esilio per permettere a
Mosè di optare per la libertà. Chi si volta e guarda
la cima della montagna sa che l'inizio prepara la
fine e che l'uomo può agire sul suo creatore, che, a
sua volta, studia la Toràh.
Lontano, il campanile del villaggio aveva già da
tempo suonato mezzanotte, ma l'oratore,
254
infaticabile, inesauribile, continuava a parlare,
dando al suo pensiero mille luci e altrettante
ombre, e la nostra comune preghiera era che non
si fermasse mai, non prima della venuta del
Messia.
La pallida alba ci sorprese, pieni di una strana
felicità. Avevamo percorso insieme una lunga
strada e avevamo partecipato a un avvenimento
raro, forse unico: la vittoria dell'uomo sulla notte.
Nessuna traccia di fatica. I volti scintillavano
d'orgoglio. Eppure i miei allievi, fanaticamente
religiosi, avevano commesso un peccato: per la
prima volta in vita loro si erano dimenticati di
recitare la preghiera della sera.
Il Maestro si lasciò convincere a prolungare il
suo soggiorno al castello. Di un giorno, di una
settimana. Quanto a me, lasciato in disparte,
255
nessuno mi invitò a ritardare il mio ritorno, ma io
restai lo stesso.
Da mattina a sera, spesso fino a mezzanotte e a
volte oltre, il Maestro continuò ad affascinarci;
eravamo alla sua mercé, prendeva possesso delle
nostre esistenze, le plasmava, le rendeva
irriconoscibili.
Eravamo nel mese di Av e, rispettando la
tradizione, ci parlò soprattutto della distruzione
del Tempio. Io credevo di conoscere tutte le
leggende riguardo a questo argomento, ma in
bocca sua esse avevano acquistato un valore
diverso: ci rendevano più fieri di appartenere a un
popolo che sopravvive alla propria storia e la
mantiere sempre così viva e intensa.
Un giorno ci parlò della guerra clandestina che
si svolgeva allora in Palestina: gli inglesi stavano
256
per uccidere un combattente dell'Irgun. Il Maestro
ne parlò come di un santo, elevandolo al rango di
un Rabbì Akivà che, al tempo dei Romani, era
andato incontro alla morte da uomo libero e
coraggioso per glorificare il nome di Dio. Se, in
seguito, ho deciso di unirmi alla lotta che la
gioventù ebraica sosteneva per l'indipendenza del
mio popolo, è a lui, al mio Maestro, che lo devo.
Poi venne il giorno della partenza. I miei allievi
gli domandarono se pensava di ritornare. Lui
rispose:
- Forse.
- Dove andate adesso? Verso quale avventura,
quali scoperte?
- Questo non vi riguarda - disse, infastidito.
Allora si rivolsero a me:
- E tu, tu tornerai?
257
- No - replicai.
Il mio incontro col Maestro aveva messo fine
alla mia carriera di conferenziere. Ridiventavo
allievo. Lasciammo insieme il castello; i ragazzi
ci accompagnarono alla stazione.
Sul treno che ci riportava a Parigi gli comunicai
la mia decisione di non lasciarlo più. Lui si
oppose, io tenni duro:
- Ho bisogno di voi.
-- E chi ti dice che tu sia capace di seguirmi? O
che lo meriti?
- Io.
- Tu? - ruggì. - Ti credi il tuo proprio maestro?
Ascolti la tua voce? Da dove ti viene questo
orgoglio?
- Da voi.
Furioso, mi coprì d'insulti, ma io non capitolai.
258
Finii per averla vinta. All'arrivo, uscendo dalla
gare du Nord, lo seguii con passo deciso.
- Dove vai?
- Con voi.
- E se dico di no?
- Vi seguirò vostro malgrado. E mi affrettai ad
aggiungere:
- Voi mi avete insegnato il senso della libertà. Il
suo brutto volto si fece scarlatto e credetti che
stesse per sputarmi in faccia. Ma si calmò.
- Sei testardo, - mi fece con disprezzo - ma mi
piace che gli ebrei siano testardi.
259
Poi ebbe un gesto di scoraggiamento:
- E sia, mi accompagnerai per un po'. Ma si
riprese subito:
- Però non ora. Un'altra volta. Verrò a trovarti.
- Quando?
- Non lo so.
- Quando?
- Presto.
- Di mattina? Di sera?
- Come vuoi che lo sappia già? Mi lasciò a una
stazione del metrò e scomparve. Nella mia misera
cameretta, a porta Saint-Cloud, lo aspettai nel
dubbio: avrebbe mantenuto la sua promessa? Non
osavo assentarmi, neanche per andare dal fornaio.
Tre giorni dopo bussò alla porta. Ispezionò la
stanza, gettò un'occhiata disgustata ai libri e mi
ordinò di sedermi sul letto. Lui si mise a sedere
260
sull'unica sedia disponibile.
- Guardami e ascolta senza interrompermi.
Tornò per due volte alla settimana, mai lo stesso
giorno, mai alla stessa ora. A volte arrivava la
mattina presto, quando la città dormiva ancora;
altre volte sembrava portare con sé il crepuscolo.
Restava per tre ore, quattro, cinque, sei. Un giorno
o un secolo per lui erano la stessa cosa: negava il
tempo. Appena arrivato, si metteva subito a
parlare dell'argomento che quel giorno lo
preoccupava. E ogni volta io provavo lo stesso
stupore.
In seguito venni a sapere che in quello stesso
periodo aveva avuto altri allievi, fra cui
Emmanuel Levinas, e che dedicava loro un ugual
numero di ore. Dove prendeva il tempo e la forza
fisica necessaria? Non lo vidi mai mangiare,
261
dormire o leggere; tuttavia godeva ottima salute e
sembrava perfettamente al corrente di tutto ciò
che avveniva nei vari campi dell'attività umana.
Parecchie volte scomparve per una settimana o
più: ritornava immutato.
Fui suo discepolo per tre anni e oggi non so di
lui più - ma probabilmente meno - di quanto
sapessi quella sera nella piccola sinagoga di rue
Pavé dove andavo a celebrare lo splendore dello
Shabbàt.
262
Un giorno, egli venne a sapere dell'arrivo a
Parigi di un grande rabbino chassidico che stava
andando negli Stati Uniti. I fedeli di Londra e di
Zurigo, di Anversa e di Francoforte,
convergevano sulla capitale; chi per salutarlo, chi
per chiedergli consiglio e benedizione.
- Tu lo conosci? - si informò il mio Maestro.
- Si, viene dalla nostra regione, dalla
Transilvania. Prima della guerra l'ho intravisto.
Non è il mio rabbino; il mio è quello di Wizsnitz.
- Cosa gli rimproveri?
- Niente, solo di non aver sofferto - o non
sofferto abbastanza - durante la guerra.
- E tu? Avresti sofferto abbastanza?
- No, non abbastanza. Ma io non sono il rabbino
di nessuno.
- Che ne sai?
263
Stava per lanciarmi una delle sue frecce
avvelenate, ma si trattenne:
- Tu dai troppa importanza alla sofferenza.
Aspettai il seguito, ma non venne. Quel giorno,
preoccupato dal rabbino, mi risparmiò.
- Desidero conoscerlo - disse il mio Maestro.
- Non sarà tanto facile.
Il rabbino era sceso in un grande albergo della
riva destra. C'era la ressa nei corridoi. Bisognava
fare la fila per ore e il colloquio non superava i
cinque minuti. Prima di entrare nella sala dove
troneggiava
il
sant'uomo
bisognava,
nell'anticamera, consegnare al segretario un
pidyon, una banconota. Era l'usanza: prima di
vedere il rabbino bisognava compiere una buona
azione, come dare un'elemosina, per meritare un
tale onore.
264
- Vieni con me - mi ordinò il Maestro. Temevo
il peggio. Il portiere avrebbe fatto entrare un
barbone e il suo servitore? Ma all'entrata nessuno
ci fermò. Un cameriere ci guardò e ci disse subito:
«Al secondo piano». Trecento persone si
accalcavano nel corridoio. Il mio Maestro si aprì
un varco tra la folla e arrivò davanti al segretario:
- Voglio vederlo.
- Fate la coda come tutti gli altri.
- Non sono come tutti gli altri.
- Allora non lo vedrete.
- Veramente?
Strappò un foglio dal mio quaderno e ci
scarabocchiò qualche parola.
- Ti ordino di consegnare questo messaggio al
rabbino, sennò ti maledico.
Il segretario ubbidì. E, cosa ancora più strana, la
265
porta si aprì e il rabbino in persona venne a
pregare il mio Maestro di entrare. Restarono
alcune ore in intimo colloquio e mai ne fu
divulgato il contenuto. Dopo averlo salutato, il
rabbino si limitò a mormorare:
- Concepisco che un essere umano possa
conoscere tante cose, ma come fate a capirle?
Dopo interrogai il mio Maestro:
- Cosa avevate scritto nel vostro messaggio?
- Ciò non ti riguarda.
- È che mi piacerebbe sapere aprire certe porte.
Si arrabbiò:
- Questo non si impara. Vorresti imitarmi? Non
è imitando qualcuno che aprirai le tue porte. Le
chiavi non si comprano, ce le facciamo da noi.
Ciò che costituisce la mia forza può in te generare
soltanto infelicità. Il dovere dell'allievo è quello di
266
seguire il suo Maestro, non di copiarlo.
Per fortuna le sue collere sbollivano
rapidamente. Lo prendevano per un attimo e poi
lo lasciavano uguale a se stesso, illuminato.
Una sola volta se ne andò schiumando dalla
rabbia e sbattendo la porta. Anche lì fu colpa mia.
Avevo violato il suo santuario; gli avevo posto
quella domanda che mi assaliva anche nei sogni:
- Chi siete? Chi nascondete? Perché ne fate un
tale mistero? Credete veramente che il dovere
dell'uomo sia quello di ripiegarsi su se stesso
piuttosto che di aprirsi agli altri?
Si irrigidì. Il suo respiro si fece pesante, il suo
volto prese un'aria crudele. Mi scrutò in silenzio,
cercando il modo di ferirmi, di uccidermi forse.
Preso dal panico, cercai di giustificarmi:
- Non me ne vogliate. Non si tratta di curiosità
267
né di indiscrezione. Vorrei semplicemente sapere,
per dopo, per i miei figli forse, chi era colui che
esercitò una tale influenza sul loro padre.
Si alzò di scatto e mi mostrò i pugni. Il suo
furore si scatenò:
- E chi ti dice che ci sarà un dopo? E chi ti
permette di escludermi e di parlare di me al
passato?
Non riuscendo più a dominarsi, come un
ossesso, si mise a correre da una parete all'altra
lanciando alte grida.
Scomparve per una decina di giorni. Credetti di
non rivederlo più. Ma riapparve e riprese la sua
lezione come se nulla fosse, nel punto preciso in
cui l'avevamo interrotta. Ormai mi guardavo bene
dall'affrontare le sue zone proibite. Pensavo: «Se
vuole confidarsi, non aspetterà le mie domande».
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Adesso mi capita di dirmi che ho avuto torto:
avrei dovuto perseverare. Forse si aspettava che
ritornassi alla carica. A volte mi dico che il suo
furore era solo una commedia.
Mi lasciò alla fine del 1948 senza dirmi né
arrivederci né addio. La sua ultima lezione fu
simile alle altre. Nulla nel suo comportamento
avrebbe potuto tradire le sue intenzioni di rompere
il nostro legame. Non era né più allegro né più
triste del solito. Come sempre, lo accompagnai
alla stazione del metrò e come sempre lui mi
consigliò di tornare a casa:
- Ripensa alla mia lezione e cerca di
distruggerla.
Non si voltò.
Passò una settimana: non dette segno di vita.
Un'altra settimana: nessuno bussò alla mia porta.
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Mi misi alla sua ricerca in tutte le sinagoghe:
senza risultato. Negli ospedali nessun malato
corrispondeva ai suoi connotati.
270
Capii che non avevo speranza. Non bisognava
agire contro la sua volontà, contro la sua libertà. I
nostri rapporti non potevano essere che a senso
unico.
Disoccupato, senza appoggi, senza amici, decisi
di lasciare la Francia. In Israele ci si batteva, e io
bruciavo dalla voglia di andarci. Solo in seguito
seppi che anche lui aveva risposto allo stesso
appello, pressappoco nello stesso periodo, un po'
prima di me.
Non restai molto in Terra Santa, e neanche lui. I
viaggi mi attiravano senza una ragione; inseguivo
qualcuno senza sapere chi fosse. Adesso mi dico
che era lui. Ma le nostre strade non si
incrociarono più. Anche lui, tuttavia, aveva
ripreso il bastone del pellegrino.
Di tanto in tanto incontro un amico che l'ha
271
conosciuto negli anni trenta, quaranta, cinquanta,
a Parigi o Gerusalemme, a New York o in
Algeria. Passiamo una notte in bianco a evocare la
sua immagine. A volte è uno sconosciuto che mi
parla di lui; allora diventiamo amici.
Recentemente, sull'aeroplano che mi riportava
da Buenos Aires a New York, un passeggero mi
raccontò che un personaggio bizzarro era
comparso, agli inizi degli anni sessanta, a
Montevideo. Il Maestro vi conduceva la stessa
vita che aveva condotto in Francia. Il suo aspetto
fisico era rimasto lo stesso, così come la sua
influenza intellettuale. L'appassionante mistero
che lo circondava e che lui albergava era rimasto
intatto. Lo si credeva custode di non si sa quale
segreto. Un giorno dimostrava la sua superiorità
sugli studiosi e i rabbini, il giorno dopo fungeva
272
da inserviente di sinagoga ed esigeva di subire
umiliazioni. Nessuno sapeva, lì come altrove, ciò
che lo spingesse a sconvolgere tante anime e quali
fossero le potenze che sfidava. Dovunque
apparisse, la gente smetteva di parlare, si
raccoglieva in se stessa, e i cuori angosciati si
mettevano a battere violentemente, come davanti
a qualcuno che sapesse perché viviamo e perché
moriamo.
Spesso ho una gran voglia di prendere il primo
aereo in partenza per l'Uruguay per poterlo vedere
un'ultima volta, per confrontarlo con l'immagine
che ho conservato di lui.
273
Ho anche bisogno che egli mi scuota di nuovo,
che mi sospenda fra cielo e terra e mi permetta
così di vedere ciò che li avvicina e ciò che li
separa.
Ma ho paura. Lo ritroverei identico a colui che
ha sconvolto la mia vita, nella piccola sinagoga di
Parigi, nel giardino del castello di Taverny. Parigi
è cambiata, Taverny anche, i nostri allievi sono
cambiati: gli uni sono diventati rabbini, gli altri
sono caduti sul campo di battaglia in Galilea, nel
Neghev, a Gerusalemme. Anch'io sono cambiato.
Lui no. Perfino l'Olocausto lo ha lasciato uguale a
se stesso.
Questo è ciò che mi turba e mi spaventa: gli
avvenimenti che hanno sconvolto la mia vita
senza scalfire la sua forse sono futili, privi di
significato? Ho dunque vissuto sotto il segno
274
dell'errore?
Se per lui il passato non è niente, il futuro non è
niente, allora per lui anche la morte non è niente,
e la morte di un milione di bambini ebrei non è
niente? Dio forse è morto, ma lui non lo sa, e se lo
sa, agisce come se questo non lo riguardasse
affatto...
Questo è ciò che mi fa tremare ogni volta che
me lo immagino a Montevideo, dove mi aspetta,
dove mi chiama: ho paura di ricascare nella sua
leggenda, che ci condanna, me al dubbio, lui
all'immortalità.
275
L'ultimo ritorno
Da qualche parte nella lontana Transilvania,
all'ombra dei Carpazi, presso la frontiera più
capricciosa d'Europa, c'era una volta una piccola
città polverosa: Sighet. Sembra portare il suo
nome nascostamente, come se temesse che le
venisse ripreso.
È una città come tante altre, e tuttavia non come
le altre. Tranquilla, rassegnata, la si crederebbe
pietrificata nel suo proprio oblio; e nella vergogna
che deriva da questo oblio. Ha rinnegato il suo
passato ma ne subisce l'influenza. Condannata a
276
vivere fuori dal tempo, non respira che nella
memoria di coloro che l'hanno lasciata.
Questa città fu un tempo la mia, ora non lo è
più. Eppure non è cambiata per niente. O quasi
per niente. Ho ritrovato le sue case basse, grige. Il
mormorio soffocato dei suoi fiumi. Il risuonare
dei passi sul selciato, soprattutto di notte, poco
prima dell'alba. La chiesa e la macelleria sono
sempre una di fronte all'altra. All'angolo del
piccolo mercato, la sinagoga, deserta, sembra
attendere qualcuno che deve venire e che non
verrà più.
È perché è rimasta fedele alla sua immagine che
la mia città mi sembra ormai straniera. A forza di
assomigliarsi si è tradita. Non ha più diritto al suo
nome, al suo volto. È una città senza destino.
Sighet non è più Sighet.
277
Da molto tempo bruciavo dalla voglia di
andarci. Per una settimana, un'ora, un istante: il
tempo di uno sguardo. Rivederla un'ultima volta,
ritornare bambino e poi andarmene. Per sempre.
Senza rimpianti, senza rimorsi, senza legami. Ai
nostri giorni, malgrado la cortina di ferro, le
distanze non contano più. Chiunque può partire da
qualunque posto e visitare la mia città, via
Bucarest-Cluj-Baia Mare, in aeroplano, in treno,
in macchina, in meno di settantadue ore. Per me il
viaggio fu più lungo, più duro, di quelli che si
fanno una volta sola nella vita. Doveva portarmi
non al termine della notte, ma piuttosto alle sue
origini. Là dove tutto è cominciato, dove il mondo
ha perduto la sua innocenza e Dio la sua
maschera.
È da Sighet che sono partito per Sighet.
278
Vent'anni sono tanti. È la metà o il terzo di
un'esistenza. Per tutto questo tempo non ho fatto
che prepararmi al pellegrinaggio. Senza gioia,
anzi con angoscia. Sapevo che avrebbe tagliato la
mia vita in due. Ci sarebbe stato un prima e un
dopo. Meglio: non ci sarebbe stato nessun prima.
Cosa mi avrebbe aspettato al mio arrivo: il
passato morto o il passato risuscitato? La
desolazione delle rovine o la bestemmia di una
città ricostruita? In entrambi i casi sarebbe stata la
giustificazione della disperazione, la certezza del
male. Non si rimuovono le tombe impunemente. Il
segreto del Maasé-Bereshìt, del principio, è
custodito dall'Angelo della Morte. Ci si avvicina
ad esso solo a prezzo di un sacrificio: quello
dell'ultimo legame, dell'ultima illusione. Ci si
disfa della propria fede o della propria ragione.
279
Per niente. Il gioco è truccato, impossibile
vincere. Non c'è più nulla da vincere.
Dopo la liberazione, a Buchenwald, gli
americani mi volevano rimpatriare. Io mi opposi.
Non ci tenevo ad abitare solo in un posto
abbandonato. Loro insistevano:
- Come, ti rifiuti di tornare a casa? Non avevo
più casa.
- E non sei curioso di rivedere il luogo dove sei
nato, dove hai passato la tua infanzia, dove, per la
prima volta, hai scoperto la malinconia, la
sensazione di pienezza che ti dà il sole quando si
leva sulle cime dei monti?
No, non avevo più quella curiosità. Questa città
di cui mi parlavano non esisteva più. Aveva
seguito gli ebrei in deportazione.
280
Preferii esiliarmi in Francia. Mi misi a vagare un
po' dappertutto. In Israele, in America, in Estremo
Oriente. Lontano, il più lontano possibile.
Corsi da un paese all'altro, da un'esperienza
all'altra, senza sapere se lo facevo per
allontanarmi dalla mia città o per avvicinarmici.
Mi ossessionava, la vedevo dappertutto, identica a
se stessa. Invadeva i miei sogni e turbava lo
sguardo che proiettava sul mondo, sulla gente, su
me stesso. A forza di volermene liberare, ne
diventavo prigioniero.
Più gli anni passavano e più la città mi
affascinava, mi spaventava. Avrei dato tutto per
rivederla e, nello stesso tempo, sfuggirle. Le mie
paure, le mie speranze erano molteplici,
contraddittorie. A volte mi dicevo: la guerra, le
nuvole di fumo, le grida nella notte, i bambini che
281
vanno al mattatoio mano nella mano non sono
altro che un brutto sogno; al risveglio, nel
momento del ritorno, ritroverò il luogo come l'ho
conosciuto: con i suoi talmudisti, i suoi
commercianti, le sue canaglie, i suoi ladri e i suoi
poeti, i suoi mendicanti e i suoi pazzi. E mi
sentivo colpevole di aver sognato la loro morte.
Altre volte mi dicevo: sarò l'unico a ritornare,
camminerò per le strade, solo e senza meta, senza
incontrare un volto familiare, uno sguardo aperto.
E impazzirò di solitudine.
Fui a più riprese sul punto di intraprendere il
viaggio. Sappi da dove vieni e dove vai, ci
insegnano i saggi. Ma all'ultimo momento trovavo
sempre un pretesto per rimandare tutto. Mancavo
di coraggio. Mi capitava di pensare: «Chissà,
forse non ho mai lasciato la mia città». Oppure:
282
«Essa non è mai esistita fuori della mia
immaginazione». O ancora: «Forse l'universo
tutto intero non è che una proiezione smisurata
della mia città».
Un giorno decisi che vent'anni erano abbastanza.
Mi misi in viaggio: succeda quel che succeda.
Vincitore o vinto, il cammino resta lo stesso.
Ignoro se ho agito bene, senza dubbio non lo
saprò mai. Coloro che avrebbero potuto
consigliarmi li ho cercati nelle loro case senza
trovarli. Non erano ritornati.
283
Circondata da una catena di alte montagne e da
due fiumi, Sighet ha sopravvissuto a tutti gli
sconvolgimenti politici e a tutte le occupazioni
militari del secolo. Dapprima parte dell'Impero
austriaco, fu ceduta all'Ungheria che la cedette a
sua volta alla Romania per riprendersela all'inizio
della seconda guerra mondiale. Poi fu la
Germania che ebbe l'onore di regnarvi, cosa che
permise all'URSS di togliergliela prima di
restituirla alla Romania.
Dovetti passare per Bucarest, da dove presi
l'aeroplano fino a Baia Mare. Lì presi un taxi.
Sessanta chilometri, sei ore, quindici dollari.
Malgrado fosse contento di guadagnare tanto
denaro in così poco tempo - è la paga settimanale
di un operaio qualificato - l'autista sembrava
imbronciato. Non gli piaceva guidare di notte su
284
strade male illuminate e in cattivo stato.
- Conoscete Sighet?
- Sì.
- Come la trovate?
- È una città, tutto qui.
- Raccontatemi com'è?
- Non c'è nulla da raccontare.
- Ci sono ancora degli ebrei?
- Ebrei? Non ne conosco.
Non aveva voglia di chiacchierare, ma solo di
imprecare. E io non sapevo ciò che maledicesse
nella sua barba: me, la città o gli ebrei che non
conosceva.
Io, invece, ho molto da raccontare. A volte mi
sembra che da quando l'ho lasciata passo il mio
tempo a parlare di questa città che mi ha dato tutto
e che tutto mi ha ripreso. La città delle prime
285
domande, dei primi timori, dei primi abbandoni. È
là che ho imparato a camminare verso una meta,
poi a preferire il cammino alla meta stessa; è là
che ho presentito la forza della preghiera, poi
quella del silenzio.
Cresciuto in un ambiente profondamente
credente, non domandavo altro che la passione, e
che dominasse ogni istante della mia vita. Ero un
devoto chassid del Wizsnitzer Rebbe, ma
frequentavo anche gli altri rabbini, ascoltavo i
loro racconti, imparavo i loro canti; avrei voluto
non perdere nulla di tutto ciò che poteva essere
imparato. Poi fui allievo di un cabbalista e vissi
alla sua ombra. A mezzanotte si alzava per
mettersi un po' di cenere sulla fronte, si lamentava
per la distruzione del Tempio di Gerusalemme e
per la sofferenza della Shechinà, anche lei in
286
esilio, come noi, con noi. Io ero troppo giovane e
non potevo immaginare che il Tempio stava per
essere distrutto sei milioni di volte, che la
sofferenza di Dio non avrebbe mai potuto
uguagliare né riscattare quella dei bambini ebrei
che, già, venivano mandati al rogo, mentre il
mondo taceva, così come taceva Colui che è
chiamato il suo creatore.
- Stiamo avicinandoci - disse l'autista.
- Dove siamo?
Ai piedi della montagna. Il pericolo è passato, la
valle ci accoglie, ci avvolge.
Sighet: 40 km. Sighet: 30 km. Sul ciglio della
strada una moltitudine di capanne fanno siepe. I
villaggi sorgono davanti ai fari. La notte subito li
ringhiotte.
In
lontananza
qualche
luce
intermittente. Sighet: 20 km. L'automobile, una
287
vecchia Volga, corre adesso a tutta velocità.
Sighet: 15 km. Improvvisamente l'emozione mi
afferra la gola; sento la realtà sfuggirmi. L'autista
non è più un semplice autista di taxi. Di chi è
l'inviato? Verso quale misterioso appuntamento
mi conduce? Con la morte? Con me stesso?
Sighet: 10 km. Sighet: 20 anni.
- Stiamo avvicinandoci - ripete l'autista. Lo dice
sordamente, come una maledizione. Io entro in
città come si entra in un sogno, scivolando, senza
rumore, senza resistenza, accettando in anticipo il
meglio e il peggio: ormai tutto è possibile, è il
luogo dove il noto diventa ignoto, dove le
sorprese si susseguono e si annullano. Ci si
aspetta a ogni momento di inciampare, di
svegliarsi, ma la realtà non ne vuole più sapere di
noi.
288
Esplodo nel tempo che si frantuma in mille
volti, in mille frammenti di esistenza. I morti da
una parte, io dall'altra. Primavera 1944, autunno
1964. La partenza in massa, il ritorno solitario.
Prima sosta, ultima sosta. Partito in treno, ritorno
in automobile. Quel giorno faceva caldo: adesso è
l'inverno che si avvicina, ed è notte. L'inizio e la
fine si congiungono, il loro cerchio di fuoco va
restringendosi, e io resto impigliato.
- Eccoci arrivati - dice l'autista.
Lui non fa parte del paesaggio e per un attimo
non lo riconosco. La mano aperta, reclama il
dovuto; ha fretta, deve rientrare a Baia Mare. Io lo
interrogo:
- Siete sicuro che siamo a Sighet? L'antico
capoluogo del Maramures?
Lui dice di sì, ma io non mi fido. La città
289
assomiglia a Sighet, tutto qui. Questo non prova
niente. Ecco la via principale, la grande piazza, il
cinema, l'albergo, il liceo femminile. Di fronte, la
via detta degli ebrei. A destra i magazzini; più
lontano, a sinistra, il tribunale. Non è cambiato
nulla? Nulla. Allora perché ho l'impressione di un
malinteso, di una farsa? Qualcuno mi ha
ingannato: per divertirsi, l'autista mi ha lasciato in
una città straniera che non mi appartiene. O è
qualcun altro che ride alle mie spalle.
- Siete veramente sicuro?
Me lo giura ridacchiando, ma io non gli credo,
non credo neanche a me stesso. La sua voce
mente, i miei occhi mentono. Questa città mente.
Si chiama Sighet, e allora? Questo non vuol dir
niente: nome falso, identità falsa. Sighet, quella
vera, si trova oltre l'orizzonte, da qualche parte
290
dell'Alta Slesia, vicino a una piccola stazione,
vicino a un grande fuoco che illumina il cielo,
parte di un'immensa città di cenere.
L'autista si spazientisce, le mie allucinazioni non
lo interessano. Lo lascio ripartire. Lui mi ringrazia
e mi augura un piacevole soggiorno. Ed eccomi
solo nella città, solo nella notte. Sono ciò che le
unisce. Mi dico ad alta voce: «La mia città, la mia
notte».
È tardi, la gente dorme. Non oso respirare. La
valigia in mano, resto sul marciapiede con le
spalle all'albergo, senza poter fare un passo. Cerco
di sintonizzarmi con questo silenzio che nega il
mio; e di unirmi alle innumerevoli ombre che si
sprigionano dalle montagne, determinate a
invadere, a calpestare tutto ciò che è aperto, tutto
ciò che è chiuso, la città, la notte e me che sono il
291
loro punto d'incontro. E la memoria, soprattutto la
memoria, non abbastanza aperta, non abbastanza
chiusa.
Mi scuoto: «Ricorda. Sei tornato per ricordare;
ebbene, guarda e ascolta. La grande piazza non ti
ricorda nulla?». Andando alla stazione, gli ebrei
l'hanno scansata. I gendarmi che stabilirono
l'itinerario avevano seguito le direttive di un certo
Adolf Eichmann, venuto di persona a sorvegliare
l'operazione; bisognava evitare il centro per non
scioccare la popolazione, per non imbarazzare i
cristiani dal cuore sensibile. Precauzioni inutili: i
nostri cari vicini si erano già precipitati nelle case
spalancate: c'era del bottino per tutti, per tutti i
bisogni, per tutti i gusti. I saccheggiatori avevano
il compito facile: i poliziotti erano occupati
altrove. Per un tacito accordo, i ricchi rubavano
292
solo dai ricchi, i poveri solo dai poveri. Non
bisognava comunque esagerare: l'ordine è l'ordine.
Ed eccomi ora in pieno centro, nella grande
piazza, solo come soltanto un conquistatore può
esserlo. Non sospettavano che sarei ritornato.
Vittoria sul carnefice, sul giudice. Ma perché
questo vuoto in me, questa incapacità di provare
un po' di fierezza? Troppo tardi per le conquiste.
E per la fierezza.
Non sono neanche triste, né deluso. Non è così
che avevo immaginato il mio ritorno. Allora
come? Non saprei dirlo. Non così. È come se non
fossi ritornato.
Scruto le facciate dai contorni incerti, le finestre
finte, i tetti, i loro alti comignoli: cerco un punto
d'appoggio, un punto di riferimento. Niente. La
città si sottrae allo sguardo come alla luce; sfuma,
293
si cancella: l'incontro non avrà luogo, uno dei due
manca all'appuntamento. La strada suggerisce
l'assenza, la piazza l'abbandono. Non è più la
stessa città.
Non sono sicuro di nulla, mi rimetto in
questione. Che cosa ho in comune con il
ragazzino ingenuo e timido, romanticamente
religioso, scacciato da qui più di vent'anni fa?
Il silenzio. Era lo stesso silenzio il giorno della
partenza, nel cortile della grande sinagoga che
serviva da punto di concentramento. Folli di
rabbia, i gendarmi, la piuma sul cappello,
correvano in tutte le direzioni, urlavano e colpivano uomini, donne, bambini, non tanto per far loro
del male ma per rompere il loro mutismo. Ma la
folla taceva. Non un grido, non un gemito. Ferito
alla testa, un vecchio si alzava, l'aria smarrita. Il
294
volto insanguinato, una donna marciava senza
rallentare il passo. La città non aveva mai
conosciuto un tale silenzio. Non un sospiro, non
un lamento. Neanche i bambini piangevano. Il
silenzio perfetto dell'ultimo atto. Gli ebrei
uscivano di scena. Per sempre.
Cosa avevo pensato dirigendomi con la folla
verso la stazione, verso i vagoni piombati? Che il
silenzio avrebbe vinto, che esso sarebbe stato più
forte di noi, più forte di loro, che si sarebbe posto
al di là del linguaggio, al di là della menzogna,
che avrebbe tratto la propria forza da questa lotta
ancestrale che oppone la vita a ciò che la nega, la
brutalità alla preghiera? Non so a cosa pensavo.
Non so neanche se ero proprio io quel ragazzino
che voltava le spalle alla sua infanzia, alla sua
casa, alla sua fede. Da qualche parte, lungo il
295
cammino, fra la sinagoga e la stazione, fra la
stazione e l'ignoto, egli è stato ucciso. Forse proprio da me.
Si fa tardi, quasi mezzanotte. Sensazione di
urgenza. Sto perdendo la testa: dovrei sbrigarmi.
Ho perduto troppo tempo, e non ho fatto ancora
niente. Fare alla svelta adesso. Ma cosa
esattamente? L'ignoro. Qualcosa. Qualcosa che
devo fare, che sia all'altezza del ritorno se non
della partenza. Risvegliare i morti, forse. Oppure
incendiare la città, unirla agli assenti, e che trionfi
l'esercito delle ombre. O semplicemente mettermi
a cantare o a ridere, per la strada, nel freddo, fino
all'alba, fino all'esaurimento.
Per prima cosa prendere una camera in un
albergo e lasciarvi la valigia. Ingresso misero,
scalcinato, scale senza ringhiera, luce fioca: è
296
questo il famoso Hotel Corona? Con i miei occhi
di bambino ebreo vi vedevo - dall'esterno, da
lontano - un palazzo riservato ai principi
provenienti da lontani paesi: alti funzionari in
viaggio d'ispezione, ufficiali di stato maggiore in
missione speciale, ricchissimi americani in visita
alle loro famiglie. L'edificio simbolizzava il lusso
inaccessibile, la gloria, la spensieratezza, la
libertà, il vizio, il regno del frutto proibito.
Oggi l'albergo porta un nome magniloquente,
composto di parole-base in uso nei paesi
comunisti: popolo, patria, classe operaia, pace,
socialismo. Questo nome nasconde un luogo
impersonale, sordido, deprimente. Senza fasto,
senza comodità. Hanno mentito al bambino che
ero.
Nella sua gabbia di vetro, al primo piano,
297
imbacuccato in una spessa coperta, il portiere si
annoia visibilmente. Volto distrutto, senza età,
senza espressione. Chiedo una camera, una
qualunque. «Prenotato?». «No». «Peccato: niente
prenotazione, niente camera». «L'albergo sarebbe
pieno?». «Niente affatto: è vuoto». «Non
capisco». Il portiere mi spiega che è il
regolamento; molto rigido. Gli allungo una
mancia e questa mette a posto la questione del
regolamento. Adesso bisogna riempire la scheda
di polizia, è la legge; Sighet è città di frontiera
(dall'altra parte del fiume c'è la Russia sovietica),
proibito passarvi quattro ore senza avvertire la
Milizia. Il portiere scrive in un grande quaderno
cognome, nome, professione, stato di famiglia,
luogo di residenza. Io dico: «New York». Lui
lascia cadere la penna, mi fissa: «Venite da New
298
York? A Sighet?». Rispondo: «Sì, da New York, a
Sighet». Il suo stupore aumenta quando gli dico il
luogo di nascita. Non capisce nulla della mia
storia, e neanch'io del resto. Cosa sono venuto a
fare a Sighet, cosi tardi nella notte, così tardi nella
vita? Finalmente, con aria rassegnata, mi dà una
camera: «Se non vi piace ne sceglierete un'altra».
Gli chiedo un asciugamano e lui mi fissa di nuovo
senza capire. Decisamente il mio comportamento
gli sembra sospetto. Gli dico: «Non vi disturbate,
farò a meno dell'asciugamano; del resto, non ho il
tempo di lavarmi, esco subito». Convinto che lo
stia prendendo in giro, apre la bocca per
domandarmi qualcosa, ma io non ci tengo ad
ascoltarlo, e già mi precipito giù per le scale per
ritrovare l'aria aperta, la grande piazza deserta,
spenta. Il vento mi schiaffeggia il viso, e io glielo
299
offro. Respiro profondamente: e adesso?
Domanda assurda. Un bagliore, una lacerazione: a
casa, naturalmente, a casa mia. Finalmente a casa
mia. Il ritorno del figliol prodigo. Preparate il
grande banchetto, il vino e il pane; accendete le
candele, apparecchiate la tavola, aprite le porte ai
poveri, ai mendicanti, alle anime erranti, tradite e
lasciate in disparte. Che regni la gioia, che il canto
sollevi i petti, che la pace riconcili i vivi e i
sopravvissuti: amatevi l'un l'altro, rallegratevi, è la
fine del viaggio, è la festa del ritorno. Papà, vieni
e alza il bicchiere: lavorerai dopo; mamma, lascia
la tua cucina: mangeremo dopo; e tu, sorellina,
invita i tuoi compagni morti a unirsi a noi: giocherete dopo. Tutti voi che mi sentite, aspettatemi
fuori, sui gradini del magazzino, nell'atrio. Arrivo,
mi sentite, arrivo!
300
Troverai la strada? Niente di più semplice, le
mie gambe mi ci porteranno se i miei occhi non
vedono più al buio, non vedono più del buio. Esse
hanno una memoria migliore degli occhi; è vero
che hanno meno sofferto, non hanno visto le
nuvole di fumo che oscuravano il sole, le nuvole
dove tutto un popolo, in ranghi compatti, saliva
sempre più in alto.
Avanzo lentamente, prudentemente. La caserma
dei pompieri, dov'è la caserma dei pompieri?
Dovrebbe apparire all'angolo della strada, ma non
c'è. Rasa al suolo, inghiottita. E la baracca,
all'angolo, all'entrata di via Degli Ebrei? Il
vecchio Semel, d'inverno come d'estate, vi vendeva la sua frutta: niente più baracca, niente più
frutta, niente più Semel. Più lontano, la chiesa; da
bambino distoglievo lo sguardo quando ci passavo
301
davanti. Grazie a Dio c'è sempre. E la casa, la mia
casa? Calma. Ancora qualche istante e saprai. La
vedrai o non la vedrai. Ho paura. Ho voglia di
tornare indietro, di rifugiarmi nel dubbio. Troppo
tardi. Sono preso nell'ingranaggio, bisogna
continuare. Non correre, né avanti né indietro:
correre non serve più a niente. Ma le gambe si
rifiutano di ubbidirmi: stanotte la terra gli è ostile,
il cielo le attira. Ora non corro più, volo, sono
l'angelo che si libra sopra i tetti. Fuggo la notte e
la porto sulle mie spalle; la città mi fugge e
finisco per portare anche lei sulle mie spalle:
comignoli, alberi, case, nuvole, prigioni e caserme, voliamo tutti, verso una città svanita, verso un
casa rubata, verso ciò che era e non sarà più. E
all'improvviso sono afferrato da una voglia
irresistibile di gridare, di urlare a pieni polmoni:
302
«Che la creazione crolli, che la notte si laceri, che
la terra tremi una volta per tutte!». Ma non ho più
potere sul mio corpo. Grido e non emetto alcun
suono. Grido e non riesco a sentirmi. Grido e i
bravi abitanti di questa città tranquilla continuano
a dormire, come se nulla fosse. Non temono né il
silenzio della notte né quello dell'alba.
E tuttavia corro come un pazzo verso la pazzia,
a denti stretti, con la morte nell'anima,
sottraendomi alle leggi di gravità, a tutte le leggi.
So che arriverò in ritardo - in ritardo sulla morte ma invece di rallentare corro sempre più
velocemente. E mi sembra che correrò così fino
alla fine dei tempi, pur sapendo che sto
commettendo una sciocchezza irreparabile, che è
troppo tardi, che nessuno né niente mi aspetta
laggiù, nella casa grigia e bassa all'angolo di due
303
strade; se è ancora in piedi, che sia maledetta:
degli estranei la abitano.
Eccola.
Arresto brusco, risveglio brutale; non ho che un
desiderio: sdraiarmi sul marciapiede, riposarmi,
riprender fiato, non correr più, non pensare più,
non guardare più, non giocare più al fantasma fra
gli uomini, all'uomo fra gli uomini. Ma non è né il
luogo né il momento. Guardo e ascolto come non
ho mai guardato e ascoltato. I rumori
impercettibili, le vibrazioni segrete, le ombre, li
capto, li contamino, li faccio miei, sarò la loro
bara o la loro cassa di risonanza, non ha
importanza, lo si saprà domani, se ci sarà un
domani.
In questo momento non c'è che la strada, la casa:
eccole che mi appartengono di nuovo. Più e
304
meglio di prima. I miei muri, i miei alberi, i miei
vicini, i miei testimoni, i miei assassini, i miei
compagni di giochi, di classe, di lotta, d'agonia. È
qui, su questo pezzetto di terra, che ho scoperto il
senso dell'avventura, il fuoco del desiderio, il
potere del possesso; è qui che li ho perduti.
Mi aggiro a lungo come un ladro intorno alla
casa con le tende tirate, mi domando se non
dovrei semplicemente bussare alla finestra e
svegliare gli inquilini: «Lasciatemi entrare, me ne
andrò domani, se ci sarà un domani». So che non
lo farò e questo mi umilia. Poi mi fermo vicino al
portone e aspetto un miracolo, un miracolo
qualunque. Sfioro con le dita la staccionata
intorno al giardino, la facciata del magazzino, e
aspetto che mi rendano gli oggetti smarriti, le
immagini dissolte. Mi sento allo stesso tempo
305
vulnerabile e invincibile: posso fare tutto, ma i
miei atti non troveranno posto né nel tempo né
nella coscienza degli altri; posso evocare il
passato, non posso risuscitarlo: il passato è morto
e io sono solo. Avrei dato tutto perché un
bambino si mettesse a piangere, perché una madre
cantasse una ninnananna, una qualunque
ninnananna,
perché
questa
ninnananna
raccontasse una storia, una qualunque storia. Ma
non avevo nulla da dare e la notte si prolungava e
soffocava ogni voce.
Eppure, anche qui, niente è cambiato. La casa di
fronte è intatta: vi abitava il Borsher Rebbe. A
parte la luce che non illumina più le finestre.
Anche la casa accanto alla nostra è intatta: vi
abitava il Seloftener Rebbe. A parte le preghiere
che non si sentono più dall'esterno. Partiti
306
entrambi. Ma la strada è rimasta la stessa, il
mondo è rimasto lo stesso, e anche Dio è rimasto
senza dubbio lo stesso: ma senza ebrei.
Mi dico che dovrei aprire il portone, attraversare
il cortile, salire le scale, entrare in cucina. Chissà,
forse qualcuno mi aspetta accanto alla stufa,
qualcuno che non mi farà domande, ma mi
inviterà a sedermi, mi metterà davanti un
bicchiere di latte, un pezzo di pane, e mi dirà:
«Hai percorso un lungo cammino, sei allo stremo
delle forze, il letto è pronto, vai a riposarti».
E mi rispondo: «No, soprattutto non questo, non
svegliare chi dorme nel tuo letto, non ti perdonerà
di essere tornato vivo. Chissà? Forse non dorme,
forse ti aspetta, sa che sei qui, ti sta spiando; sono
vent'anni che spia il tuo ritorno. Vattene piuttosto,
lascia la città, il paese; non c'è più nulla per te da
307
vedere, più nulla da cercare».
La notte avanza e io attendo un segno. Bisogna
che mi decida. Una volta di più. L'ultima. Sarà
l'ultimo passo, ma non oso farlo. Sono venuto da
lontano per rivedere la casa, il cortile, il giardino,
il pozzo vicino alla cantina, e adesso che essi sono
a portata di mano non riesco a varcare il portone.
Il cortile non mi è mai parso così inaccessibile.
Oscuramente, so che il mio prossimo passo,
qualunque esso sia, sarà quello che mi
condannerà.
Con una delicatezza infinita la mia mano
accarezza la maniglia di ferro prima di girarla
lentamente, mentre con la spalla spingo il portone
che emette il suo piccolo cigolio familiare.
Attenzione. Niente. Mi irrigidisco prima di continuare ad aprire. Sto in ascolto: nessun rumore
308
sospetto. Avanti. Mi introduco all'interno, poi mi
appoggio con tutto il mio peso al portone richiuso.
Mi si piegano le gambe, tutto mi fa male, sto
delirando; il cuore mi batte violentemente, il mio
volto è in fiamme, vedo tutto e non vedo niente. Il
cortile, il nostro cortile. Sette strati d'oscurità non
ostacolano il mio sguardo. Gli oggetti hanno
resistito alla tempeste, agli avvenimenti. Sono
tutti al loro posto. La botte vuota all'entrata della
cantina. Il secchio vuoto sospeso sopra il pozzo,
l'albero dai rami secchi rivolto verso il giardino,
dietro il muro divisorio. Una sedia sulle scale,
davanti alla cucina. Vicino al pollaio un grande
catino pieno d'acqua. Lascio che il mio sguardo
frughi dovunque per poter portare via tutto con
me: il riflesso della notte sulle finestre, il
mormorio del vento sul tetto del granaio, il respiro
309
dello spettro immobile che mi spia e mi giudica,
che capisce tutto e non capisce niente. Mi resta
ancora da entrare in cucina, di là in salotto, e poi
nella camera da letto.
Non l'ho fatto, non ho spinto l'esplorazione fino
in fondo. È un cane che mi ha salvato. Il suo
abbaiare. Mi aspettavo di tutto tranne questo. Non
c'erano mai stati cani in casa mia. I bambini ebrei
erano stati abituati a temere questi amici feroci del
nemico, tutti demoniaci, tutti antisemiti.
Un'antica paura mi invase. Riaprii il portone e in
meno di un secondo fui sul marciapiede: espulso
di nuovo. Da un cane, il vero vincitore di questa
guerra. Come già un tempo, fuggii. Corsi fino
nella strada principale e nella grande piazza; in
mancanza di un altro rifugio mi lasciai cadere su
una panchina e mi presi la testa fra le mani. Il
310
dolore, la rabbia, la vergogna, soprattutto la
vergogna, mi accecavano. Non c'era più nulla da
capire.
Presto la notte si dissipò. La città si aprì ai primi
raggi del sole. Un nuovo giorno nasceva in cima
alla montagna.
Io ho vissuto il mio ritomo molto tempo prima.
Ho cercato di descriverlo nel mio libro La Ville de
la chance. A cose fatte, la realtà confermò la
finzione. Senza superarla, senza sminuirla.
Retrospettivamente, il romanzo si fa racconto. A
parte le corse nella notte non ci manca nulla. Il
mattino mi fece tornare in mente il libro: mi servì
da guida. Vista di giorno, la città mi apparve
esattamente come l'avevo sognata: nuda, incolore,
senza mistero.
Come nel romanzo, era un mattino d'autunno.
311
Era bel tempo. Un sole giallo brillava in cielo.
Giallo il fogliame; gialle le facciate; gialle le
foglie morte; gialli, tristi, scoraggiati, gli uomini e
le donne andavano al lavoro, al mercato, in
chiesa; i bambini andavano a scuola.
Io fissavo la gente che incontravo: riconoscerò
qualcuno? Un amico? Un nemico? Un vicino?
Mai visti. Non li conoscevo, non mi conoscevano.
Gli uni mi guardavano senza vedermi, con la
mente altrove; gli altri mi vedevano senza
guardarmi, di sfuggita. Nessuno si avvicinava,
nessuno voltava la testa. Non un gesto di stupore,
di complicità. Niente. Non manifestavano né
contentezza né delusione: il mio ritorno non li
toccava affatto. Ero sopravvissuto: questo
riguardava me, non loro. Ai loro occhi, io non
rappresentavo una persona, anche invisibile, né
312
un'ombra, anche fugace, ma una cosa senza peso,
senza passato. Se gli avessi rivolto la parola,
avrebbero continuato per la loro strada; se mi
fossi messo a gridare allo scandalo, alla frode, non
avrebbero neanche alzato le spalle. Come se non
esistessi. Come se non fossi mai esistito.
Sembravano partecipare a un gioco, a una
cospirazione la cui regola fosse l'indifferenza. I
loro volti non riflettevano né odio né cattiveria, e
neanche curiosità. Lo straniero che io ero non
occupava nessun posto né nel loro presente né
nella loro memoria. E dire che c'era stato un
tempo in cui avevano fatto intimamente parte del
mio universo, come io del loro.
Vecchi compagni di classe? Vecchi amici dei
miei amici? Vecchi clienti di mio padre? A chi di
loro avevamo affidato i nostri candelabri dello
313
Shabbàt, i nostri vestiti pesanti, i nostri titoli?
Un'anziana massaia tornava dal mercato: non era
la signora Stark che aveva così gentilmente
acconsentito a tenere in casa sua la nostra
macchina da cucire e il corredo della mia sorella
maggiore? Un funzionario dall'aria energica
usciva dal tribunale: non era il coraggioso
avvocato a cui avevamo «venduto» una delle
nostre proprietà? Davanti alla vecchia pasticceria
che era appartenuta alla famiglia Stein, un uomo
dalla faccia quadrata parlava al proprio figlio: non
era Pishta il vanitoso, quello che, durante la settimana di Natale, travestito da diavolo e con la
frusta in mano, aveva per santa abitudine quella di
punire i suoi compagni ebrei per aver ucciso il suo
Dio? Sempre in stato di allerta, mi mischiavo alla
gente per la strada, nei magazzini, al mercato, la
314
sfioravo, la urtavo, ne ascoltavo le conversazioni,
i pettegolezzi, le lamentele: non erano imbarazzati
davanti a me, era come se non esistessi. Ho visto
l'uomo che abita nella mia casa, un giovane
ingegnere di origine ungherese, l'occhio vivo,
ambizioso, lavoratore, eccellente padre di
famiglia, membro entusiasta del Partito. Non gli
ho detto chi ero. Avrebbe risposto: «Mi dispiace».
Ma neanche; non avrebbe detto niente. Non si
sarebbe ricordato del mio nome. Non più degli
altri. Eppure non gliene volevo. Se fossi ritornato
subito dopo la fine della guerra il mio comportamento sarebbe stato diverso. Avrei preteso
che venisse fatta giustizia. Avrei fatto di tutto per
punire i miei vicini, colpevoli di averci scacciato,
e poi derubato e rinnegato. Adesso, in ogni modo,
era troppo tardi. Per mancanza di giudici, per
315
mancanza di imputati, il processo non avrà luogo.
I tempi sono cambiati, i ruoli sono stati
ridistribuiti, impossibile riconoscercisi. Più che
altrove, è a Sighet che ho capito che gli ebrei
hanno perduto la guerra. E se ce l'avevo con gli
altri era semplicemente perché ci avevano
dimenticati.
Così presto, così bene.
Un tempo, in questo tipico shtetl, Israele era re.
Nessuno metteva in discussione i suoi diritti. Non
si poteva concepire Sighet senza i suoi diecimila
ebrei che, pur essendo una minoranza, con la loro
vitalità, e con la loro sfida, davano il tono in tutto
e per tutto. Il resto della popolazione, circa
quindicimila persone, chiudevano gli occhi.
Come in tutta l'Europa centrale, gli ebrei ricchi
erano più ricchi degli altri, i poveri più poveri.
316
Così il delatore ebreo - lo conoscevo bene: un
rosso taciturno dallo sguardo pungente - era più
ignobile e più detestato dei suoi colleghi cristiani.
In santità e in avarizia, in scaltrezza e in ingenuità,
in bene e in male, gli ebrei vivevano in uno stato
di continuo superamento.
Negli anni trenta mio padre aveva rifiutato un
visto americano dicendo: «Perché dovrei andare a
cercare l'America in America, visto che è qui?».
Agli inizi degli anni quaranta ci giunsero alcune
voci su ciò che stava accadendo in Polonia; ma
non suscitarono molta inquietudine. I rabbini
dicevano: «Non ci succederà nulla, perché Dio ha
bisogno di noi». I commercianti dicevano: «Il
paese ha bisogno di noi». I medici dicevano: «La
città ha bisogno di noi». Tutti si credevano
indispensabili, insostituibili.
317
Nel 1943 era ancora possibile procurarsi dei
«certificati» per la Palestina: nessuno ne volle
sapere. Sì, uno. Gli altri sorridevano: perché
partire e ricominciare da zero? Qui si sta bene, la
popolazione non ci è ostile, non potrebbe fare a
meno di noi e lo sa.
In Polonia, in Ucraina, in Germania, terra e cielo
bruciavano giorno e notte, non c'erano quasi più
ebrei nell'Europa occupata, ma per noi il mondo
sembrava stabile. Il pericolo non era entrato nelle
nostre coscienze né turbava i nostri sogni. Nelle
yeshivòt i ragazzi studiavano il Talmud; al cheder
i bambini studiavano la Bibbia; nei magazzini si
comprava, si vendeva, ci si contendevano i clienti,
le merci. In via Degli Ebrei, nelle ore calme, ci si
riuniva in piccoli gruppi per discutere di affari, di
politica, di finanza, di strategia e di chassidismo; e
318
se qualcuno avesse osato proferire che si stava
avvicinando il giorno in cui la città si sarebbe
disfatta dei suoi ebrei come di un branco di
appestati, gli avrebbero riso in faccia.
Due mesi prima del decreto che istituiva il
ghetto, gli ebrei si sentivano ancora del tutto
sicuri. La loro fede nel futuro sfiorava
l'incoscienza. La guerra? Sopravviveremo. La
morte?
Sopravviveremo.
I
nemici?
Sopravviveremo. Un maestro spiegava al proprio
allievo: «Sai cos'è l'eternità di Dio? Siamo noi.
Danzando sul rogo, sfidando la sofferenza, i
castighi, l'uomo crea l'eternità del suo creatore,
gliela offre e la giustifica».
Poi, all'inizio del 1944, arrivò l'occupazione
tedesca, poco prima di Pasqua. Una sorda
angoscia invase le case, gli sguardi. I volti si
319
oscurarono. Di colpo gli antisemiti gettarono la
maschera, il loro numero crebbe a vista d'occhio.
Le misure antiebraiche si susseguivano
incessantemente: confisca dei beni, la stella gialla,
il ghetto. E gli ebrei che si rifiutavano di perdere
la fiducia: «Passerà, basta aver pazienza, basta
non disperare».
La Festa della Libertà fu celebrata nell'attesa di
un evento che nessuno poteva né voleva
prevedere.
L'eternità ebbe fine un mese dopo.
E la vita continua. Come se nulla fosse
accaduto. La città conta di nuovo venticinquemila
abitanti, che conducono un'esistenza normale, più
o meno tranquilla, più o meno gradevole. Senza
medici ebrei, senza commercianti ebrei, senza
ciabattini ebrei. Ne fanno a meno, non ne sentono
320
la mancanza. Il vuoto è stato riempito senza
apparente difficoltà. Tutti gli appartamenti sono
abitati, tutte le scuole piene, tutti i magazzini presi
dallo stato. La comunità ebraica è costituita da
una cinquantina di famiglie, originarie per la
maggior parte di villaggi vicini.
La gente parla di progresso, di speranza. Molti
edifici recentemente costruiti sono l'orgoglio della
città: una scuola elementare, una cooperativa,
un'industria tessile. Una prova di più che non si ha
certo bisogno degli ebrei per andare nel senso
della Storia.
Se fossi stato un semplice turista, avrei dovuto
ammirare le realizzazioni del nuovo regime, le
statistiche in mostra dappertutto. Ma non lo ero.
Più della notte precedente, prendevo coscienza
della mia condizione di straniero, di
321
indesiderabile, di intruso, in questa città sinistra,
subdola, senza importanza, senza vita propria.
Condannato all'esilio, ai margini, cercavo il mio
passato e non lo trovavo. Perché questa calma
davanti alla sinagoga del Talmud Toràh e a quella
dei Machzikei Toràh, e davanti al Wizsnitzer
shtibel? Visitai tutte le sinagoghe abbandonate,
piene di libri santi ammucchiati alla rinfusa e
coperti di polvere. La più antica, la più grande non
c'era più: distrutta dai tedeschi in ritirata. Una
lapide commemorativa era stata collocata al suo
posto.
Incredulo, in questi luoghi immutati, anonimi,
cercai Kalman il cabbalista, Moshé il pazzo,
Shmukler il principe, Leizer il grasso, i miei
alleati, i miei idoli, i miei enigmi viventi:
scomparsi senza lasciare traccia. Vagai a lungo
322
nei vicoli oscuri e nei campi vicini al fiume: il
mio sguardo non afferrava nulla. Città stregata,
inaridita. Vi era passato un «raggio della morte» e
aveva risparmiato soltanto le pietre.
Mi fermai davanti alla casa di mia nonna;
aspettai che mi chiamasse per farmi un regalo, un
sorriso. E davanti al magazzino di mio zio,
talmudista erudito e misero commerciante,
aspettai che uscisse e mi interrogasse su un passo
della Bibbia. E davanti alla casa del mio maestro
aspettai che mi facesse segno di avvicinarmi per
parlarmi del favore che Dio nella sua misericordia
infinita accorda ad alcuni eletti: muoiono per
santificare il suo nome. Avrei voluto fare o dire
qualcosa: non c'era nulla da fare, nulla da dire.
Mille avventure, una sola fine.
Deserta, via Degli Ebrei, una volta così animata,
323
così rumorosa. Ha cambiato nome. Si chiama via
Dei Deportati. Chi ha deportato chi? Dove e
perché? Nessuno si pone la domanda. Sepolto, il
passato. Si tratta di vivere. E soprattutto di
dimenticare. Ho incontrato il mio vecchio maestro
delle elementari: il mio nome non gli diceva
niente. Ho parlato con una vicina che veniva da
noi tutti i giorni: non si ricordava di me. Un
giorno un bravo cittadino getterà un'occhiata
stupita al nome della via dei negozi e dirà con la
massima innocenza: «Via Dei Deportati? Mi
sembra che si trattasse di ebrei». Non ne sarà
sicuro. Già oggi non lo è. Con lui l'oblio assume il
valore di un'ossessione. Gli ebrei deportati da
Sighet non erano di Sighet. Di un'altra località
forse, di un altro pianeta. Se tornassero, sarebbero
cacciati di nuovo.
324
Non era sempre stato così? Senza dubbio, ma io
ero troppo giovane per capirlo. La popolazione
aveva da sempre pensato che gli ebrei nascono
stranieri, non lo diventano. Ma ci è voluta una
guerra per averne la conferma.
Adesso questi tranquilli cittadini vanno ancora
più in là. Per loro non sono neanche uno straniero
privato della sua infanzia, neanche un fantasma.
Per loro io non esisto. Hanno dimenticato tutto?
No. Danno piuttosto l'impressione di non aver
nulla da dimenticare. Non ci sono mai stati ebrei a
Sighet, l'antico capoluogo della celebre regione
del Maramures.
Così le vittime sono state espulse non soltanto
dalla città ma anche dal tempo.
L'unico luogo dove mi sentii a casa fu al
cimitero. Non ci avevo mai messo piede prima:
325
ingresso vietato ai bambini. Perché? Così.
Crescerai e capirai. Il male del trapasso, il mistero
dell'aldilà. Il luogo mi affascinava. Immaginavo i
morti a parlare con Dio o fra di loro, sfioravo i
muri, tendevo l'orecchio; ma c'era sempre
qualcuno per rimandarmi a scuola o a casa.
Adesso potevo entrare liberamente. Non c'era più
nessuno per dirmi ciò che è permesso e ciò che
non lo è. La porta è aperta, niente più cancello,
niente più custode, sono cresciuto.
È l'unico luogo di Sighet che mi ricorda Sighet,
l'unico luogo che resta di Sighet. Fuori mi trovavo
in una terra ostile. Sarei potuto cadere in mezzo
alla folla e nessuno mi avrebbe aiutato. Qui mi
sentivo al sicuro, in seno a una grande famiglia
pronta ad accogliermi, a proteggermi.
Forse perché i morti hanno avuto più fortuna
326
degli altri. Rimasti dov'erano, non hanno dovuto
subire nessuna umiliazione. Li hanno lasciati
tranquilli. In pace. A casa loro. Perciò sono andato
da loro non per dirgli addio ma per affidargli la
città, il passato ebraico della città.
Vagai fra le tombe. Avevo comprato delle
candele che accesi e misi dovunque incontrassi un
nome che mi faceva vibrare. Il vento le spengeva
subito.
Da lontano e da vicino, un tempo la gente
veniva qui soprattutto fra Rosh Hashanà e Yom
Kippur. Si prostravano sulle tombe degli
Zaddikim, li imploravano di pregare Dio che
cessasse di accanirsi sul popolo troppe volte eletto
per troppe sofferenze. Preghiere e lacrime inutili.
Le intercessioni, le suppliche non sono servite a
nulla. Dio si era tappato le orecchie.
327
Alla fine mi fermai davanti al monumento eretto
alla memoria di una generazione morta senza
sepoltura. Un blocco di pietra inclinato, con
qualche parola sopra. Tomba senza cadaveri.
Pietra tombale al posto di molte tombe, di molti
cadaveri. Accesi l'ultima candela. Con mia grande
sorpresa prese subito fuoco. La fiamma guizzò
verso l'alto, sempre più in alto, come se dovesse
salire così fino al settimo cielo, e ancora più
lontano, fino alla decima sfera, e ancora più
lontano, fino al trono celeste, sempre più lontano,
sempre più in alto.
Un vecchio ebreo, sorto da non so dove, mi
venne vicino. Senza salutarmi, senza rivolgermi la
parola, tirò fuori di tasca un siddùr e si mise a
recitare il canto funebre El malé rachamìm
shochèn bamromìm. Chi era? Chi l'aveva man328
dato. Come aveva saputo che mi trovavo là?
Eravamo soli e non so neanche se si accorse della
mia presenza. A un certo punto la sua voce si
ruppe. Io chiusi gli occhi. Mi vergognavo di
guardare, di piangere, di non piangere.
L'ultima candela bruciò a lungo. A volte mi dico
che sta ancora bruciando.
Ho incontrato un secondo ebreo davanti alla
sinagoga sefardita, dove qualche decina di fedeli
viene ancora ad assistere alle funzioni dello
Shabbàt e delle feste.
La sola vista di quest'uomo barbuto, vestito da
chassid, bastò a commuovermi. Apparteneva a un
altro mondo, a un'epoca lontana, passata. Volto
rugoso che emanava bontà, sguardo pieno di
calore, di nostalgia, labbra sciupate che si
muovevano impercettibilmente. Finalmente un
329
ebreo di altri tempi: un ebreo che nessuno
sconvolgimento aveva toccato. Lo abbordai in
jiddish; sorpreso, mi strinse la mano e la tenne a
lungo fra le sue. Gioia inesprimibile, inespressa.
Shalom aleichem, aleichem shalom: la pace sia
con voi, compagno. Avevamo le stesse idee.
Risposte semplici a domande banali. No, non era
originario di Sighet. No, non aveva conosciuto
mio padre. Che faceva in questa città? Si
occupava dei vivi. Rabbino? No. Inserviente della
sinagoga? No. Insegnava ai bambini la lingua
sacra? Neanche. Del resto, non c'erano più
bambini interessati a impararla. «Sono lo
shochèt», mi disse, il macellatore rituale.
Incredibile ma vero: ci sono ancora a Sighet e nei
villaggi della regione degli ebrei che mangiano
cashèr. Non molti. Una decina qui, una decina lì.
330
Cinque a Borshe, un paese di montagna; tre a
Stremtere, tre anche a Dragmerest. È per loro che
aveva deciso di restare. Aveva mandato la moglie
e i figli all'estero e sarebbe andato a raggiungerli
soltanto quando nessuno avrebbe più avuto
bisogno dei suoi servizi. Non si sentiva libero
finché avrebbe potuto aiutare degli ebrei a restare
ebrei.
- Non potevo risolvermi ad andarmene - mi
disse sorridendo. - Non potevo comunque
abbandonare una comunità ebraica, così, senza
shochèt.
Non si rendeva conto quanto le sue parole mi
facessero male. Cinquanta famiglie, una
comunità! E dire che un tempo questa comunità
era stata una fonte inesauribile di ricchezza, di
gioventù...
331
Non so se la leggenda dei trentasei Giusti
risponde a verità, non so se il nostro secolo conta
ancora trentasei Giusti. Ma so che questo shochèt
è uno di loro.
Ventiquattr'ore dopo il mio arrivo in città, ebbi
fretta di lasciarla. Un'aurora, un crepuscolo: era
sufficiente. Già ero invaso dai rimorsi. Avevo
sbagliato a tornare, a cercare una conclusione per
una storia che non ne aveva. Dei quattro saggi
che, secondo il Talmud, erano penetrati nel
frutteto della conoscenza, uno solo riuscì a
sortirne indenne, e anche lui non osò più
ritornarci.
L'automobile mi aspettava, l'autista fremeva.
- Andiamo?
Sì, andiamo. Gli feci segno che ero pronto. Era
la fatica? Con uno sforzo doloroso sollevai la mia
332
piccola valigia, la misi sul sedile davanti e poi mi
lasciai cadere su quello posteriore. Una parte di
me voleva restare.
- Andiamo?
Sì, andiamo. Mise in moto e la macchina partì.
- Non così velocemente - dissi a bassa voce.
Volevo vedere ancora qualcosa. La bambina che
si attaccava al braccio della mamma. La coppia
che litigava davanti a una vetrina. Il poliziotto di
guardia davanti al tribunale. I passanti che non mi
avevano visto arrivare e che non mi vedevano
ripartire.
Sì, andiamo. Questa volta era per davvero.
Nessuna possibilità di ritorno. Ecco la strada
principale, il cinema, la pasticceria, l'albergo, il
liceo femminile. Un ultimo rimprovero: sono
venuto a fare qualcosa, ma continuo a non sapere
333
cosa. Un'ultima occhiata alla mia strada: il
campanile della chiesa, il nuovo edificio
scolastico e, più lontano, all'angolo di due strade,
una casa, la mia casa. Improvvisamente, le
lacrime. Una certezza terribile: non la rivedrò più.
Sighet era ormai scomparsa dietro l'orizzonte,
ma io continuavo a guardare verso di lei. Poi capii
che in fondo non le dovevo più niente. La rottura
era stata totale.
Perché la città che un tempo era stata la mia non
è mai esistita.
334
La nostra colpa comune
Il processo Eichmann a Gerusalemme era
«storico» nella misura in cui non si limitava a
giudicare i crimini e la degradazione morale di un
uomo e perfino di un sistema, ma cercava di
definire, illuminandola brutalmente, tutta un'epoca
che, con la sua cieca volontà e il suo esito, tende a
sfuggire alla comprensione umana.
Il fenomeno Eichmann, come è stato
«possibile»?
A vent'anni dalla guerra si brancola ancora nel
buio. Come ammettere una vittoria così totale
335
della bestia sull'uomo, e ciò al livello di una
nazione? Come capire la doppia metamorfosi di
due popoli, l'uno in assassino e l'altro in vittima
docile e silenziosa? A un certo punto, il perché e il
come diventano la stessa cosa, si confondono.
Si sperava che dal processo sarebbe uscita una
risposta. Ci si sbagliava. Ho domandato un giorno
allo scrittore americano Alfred Kazin se, a suo
avviso, la morte di sei milioni di ebrei aveva un
senso, e lui mi ha risposto: «Spero di no».
Nessuna risposta potrebbe essere più semplice e
più vera. Il processo, invece, avrebbe dovuto
almeno formulare la domanda, dare una
dimensione non temporale al grido in essa
contenuto.
Perché condannare Eichmann non era né
sufficiente né possibile. L'enormità, se non
336
l'assurdità dei suoi atti, lo trascendeva, lo
collocava fuori dal tempo, lo sottraeva alle leggi
degli uomini: l'unico dialogo possibile era fra lui e
i morti. Se il processo presentava a volte un lato
irreale, è perché i personaggi principali, a
cominciare dall'imputato, sembravano a loro agio,
troppo a loro agio, nei rispettivi ruoli: come se si
trattasse di un processo normale in cui un essere
umano è giudicato dai propri simili. Eichmann
parlava eloquentemente, senza timore, senza
reticenza, citando documenti e cifre, difendendo
la sua testa con accanimento; cosi riusciva spesso
a conferire a queste udienze solenni un tono falso:
non era di questo che si trattava, non era lui - non
soltanto lui - che si giudicava, ma la Storia. A un
tempo individuo e simbolo, Eichmann rientrava
tanto nel campo della psichiatria e della metafisica
337
che in quello della legge giudiziaria.
Chi critica il modo in cui il processo si è svolto
gli rimprovera precisamente la sua modesta
portata. Il fascio di luce non conduceva
abbastanza lontano, non apriva un orizzonte
sufficientemente ampio. Si restava troppo nel gioco della legalità. Invece di servire da punto di
partenza, l'imputato diventava l'unico obiettivo.
Su questo piano l'equazione era necessariamente
sbagliata. Giuridicamente, se gli Eichmann sono
colpevoli, vuol dire che gli altri sono innocenti.
Ma la conclusione avrebbe dovuto essere diversa:
se gli Eichmann sono colpevoli, vuol dire che
anche gli altri lo sono.
D'accordo con Curzio Malaparte e anche con
Karl Jaspers, noi sosteniamo che a livelli diversi
tutti noi abbiamo una parte di responsabilità per
338
ciò che è accaduto in Europa. Facciamo parte di
una generazione perduta e colpevole allo stesso
tempo. Tutte le coscienze sono umiliate. Dare la
colpa, tutta la colpa, a un Eichmann è troppo
comodo. Vuol dire eludere il problema. Che sia
colpevole nessuno ne dubita, ne eravamo convinti
fin dall'inizio. Non era necessario istruire un
processo per averne la prova. Se il processo era
importante - e io dico che lo era - è perché
facendo rivivere il passato ci dimostrava che un
crimine può superare i suoi limiti e fare in modo
che la colpa ricada anche su chi si tiene a distanza
di sicurezza. Senza questa lezione, il processo può
essere spettacolare, ma è, se non inutile, almeno
incompleto.
I futuri storici troveranno senza dubbio
parecchie lacune nel processo Eichmann per
339
giustificare
ricerche
più
approfondite.
Contrariamente alle nostre attese, l'accusa si è rifiutata di abbandonare il terreno limitato del «caso
Eichmann». La parte che l'umanità, nazificata o
meno, ha avuto nel programma di sterminio è
stata menzionata soltanto incidentalmente.
Eppure, senza l'aiuto e la tacita approvazione
degli ucraini, degli slovacchi, dei polacchi, degli
ungheresi, i tedeschi non avrebbero mai potuto
risolvere
la
«questione
ebraica»
così
completamente e così rapidamente. Gli slovacchi
pagavano una certa cifra per ogni ebreo che i
tedeschi deportavano dal loro paese; gli ungheresi
esercitarono pressioni su Eichmann, che non
mancava certo di zelo, perché accelerasse i
trasporti; gli ucraini e i lettoni superarono i
tedeschi in crudeltà. Quanto ai polacchi... Non è
340
un caso che i campi peggiori siano stati costruiti
in Polonia e non altrove.
Dovunque la popolazione locale si opponesse
alla deportazione dei propri concittadini ebrei - è
un fatto stabilito, indiscutibile - il «rendimento»
era basso, insoddisfacente. Lo stesso Eichmann lo
ha riconosciuto e sottolineato nelle confessioni
che ha dettato a Buenos Aires al giornalista olandese Wilhelm Sassen. In Danimarca, quasi tutta la
popolazione ebraica venne salvata. In Francia, in
Belgio, in Olanda, paesi in cui le misure
antiebraiche erano male accolte, i rappresentanti
di Eichmann non potevano assolvere il loro
compito se non in modo assai mediocre,
provocando un'indignata amarezza a Berlino. Ma
là dove la popolazione stessa aspirava a di ventare
judenrein, i carri bestiame con il loro carico uma341
no correvano senza ostacoli verso la notte. Queste
verità non hanno trovato a Gerusalemme l'eco che
meritavano.
Ugualmente, l'accusa non ha insistito abbastanza
sull'atteggiamento del mondo libero, che, colpito
da una sorprendente passività, guardava e lasciava
fare. Se uomini come Roosevelt, Churchill o il
papa avessero fatto sentire la loro voce, la cifra
delle vittime avrebbe raggiunto i sei milioni? (*
Vedi su questo argomento il prossimo libro di
questa collana: Walter Laqueur, Il terribile
segreto. (N.d.T.)
Il fatto che i tedeschi prendessero tante
precauzioni allo scopo di nascondere i loro
misfatti prova che essi tenevano conto
dell'opinione mondiale. Nelle confessioni citate
prima, Eichmann nota con ironia che se fosse
342
anche riuscito a vendere, tramite Joel Brand, un
milione di ebrei, nessun paese li avrebbe
comprati. L'indifferenza del mondo cosiddetto
civile lasciò ai tedeschi campo libero. Ciascuno
chiudeva pudicamente gli occhi.
A Washington e a Londra, e anche a
Gerusalemme, erano al corrente di ciò che stava
accadendo fin dal 1942. Hitler e Goebbels non lo
ignoravano. Si aspettavano una valanga di
proteste e di minacce. Poi capirono che l'Occidente lasciava loro ogni libertà d'azione.
Nelle corrispondenza fra il professor Chaim
Weizmann e il Foreign Office, presentata in
tribunale a Gerusalemme, c'è una richiesta
commovente nella sua semplicità: il leader
sionista implorava il governo di Sua Maestà di
dare ordine alla RAF di bombardare le linee
343
ferroviarie che conducevano ad Auschwitz. La
risposta fu negativa. Si sa che una simile richiesta
venne rivolta da un leader ebreo americano al
presidente Roosevelt. Ma anche Roosevelt non
dette alcun seguito alla cosa.
È comunque curioso - per non usare un altro
termine - che il mondo libero non si sia indignato
che dopo, quando era troppo tardi, quando non
c'erano più ebrei da salvare.
Infine, per non togliere nulla alla verità storica,
il procuratore generale avrebbe dovuto spingere
fino in fondo la sua requisitoria e rivelare un fatto
che, per amaro e triste che possa essere, non è
meno vero: gli ebrei stessi non fecero tutto ciò che
avrebbero dovuto fare: dovevano, potevano fare
molto di più. L'ebraismo americano non si è quasi
mosso, non ha usato la sua influenza politica e
344
finanziaria, non ha smosso cielo e terra come
avrebbe dovuto fare. Si, lo so: aveva le sue
ragioni, le sue giustificazioni, ma non sono valide.
Nulla giustifica né spiega la passività quando si
tratta di fermare l'assassinio quotidiano di migliaia
di persone. Quante manifestazioni hanno avuto
luogo al Madison Square Garden? Quante
dimostrazioni davanti alla Casa Bianca? Ben
Hecht ne parla, e con quale amarezza, nel suo
Child of the Century. A leggerlo si gela il sangue.
In Palestina, cuore e coscienza del popolo
ebraico, la situazione non era molto diversa. Fino
alla fine del 1944 non hanno trovato il modo di
andare ad avvertire ed eventualmente ad aiutare le
grandi comunità ebraiche che la morte aspettava
già al varco. Quando quei pochi paracadutisti
sono arrivati a Budapest (e dal processo Kastner
345
sappiamo con quale risultato), non restava loro
più niente da fare: metà Europa era già priva di
ebrei. Perché non è stato mandato prima
qualcuno? Certo, sappiamo che c'era la guerra in
Palestina. E allora? I giovani membri del Palmach
si sarebbero presentati tutti volontari. Fra cento
scelti, dieci o cinque sarebbero arrivati a
destinazione; avrebbero organizzato la resistenza,
evasioni, salvataggi.
Uno degli episodi più sconvolgenti della guerra
riguarda gli ebrei di Ungheria e in particolar modo
quelli della Transilvania. La loro deportazione in
massa ebbe luogo fra il maggio e il giugno del
1944, qualche giorno prima dello sbarco in
Normandia. Alla stazione di Auschwitz non sospettavano ancora la sorte che li attendeva. Lo
stesso nome sinistro di Auschwitz era loro
346
sconosciuto. Non sapevano cosa significasse per
loro. Se lo avessero saputo, quanti avrebbero
potuto essere salvati? Non tutti, senza dubbio, ma
la maggior parte si. L'Armata Rossa si trovava a
una distanza di circa quaranta chilometri: di notte
si sentiva chiaramente il rimbombo dei cannoni.
C'erano delle montagne nei dintorni, dove ci si
poteva facilmente rifugiare, aspettarvi qualche
giorno; l'arrivo dei liberatori non era che una
questione d'ore. Ma a quei pii ebrei di
Transilvania veniva detto che non avevano nulla
da temere, che li trasferivano da qualche parte
all'interno del paese. E loro ci hanno creduto.
Ripeto: questo è accaduto nella primavera dell'anno di grazia 1944, quando ogni bambino di
Brooklyn, di Whitechapel e di Tel Aviv già
sapeva che Treblinka e Birkenau erano tutt'altro
347
che piccole stazioni di provincia.
Tuttavia, a Joel Brand, che sollecitava un
colloquio urgente per informarlo della sua
missione doppiamente tragica, il professor Chaim
Weizmann fa rispondere che è troppo occupato e
rimanda il colloquio di qualche settimana. Eppure
Brand aveva precisato in una lettera che ogni ora
era importante, che ogni giorno che passava
significava diecimila ebrei in meno. Come Brand
sia riuscito a non perdere la ragione resterà per me
uno degli enigmi della volontà capace di
sopravvivere alla propria dannazione.
L'atteggiamento di Weizmann non faceva che
mettere in evidenza lo stato d'animo diffuso fra gli
ebrei in Palestina, e da qui la sua gravità. La gente
si comportava come se ciò che accadeva «lassù»
non la riguardasse. Con un distacco stupefacente,
348
incomprensibile. Inconsciamente dicevano a se
stessi: di chi è la colpa? Avrebbero potuto venir
qui da noi; avrebbero dovuto seguire il nostro
esempio; hanno mancato di coraggio, d'idealismo:
tanto peggio per loro.
Yitzchak Gruenbaum, già capo di una
commissione di salvataggio, ce lo dice nelle sue
memorie: si interrogava, e i suoi colleghi con lui,
per sapere se si aveva il diritto di prelevare, per
salvare degli ebrei in Europa, del denaro destinato
alla costruzione della Palestina. La sua posizione
era nettamente contraria. Prima veniva Eretz
Israel e soltanto dopo la Diaspora. Costruire una
casa, una fabbrica, una scuola aveva la priorità.
Il giovane poeta israeliano Haim Gouri ebbe un
giorno la curiosità di esaminare negli archivi dei
giornali di Tel Aviv le annate 1943-44. Fu
349
un'esperienza sconvolgente. «Non capisco», mi
disse. «Se tu sapessi quali erano i problemi che
allora ci occupavano, mentre in Europa... Elezioni
comunali a Hedera o altrove: titoli in prima
pagina. In un angolo sperduto della pagina un
piccolo trafiletto di poche righe: I tedeschi hanno
cominciato a sterminare gli ebrei del ghetto di
Lublino, o di Lodz...».
Non è colpa del popolo, ma dei suoi dirigenti.
Non erano all'altezza. Davano prova di una
sorprendente mancanza d'iniziativa, di maturità
politica e di coraggio. Nahum Goldmann lo ha
confessato recentemente, in occasione di una
riunione a Ginevra del comitato esecutivo del
Congresso mondiale ebraico. Le grandi
organizzazioni ebraiche erano incapaci di superare
le loro piccole questioni interne per realizzare
350
un'azione comune. Per tutto il tempo che esistè, il
comitato di emergenza per salvare il popolo
ebraico fu boicottato da tutti i leader ebrei
americani. Anche in questo caso avevano le loro
ragioni, i loro motivi: niente alleanze con
personaggi non ortodossi come Ben Hecht o Peter
Bergson, niente collaborazione con il tale o il
talaltro. Ma allora avrebbero potuto creare il loro
proprio comitato di salvataggio in seno al quale
tutti i partiti, tutte le organizzazioni sarebbero
state rappresentate. Questo non è stato fatto.
È per questo che non possiamo fare a meno di
esprimere questa riflessione: per collocare il
processo al suo giusto livello morale, quello della
verità assoluta, il procuratore generale Gideon
Hausner (o lo stesso primo ministro David Ben
Gurion in qualità di testimone) avrebbe dovuto
351
abbassare la testa e gridare a voce alta in modo da
farsi udire da tre generazioni: «Prima di giudicare
gli altri dobbiamo riconoscere i nostri errori, le
nostre debolezze. Non abbiamo tentato
l'impossibile, non abbiamo neanche esaurito il
possibile».
Con l'avvento del regime nazista in Germania
l'umanità ha assistito a ciò che Martin Buber
chiamerebbe un'eclissi di Dio. Come per effetto di
una maledizione, gli uomini, forti e deboli, lucidi
e vili, si scoprirono colpevoli, associati al Male, se
non altro perché vivevano quello stesso momento
storico. Tutti gli atti ne furono macchiati. I grandi
spiriti si erano addormentati, le sensibilità più fini
si attenuavano, voci potenti tacevano. L'apatia
generale aveva creato un clima propizio ai
criminali che potevano agire con calma,
352
efficacemente, senza fastidi né falsa vergogna.
Poi arrivò la capitolazione tedesca. Il mondo
libero emise un grido di orrore e questo grido
soffocò ogni crisi di coscienza. «Non sono stato
io», diventò il ritornello, soprattutto in quello che
fu il Terzo Reich. Altrove, ci si accontentava di
versare una lacrima e di proclamare che «noi non
c'entravamo affatto».
Karl Jaspers si interrogava sulla «colpevolezza
tedesca» con la precisa intenzione di arrivare alla
colpevolezza universale. Il suo saggio ebbe per
effetto quello di placare molti timori e di
rassicurare molti animi nella Germania occupata.
In questo la filosofia dette prova di una curiosa
mancanza di umiltà. Far condividere la
colpevolezza al mondo non nazista era compito
dei pensatori di New York o di Stoccolma, era
353
perfino un loro dovere. In effetti il mondo non
aveva poche lezioni da ricevere, ma non dalla
bocca di un professore tedesco.
In Europa occidentale la reazione si fece sentire
soprattutto nel campo della letteratura. Sartre,
Camus e Gabriel Marcel, rifacendosi a Mairaux e
al suo tema dell'azione, mettevano l'accento
sull'impegno. L'idea di base era che tutto ciò che
accade intorno a noi ci riguarda direttamente. Ma
la questione non era esaminata fino in fondo.
L'eroe del romanzo moderno, occupato a
formulare la sua protesta, non si preoccupava
troppo delle sfumature. Era buono o cattivo,
«resistente» o «collaborazionista», o ancora
«indifferente». Le linee erano tracciate, i campi
ben delimitati. Chi aveva fatto saltare dei treni
poteva dormire tranquillamente il sonno del
354
giusto, gli altri rientravano nella categoria dei
salauds. Il senso di colpa non aveva un ruolo
importante nel futuro che la gioventù europea
giurò di costruire sulle rovine. Tranne che nella
pittura, l'arte non aveva quasi nessun rapporto
intrinseco con gli avvenimenti a cui avrebbe
dovuto ispirarsi. Nessuna nuova filosofia è stata
formulata, nessuna nuova religione è stata
proclamata: la terra ha tremato e l'uomo è rimasto
uguale a se stesso.
Andre Gide raccontò un giorno una pungente
barzelletta antisemita. Una dei suoi discepoli gli
domandò arrossendo:
«Allora, anche voi, Maestro?». Gide si mise a
piangere:
«Non sapevo di esserlo». Era prima della guerra.
Dopo, Gide non piangeva più. Non si considerava
355
più colpevole, perché non faceva più dello spirito
a spese degli ebrei.
Per una strana ironia del destino, soltanto i
reduci, i sopravvissuti erano, e sono, coscienti
della loro parte di responsabilità. Non si tratta di
un'idea giansenista e il peccato originale li lascia
freddi. L'idea che li domina è più concreta, più
straziante. Fa parte del loro essere.
Perché non vi siete rivoltati? Perché non avete
resistito? Eravate diecimila contro dieci, contro
uno: perché vi siete lasciati condurre al mattatoio
come bestiame?
Durante le prime giornate del processo
Eichmann, il procuratore generale Gideon
Hausner, per illuminare, a beneficio della giovane
generazione israeliana, le zone oscure del
dramma, torturava i testimoni con questo genere
356
di
domande.
Essi
gli
rispondevano
invariabilmente: «Voi non potete sapere; chi non è
stato laggiù non può capire».
Bruno Bettelheim e Victor Frankl, entrambi
eminenti psichiatri, ci sono stati. Nei loro libri,
che trattano di psicologia concentrazionaria,
hanno cercato di trovare una spiegazione. Il
consenso della vittima li interessava quanto la
crudeltà del carnefice. Ma l'attribuirlo alla
disintegrazione della personalità o al risveglio del
«desiderio di morte» nell'io non offre che una
spiegazione parziale. Vi manca il perché, l'aspetto
metafisico. Vi manca il senso di colpa di cui i
prigionieri erano impregnati.
Questo sentimento era innanzitutto d'essenza
religiosa. Se mi trovo qui è perché Dio mi ha
punito; ho peccato e quindi pago; se subisco
357
questo castigo vuol dire che l'ho meritato. La
rivolta contro Dio veniva dopo. Prima il prigioniero sacrificava la sua libertà a quella di Dio.
Si riconosceva colpevole piuttosto che pensare
che il suo Dio era quello di Giobbe, per cui
l'uomo non è che un esempio, un mezzo per
dimostrare una tesi in un duello verbale con
Satana.
Ogni giorno che lo allontanava dalla sua libertà
rendeva il suo senso di colpa più acuto, più
cosciente. In ciò non faceva altro che ubbidire a
una linea di condotta tracciata per lui dai suoi
carcerieri che, nei ghetti e nei campi, avevano
scientemente e sapientemente spinto all'estremo
limite il senso di vergogna e di umiliazione che
l'essere vivente prova normalmente nei confronti
dei morti.
358
Vivo, e quindi sono colpevole; se sono ancora
qui è perché un amico, un compagno, uno
sconosciuto è morto al mio posto. In un mondo
chiuso, questa certezza possiede una potenza
distruttrice dagli effetti facilmente intuibili. Se
vivere vuol dire accettare o generare l'ingiustizia,
morire diverrà ben presto una promessa, una
liberazione.
Il sistema del Lebensschein nei ghetti e della
Selektion nei campi non mirava soltanto a
decimare periodicamente la popolazione, ma
anche a far sì che ogni prigioniero dicesse a se
stesso: quello avrei potuto essere io; sono la
causa, forse la condizione della morte altrui.
Così il Lebensschein rappresentava una tortura
morale, una prigione senza uscita. Una delle
testimonianze più commoventi che abbia sentito
359
al processo Eichmann fu quella di un uomo che
era stato medico a Vilna. Sposato da poco, era
riuscito a procurarsi un «certificato di vita»;
lavorava in una fabbrica tedesca. In grado di
salvare un parente stretto della sua famiglia, andò
a trovare sua madre per chiederle consiglio: «Che
fare, chi proteggere? Te o mia moglie?». Obbligato a una scelta, l'uomo, divenuto strumento
tangibile del destino, vivrà ormai in un cerchio
infernale, soffocante; non potrà più pensare a se
stesso senza rabbia, senza disgusto. Se Ernie
Levy, lo straziante personaggio di Andre
Schwarz-Bart, decide alla fine di prendere il treno
per Auschwitz, non lo fa né per amore né per
pietà, ma perché è convinto che l'umanità ha
raggiunto un tale grado di abiezione che nessuno
può continuare a vivere e rimanere un giusto.
360
Divenuto un semplice numero, l'uomo
concentrazionario perdeva nello stesso tempo la
sua identità, il suo destino individuale. La sua
presenza nel campo era dovuta unicamente al fatto
che egli apparteneva a una collettività dimenticata, condannata. Non è scritto che «io» vivrò o
morirò, ma che oggi qualcuno scomparirà o
continuerà a soffrire. Da un punto di vista
collettivo non c'è nessuna differenza che sia io o
un altro. È il numero che conta, la quota. Così, il
prigioniero risparmiato, soprattutto in periodo di
selezioni, non poteva reprimere uno spontaneo
sentimento di gioia. Passato un momento, una
settimana, un'eternità, questa gioia piena di ansia
e di paura si trasforma in senso di colpa. Il
sentimento di libertà, di essere stato risparmiato,
equivale a confessare: sono contento che un altro
361
se ne sia andato al mio posto. È per non pensare a
questo che i prigionieri, aiutati da un meccanismo
di difesa, riuscivano a dimenticare così presto i
loro compagni, i loro genitori selezionati. Per
evitare gli sguardi, pieni di biasimo, che gli
scomparsi avevano loro lanciato un'ultima volta.
Perché gli ebrei nei campi non hanno scelto di
morire con onore, il coltello in mano, l'odio sulle
labbra? Il dottor Bruno Bettelheim se lo chiede a
buon diritto. Senza invocare le ragioni tecniche e
psicologiche che rendevano ogni tentativo di
insurrezione impossibile (sapevano di essere stati
sacrificati, cancellati dall'umanità, dimenticati),
noi dobbiamo, per rispondere, considerare
l'aspetto morale della questione. Coscienti della
maledizione che pesava su di loro, gli ebrei
arrivarono a pensare che non erano più degni né
362
capaci di un atto di onore. Cadere lottando
sarebbe stato come tradire coloro che erano andati
incontro alla morte docilmente e in silenzio.
L'unico modo di riconciliarsi con loro era quello
di seguire le loro orme, di morire come erano
morti loro.
Citiamo ancora un caso, anch'esso presentato in
tribunale a Gerusalemme: quella donna che, nuda
e ferita, riuscì a fuggire dalla fossa comune dove
gli ebrei della sua città erano stati massacrati, e
che poco dopo vi ritornò per unirsi a quella
fantasmagorica comunità di cadaveri. Salvatasi
miracolosamente, rifiutava la vita divenuta ai suoi
occhi impura.
Alcuni psichiatri hanno esaminato a lungo Adolf
Eichmann, prima e dopo il processo. Non si sa
ancora ciò che hanno scoperto. Si dovrebbero
363
comunque esaminare anche le sue vittime, quelle
ancora vive. Ma i reduci oppongono un silenzio
opprimente che hanno portato con sé da «laggiù».
Si rifiutano di aprirsi. Ciò che non si sa è che
essi hanno paura della propria voce. La loro
tragedia è quella di Giobbe prima di sottomettersi:
si credono colpevoli senza esserlo. Soltanto un
giudice sarebbe in grado di sgravarli del loro
fardello, ma per loro nessuno ne possiede
l'autorità e la forza: né gli esseri umani, né i loro
dei.
Allora, in questo mondo condannato, invece di
lanciare la loro sfida all'uomo, la loro ira in faccia
alla Storia, preferiscono tacere e continuare il
monologo che solo i morti meritano di sentire. La
colpa non è stata inventata ad Auschwitz, vi è
stata solamente sfigurata.
364
Difesa dei morti
Avevo appena quindici anni quando, per la
prima volta, affascinato, assistei a una strana
discussione sulla dignità e la morte e sul rapporto
che poteva esserci fra di loro.
Gente che era morta e ancora non lo sapeva
discuteva sulla necessità, piuttosto che sulla
possibilità, di farsi uccidere con dignità.
La realtà di certe parole mi sfuggiva e anche il
peso di quella realtà. La gente, intorno a me,
parlava, e io non capivo nulla.
Oggi ho vent'anni di più e tutti i sentieri che
365
portano al cimitero mi sono conosciuti. La
discussione dura ancora. Solo i partecipanti sono
cambiati. Quelli di vent'anni fa sono morti e
adesso lo sanno già. E io capisco ancora meno.
Ero appena precipitato nell'irreale. Doveva
essere verso mezzanotte. In seguito appresi che il
carnefice, in generale, è un individuo romantico
che ama le messe in scena perfette; trova nelle
tenebre uno scenario e nella notte un alleato.
Da qualche parte un cane si mise a latrare, un
altro gli fece eco, poi un terzo. Eravamo dunque
nel regno dei cani. Una donna finì per impazzire e
lanciò un grido che non aveva più niente di
umano; era piuttosto un latrato: senza dubbio
anche lei voleva diventare un cane. Un colpo di
rivoltella mise fine alla sua allucinazione; il
silenzio si richiuse su di noi. In lontananza, i fasci
366
di fuoco rossi e gialli che uscivano da immense
ciminiere salivano verso il cielo senza luna, come
per incendiarlo. Un quarto d'ora prima, o meno, il
nostro treno si era fermato a una piccola stazione
di periferia. In piedi davanti alle grate, la gente
leggeva a voce alta: Auschwitz. Qualcuno
domandò:
- Siamo arrivati? Un altro rispose:
- Credo di si.
- Auschwitz, lo conoscete?
- No. Per niente.
Quel nome non evocava nessun ricordo, non si
collegava a nessuna angoscia. Ignoranti in materia
di geografia, supponevamo che fosse una piccola
e tranquilla località della Slesia. Non sapevamo
ancora che era già entrata nella storia per la sua
popolazione di diversi milioni di ebrei morti. Lo
367
abbiamo saputo un minuto dopo, quando le porte
dei vagoni si sono aperte in un fracasso assordante
e un esercito di detenuti si è messo a gridare:
- Capolinea! Tutti giù!
Da guide coscienziose, ci descrissero le sorprese
che ci erano riservate:
- Auschwitz, lo conoscete? No? Non importa, lo
conoscerete,
lo
conoscerete
presto.
Sghignazzavano:
- Auschwitz, non lo conoscete? Veramente?
Non importa. C'è qualcuno che vi aspetta qui.
Chi? La morte. Vi aspetta. Non aspetta che voi.
Guardate e la vedrete.
E ci indicavano il fuoco lontano.
In seguito, molti anni dopo, ho domandato a un
mio amico:
- Quali furono le tue prime impressioni ad
368
Auschwitz? Cupamente, mi rispose:
- Ho trovato lo spettacolo di una terrificante
bellezza.
Quanto a me, non l'ho trovato né bello né
terrificante. Ero giovane e mi rifiutavo
semplicemente di credere ai miei occhi e alle mie
orecchie. Mi dicevo: le nostre guide si burlano di
noi per farci paura, per divertirsi; viviamo in
pieno secolo ventesimo, non si bruciano più gli
ebrei, non siamo più nel Medioevo, il mondo
civile non lo avrebbe permesso. Mio padre
camminava accanto a me, la testa bassa. Gli
domandai:
- Il Medioevo è alle nostre spalle, non è vero,
papà, che il Medioevo è alle nostre spalle?
Non mi rispose. Allora gli domandai:
- Sto sognando, papà, non è vero che sto
369
sognando?
Non mi rispose.
Nel frattempo avanzavamo verso l'ignoto. Fu
allora che, come in un mormorio, nacque fra di
noi una febbrile discussione. Qualche giovane
gagliardo, dominando il proprio stupore,
aggrappandosi alla propria rabbia, lanciò un
appello alla rivolta. Senza armi? Sì, senza armi.
Le unghie, i pugni e qualche coltellino nascosto
nei vestiti sarebbero bastati. Ma non sarebbe stata
una morte certa? Sì, e allora? Non c'era più nulla
da perdere, bensì tutto da guadagnare, soprattutto
l'onore; ecco cosa c'era ancora da guadagnare:
l'onore. Morire da uomini liberi, ecco cosa
volevano quei giovani. La sconfitta era solo nella
rassegnazione.
Ma i loro padri erano contrari. Continuavano a
370
sognare. E ad aspettare. Invocavano il Talmud:
«Dio può intervenire, anche all'ultimo momento,
quando tutto sembra ormai perduto. Non bisogna
precipitare le cose, non bisogna perdere la fede né
la speranza».
La discussione si era estesa a tutte le file.
Domandai a mio padre:
- Che ne pensi? Questa volta mi rispose:
- Pensare non serve più a molto.
Il gregge umano continuava ad andare avanti, e
noi non sapevamo dove i nostri passi ci avrebbero
portato. No, mi sbaglio: lo sapevamo già, le nostre
guide ce lo avevano detto. Ma facevamo finta di
ignorarlo. E la discussione continuava. I giovani
erano favorevoli, i meno giovani contrari. I primi
finirono per cedere: bisognava ubbidire ai
genitori, è scritto nella Bibbia, bisognava
371
rispettare i loro desideri.
Ed è così che la rivolta non ebbe luogo.
Negli ultimi tempi molte persone cominciano a
interrogarsi
sul
problema
posto
dal
comportamento
incomprensibile,
perfino
enigmatico, degli ebrei in quella che fu l'Europa
concentrazionaria. Perché sono entrati nella notte
come il bestiame va al mattatoio? Importante, se
non essenziale, perché riguarda la verità senza
tempo dell'uomo, questa domanda tormenta le
buone coscienze che, improvvisamente, sentono il
bisogno di essere rassicurate, di conoscere il nome
dei colpevoli e i loro crimini, e che sia loro
spiegato il senso di quella storia che non hanno
vissuto se non per interposta persona. Così, tutti
quei milioni di ebrei, che la cosiddetta società
civile aveva lasciato disperare e agonizzare nel
372
silenzio e poi nell'oblio, a un tratto vengono
riportati in superficie per essere affogati in un
diluvio verbale. E siccome viviamo in un tempo in
cui regna il vaniloquio, i morti non si oppongono.
Viene imposto loro il ruolo di reduci e si
bombardano di domande: «Allora, com'era? Che
cosa avete provato quando a Minsk e a Kiev e a
Kolomea la terra, aprendosi davanti ai vostri
occhi, inghiottiva i vostri figli e le vostre
preghiere? Che cosa avete pensato quando avete
visto il sangue, il vostro sangue, schizzare dalle
viscere della terra e salire fino al sole?
Raccontate, parlate, noi vogliamo sapere,
vogliamo soffrire con voi, abbiamo alcune lacrime
di riserva, ci fanno male, vorremmo disfarcene».
Si arriva a rimpiangere i bei tempi andati
quando questo argomento, ancora di dominio dei
373
sacri ricordi, era considerato un tabù, riservato
agli iniziati, che, loro, ne parlavano con pudore e
timore, e sempre abbassando lo sguardo, e sempre
tremando d'umiltà, sapendosi poveri e riconoscendo i limiti del loro linguaggio parlato e taciuto.
Adesso, in nome del pensiero obiettivo e della
ricerca storica, tutti se ne occupano, senza il
minimo imbarazzo. Accessibile a tutte le menti, a
tutte le intelligenze in cerca di stimoli, questo
argomento è diventato un argomento di conversazione alla moda. Perché no? Sostituisce
Brecht, Kafka e il comunismo, già fritti e rifritti.
Nei circoli intellettuali, o sedicenti tali, a New
York e senza dubbio anche altrove, nessuna serata
mondana può dirsi veramente riuscita se Auschwitz non figura in una discussione in cui si
cerca la verosimiglianza piuttosto che la verità, la
374
quale si rifugia al di là delle parole. Eccellente
rimedio per scacciare la noia e accendere le
passioni. Menzionate i nomi di qualche opera
pubblicata recentemente su questo argomento ed
ecco le menti che si svegliano, una più brillante,
più arrogante dell'altra. Psichiatri, attori e
romanzieri hanno tutti una loro idea al riguardo,
vedono tutti chiaro, ognuno di loro è pronto a
darvi tutte le risposte, a spiegarvi tutti i misteri: la
fredda crudeltà del carnefice e il grido strozzato
della vittima, e perfino il destino che li ha uniti
come per recitare sulla stessa scena, nello stesso
cimitero. È semplicissimo. Come la fame, la sete e
l'odio. Basta capire la storia, la sociologia, la
politica, la psicologia, l'economia (fate la vostra
scelta, signore e signori); basta saper contare. E
ammettere l'assioma che dappertutto A+B=C. Se i
375
morti sono morti, se così tanti morti sono morti,
vuol dire che essi desideravano la loro morte, vuol
dire che erano attratti, spinti dai loro istinti. Al di
là delle divergenze di tutte le teorie enunciate, il
cui tono di certezza non può non suscitare rabbia,
tutti sono unanimi nel concludere che le vittime,
partecipando al gioco del carnefice, sono, a vari
livelli, corresponsabili.
Ciò dovrebbe colpire per la sua novità. Finora si
consideravano gli ebrei responsabili di tutto ciò
che accadeva sotto il sole, della morte di Gesù,
delle guerre fratricide, delle carestie, della
disoccupazione e delle rivoluzioni: incarnavano il
male. Adesso li si considera responsabili della
loro morte: incarnano questa morte. Così si vede
come il problema ebraico continui a essere questa
terra di nessuno dello spirito in cui chiunque può,
376
in tutta libertà, dire qualunque cosa in qualunque
modo: un gioco in cui tutte le puntate sono
vincenti. Solo i morti perdono, ma ciò sembra far
parte delle regole del gioco.
E in questo gioco - perché non si tratta d'altro - è
assai facile prendersela con i morti, accusarli di
vigliaccheria o di complicità, nel senso concreto o
metafisico del termine. Ma, secondo me, questo
gioco comporta un lato umiliante. Voler parlare in
nome dei morti - e dire: ecco le loro motivazioni,
ecco le ragioni che hanno indebolito la loro
volontà - significa precisamente umiliarli. Io dico
che i morti hanno meritato ben altro che questa
umiliazione postuma. Non ho mai capito perché,
nella religione ebraica, toccare i cadaveri renda
impuri; adesso comincio a capire.
Lasciateli dunque tranquilli. Non disseppellite
377
questi morti senza sepoltura. Lasciateli li dove
dovrebbero essere per sempre e quali dovrebbero
essere: delle ferite, dei dolori incommensurabili in
fondo al vostro essere. Siate contenti che non si
sveglino, che non scendano sulla terra per giudicare i vivi. Il giorno in cui si metteranno a
raccontare ciò che hanno visto e sentito, e ciò che
sta loro a cuore, non saprete dove fuggire, vi
tapperete le orecchie, da quanto grande sarà la
vostra paura e terribile la vostra vergogna.
Capisco che si voglia sezionare la storia, che si
provi il violento desiderio di delineare i contorni
del passato e delle forze che lo hanno dominato;
nulla è più naturale. Nessuna questione è più
importante per l'uomo della nostra generazione
che è quella di Auschwitz e di Hiroshima, parlo
della Hiroshima di domani. Il futuro ci fa paura, il
378
passato ci riempie di vergogna, e questi due
sentimenti, come questi due avvenimenti, sono
strettamente legati, come in un rapporto di causa
ed effetto. È Auschwitz che genererà Hiroshima, e
se il genere umano scomparirà a causa della
bomba atomica, questo sarà il castigo di
Auschwitz, dove, nella cenere, si spensero le
promesse dell'uomo.
E aveva ragione l'inquieta moglie di Lot di voler
guardare indietro e di non temere di portare con sé
nello sguardo la bruciatura della speranza
consumata. «Sappi da dove vieni», dicevano i
saggi di Israele. Ma tutto dipende dall'atteggiamento interiore di chi si volta verso l'origine;
se è per pura curiosità, la sua visione farà di lui
una statua da salotto. Purtroppo le statue non ci
mancano ai giorni nostri, e ciò che è peggio, esse
379
parlano, come dall'alto della montagna.
Io leggo dunque e ascolto questi eminenti
studiosi e professori che, avendo letto tutti i libri e
confrontato tutte le teorie, proclamano la loro
erudizione e la loro capacità di penetrare tutto, di
spiegare tutto, compiendo semplicemente un
lavoro di classificazione.
A volte, soprattutto quando, all'alba, mi sveglia
il primo grido udito quella prima notte dietro i
reticolati, mi viene voglia di dire a tutti questi
illustri scrittori che pretendono di andare fino in
fondo: «Vi ammiro, perché io incespico quando
affronto questo argomento; voi pretendete di saper
tutto, e anche in questo vi ammiro, perché io non
so nulla. Che volete, io so di essere ancora
incapace di decifrare - perché sarebbe
bestemmiare - il sorriso spaventato del bambino
380
strappato a sua madre per trasformarsi in torcia
umana; né riesco ad afferrare, e non ci riuscirò
mai, l'ombra che in quel momento invase gli occhi
della mamma. Voi ci riuscite, senza dubbio. Avete
fortuna, dovrei invidiarvi, ma non vi invidio.
Preferisco pormi dalla parte del bambino e della
mamma che, loro, morirono prima di imparare le
formule e la fraseologia che sono alla base della
vostra scienza».
Così come preferisco pormi dalla parte di
Giobbe che ha scelto le domande e non le
risposte, i silenzi e non i discorsi. Giobbe non ha
mai capito la sua tragedia che, dopo tutto, era
soltanto quella di un individuo tradito da Dio;
essere traditi dai propri simili è molto più grave.
Tuttavia, il silenzio di quest'uomo solitario e
sconfitto durò tre giorni e tre notti, e soltanto
381
dopo, identificandosi col suo male, pensò di aver
acquisito il diritto di interrogare Dio. Di fronte a
Giobbe, il nostro silenzio dovrebbe prolungarsi
per secoli. E voi osate parlare in nome della vostra
conoscenza? Osate dire: io so? Ecco come e
perché le vittime erano vittime e i carnefici
carnefici? Osate interpretare le agonie e le
angosce, l'abnegazione davanti alla fede e la
stessa fede di sei milioni di esseri umani, che si
chiamano tutti Giobbe? Chi siete voi per
giudicarli?
Un mio amico, nel pieno vigore dell'età, passò
una notte intera a studiare alcuni resoconti
sull'Olocausto, in particolare sul ghetto di
Varsavia. La mattina si guardò allo specchio e
vide un estraneo: i suoi capelli erano diventati
bianchi. Un altro non perse la giovinezza ma la
382
ragione. Si immerse nel passato e vi è ancora.
Ogni tanto vado a trovarlo all'ospedale, ci
guardiamo e taciamo. Un giorno si scosse e mi
disse:
- Forse bisognerebbe imparare a piangere.
Dovrei invidiare questi studiosi che si vantano
di comprendere questa tragedia di tutto un popolo;
io, invece, non riesco neanche a spiegarmi quella
di uno solo dei suoi figli.
Non ho niente contro le loro domande: sono
valide. Anzi, sono le uniche a esserlo. Scansarle è
mancare al nostro dovere, è perdere la nostra
unica possibilità di potere un giorno condurre una
vita autentica. È contro le loro risposte che
protesto, e poco m'importa su che cosa siano
basate. Io dico che non ci sono risposte. Ciascuna
di queste tesi contiene forse un briciolo di verità,
383
ma la loro somma resta al di sotto e al di fuori di
ciò che fu, nel tempo della notte, la verità. La
materia studiata è fatta di morte e di mistero,
scivola dalle mani, corre più velocemente della
nostra percezione: è dappertutto e in nessun
luogo. Le risposte non fanno che aggravare la
domanda: le idee e le parole devono alla fine
cozzare contro un muro più alto del cielo, un
muro di corpi umani che si estende all'infinito.
Sono vent'anni che mi dibatto con queste stesse
domande. Non c'è nulla di più facile che trovar
loro questa o quella soluzione: il linguaggio
aggiusta tutto. Ma quello che hanno in comune
queste risposte è che non hanno nessuna relazione
con le domande. Non posso credere che un'intera
generazione di padri e di figli sia scomparsa
nell'abisso senza creare, per questo stesso fatto, un
384
mistero che supera la nostra comprensione e ci
soggioga. Io continuo a non capire ciò che è
accaduto, né come, né perché. Tutte le parole in
tutte le bocche dei filosofi e degli psicologi non
valgono le lacrime del bambino e della madre che
vivono la loro morte due volte. Che fare allora?
Nei miei calcoli tutte le addizioni danno sempre la
stessa cifra: sei milioni.
Qualche mese fa, a Gerusalemme, ho incontrato
per caso uno dei tre giudici del processo
Eichmann. Per usare un'espressione cara a Camus,
quest'uomo saggio e lucido e di un carattere
intransigente è a un tempo persona e personaggio.
E, in più, è una coscienza.
Si rifiutava di discutere il lato tecnico o legale
del processo. Dopo avergli detto che questo
aspetto non mi interessava, gli ho posto la
385
seguente domanda:
- Dato il vostro ruolo nel processo, voi dovete
saperne sulla portata dell'Olocausto più di ogni
altro essere vivente, anche più di coloro che
l'hanno vissuto nella loro carne e nella loro
memoria. Voi avete studiato tutti i documenti,
letto tutti i rapporti segreti, interrogato tutti i
testimoni. Rispondetemi: voi capite questo
frammento di passato, queste poche pagine di
Storia?
Ebbe un fremito impercettibile, poi con voce
dolce e infinitamente umile confessò:
- No, per niente. Conosco i fatti e gli
avvenimenti; conosco lo svolgimento della
tragedia attimo per attimo, ma questa conoscenza,
venendo dall'esterno, non ha nulla a che vedere
con la comprensione. C'è in tutto ciò una parte che
386
resterà sempre misteriosa; una specie di zona
proibita, inaccessibile alla ragione. Per fortuna,
del resto. Senza questo...
Si interruppe. Poi abbozzò un sorriso un po'
timido, un po' triste, e aggiunse:
- Chissà, forse è questo il dono che Dio, in un
momento di grazia, fece all'uomo: gli impedisce
di capire tutto; così lo salva dalla follia, o dal
suicidio.
È raro che persone che non abbiano conosciuto
quelle notti infernali sappiano trovare il tono
giusto quando ne parlano; questo giudice
rappresenta un'eccezione.
In realtà, Auschwitz non significa soltanto il
fallimento di duemila anni di civiltà cristiana, ma
anche la sconfitta dell'intelligenza che vuole
trovare un Senso, con l'S maiuscola, alla storia.
387
Ma quella che Auschwitz incarnava non ne ha. Il
carnefice uccideva per nulla, la vittima moriva per
nulla. Nessun Dio aveva ordinato all'uno di
innalzare i roghi né all'altro di salirci. Nel
Medioevo, gli ebrei, scegliendo la morte, erano
convinti che col loro sacrificio glorificavano e
santificavano il Suo Nome. Ad Auschwitz i
sacrifici erano privi di scopo, di fede, di afflato
divino. Se la sofferenza di un essere umano ha un
senso, quella di sei milioni non ne ha.
I numeri hanno la loro importanza, la loro
grandezza: essi provano, secondo Piotr Rawicz,
che Dio è impazzito.
Io ho assistito al processo Eichmann, ho sentito
il procuratore generale che cercava di far parlare i
testimoni, obbligandoli a esporsi e a frugare nelle
pieghe più segrete del loro essere: perché non
388
avete resistito? Perché non avete attaccato i vostri
assassini che erano comunque meno di voi?
Pallidi, imbarazzati, a disagio, i sopravvissuti
hanno risposto tutti nello stesso modo:
- Voi non potete capire. Chi non è stato «laggiù»
non se lo potrà mai immaginare.
Ebbene, io ci sono stato. E continuo a non
capire. Non capisco quel bambino che, nel ghetto
di Varsavia, scrisse nel suo diario: «Ho fame, ho
freddo; da grande vorrei essere un tedesco, e
allora non avrò più fame, e allora non avrò più
freddo».
Continuo a non capire perché io stesso non mi
sia buttato su quel kapò che picchiava mio padre
davanti ai miei occhi. In Galizia, gli ebrei
scavavano le proprie tombe e si allineavano, senza
alcuna traccia di panico, sull'orlo delle fosse per
389
aspettare il crepitio delle mitragliatrici. Non capisco la loro calma. Così come non capisco quella
donna, quella madre, nascosta in un bunker da
qualche parte della Polonia; i suoi compagni le
soffocarono il bambino appena nato per timore
che il suo pianto li potesse tradire; e questa donna,
questa madre, pur avendo vissuto questa scena di
un'intensità biblica, non è impazzita. Non la
capisco: perché, e con che diritto, e in nome di
che cosa non è impazzita?
Non so perché, ma vi proibisco di porle la
domanda. Il mondo taceva mentre si
massacravano gli ebrei, mentre li si riduceva allo
stato di cosa buona per il fuoco; che abbia almeno
la decenza di tacere anche adesso. Le sue
domande vengono un po' in ritardo; è al carnefice
che avrebbero dovuto essere rivolte. Esse vi
390
tormentano? Non vi lasciano dormire in pace?
Tanto meglio. Voi volete sapere, capire, per voltar
pagina, non è vero? Per potervi dire: il caso è
chiuso e tutto è rientrato nell'ordine. Non aspettate
che i morti vengano in vostro aiuto. Il loro
silenzio gli sopravviverà.
Avete delle domande? Benissimo. Non volete
porle al carnefice, che vive nella felicità se non
nella gloria a casa sua, in Germania; allora
trasmettetele agli altri, a coloro che proclamano di
non aver partecipato al gioco, a coloro che si
erano resi complici con la loro passività. La loro
«ignoranza» dei fatti non li scusa molto, era
voluta.
A Londra e a Washington, a Basilea e a
Stoccolma, gli alti funzionari erano al corrente di
ogni trasporto che portava il suo carico umano
391
verso il paesaggio di cenere, verso il regno della
nebbia; nel 1942-43 avevano già fotografie che
documentavano i rapporti; furono tutti dichiarati
«riservati» e la loro pubblicazione venne proibita.
Nessuna voce si è alzata per dire al carnefice
che il giorno del castigo era prossimo e per
consolare le vittime: ci sarebbe stato un castigo, il
regno della notte era soltanto temporaneo.
Forse Eichmann era dopo tutto un piccolo
uomo. La Germania hitleriana era piena di piccoli
uomini come lui, tutti preoccupati che la
macchina dello sterminio funzionasse bene ed
efficacemente. Grandi e piccoli, tutti sapevano
che su un punto - quello della politica nazista
verso gli ebrei - non ci sarebbero stati conti da
pagare all'indomani della sconfitta: la sorte degli
ebrei non interessava nessuno.
392
Un giorno avrebbero dovuto restituire i territori
occupati ed eventualmente pagare ai vincitori i
danni di guerra, com'è normale, ma la questione
ebraica non sarebbe pesata. Gli Alleati se ne
infischiavano altamente di ciò che le SS facevano
con i loro ebrei. In questo gli Eichmann potevano
agire impunemente. Soltanto così si può
comprendere come Heinrich Himmler, il gran
maestro dei campi della morte, abbia potuto
concepire la possibilità di diventare, verso la fine
della guerra, il migliore interlocutore degli Alleati
occidentali in vista di una pace separata; non gli
venne neanche in mente il fatto che aver diretto
con successo l'annientamento di intere
popolazioni ebraiche potesse squalificarlo nel suo
ruolo di negoziatore. E quando, con falsa ironia,
Eichmann dichiarava che nessun paese era
393
interessato a salvare gli ebrei, diceva la verità.
Eichmann mentiva sul suo ruolo, ma non su
quello del campo opposto o neutrale.
In effetti, i tedeschi, conosciuti più per la loro
prudenza maniacale che per la loro impulsività,
svilupparono la loro politica antiebraica a poco a
poco, gradualmente, riprendendo fiato dopo ogni
misura, dopo ogni mossa, per vedere le reazioni.
Ci fu sempre una tregua fra una tappa e l'altra, fra
le leggi di Norimberga e la «notte dei cristalli»,
fra le espropriazioni e le deportazioni, fra i ghetti
e la liquidazione in massa. Dopo ogni infamia, i
tedeschi si aspettavano un'appassionata reazione
da parte del mondo libero; si resero ben presto
conto dell'errore: li lasciavano fare. Certo, qua e là
c'era qualche discorso, qualche articolo di fondo
indignato, ma la cosa si fermava lì. Allora, a
394
Berlino, sapevano come comportarsi. Dicevano a
se stessi: visto che il semaforo segna verde,
possiamo continuare tranquillamente. Anzi, erano
convinti, in tutta sincerità, che un giorno gli altri
popoli sarebbero stati loro riconoscenti di aver
fatto il lavoro al loro posto. Quasi tutti i nazisti di
una certa importanza esprimono questa idea nei
loro scritti, così come essa figurava in tutti i loro
discorsi. Uccidevano gli ebrei per il bene del
mondo, non soltanto per il bene della Germania.
Dopo tutto, non bisognerebbe accusare i tedeschi
di non pensare che a se stessi.
Io sostengo che con un'azione energica, con una
presa di posizione senza ambiguità, senza
scappatoie, il mondo libero avrebbe potuto
costringere i tedeschi a ricredersi, o almeno ad
avere mire meno grandiose. È comprensibile che
395
per Berlino l'assenza di questa azione non poteva
che significare un tacito, inconfessato accordo da
parte delle potenze alleate. Basta sfogliare i
giornali dell'epoca per disgustarsi dell'avventura
umana su questa terra: il fenomeno dei campi di
concentramento, malgrado il suo orrore e le
immense ramificazioni, occupava, nell'insieme,
meno posto del più piccolo incidente stradale.
Sarebbe un errore credere che i prigionieri
ignorassero questo stato di cose. Sapendosi
abbandonati, esclusi, rinnegati dal resto
dell'umanità, la loro marcia verso la morte, fiera
anche se docile, diventava un atto di lucidità, di
protesta, e non di accettazione e di debolezza.
Ho già detto prima perché il trasporto di cui
facevo parte non si rivoltò la sera del nostro
arrivo. Aggiungerò soltanto che quei giovani
396
coraggiosi parlavano anche della necessità di
avvertire il mondo esterno: ingenui, credevano
ancora che i tedeschi facessero il loro lavoro di
nascosto, come ladri, che gli Alleati non ne
fossero affatto al corrente, perché se l'avessero
saputo, il massacro sarebbe cessato subito.
«Lotteremo», dicevano. «Spezzeremo il silenzio e
il mondo saprà che Auschwitz è una realtà». Non
dimenticherò mai il vecchio che, con voce calma,
terribilmente calma, rispose loro: «Voi siete
giovani e coraggiosi, figli miei; avete ancora tante
cose da imparare. Il mondo sa, non c'è bisogno di
informarlo. Sapeva già prima di voi, ma se ne
infischia, non perderà un minuto per pensare alla
nostra sorte. La vostra rivolta non avrà nessun
risultato, nessuna eco». Il vecchio aveva parlato
senza amarezza, constatava dei fatti. Polacco,
397
aveva visto, due anni prima, massacrare la sua
famiglia; non so come fosse riuscito a salvarsi e a
passare clandestinamente due frontiere prima di
arrivare da noi come profugo. «Mantenete le
vostre forze per dopo», diceva ai nostri ragazzi.
«Non sprecatele». Ma quelli insistevano: «Anche
se avete ragione, anche se ciò che dite è vero, la
nostra situazione non cambia. Diamo prova di
coraggio e di dignità, mostriamo agli assassini e al
mondo che gli ebrei sanno morire da uomini
liberi, non da poveri disgraziati». «Come lezione
mi piace», disse il vecchio. «Ma non la meritano».
Allora alzammo tutti la testa e, mentre le nostre
labbra mormoravano il Kaddìsh, continuavamo a
marciare, quasi da conquistatori, verso le porte
della morte, dove l'elegante dottor Josef Mengele
- guanti bianchi, monocolo e il resto - compiva il
398
sacro rito della selezione.
Non mi vergogno affatto a dire che era stato
quel vecchio a veder giusto. Se gli ebrei avessero
potuto pensare che fuori avevano degli alleati,
uomini che non voltavano la testa, forse avrebbero
potuto agire differentemente. Ma i soli a
interessarsi degli ebrei erano i tedeschi. Gli altri
preferivano non guardare, non sentire, non sapere.
La solitudine degli ebrei, caduti negli artigli della
bestia, non ha precedenti nella Storia. Era totale.
La morte sorvegliava tutte le uscite.
Peggio che nel Medioevo. Cacciati dalla
Spagna, gli ebrei furono accolti in Olanda.
Perseguitati in un paese, venivano invitati in un
altro, il tempo di riprendere coraggio. Ma durante
l'era hitleriana la cospirazione contro di loro
sembrava universale. Gli inglesi gli hanno chiuso
399
le porte della Palestina, la Svizzera non ha
accettato che i ricchi, e più tardi i bambini, mentre
i poveri e gli adulti, negato loro il diritto alla vita,
furono respinti verso le tenebre. «Anche se avessi
potuto vendere un milione di ebrei, chi li avrebbe
comprati?», domandava Eichmann, non senza
sarcasmo, ricordando l'episodio ungherese. Anche
qui diceva la verità. «Che volete che ce ne
facessimo di un milione di ebrei?», gli fece eco
l'onorevole Lord Moyne, ambasciatore britannico
al Cairo. È come se tutti i paesi, e non soltanto la
Germania, avessero deciso di vedere nell'ebreo
una specie di sottouomo, un essere non come gli
altri, un essere inutile: la sua scomparsa non
contava, non pesava sulla coscienza. Un essere al
quale il concetto di fraternità umana non si
applicava, un essere la cui morte non avviliva
400
nessuno, un essere con il quale non ci si
identificava. Si poteva dunque fargli qualunque
cosa, senza per questo violare le leggi dello spirito, si poteva togliergli libertà e gioia, senza per
questo tradire gli ideali dell'uomo. Spesso mi sono
domandato quale sarebbe stata la reazione del
mondo se la macchina nazista avesse stritolato e
bruciato non ventimila ebrei al giorno, ma
ventimila cristiani. Ma è meglio non pensarci
troppo.
Se mi soffermo tanto sulla colpevolezza del
mondo, non è per diminuire quella dei tedeschi,
né per «spiegare» il comportamento delle loro
vittime. Mi ci soffermo perché si tende a
dimenticare.
Il fatto, per esempio, che, nella primavera
dell'anno di grazia 1944, noi, in Transilvania, non
401
sapessimo nulla di ciò che accadeva in Germania
è una prova della colpevolezza del mondo.
Ascoltavamo le radio straniere, quella di Londra e
quella di Mosca: nessuna trasmissione ci ha
avvertito di non partire con i trasporti, nessuna
trasmissione ci ha rivelato l'esistenza, il nome di
Auschwitz. Mi ricordo che nel 1943, leggendo tre
righe sull'insurrezione del ghetto di Varsavia, mia
madre osservò: «Ma perché l'hanno fatto? Perché
non hanno aspettato tranquillamente la fine delle
ostilità?». Se avessimo saputo cosa stava
succedendo,
avremmo
potuto
fuggire,
nasconderci: il fronte russo era a trenta chilometri.
Ma ci tenevano nell'ignoranza.
A rischio di urtare qualcuno, devo sottolineare
che le vittime hanno sofferto più e più
profondamente per l'indifferenza dei testimoni che
402
per le sevizie dei carnefici. La crudeltà del nemico
sarebbe incapace di distruggere il prigioniero; è il
silenzio di coloro che credeva suoi amici crudeltà più vile, più sottile - che gli spezza il
cuore.
Non c'è più nessuno su cui contare: anche nei
campi questa constatazione diventava evidente.
Da ora in avanti avremmo vissuto nel deserto, nel
vuoto: cancellati dalla Storia. È questa
convinzione che avvelenava il desiderio di vivere.
Se è questo il mondo nel quale siamo nati, perché
aggrapparcisi? Se è questa la società umana da
dove veniamo, e che ci ha abbandonato, perché
cercare di ritornarvi?
Ad Auschwitz è morto non soltanto l'uomo, ma
è morta anche l'idea dell'uomo. Molti non
volevano più vivere in un mondo in cui non c'era
403
più nulla, in cui il carnefice agiva da Dio, da
giustiziere. Perché è il proprio cuore che il mondo
bruciava ad Auschwitz.
Che non si interpretino male queste mie parole.
Parlo senza odio, direi anche senza amarezza. Se,
ogni tanto, non riesco a trattenere la mia rabbia, è
perché trovo scandaloso se non indecente che si
sia arrivati a dover perorare la causa dei morti.
Perché è di questo che si tratta: vengono
disseppelliti per essere messi alla gogna. Le
domande che sono loro poste non sono che
rimproveri. Viene rinfacciato a questi morti di
essersi comportati in quel modo: avrebbero
dovuto recitare la loro parte differentemente, se
non altro per rassicurare i vivi che avrebbero così
potuto continuare a credere nella grandezza
dell'uomo. Esagero? Forse, ma non molto. Voi
404
non amate questi uomini e queste donne per i
quali il cielo è diventato una fossa comune.
Parlate di loro senza pietà, senza compassione,
senza amore. Giocate con i loro mille modi di
morire, come se si trattasse di fare delle acrobazie
intellettuali: il vostro cuore è assente. Di più: li disprezzate. Per ragioni di comodità, e anche per
soddisfare la vostra mania di classificare e di
definire tutto, fate qualche distinzione: fra i
tedeschi e gli Judenräte, fra i kapò e i poliziotti
dei ghetti, fra le vittime anonime e quelle che
ottenevano un rinvio di una settimana, di un mese.
Li giudicate e distribuite loro dei certificati di
buona o cattiva condotta. Detestate gli uni più
degli altri, vi collocate dall'altra parte della
barricata e, di colpo, sapete esattamente il grado
di colpevolezza di ciascuno. Ma, nell'insieme, essi
405
suscitano in voi disgusto più che ira.
È questo che vi rimprovero: il vostro smisurato
orgoglio di credere di saper tutto. E di avere il
diritto di giudicare un evento che, al contrario,
dovrebbe costituire per voi la prova che siamo
poveri e che i nostri sogni sono aridi, quando non
sono insanguinati.
Io difendo i morti e non dico che sono innocenti,
non è mia intenzione né mio obiettivo. Dico
semplicemente che non mi riconosco il diritto di
giudicarli, mentre dichiararli innocenti significa
già giudicarli. Li ho visti morire, e se sento il
bisogno di parlare di colpa è sempre della mia che
parlo. Li ho visti andarsene mentre io sono
rimasto, e spesso non me lo perdono.
Certo, ho visto nei campi uomini vinti, deboli,
crudeli. Non esito a confessare che li odiavo, che
406
mi facevano paura, che per me rappresentavano
un pericolo più grande dei tedeschi. Sì, ho
conosciuto kapò sadici; sì, ho visto ebrei che
picchiavano i loro fratelli e una luce selvaggia
brillava nei loro occhi. Ma anche recitando la
parte del carnefice sono morti da vittime. Spesso,
quando ci penso, mi stupisco ancora del fatto che
ci sono state così poche anime perdute, così pochi
cuori avvelenati in quel regno della notte dove si
respirava solo odio, disprezzo e disgusto di se
stessi. Che cosa sarebbe avvenuto di me se fossi
rimasto nei campi più a lungo, diciamo cinque
anni, o sette, o dodici? Mi vergogno, ma non lo
so. Sono circa vent'anni che cerco di rispondere e,
a volte, dopo una notte d'insonnia, ho paura della
risposta. Voi non avete paura. Queste domande,
che voi affrontate come si affronta un teorema o
407
un problema scientifico, non vi fanno paura.
Anche questo vi rimprovero.
Dalla fine dell'incubo frugo nel passato di cui
resterò, senza dubbio, per sempre prigioniero. Ho
paura, ma proseguo la mia ricerca. Più vado
avanti e meno capisco. Forse non c'è nulla da
capire.
Invece, più vado avanti e più apprendo sulla
vastità del tradimento di cui il mondo dei vivi si è
reso colpevole nei confronti di quello dei morti.
Mi capita di prendermi la testa fra le mani e di
dirmi: è follia, ecco la spiegazione, la sola
concepibile. Quando un così grande numero di
uomini spinge la propria indifferenza a un tale
punto, essa diventa patologica, si avvicina alla
follia.
Come spiegare altrimenti i Roosevelt, i
408
Churchill, gli Eisenhower, che non hanno mai
espresso la loro indignazione? Come spiegare il
silenzio del papa? Come spiegare il fallimento di
certi tentativi fatti a Londra o a Washington per
ottenere dagli Alleati il bombardamento aereo
delle fabbriche della morte o almeno delle linee
ferroviarie che vi conducevano?
Uno degli episodi più tristi di questa guerra, che
non mancò certo di episodi tristi, ebbe per eroe un
leader ebreo polacco in esilio a Londra: per
protestare contro l'inerzia degli Alleati, e anche
per scuotere l'opinione pubblica, Arthur
Ziegelbaum, membro del «Comitato nazionale
della Polonia libera», si tirò una rivoltellata alla
testa, in pieno giorno, davanti all'entrata della
Camera dei Comuni. Nel suo testamento
esprimeva la speranza che la sua protesta sarebbe
409
stata ascoltata.
Fu ben presto dimenticato; la sua morte si rivelò
inutile. Se aveva creduto, col suo rifiuto di vivere
fra uomini volutamente ciechi, di commuoverli, si
era sbagliato. Ziegelbaum morto o Ziegelbaum
vivo: per quei cuori di pietra la cosa era
indifferente. Per loro non era altro che un ebreo
polacco che parlava degli ebrei e viveva la loro
agonia; per loro avrebbe potuto morire laggiù, con
gli altri. Arthur Ziegelbaum è morto per niente. La
vita continuava, la guerra pure: contro le potenze
dell'Asse che, a loro volta, continuavano la loro
guerra contro gli ebrei. E il mondo si tappava le
orecchie e chiudeva gli occhi. A volte i giornali
pubblicavano qualche riga: che il ghetto di Lodz
era stato liquidato; o che il numero degli ebrei
europei già massacrati superava i due milioni o i
410
tre milioni. Queste notizie venivano pubblicate
come se si trattasse di avvenimenti normali, senza
commenti, senza angoscia: sembrava normale che
gli ebrei si facessero uccidere dai nazisti. Mai il
popolo ebraico era stato così solo.
Più frugo e più ragioni trovo per perdere la
speranza. Spesso ho paura di riaprire questo vaso
di Pandora: è sempre un nuovo colpevole che ne
emerge. Non ha dunque fondo questo vaso
malefico? No, non ha fondo.
Le mie parole sono prive di odio, lo ripeto.
L'odio non è una soluzione. Ci sarebbero troppi
bersagli. Gli ungheresi ci mettevano più passione
dei tedeschi nel perseguitare gli ebrei; i romeni
davano prova di maggiore efferatezza dei
tedeschi; gli slovacchi, i polacchi, gli ucraini
braccavano gli ebrei subdolamente, quasi con
411
amore. Forse dovrei odiarli: mi guarirebbe. Ma
cosa posso farci: ne sono incapace. Se l'odio fosse
una soluzione, i sopravvissuti avrebbero dovuto
incendiare il mondo appena usciti dai campi.
Adesso mi vien detto un po' dappertutto: non
voletecene, noi non sapevamo, non credevamo,
non potevamo far nulla. Se queste giustificazioni
bastano a calmare la loro coscienza, tanto peggio
per loro. Potrei loro rispondere che non volevano
sapere, che si rifiutavano di credere, che
avrebbero potuto agire sui propri governi allo
scopo di rompere la cospirazione del silenzio. Ma
questo porterebbe a una discussione. E in ogni
modo è troppo tardi: il tempo delle discussioni è
finito.
Dirò semplicemente questo: vi stupisce che gli
ebrei non abbiano scelto la resistenza? E che non
412
siano morti da soldati lottando per la vittoria della
loro causa? Ma quale vittoria e quale causa?
Vi rivelerò un segreto, uno fra mille, sul perché
gli ebrei non hanno resistito: per punirvi, per
preparare una vendetta a scoppio ritardato. Voi
non meritavate il loro sacrificio. Se, in ogni città e
in ogni villaggio, in Ucraina e in Galizia, in
Ungheria e in Cecoslovacchia, gli ebrei
formavano interminabili processioni notturne e
marciavano verso l'eternità come portando in se
stessi una gioia pura, quella che annuncia
l'avvicinarsi dell'estasi, è precisamente per farvi
conoscere l'ultima verità su coloro che vengono
sacrificati ai margini della Storia: «Voi non
meritate, restando in vita a questo prezzo, né
salvezza né riscatto; non meritate neppure questa
lezione di grande dignità e coraggio che, a nostro
413
modo, noi vi diamo, malgrado tutto, dirigendoci
verso la morte, guardandola in faccia, a fronte
alta, con la gioia di possedere questa forza, questa
fierezza».
Prima di concludere, vi chiederei dunque non di
fare uno sforzo per capire, ma piuttosto di
abbassare lo guardo e di non capire. Ogni
spiegazione razionale sarebbe più esoterica di
quanto
lo
sarebbe
una
interpretazione
dichiaratamente mistica. Non capire i morti è un
modo di pagar loro un vecchio debito, è il solo
modo di chieder loro perdono.
Ho davanti ai miei occhi la fotografia, fatta da
un ufficiale tedesco amante di souvenir, di un
padre che, un istante prima della fucilazione,
parlava ancora con calma a suo figlio, mentre con
un dito indicava il cielo. A volte credo di sentire
414
la sua voce sognante: «Vedi, figlio mio, stiamo
per morire e il cielo è bello; non dimenticare che
c'è una relazione fra questi due fatti». Oppure:
«Stiamo per morire, figlio mio, eppure il cielo,
così sereno, non crolla in un fracasso da fine del
mondo; senti il suo silenzio? Ascoltalo, non
bisognerebbe dimenticarlo». Mi capita di pensare
che se gli facessi una domanda, qualunque
domanda, questo padre mi risponderebbe. Ma
immergo lo sguardo in ciò che resta di lui e taccio.
Così come taccio ogni volta che mi appare
davanti agli occhi l'immagine di quel rabbino che,
a Varsavia, stava dritto, inflessibile, invincibile,
davanti a un gruppo di SS; si divertivano a farlo
soffrire, a umiliarlo; lui soffriva ma non si
lasciava umiliare. Una SS gli tagliò la barba
ridendo, ma lui, il rabbino, lo fissò dritto negli
415
occhi senza batter ciglio; c'era dolore nel suo
sguardo, ma anche sfida: lo sguardo di un uomo
più forte del male, anche quando il male è vincitore, più forte della morte, anche quando la morte
prende il volto di un attore che recita una farsa; lo
sguardo di un uomo che non deve rendere conto di
nulla a nessuno, neanche a Dio. Questo sguardo
illumina l'indimenticabile documentario di
Frédéric Rossif, Le Temps du Ghetto, e da quando
l'ho visto lo porto in me, non posso più
disfarmene, non voglio più lasciarlo, come per
volermi sempre ricordare che ci sono ancora, che
ci saranno sempre, nel mondo, sguardi che io non
capirò mai. E quando un tale sguardo si posa su di
me, a tavola, a un concerto o accanto a una donna
felice, io mi apro ad esso in silenzio.
Perché più procedo nella vita e più so che
416
possiamo far poco per i morti; il meno che
possiamo fare per loro, se non per noi, è lasciarli
tranquilli, non proiettare su di loro la nostra
colpevolezza. A noi piace pensare che i morti
abbiano trovato l'eterno riposo: non li
disturbiamo. Anche loro hanno delle domande, e
valgono le nostre.
La mia difesa sta per finire, ma sarebbe
incompleta se non dicessi nulla degli scontri
armati che, malgrado ciò che ne possa pensare
l'accusa, gli ebrei hanno avuto con i tedeschi. E se
ho delle difficoltà a capire perché questa
moltitudine di uomini è andata incontro alla morte
senza difendersi,esse avventano insormontabili
quando si tratta di capire quei loro compagni che
hanno invece scelto la lotta.
Come, nei ghetti e nei campi, essi abbiano
417
potuto trovare i mezzi per combattere, mentre il
mondo intero era contro di loro, resterà per
sempre un mistero.
Perché chi sostiene che tutti gli ebrei si
sottomisero agli assassini, al destino, con
vigliaccheria o con rassegnazione, non sa ciò che
dice o, ed è peggio, falsa volutamente i fatti al
solo scopo di dimostrare una teoria sociologica
che non sta in piedi, o di giustificare un odio
morboso che è sempre un odio di sé.
In realtà ci fu fra le vittime una élite attiva di
combattenti, composta da uomini, donne e
bambini che, con i loro miserabili mezzi, hanno
tenuto testa ai tedeschi. Era una minoranza, lo
ammetto, ma mostratemi una società in cui l'élite
attiva non è una minoranza. E questa élite esisteva
a Varsavia, a Bialystok, a Grodno e, Dio solo sa
418
come, perfino a Treblinka, a Sobibor e ad
Auschwitz. Esistono documenti e testimonianze
autentiche sugli atti di guerra compiuti da questi
poveri disperati; leggendoli, non si sa se
dobbiamo gioire di ammirazione o piangere di
rabbia. Ci domandiamo: ma come hanno fatto
questi bambini affamati, questi uomini braccati,
queste donne picchiate, come hanno fatto ad
affrontare con le armi in mano l'esercito nazista,
che a quell'epoca sembrava invincibile? Dove
hanno attinto la loro resistenza fisica, la loro forza
morale. Qual era il loro segreto e qual è il suo
nome.
Ho detto: con le armi in mano. Ma quali armi?
Non ne avevano molte. Una rivoltella costava un
patrimonio. A Bialystok, il capo della resistenza
del ghetto, il leggendario Mordechai Tenenbaum419
Tamaroff,
descrive
nel
suo
diario,
miracolosamente ritrovato, il momento in cui ebbe
il primo fucile, le prime munizioni: venticinque
pallottole. «Avevo le lacrime agli occhi. Mi
sentivo il cuore scoppiare di gioia». È dunque con
un fucile e venticinque pallottole che lui e i suoi
compagni andavano a contenere i furiosi attacchi
dell'esercito tedesco. È facile immaginare cosa
sarebbe successo se tutti i combattenti, in tutti i
ghetti, avessero ottenuto ciascuno un fucile; non
parlo di bombe a mano o di armi automatiche. Ma
glieli hanno rifiutati.
Tutte le organizzazioni clandestine nei paesi
occupati ricevevano da Londra armi, denaro,
apparecchi radio, e agenti segreti venivano
regolarmente inviati a insegnar loro l'arte del
sabotaggio: si sentivano organicamente collegati
420
con il mondo esterno. Un partigiano che, in
Francia o in Norvegia, si faceva prendere poteva
consolarsi pensando che da qualche parte, in
quella città o anche altrove, c'era gente che
tremava per lui, che viveva nell'inquietudine a
causa sua e che avrebbe smosso cielo e terra per
salvarlo: i suoi atti si iscrivevano da qualche parte,
lasciavano una traccia, causavano sofferenza,
producevano risultati. Gli ebrei erano soli: gli
uomini più soli della guerra.
Soltanto loro non ricevevano aiuti o
incoraggiamenti: non venivano inviati loro né
armi né messaggi; nessuno parlava con loro,
nessuno si preoccupava di loro: non esistevano.
Gridavano aiuto, ma gli appelli che lanciavano per
radio o per mezzo della posta incontravano
orecchie tappate. Tagliati fuori dal mondo, dalla
421
stessa guerra, i combattenti ebrei vi parteciparono
pur sapendo che non erano desiderati, che erano
già stati sacrificati; si erano gettati nella lotta pur
sapendo che non avevano nessuno su cui contare,
che gli aiuti non sarebbero mai arrivati, che non
avrebbero avuto nessun punto d'appoggio,
nessuna posizione di ripiegamento. E tuttavia, con
le spalle al muro, sfidarono i tedeschi: ci sono
battaglie che si vincono, anche se si perdono.
Questa élite c'era anche a Sobibor, dove
organizzò una evasione, a Treblinka, dove si
sollevò, ad Auschwitz, dove fece saltare i
crematori. Gli insorti di Auschwitz tentarono di
evadere, ma nella lotta con le SS, che
evidentemente erano superiori in armi e in
uomini, trovarono tutti la morte. I tedeschi
riuscirono in seguito a mettere le mani su quattro
422
ragazze ebree, originarie di Varsavia, che avevano
procurato gli esplosivi agli insorti. Furono
torturate, condannate a morte e impiccate
pubblicamente. Morirono senza paura. La più
grande aveva sedici anni, la più piccola dodici.
Se fossimo capaci di sufficiente sincerità, di
sufficiente umiltà, dovremmo provare per questi
eroi un'ammirazione senza limiti; ma non ne
siamo capaci.
Possiamo soltanto abbassare la testa e tacere. E
che cessi questo rivoltante processo postumo che,
un po' dappertutto, gli acrobati dell'intelligenza
fanno a coloro la cui morte sconcerta
l'intelligenza. Voi volete capire? Non c'è più nulla
da capire. Voi volete sapere? Non c'è più nulla da
sapere. Non è giocando con le parole e con i morti
che potrete capire e sapere. Al contrario. Gli
423
antichi dicevano: «Chi sa non parla; chi parla non
sa».
Ma voi preferite parlare e giudicare. Volete
essere forti e invulnerabili, e io vi rimprovero
anche questa vostra forza e questo desiderio di
renderla invulnerabile. La lezione dell'Olocausto,
se ce n'è una, è che la nostra forza non è che
illusoria e che in ciascuno di noi c'è una vittima
che ha paura, che ha freddo, che ha fame. E che si
vergogna.
Il Talmud insegna all'uomo di non giudicare mai
un amico finché non si troverà al suo posto.
Ma, per voi, gli ebrei non sono amici; non lo
sono mai stati; è perché non avevano amici che
sono morti. Allora, imparate a tacere.
424
Indice
La morte di mio padre
I miei maestri
L'ospite di una sera
L'orfano
Yom Kippur, il giorno senza perdono
Una vecchia conoscenza
Barbara
II testamento di un ebreo di Saragozza
Moshé il pazzo
L'ebreo errante
425
L'ultimo ritorno
La nostra colpa comune
Difesa dei morti
426
Finito di stampare
nella tIpografia Giuntina
Firenze, gennaio 1991
427
In questa collana
1. Elie Wiesel, La notte (4' edizione)
2. Claudine Vegh, Non gli ho detto arnvederci. I
figli dei
deportati parlano
3. Elie Wiesel, Il testamento di un poeta ebreo
assassinato
(2ª edizione)
4. Elie Wiesel, Il processo di Shamgorod (3ª
edizione)
5. Helen Epstein, Figli dell'Olocausto
6. Elie Wiesel, L'ebreo errante (2ª edizione)
7. Walter Laqueur, Il terribile segreto
8. Elie Wiesel, Il quinto figlio (2ª edizione)
428
9. Memorie di Glückel Hameln
10. Else Lasker-Schüler, Ballate ebraiche e
altre poesie
11. Franz Werfel, Cecilia o i vincitori
12. Lorenzo Cremonesi, Le origini del sionismo
e la nascita
del kibbutz (1881-1920)
13. Vladimir Jankélévitch, La coscienza
ebraica
14. Liana Millu, // fumo di Birkenau
15. Elie Wiesel, Credere o non credere
16. Vladimir Jankélévitch, Perdonare? (2ª
edizione)
17. Avraham B. Yehoshua, Il poeta continua a
tacere
18. Giuliana Tedeschi, C'è un punto della
429
terra...
19. Elie Wiesel, Cinque figure bibliche
20. George L. Mosse, Il dialogo ebraicotedesco
21. Leslie A. Fiedler, L'ultimo ebreo in
America
22. Jona Oberski, Anni d'infanzia
23. Elie Wiesel, La città della fortuna
24. Jakob Hessing, La maledizione del profeta
430