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1 ... Ma, nel momento del cheshbon ha-nefesh, facendo il bilancio della mia vita, devo riconoscere che i miei veri maestri, per guidarmi e per spingermi avanti, mi attendono non in luoghi prestigiosi e lontani ma nelle piccole aule piene d'ombre e di canti dove un ragazzo al quale assomigliavo studia ancora oggi la prima pagina del primo trattato del Talmud, sicuro di trovarvi tutte le risposte a tutte le domande. Meglio: tutte le risposte e tutte le domande. Perciò, spesso per me l'atto di scrivere non è altro che il desiderio inconfessato o cosciente di incidere alcune parole su una pietra tombale: alla memoria di una città scomparsa, di un'infanzia esiliata e di 2 tutti coloro che ho amato e che se ne sono andati prima che abbia potuto dirglielo. Elie Wiesel Nato nel 1928 a Sighet, in Transilvania, Elie Wiesel venne deportato ad Auschwitz e Buchenwald. Dopo la guerra ha fatto per alcuni anni il giornalista in Francia e poi si è trasferito negli Stati Uniti. Attualmente insegna all'Università di Boston. Nel 1986 ha ricevuto il premio Nobel per la pace. 3 Elie Wiesel L'ebreo errante Traduzione di Daniel Vogelmann Giuntina 4 e-book realizzato da filuc (2003) 5 Titolo originale: Le chant des morts Copyright © 1966 Editions du Seuil, Paris Copyright © 1983 Editrice La Giuntina, Via Ricasoli 26, Firenze Terza edizione: 1991 ISBN 88-85943-01-2 6 L'ebreo errante 7 La morte di mio padre L'anniversario della morte di un certo Shlomo ben Nissel cade il diciottesimo giorno del mese di Shevat. Era mio padre, il giorno è domani e, come ogni anno, non so come pormi di fronte a questo avvenimento. Eppure nello Shulchan Aruch, il grande libro di precetti di Rabbì Joseph Caro, lo straordinario legislatore-visionario del sedicesimo secolo, ci sono regole precise e rigorose su quest'argomento. Potrei e dovrei semplicemente conformarmi ad esse. Ubbidire alla tradizione. Seguirne le orme. Fare ciò che in un giorno come questo fanno tutti: recarmi per tre volte alla sinagoga, celebrare la funzione, studiare un capitolo della Mishnàh, recitare il Kaddìsh dell'orfano e, in presenza della comunità vivente di Israele, proclamare la santità e la grandezza del Signore, perché le sue vie sono tortuose ma giuste, la sua grazia dura da sopportare ma indispensabile, sia sulla terra che in cielo, oggi e sempre. Che sia fatta la sua volontà, e così sia. Questo è indubbiamente ciò che farei se mio padre fosse morto di vecchiaia, di malattia o anche di disperazione. Ma le cose non stanno così. Neppure la sua morte gli appartiene. Non so a quale causa attribuirla, in quale libro iscriverla. Non c'è nessun legame fra essa e l'esistenza che ha condotto. La sua morte, perduta fra tutte le altre, non ebbe nulla a che fare con la persona che 9 egli era stato. Con altrettanta facilità avrebbe potuto semplicemente sfiorarlo e risparmiarlo. Lo ha colto inavvertitamente, distratta-mente. Per sbaglio. Senza sapere che si trattava di lui. È stato derubato della sua morte. Disteso su un tavolaccio in mezzo a una moltitudine di cadaveri coperti di sangue, gli occhi sbarrati dalla paura, una maschera di sofferenza sopra la maschera barbuta e sconvolta del suo volto, così mio padre esalò l'anima a Buchenwald. Un'anima inutile in quel luogo, e che egli sembrava aver voluto rimandare in cielo. Ma non la restituì al Dio dei suoi padri, ma piuttosto all'impostore, crudele e insaziabile, al Dio nemico. Gli avevano ucciso il suo Dio, glielo avevano cambiato. Come potrei quindi entrare domani nel tempio e 10 immergermi nella sacra ripetizione del rituale senza mentire a me stesso, senza mentire a lui? Come potrei agire o pensare come tutti gli altri, pretendere che la morte di mio padre abbia un senso che esiga dolore o indignazione? Forse, dopo tutto, dovrei correre alla sinagoga, lodare il Dio dei bambini morti, se non altro per provocarlo con la mia sottomissione? Domani è l'anniversario della morte di mio padre, e io cerco una nuova legge che mi prescriva quali voti fare e quali non fare più; quali parole dire e quali non dire più. In realtà saprei come comportarmi se mio padre, da vivo, fosse stato ciecamente pio, posseduto dal fervore e dal tormento di un'anima religiosa. Mi 11 direi: è mio dovere commemorare questa data secondo le leggi e i costumi ebraici, perché questo era il suo desiderio. Ma per quanto osservante, mio padre non era affatto un fanatico. Al contrario, predicava la libertà dello spirito. Era un uomo del suo tempo. Rifiutava di sacrificare il presente sull'altare di un imprevedibile futuro, qualunque esso fosse. Godeva dei semplici piaceri di ogni giorno e non considerava il suo corpo come un nemico. Raramente tornava a casa la sera senza portarci qualche frutto esotico o qualche dolce. Curioso e tollerante, frequentava i circoli chassidici perché ammirava i loro canti e le loro storie, ma a differenza di loro si rifiutava di imprigionare la propria mente in un sistema. Mia madre sembrava più devota di lui. Era lei 12 che mi portava al cheder per fare di me un buon ebreo, amante solo di quella sapienza e di quell'amore che si possono attingere nella Toràh. Era lei a mandarmi il più spesso possibile dal Rebbe di Wizsnitz per sollecitare la sua benedizione o per espormi semplicemente al suo influsso. L'ambizione di mio padre era quella di fare di me un uomo piuttosto che un santo. «Il tuo dovere è quello di combattere la solitudine, non di coltivarla o di glorificarla», mi diceva. E aggiungeva: «Dio forse ha bisogno di santi, ma gli uomini possono farne a meno». Lo si poteva trovare più spesso negli uffici governativi che in sinagoga, e a volte, nei momenti di pericolo, più in quegli uffici che a casa. Ogni disgrazia che si abbatteva sulla nostra 13 comunità lo coinvolgeva direttamente. C'era sempre un malato bisognoso da inviare urgentemente in una clinica di Kolozsvar o di Budapest; un negoziante sfortunato da far uscire di galera; un profugo disperato da salvare. Molti dei sopravvissuti dei ghetti polacchi devono a lui la propria vita. Riforniti di denaro e di documenti falsi, grazie a lui e ai suoi amici poterono abbandonare il paese per la Romania e da qui emigrare negli Stati Uniti o in Palestina. Queste sue attività gli costarono tre mesi di prigione. Una volta uscito non fece parola delle torture a cui era stato sottoposto e ricominciò daccapo come se nulla fosse. Mia madre mi insegnava l'amore di Dio. Mio padre, invece, non mi parlava quasi mai dei problemi concernenti le leggi che regolano le 14 relazioni fra creatura e creatore. Nelle nostre conversazioni il Kaddìsh non veniva mai nominato. Neanche in campo di concentramento. Soprattutto non in campo di concentramento. Non so dunque cosa avrebbe sperato vedermi fare domani, anniversario della sua morte. Se soltanto in vita sua fosse stato un uomo inebriato d'eternità e di redenzione... Ma il problema non è questo. Anche se Shlomo ben Nissel fosse stato un fedele servitore del veemente Dio di Abramo, un Giusto dall'anima esigente e immacolata, immune da ogni debolezza e da ogni dubbio, non saprei lo stesso come interpretare la sua morte. Perché ignoro l'essenziale: ciò che ha provato, in 15 che cosa ha creduto nell'ultimo momento della sua lotta rassegnata, mentre il suo essere già si spengeva, già si allontanava verso quel luogo dove non tormentano più i morti, dove, finalmente, li lasciano riposare nella pace o nel nulla. Il volto tumefatto, terribile, esangue, mio padre agonizzava in silenzio. Le sue labbra asciutte si muovevano impercettibilmente. Mormorii privi di senso: ne captavo i suoni ma non le parole. Stava senza dubbio compiendo il suo dovere di padre comunicandomi le sue ultime volontà, e forse mi confidava anche le sue opinioni definitive sulla storia, la conoscenza, la miseria del mondo, la sua vita, la mia. Non lo saprò mai. Non saprò mai se ha avuto sulle labbra il nome dell'Eterno per lodarlo malgrado tutto o al contrario, a causa di 16 tutto, per liberarsene. Attraverso le palpebre gonfie e semichiuse mi guardava, e a volte mi dico che mi guardava con pietà. Se ne andava e soffriva di dovermi lasciare, solo, senza appoggio, in un mondo che aveva desiderato differente per me, per lui, per tutti gli uomini come lui e me. Altre volte la mia memoria si allontana da questa immagine e va per conto suo. Allora credo di ritrovare l'ombra di un sorriso sulle sue labbra: la gioia contenuta di un padre che se ne va con la speranza che suo figlio, almeno lui, rimanga in vita un minuto, un giorno, una settimana di più, e che forse vedrà l'angelo liberatore, il messaggero di pace. La certezza che suo figlio gli sopravviverà. Ma, tuttavia, non esito a credere che la verità 17 possa essere stata del tutto diversa. Morendo, mio padre mi ha guardato, e nei suoi occhi, in cui si addensava la notte, non c'era che un terrore animale, il folle terrore di chi, a forza di voler troppo comprendere, non comprende più niente. Lo sguardo vuoto posato su di me, non so neanche se mi ha visto, se era proprio me che vedeva. Forse mi ha preso per un altro, forse addirittura per l'angelo sterminatore. Non lo so, perché è impossibile afferrare ciò che vedono o non vedono gli occhi dei moribondi, interpretare il rantolio del loro ultimo respiro. So soltanto che quel giorno, divenuto orfano, io non ho rispettato la tradizione, non ho recitato il Kaddìsh. Innanzitutto perché nessuno, laggiù, mi avrebbe ascoltato per rispondere amen, e poi perché non sapevo ancora a memoria questa bella 18 e solenne preghiera. E infine perché mi sentivo vuoto, inutile: un oggetto superfluo, una cosa priva di immaginazione. Del resto, non c'era più nulla da dire, non c'era più nulla da sperare. Era la sconfitta, la fine. Recitare il Kaddìsh in quella baracca soffocante, nel regno della morte, sarebbe stata la peggiore delle bestemmie. E io non avevo neanche la forza di bestemmiare. La ritroverò domani questa forza? Qualunque sia la risposta, sarà sbagliata, o almeno imperfetta. Non avrà nulla a che vedere con la morte di mio padre. Le ripercussioni dell'Olocausto sui credenti come pure sui non credenti, sia per quanto riguarda gli ebrei che per quanto riguarda i 19 cristiani, non sono state ancora valutate. Non a fondo, non abbastanza. Questo non sorprenderà nessuno. Coloro che hanno vissuto l'Olocausto mancheranno di obiettività: prenderanno sempre il punto di vista dell'uomo di fronte all'assoluto. Quanto agli studiosi e ai filosofi di ogni genere che hanno potuto assistere alla tragedia, se sono capaci di sincerità, e cioè d'umiltà, si ritireranno senza osare di entrare nel vivo della questione; e se non lo sono, che importanza potranno avere le loro magniloquenti conclusioni! Auschwitz, per definizione, è al di sopra del loro vocabolario. I sopravvissuti, più realisti se non più onesti, sono coscienti del fatto che la presenza di Dio a Treblinka o a Majdanek, ovvero la sua assenza, pone un problema che resterà fra i più insolubili. Ho conosciuto un uomo profondamente 20 religioso che, il giorno dell'Espiazione, stremato, rimproverava il cielo urlando come un animale ferito: «Cosa vuoi da me, o Signore? Cosa ti ho fatto? Io voglio servirti e proclamarti re dell'universo, ma tu me lo impedisci; voglio cantare la tua misericordia e tu mi rendi ridicolo; voglio riporre in te la mia fede, consacrarti il mio pensiero e tu non me lo permetti: perché, perché?». Ho conosciuto anche un libero pensatore che, una sera, dopo una selezione, si mise improvvisamente a pregare singhiozzando come un bambino. Si batteva il petto, si scopriva martire. Aveva bisogno di un sostegno e ancor più di una certezza: se soffriva, era perché aveva peccato; se pativa il supplizio, era perché l'aveva meritato. 21 Alla perdita della fede per alcuni corrispondeva la scoperta di Dio per altri. Sia l'una che l'altra rispondevano alla stessa necessità di prendere posizione, allo stesso movimento di rivolta. In entrambi i casi era un'accusa. Perché forse un giorno qualcuno ci spiegherà come è stato possibile Auschwitz a livello umano, ma, a livello di Dio, resterà per sempre il più inquietante dei misteri. Sono passati tanti anni da quando ho visto morire mio padre. Io sono diventato adulto e le candele che più volte all'anno accendo in memoria dei membri defunti della mia famiglia diventano sempre più numerose. Dovrei averci già fatto l'abitudine, ma non ci riesco. E ogni volta che si 22 avvicina il diciottesimo giorno del mese di Shevat mi lascio invadere dalla desolazione e dall'apatia: non so mai come commemorare la morte di mio padre Shlomo ben Nissel, sopraggiunta come per sbaglio. Sì, una voce mi dice che in fondo mi basterebbe seguire, come negli anni precedenti, il sentiero battuto, studiare un capitolo della Mishnàh e recitare ancora una volta il Kaddìsh, questo canto così bello e così commovente dedicato ai defunti, ma in cui la morte non è mai nominata. Perché non inchinarmi? Sarebbe conforme alle usanze stabilite da innumerevoli generazioni di saggi e di orfani. Studiando i testi sacri, offriamo ai morti il senso della continuità se non il riposo. È così che mio padre commemorava la morte di suo padre. Ma questo sarebbe troppo facile. L'Olocausto 23 nega i riferimenti, le analogie. Fra la morte di mio padre e quella di suo padre non è possibile nessun confronto. Imitare mio padre sarebbe insufficiente, perfino ingiusto. Dovrei inventare altre preghiere, altri gesti. E temo di non esserne capace, né degno. Tutto sommato, credo che domani andrò ugualmente alla sinagoga. Accenderò le candele, reciterò il Kaddìsh, e ciò sarà per me un'ulteriore prova della mia impotenza. 24 I miei maestri Per alcuni la letteratura è un ponte che unisce l'infanzia alla morte. Mentre questa genera angoscia, quella evoca nostalgia. Più la nostalgia è profonda e la paura totale, e più la parola e l'immagine guadagnano in purezza e in ricchezza. Ma per me lo scrivere è piuttosto una matzevà, un'invisibile pietra tombale, eretta alla memoria dei morti senza sepoltura. Ogni parola corrisponde a un volto, a una preghiera, avendo l'uno bisogno dell'altra per non cadere nell'oblio. Il fatto è che l'Angelo della Morte ha 25 attraversato troppo presto la mia infanzia marcandola col suo sigillo. Pensando a Lui, mi capita di scorgerlo, l'aria vittoriosa, non in fondo alla strada ma al punto di partenza. Si confonde con l'origine, col primo slancio piuttosto che con l'abisso in cui precipita l'avvenire. Perciò è con nostalgia che evoco il vincitore solitario, quasi senza timore. Forse perché appartengo a una generazione sradicata, senza cimiteri dove all'indomani del Capodanno potremmo andare, secondo l'usanza, a prostrarci sulle tombe e a raccoglierci con i morti. Hanno preso tutto alla mia generazione, anche i cimiteri. Ho lasciato la mia città natale nella primavera del 1944. Era una bella giornata. Le verdeggianti 26 montagne circostanti sembravano più alte. I nostri vicini passeggiavano in maniche di camicia. Alcuni voltavano la testa; gli altri ridacchiavano. Dopo la guerra mi si è presentata diverse volte l'occasione di ritornarci. Le tentazioni non mancavano. Erano tutte ragionevoli: vedere quale dei miei amici era sopravvissuto, dissotterrare gli averi e gli oggetti di valore che avevamo nascosto prima di partire, riprendere possesso, anche se fugacemente, della nostra proprietà, del nostro passato. Non sono tornato indietro. Mi sono messo a errare per il mondo pur sapendo che fuggire non serviva a niente: tutte le strade riportano a casa. In questo mondo in fermento essa resta l'unico punto fermo. A volte mi dico che in fondo non ho mai veramente abbandonato il luogo dove sono nato, 27 dove ho imparato a camminare e ad amare: l'universo non sarebbe che un'estensione di questa piccola città situata da qualche parte in Transilvania e chiamata Marmarosszighet. Poi, studente o giornalista, dovevo incontrare nel corso delle mie peregrinazioni uomini strani e a volte edificanti che recitavano la loro parte o la inventavano: scrittori, pensatori, poeti dell'esistenza, trovatori dell'apocalisse. Ognuno mi dette qualcosa per andare avanti: una frase, una strizzatina d'occhio, un enigma. E potevo continuare. Ma, nel momento del cheshbon hanefesh, facendo il bilancio della mia vita, devo riconoscere che i miei veri maestri, per guidarmi e per spingermi avanti, mi attendono non in luoghi prestigiosi e lontani ma nelle piccole aule piene 28 d'ombre e di canti dove un ragazzo al quale assomigliavo studia ancora oggi la prima pagina del primo trattato del Talmud, sicuro di trovarvi tutte le risposte a tutte le domande. Meglio: tutte le risposte e tutte le domande. Perciò, spesso per me l'atto di scrivere non è altro che il desiderio inconfessato o cosciente di incidere alcune parole su una pietra tombale: alla memoria di una città scomparsa, di un'infanzia esiliata e di tutti coloro che ho amato e che se ne sono andati prima che abbia potuto dirglielo. I miei maestri ne facevano parte. Il primo era un vecchietto grassottello, con la barba bianca, l'occhio furbo e le labbra esangui. Il suo nome mi sfugge. In realtà non l'ho mai saputo. 29 In città ci si riferiva a lui come al «maestro di Betize», senza dubbio perché veniva dall'omonimo villaggio. Fu lui che per primo mi aveva parlato con amore della nostra lingua. In ogni sillaba, in ogni segno, metteva il suo cuore e la sua anima. L'alfabeto costituiva la cornice e il contenuto della sua vita, racchiudeva le sue gioie e le sue delusioni, le sue ambizioni e i suoi ricordi. Al di fuori delle ventidue lettere della lingua sacra non esisteva nulla per lui. Ci diceva con tenerezza: «La Toràh, bambini, che cos'è? Un tesoro pieno d'oro e di pietre preziose. Per penetrarvi ci vuole una chiave. Io ve la darò: fatene buon uso. La chiave, bambini, che cos'è? L'alfabeto. Allora, ripetete dopo di me, con me, a voce alta, più alta: aleph, bet, ghimel. Ancora una volta, bambini, e ditelo con forza, con fierezza: 30 aleph, bet, ghimel. Così la chiave farà ormai parte della vostra memoria, del vostro futuro: aleph, bet, ghimel». È «Zeide il Melamed» che mi insegnò in seguito la Bibbia e, l'anno dopo, i commenti di Rashì. Con la sua barba nera e folta, questo maestro taciturno, eternamente in lutto, ci ispirava un malessere misto a paura. Lo consideravano severo, perfino crudele. Non ci metteva nulla a bacchettare sulle dita chi arrivava in ritardo o chi deformava il senso di una frase. «È per il vostro bene», ci spiegava. Si arrabbiava facilmente, e allora noi incassavamo la testa nelle spalle e tremavamo aspettando che gli fosse passata. Ma, in realtà, era un uomo tormentato e sentimentale. Soffriva 31 quando doveva punire un allievo ribelle, anche se non si vedeva perché non voleva che lo credessimo debole. Non si affidava che a Dio. Perché sono state sparse tante calunnie nei suoi riguardi? Perché gli è stata attribuita una cattiveria che non aveva? Forse perché era gobbo, perché parlava senza alzare gli occhi. I bambini, che, senza saperlo, l'intimidivano, amavano concludere che la bruttezza è l'alleata della cattiveria se non la sua espressione. La sua scuola si trovava in una casa scalcinata, in fondo al cortile, ed era composta di sole due stanze. Lui occupava la prima. Nell'altra, il suo assistente, un giovane erudito di nome Itzchak, apriva per noi le pesanti porte della tradizione orale. Cominciammo col trattato di Baba Metzia: si tratta di una discussione fra due persone che 32 avendo trovato un indumento non sanno decidere chi lo debba prendere. Itzchak leggeva un passo e noi lo ripetevamo canticchiando. Alla fine del semestre eravamo in grado di assorbire un'intera pagina alla settimana. L'anno dopo fu la volta delle Tossafot, che commentano i commenti. E il cervello, lentamente, si affinava, penetrava il senso di ogni parola, emanava la luce che contiene da che mondo è mondo. Chi dunque si avvicinava di più a quella luce: la scuola di Shammai, l'intransigente, o quella di Hillel, suo interlocutore e rivale? Tutte e due. Tutti gli alberi si nutrono della stessa linfa. Tuttavia, io mi sentivo più vicino alla Casa di Hillel; essa si sforzava di rendere l'esistenza più tollerabile, la ricerca più meritevole. 33 A dieci anni lasciai Itzchak e divenni discepolo del «Selishter Rebbe», un uomo triste dagli occhi selvaggi e dalla voce rauca, brutale. Davanti a lui nessuno osava aprir bocca o distrarsi. Ci terrorizzava. Quando distribuiva ceffoni - cosa che capitava spesso e spesso senza ragione - ci metteva tutta la sua forza; e ne aveva. Era il suo metodo personale per far regnare la disciplina e per prepararci alla condizione ebraica. Sull'ora del crepuscolo, fra la preghiera di minchà e quella di arvìt, ci obbligava ad ascoltarlo mentre leggeva un capitolo tratto dalla letteratura del Mussar. Mentre ci descriveva le torture che il peccatore subisce nella tomba, ancora prima di comparire davanti al tribunale celeste, il suo corpo era scosso dai singhiozzi. Si interrompeva e si 34 nascondeva il capo fra le mani. Era come se vivesse in anticipo i tormenti del Giudizio Universale. Non dimenticherò mai le sue dettagliate descrizioni dell'inferno che, nella sua ingenuità, situava in un luogo preciso e ben delimitato dell'aldilà. Di Shabbàt diventava un uomo diverso, quasi irriconoscibile. Faceva la sua apparizione alla sinagoga di fronte al Piccolo Mercato. In piedi accanto al camino, a destra dell'entrata, un'aria da animale braccato, si sprofondava nelle preghiere, senza veder nessuno. Io lo salutavo, gli facevo gli auguri senza ottenere risposta. Non mi sentiva. Era come se non sapesse più chi fossi, o semplicemente che fossi là. Il settimo giorno della settimana lo consacrava al creatore e non vedeva più niente di ciò che lo circondava: non vedeva 35 neanche se stesso. Pregava in silenzio, in disparte, non seguiva il cantore, le sue labbra si muovevano appena. Una tristezza lontana si posava nel suo sguardo smarrito. Durante la settimana, mi sembra che mi facesse meno paura. Avevo deciso di cambiare scuola e divenni discepolo, in tempi successivi, di tre maestri, anch'essi originari di villaggi vicini. Il loro atteggiamento era più umano. Noi ci consideravamo già come «grandi» che sanno misurarsi senza bisogno di aiuto con un passo una sugya - difficile. Ogni tanto, disorientati, ci rivolgevamo ancora a loro perché ci mostrassero come continuare; appena i problemi posti dai commenti del Marsha o del Maharam venivano 36 risolti, la loro luce improvvisa ci abbagliava. Dipanare a un tratto il groviglio di un pensiero talmudico mi procurava sempre un'intensa felicità; mi ritrovavo sulla soglia di un universo luminoso, indistruttibile, e mi dicevo che al di sopra e al di là dei secoli e dei roghi esiste sempre un ponte che conduce da qualche parte. Poi i tedeschi fecero irruzione nella nostra piccola città e il canto nostalgico degli alunni e dei loro maestri si interruppe. Darei tutto ciò che possiedo, tutto ciò che mi è stato promesso, per poterlo sentire di nuovo. Mi capita di sedermi davanti a un trattato del Talmud e una paura paralizzante mi invade: non ho dimenticato le parole, saprei tradurle, perfino 37 commentarle, ma dirle non basta, bisognerebbe cantarle e io non so più come. Improvvisamente il mio essere si tende, il mio sguardo vacilla e io ho paura di voltarmi: dietro di me i miei Maestri si raccolgono, il loro respiro mi brucia, aspettano come un tempo che mi metta a leggere ad alta voce e dimostri alle generazioni passate che il loro canto non muore. I miei Maestri aspettano e io mi vergogno di farli aspettare. Mi vergogno perché loro non hanno dimenticato il canto. In loro il canto è rimasto vivo, più forte delle forze che li annientarono, più ostinato del vento che disperse le loro ceneri. Ho voglia di supplicarli di ritornare nelle loro tombe, di non confondersi più con i vivi. Ma non sanno dove andare: il cielo e la terra li hanno rinnegati. Così, per non umiliarli, mi metto ugualmente a leggere una prima frase, poi 38 la riprendo per aprirla, per chiuderla, prima di unirla alla seguente. Ma la mia voce non è che un mormorio. Li ho traditi: non so più cantare. Tranne uno solo, tutti i miei Maestri sono morti nelle fabbriche della morte, inventate e perfezionate per la gloria del genio nazionale tedesco. Li ho visti, mal rasati, smagriti, incurvati; li ho visti mentre si dirigevano in una domenica di sole verso la stazione, per una destinazione sconosciuta. Ho visto «Zeide il Melamed», con un sacco così pesante che gli schiacciava le spalle. Io mi stupii: e dire che questo nomade ci aveva terrorizzato. E, in mezzo al gregge, ho visto anche il «Selishter Rebbe», con l'aria assorta, come se, 39 chiuso nel suo mondo, avesse fretta di arrivare. Pensai: il suo volto ha l'espressione dello Shabbàt, anche se è domenica. Non piangeva, i suoi occhi non lanciavano più fiamme; forse stava finalmente per scoprire la verità: sì, l'inferno esiste, come esiste questo fuoco nella notte. Leggo dunque per la decima volta lo stesso passo dello stesso libro, e i miei Maestri, con il loro silenzio, mi comunicano la loro riprovazione: ho perduto la chiave che mi avevano affidato. Oggi, altri libri mi assorbono e io cerco di imparare da altri narratori come penetrare il senso di un'esperienza e come trasformarla in leggenda. Ma i più parlano troppo. Il canto si perde nelle parole come certi fiumi nella sabbia. Fu il «Selishter Rebbe» a dirmi un giorno: «Attento, le parole sono pericolose. Dovrai 40 diffidarne. Esse generano demoni o angeli. Non dipenderà che da te dar vita agli uni o agli altri. Attento, ti dico, non c'è nulla di più pericoloso che dar loro libero corso». A volte, mi sembra che egli stia dietro di me, rigido e severo, e che legga da sopra la mia spalla ciò che cerco di dire; guarda per giudicare se il suo discepolo arricchisce il mondo dell'uomo o l'impoverisce, se invoca gli angeli o se invece si inginocchia davanti ai demoni dagli innumerevoli nomi. Se il «Selishter Rebbe» dagli occhi selvaggi non stesse dietro di me, forse avrei scritto diversamente queste righe; forse non avrei scritto nulla. Forse io, suo discepolo, non sono altro che la sua pietra tombale. 41 L'ospite di una sera Come tutti i bambini ebrei perseguitati, è con passione che amavo il profeta Elia, il solo fra i santi che sia salito vivo in cielo, in un carro di fuoco, per diventare, attraverso i secoli, l'araldo della liberazione. Senza un'apparente ragione, lo immaginavo sotto le spoglie di un ebreo yemenita: alto, cupo, insondabile. Un principe senza età, senza legami, che appare in qualunque luogo lo si attenda. Avanza, indomito, bruciando le tappe. In tutto, è la fine che lo attira, perché lui solo conosce il suo 42 mistero. Passando, consola l'anziano, l'orfano, la vedova abbandonata a se stessa. Cammina e trascina il mondo dietro di sé. Porta negli occhi una promessa che vorrebbe liberare, ma non ne ha il diritto né il potere. Non ancora. Nella mia fantasia, gli attribuivo la bellezza maestosa di Saul e la forza di Sansone. Che alzasse il braccio e i nostri nemici si sarebbero gettati per terra. Che gridasse un ordine e l'universo avrebbe tremato: il tempo avrebbe corso più in fretta per permetterci di raggiungere più rapidamente il palazzo celeste dove, dal primo giorno della creazione e, secondo certi mistici, da molto prima, ci attende il Messia. Non saprei più dire perché un ebreo yemenita. Forse perché non ne avevo mai visti. Per il bambino che ero, lo Yemen si trovava non su una 43 carta geografica, ma da qualche altra parte, in un reame di sogno in cui tutti i bambini tristi, di tutte le città e di tutti i secoli, si danno la mano per sfidare l'oppressione, gli anni, la morte. In seguito vidi il profeta e dovetti ammettere il mio errore. Era un ebreo, ovviamente, ma veniva semplicemente dalla Polonia. Inoltre, non aveva nulla del gigante, dell'eroe sempre noi? E Dio, perché non interviene? Dov'è il miracolo? Che aspetta? Quando si interporrà fra noi e i carnefici?». Le sue interruzioni inaspettate crearono un senso di disagio intorno alla tavola. Appena uno di noi apriva bocca, lui lo interrompeva: - Vi occupate del passato tre volte millenario e vi distogliete dal presente: Faraone non è morto, aprite gli occhi e guardate, sta decimando il nostro 44 popolo. Mosè, lui è morto davvero, ma Faraone no: è vivo, sta arrivando, fra poco sarà alle porte di questa città, alle porte di questa casa; siete sicuri che sarete risparmiati? Poi, con un'alzata di spalle, lesse qualche passo dalla Haggadà: in bocca a lui le lodi diventavano blasfeme. Papà cercò di calmarlo, di rassicurarlo: - Siete abbattuto, amico; non bisogna. Questa sera entriamo nella festa sotto il segno della gioia e della riconoscenza. L'ospite gli lanciò uno sguardo bruciante e disse: - Riconoscenza, dite? Per quale ragione? Avete già visto sgozzare bambini davanti alle loro madri? Io l'ho visto. - Dopo - diceva mio padre. - Dopo ci racconterete tutto. Io ascoltavo l'ospite e mi domandavo: chi è? 45 Cosa vuole? Lo credevo malato e infelice, forse pazzo. Soltanto più tardi capii: era il profeta Elia. E se non assomigliava molto a quello della Bibbia né a quello dei miei sogni, è perché ogni generazione genera un profeta a propria immagine. Al tempo dei re si rivelava predicatore irascibile, incendiando le montagne e i cuori; poi, pentito, percorreva mendicando i vicoli di Gerusalemme assediata, per diventare studente a Babilonia, messaggero a Roma, inserviente di sinagoga a Magonza, a Toledo o a Kiev. Oggi aveva il volto e il destino di un povero profugo polacco che, coi suoi occhi, aveva visto troppe volte e da troppo vicino la vittoria della morte sull'uomo e sulla sua preghiera. Sono ancora convinto che era lui il nostro ospite. Certo, spesso non riesco a crederci. 46 Pochissimi sono coloro che hanno potuto vederlo. La strada che porta a lui è oscura e pericolosa, il minimo passo falso provocherebbe la perdita dell'anima. Il mio rabbino avrebbe dato allegramente la sua vita per intravederlo il tempo di un baleno, di un battito del cuore. Perché allora avrei meritato ciò che è rifiutato a tanti altri? Non lo so. Ma sostengo che l'ospite era lui. Del resto, ne ebbi subito la prova. La tradizione impone che dopo la cena, prima di riprendere le preghiere, una coppa di vino venga offerta al profeta, che, quella sera, visita tutte le famiglie ebraiche nello stesso momento, come per sottolineare il carattere indistruttibile dei loro legami con Dio. Così papà prese la bella coppa d'argento di cui nessuno si era mai servito e la riempì completamente. Poi fece segno alla mia 47 sorellina di andare a pregare l'illustre visitatore di venire a gustare il nostro vino. E noi volevamo dirgli: guarda, abbiamo fiducia in te; malgrado i nostri nemici, malgrado il sangue versato, la gioia non ci abbandona, e noi te la offriamo perché crediamo nella tua promessa. In silenzio, coscienti dell'importanza del momento, ci alzammo per salutare solennemente il profeta con l'onore e il rispetto che gli son dovuti. La mia sorellina lasciò la tavola e si diresse verso la porta, quando improvvisamente l'ospite esclamò: - No! Torna indietro, bambina! Andrò ad aprire io. Qualcosa nella sua voce ci fece trasalire. Lo vedemmo lanciarsi verso la porta e aprirla rumorosamente. - Guardate! - urlò. - Non c'è nessuno! Nessuno! 48 Mi sentite? Poi si precipitò fuori lasciando la porta aperta. In piedi, il bicchiere in mano, pietrificati, noi attendemmo il suo ritorno. La mia sorellina, sull'orlo delle lacrime, si copriva la bocca con le mani. Papà si riebbe per primo. Con voce dolce chiamò l'ospite: - Dove siete, amico? Tornate! Silenzio. Papà ripetè il suo invito con tono più pressante. Niente. Le guance infocate, io corsi fuori, sicuro di trovarlo sulla veranda: non c'era. Scesi le scale: non doveva essere lontano. Ma i soli passi che risuonavano nel cortile erano i miei. Il giardino? C'erano parecchie ombre sotto gli alberi, tranne la sua. Papà, la mamma, le mie sorelle e anche la vecchia domestica, non sapendo cosa pensare, 49 vennero a raggiungermi. Papà diceva: - Non capisco. La mamma mormorava: - Dove può essersi nascosto? E perché? Io e le mie sorelle uscimmo in strada e arrivammo fino all'angolo: nessuno. Io mi misi a gridare: - Ehi, amico, dove siete? Parecchie finestre si aprirono: - Che succede? - Avete visto un ebreo straniero con le spalle curve? - No. Trafelati, ci ritrovammo tutti in cortile. La mamma mormorava: - Si direbbe che sia stato inghiottito dalla terra. E papà ripeteva: 50 - Non capisco. Allora un pensiero insolito mi attraversò la mente e si trasformò in certezza: la mamma si sbaglia, è il cielo e non la terra che si è aperto per accoglierlo. Inutile inseguirlo, non è più qui. Nel suo carro di fuoco, è appena ritornato nella sua dimora, lassù, per comunicare al Signore la storia che il suo popolo benedetto vivrà fra poco. - Amico, ritornate! - gridò mio padre un'ultima volta. - Ritornate, vi ascolteremo. - Non può più sentirti - dissi. - È già lontano. Il cuore pesante, ritornammo a tavola e alzammo i nostri bicchieri ancora una volta. Recitammo le consuete benedizioni, i salmi e, per finire, cantammo Chad Gadjà, Questo terribile canto in cui, in nome della giustizia, il male attira il male, la morte chiama la morte, finché l'angelo 51 sterminato re non si fa a sua volta sgozzare dall'Eterno stesso, benedetto egli sia. Amavo questo canto ingenuo dove tutto sembrava semplice, primitivo: il gatto e il cane, l'acqua e il fuoco, di volta in volta carnefici e vittime, destinati a subire la stessa punizione all'interno di uno stesso disegno. Ma quella sera il canto non mi piacque. Mi ribellavo contro la rassegnazione che esso implicava. Perché Dio agisce sempre in ritardo? Perché non ha eliminato l'Angelo della Morte prima che fosse stato commesso il primo omicidio? Se l'ospite fosse rimasto con noi, sarebbe stato lui a porre queste domande. In sua assenza, le feci mie. La cerimonia stava per finire e noi non osavamo guardarci. Papà alzò la sua coppa per l'ultima volta e noi ripetemmo dopo di lui: «L'anno 52 prossimo a Gerusalemme». Nessuno poteva sospettare che era la nostra ultima cena di Pasqua in famiglia. Rividi il nostro ospite qualche settimana dopo. Faceva parte del primo convoglio che lasciò il ghetto. Sembrava più a suo agio dei suoi compagni, come se avesse già percorso migliaia di volte quel cammino. Uomini, donne, bambini, tutti portavano zaini, coperte, valige. Lui solo aveva le mani vuote. Oggi so ciò che allora ignoravo: che alla fine di un lungo viaggio che sarebbe durato quattro giorni e tre notti egli scese in una piccola stazione, vicino a una cittadina tranquilla, da qualche parte della Slesia, dove già l'attendeva il suo carro di fuoco per portarlo in cielo. Ciò non prova abbastanza che era il profeta Elia? 53 L'orfano Il Talmud consiglia all'uomo di procurarsi un maestro e di comprarsi un amico. Il mio primo amico era un orfano. Questo è pressappoco tutto ciò che ricordo di lui. Ho dimenticato il suo nome, il suo volto, le sue qualità. Il colore dei suoi occhi, il ritmo dei suoi passi: anch'essi dimenticati. Amava cantare, ridere, correre al sole, rotolarsi nella neve? Mi è impossibile ricordarlo e, a volte, ne provo un vago 54 rimorso come se si trattasse di un rinnegamento. Mi capita di frugare nella memoria, sperando di ritrovarlo, di salvarlo o almeno di restituirgli un volto, un passato: risalgo a mani vuote. Mentre non ho alcuna difficoltà a rivedere me bambino, lui, l'orfano, resta inafferrabile: eco senza voce, ombra senza riflesso. Della nostra amicizia è rimasta intatta solo la tristezza che la sua presenza mi ispirava. Ancora oggi, mi basta di scoprire in ogni essere l'orfano perché si riapra in me una ferita antica, mal cicatrizzata. Dovevo avere cinque anni. Forse un po' di più. Cominciavo appena a frequentare la scuola elementare, il cheder. Fra i bambini che non conoscevo e che mi rifiutavo di conoscere mi sentivo, come senza dubbio ciascuno di loro, vittima di una ingiustizia da parte dei miei genitori. 55 Mi inventavo innumerevoli malattie per poter restare un giorno di più a casa accanto a mia madre, per sentirmi confermare che mi si amava sempre, che non mi si stava per abbandonare a degli estranei. Ostinato, resistevo agli sforzi del vecchio maestro dalla barba bianca che, con dolcezza, insisteva nel volermi fare imparare l'alfabeto ebraico. Il fatto è che, come tutti i bambini, preferivo restare bambino. Temevo l'universo dalle leggi severe che indovinavo dentro a quelle lettere nere il cui misterioso potere si impadronisce dell'immaginazione come di una preda indifesa. Chi dice a dirà b, e, senza accorgersene, si è già presi nell'ingranaggio: ci accontentiamo delle parole, ne facciamo degli dei. Oscuramente, presentivo che un giorno, una volta 56 varcata questa soglia, le lettere dell'alfabeto avrebbero finito per guastare la nostra innocenza, per interporsi fra i nostri desideri e la loro realizzazione. Stessa diffidenza da parte degli altri scolari che mostravano la mia stessa insofferenza. Solo l'orfano era diverso. Non recitava mai la parte del bambino viziato. Non metteva mai alla prova la pazienza e la clemenza del nostro maestro. Arrivava per primo ed era l'ultimo ad andarsene. Non faceva confusione, non aveva crisi di pianto. Diligente, ubbidiente, contrariamente a tutti noi non si sentiva spaesato nella piccola stanza dai muri umidi dove passavamo ore senza fine intorno a una tavola rettangolare usata da tre generazioni di scolari infelici. Il suo comportamento esemplare non poteva che 57 irritarci: perché voleva apparire così diverso? Dopo un po' di tempo capii: lo era. Sua madre era morta mettendolo al mondo. Io non sapevo cosa volesse dire morire; così, essere orfano era ai miei occhi una specie di distinzione, un onore che non toccava a tutti. Segretamente mi misi a invidiarlo. Tuttavia il mio atteggiamento nei suoi confronti si modificò. Per conquistare la sua fiducia, divisi con lui i miei beni, le mie merende, i miei regali. A casa non riuscivano a capacitarsi: io che mi ribellavo a ogni pasto, ecco che improvvisamente mi mettevo a portare a scuola doppie razioni. Mia madre era viva, e ciò mi sembrava una ingiustizia. Accanto all'orfano mi sapevo in colpa: possedevo una ricchezza che a lui era rifiutata. E né lui né io ne eravamo responsabili. Avrei dato 58 tutto per ristabilire l'equilibrio. Per riscattarmi ero pronto a diventare non soltanto suo debitore ma anche suo ammiratore, suo benefattore. Da parte sua, lui accettava i miei sacrifici e non mi ricordo più se mi ringraziava, se ne aveva veramente bisogno. Non so perché, ma lo credevo povero. Anzi, so perché: bambino coccolato, vedevo in ogni orfano un povero orfano. Concepivo la sventura solo nella sua totalità: chi perde una parte d'affetto, una possibilità d'amore, ha perso tutto. Il giorno del suo compleanno coincideva con l'anniversario della morte di sua madre, e io lo sentii recitare il Kaddìsh in sinagoga. Dovetti trattenermi con tutte le mie forze per non staccarmi da mio padre e lanciarmi verso il mio amico, abbracciarlo piangendo e ripetere con lui, parola per parola, la preghiera funebre che loda il 59 Signore, il quale deve sapere ciò che fa quando toglie la gioia ai bambini. Con gli anni le nostre strade si separarono. L'orfano finì per scomparire. Io ebbi nuovi amici e oggi ho altre ragioni per rivendicare la mia parte di colpevolezza; ma all'origine di questo sentimento è sempre lui che ritrovo. Eppure so bene che il mio primo amico ha cessato da molto tempo di essere un caso unico: apparteniamo tutti a una generazione di orfani, e il Kaddìsh è diventata la nostra preghiera quotidiana. Ma ogni volta che la morte mi rapisce qualcuno, è lui, il mio amico dimenticato, che piango. A volte mi domando se non aveva il mio volto, il mio destino forse, e se non era già ciò che io stavo per diventare. Allora mi dico che dovrei mettermi a studiare l'alfabeto con impegno, se non 60 altro per assomigliargli ancora di più. La mia memoria si rivela più fedele con gli altri amici che lo hanno seguito: Haimi Kahan, Itzu Yunger, Yerachmiel, Mermelstein, Itzu Goldblat. Yerachmiel scomparve nella tormenta. Itzu Yunger non gli ha sopravvissuto che per spengersi a New York, qualche anno dopo, di un cancro al fegato. Da Parigi gli avevo comunicato la mia intenzione di andare a trovarlo: troppo tardi. Avevo inviato la mia lettera a un amico morto. Haimi Kahan vive attualmente a Brooklin, Itzu Goldblat è andato a stare in Israele. Ci vediamo raramente. Non ci scriviamo quasi mai, tranne che per banalità, per gli auguri di prammatica, prima delle grandi feste del nuovo anno. A volte mi capita di incontrare l'uno o l'altro, e allora il presente svanisce: ti ricordi? Sì, mi ricordo. Un 61 breve silenzio imbarazzato ed è tutto. In fondo è abbastanza. L'infanzia, dopo tutto, non è che una sorgente che acquista profondità con gli anni; man mano che ce ne allontaniamo, beneficiamo della sua purezza se non della sua freschezza. Come fare per aver sempre sete? Non c'è più risposta: anch'essa è annegata nella sorgente. Con Haimi Kahan, durante i nostri rari incontri, ci dilettiamo a ricordare un'avventura nella quale ci eravamo lanciati con tutta la foga dei nostri tredici anni. Avevamo deciso di fondare la nostra propria sinagoga, la nostra propria scuola dove i giovani potessero pregare e studiare fra di loro. Suo padre - Nochem Hersh, segretario e aiutante del rabbino capo - ci teneva, tutte le mattine alle sei, un corso di Talmud, di cui ci faceva scoprire il rigore e la radiosa bellezza. 62 Come per le generazioni precedenti, la legge scritta e la legge orale rappresentavano per noi la sola salvaguardia possibile: finché ci saremmo impegnati nello studio approfondito dei trattati di Baba-Kama (la Prima Porta) o di Baba-Batra (l'Ultima Porta), finché avremmo letto con fervore, prima e dopo la preghiera del mattino, qualche capitolo dei salmi, nulla di male avrebbe potuto accaderci. Gli avvenimenti si incaricarono di dimostrarci il contrario. I tedeschi occuparono la città e noi dovemmo chiudere la nostra sala di riunione. Nochem Hersh ci lasciò per entrare nel ghetto. Ma la sua voce cantilenante continua a vibrare nella mia tutte le volte che apro il Talmud per sottomettermi alle sue leggi, per respirare nel suo sistema chiuso e per imbevermi del suo splendore. 63 Oggi sarei propenso ad ammettere che Nochem Hersh aveva ragione, ma non totalmente: la Toràh contiene il riflesso della verità se non la sua fiamma; ma non costituisce una salvaguardia, soprattutto a livello dell'umanità. Oggi credo di avere la prova che la Toràh stessa è diventata orfana. Con Itzu Goldblat, orefice, figlio d'orefice, avevo condiviso un'ambizione tanto ingenua quanto smisurata: quella di affrettare la venuta del Messia. Ne eravamo ossessionati. Affascinati dalla Cabbalà pratica, impiegavamo il nostro tempo libero a mortificarci il corpo col digiuno e i pensieri col silenzio. Decisi a ottenere in sogno il «Ghilui Eliyahu», un incontro col profeta Elia, l'annunciatore della liberazione, arrivammo a dimenticare la realtà del mondo in guerra. 64 Soltanto la realizzazione interiore ci stava a cuore. I nostri incantesimi duravano ore. Per la strada ci prendevano per sonnambuli. Prima di ogni funzione andavamo al Mikvéh, il bagno rituale, per purificarci, altrimenti le nostre richieste non sarebbero arrivate a destinazione. A volte, afferrati da una folle esaltazione, ci sembrava quasi di sentire i passi del Salvatore: presto lo scopo sarebbe stato raggiunto, il suono dello shofàr, il corno del profeta, sarebbe riecheggiato nel cuore stesso della storia e il sangue delle vittime non sarebbe più sgorgato; presto i nostri nemici, pieni di umiltà e di pentimento, avrebbero riconosciuto che non sarebbero mai riusciti ad annientare il popolo dell'Alleanza massacrando i suoi figli. Presto, ma quando? Noi bruciavamo d'impazienza, il tempo stringeva, bisognava fare 65 alla svelta. Ma l'occupazione tedesca mise fine al nostro sogno e - chissà? - forse anche alla nostra opera. Il carnefice arrivò prima del Messia, e da qualche parte, sotto il cielo tranquillo di Slesia, il popolo eterno, con tutto ciò che incarnava, si consumava nelle fiamme, giorno e notte, soprattutto la notte, per nulla. Di tutti i miei amici, Yerachmiel era l'unico che si rifiutava di vivere di chimere. Si attaccava alle cose concrete, tangibili, realizzabili. Aveva scoperto il sionismo politico e, da allora, la sua attività non aveva requie. Senza trascurare i suoi studi talmudici, trovava il tempo di andare a raccogliere il denaro per il Fondo nazionale ebraico e non perdeva nessuna occasione per propagandare le sue idee fra i giovani. Agitatore di talento, appariva dovunque prevedesse di 66 trovare un pubblico. Parlando si riscaldava, ma, nei suoi discorsi, faceva appello alla ragione piuttosto che a quella nostalgia che ogni ebreo doveva provare per Sion. Il sabato pomeriggio, per il terzo pasto tradizionale, veniva nella nostra piccola sinagoga e non ci parlava della Bibbia, della parashà settimanale, ma della situazione in Palestina. È così che appresi che la Terra Santa si trovava sotto mandato britannico e che delle organizzazioni clandestine ebraiche avevano preso le armi per conquistare l'indipendenza nazionale. Sebbene indifferente all'aspetto politico delle sue esposizioni, io mi lasciavo trascinare dal suo entusiasmo. Ogni volta che nominava Gerusalemme, Safed o il monte Carmelo, il sangue mi montava alla testa: così era dunque 67 possibile ricostruire il Tempio e il regno di David con mezzi diversi dalla penitenza e dalle lacrime? E Dio, che posto aveva in tutto ciò? Yerachmiel aveva una risposta per tutto. Fu lui che mi spinse a studiare l'ebraico moderno. Aveva scovato non so dove un libro di grammatica da cui non si separava mai. Me lo prestò per una settimana e dovetti giurargli di trattarlo come se fosse la pupilla dei miei occhi. Prima di restituirgli quest'opera preziosa l'avevo imparata a memoria e ancora oggi me ne ricordo pagine intere. Ma il destino lo portò lontano da Gerusalemme la maestosa, lontano dalla romantica Galilea. Fece parte del primo trasporto. Io l'ho accompagnato fino alle porte del ghetto. Perduto nella folla, non mi ha visto. Sognava. Cosa? La rinascita nazionale ebraica? La resistenza ebraica al tempo 68 dell'occupazione romana? Come tutti, aveva un sacco sulle spalle. Credo di sapere cosa contenesse. Oltre al cibo e al vestiario un piccolo libro insostituibile di grammatica ebraica. In seguito, sulle rovine, in Francia, in Israele e altrove, mi legai a volte a questa o a quella persona, il tempo di fare insieme qualche passo. Ma mai più conoscerò l'intensità e il calore delle avventure che hanno segnato l'inizio della mia vita. Sono invecchiato, e oggi conosco il valore delle parole, il peso dell'attesa. Tutti i sentieri conducono all'uomo, mentre lui continua a errare da un deserto all'altro. E la sorgente, miraggio all'ora del crepuscolo, si allontana sempre di più. Chi afferma di sentire i passi e i battiti del cuore del Messia non sente che i passi e le grida 69 soffocate dei miei amici che hanno abbandonato il paese della mia infanzia dove li attendeva, nascosta, l'insaziabile bestia che divora i nostri morti fino all'anima. È inutile che torni sui miei passi, che cerchi traccia dell'orfano fino nella casa del mio primo maestro. L'alfabeto lo conosco già. 70 Yom Kippur, il giorno senza perdono Lo sguardo spento, un sorriso doloroso sul volto, Pinchas, continuando a scavare, muoveva le labbra in silenzio. Sembrava che discutesse con qualcuno dentro di lui e, dalla sua espressione, sembrava che si sarebbe presto dichiarato vinto. Non l'avevo mai visto così abbattuto. Sapevo che il suo corpo non avrebbe resistito ancora per molto. Già le forze lo abbandonavano, i suoi movimenti si facevano più lenti, disordinati. Senza dubbio lo sapeva anche lui. Ma la morte non figurava che raramente nelle nostre 71 conversazioni. Preferivamo negare la sua presenza, ridurla, come un tempo, a una semplice allusione, qualcosa d'astratto, d'inoffensivo, una parola come le altre. - A che pensi? Cosa c'è che non va? Pinchas abbassò la testa, come per nascondere il suo imbarazzo o la sua tristezza, o entrambe le cose, e lasciò passare un lungo attimo prima di rispondere con voce appena percettibile: - Domani è Yom Kippur. Di colpo anch'io mi sentii a terra. Il mio primo Kippur in campo. L'ultimo forse. Giorno del grande giudizio, del grande perdono. Domani si riunirà il tribunale celeste e pronuncerà la sentenza: «E come un gregge, le creature di questo mondo sfileranno davanti a Te». Un tempo - l'anno scorso - questo giorno di lacrime, di 72 penitenza e di timore mi faceva tremare. Domani ci presenteremo davanti a Dio, che vede e che sa tutto, e gli diremo: «Padre, abbi pietà dei tuoi figli». Sarò ancora capace di pregare con fervore? Pinchas si scrollò improvvisamente. Il suo sguardo si immerse nel mio: - Domani è il giorno del grande perdono e io ho preso una decisione: non digiunerò. Mi senti? Non digiunerò. Non gli chiesi di spiegarsi. Sapevo che stava per morire e improvvisamente ebbi paura che mi dichiarasse a mo' di giustificazione: «È semplice, ho deciso di non conformarmi più alla legge e non digiunare più perché agli occhi degli uomini e di Dio sono già morto, e i morti possono disubbidire ai comandamenti della Toràh». Io abbassai la testa e finsi di non pensare a niente, tranne che a quel 73 suolo che scavavo sotto un cielo più buio della terra stessa. Appartenevamo allo stesso commando. Facevamo sempre in modo di lavorare uno accanto all'altro. La nostra differenza d'età non gli impediva di comportarsi con me da amico. Doveva aver passato i quarant'anni. Io ne avevo quindici. Prima della guerra era stato roshyeshivà, direttore di una scuola rabbinica da qualche parte della Galizia. Spesso, per ingannare la fame e dimenticare le nostre ragioni di disperare, studiavamo, a memoria, una pagina del Talmud. Io rivivevo la mia infanzia sforzandomi di non pensare agli assenti. Se uno dei miei argomenti gli piaceva, se citavo un commento senza deformarne il senso, gli capitava di rivolgermi un sorriso e di dirmi: 74 - Mi sarebbe piaciuto averti fra i miei allievi. E io rispondevo: - Ma io sono tuo allievo, il luogo importa poco. Non era vero, il luogo era di una importanza capitale. Secondo la legge del campo ero un suo pari, gli davo del tu. Ogni altro modo di esprimersi era inconcepibile. - Mi senti? - esclamò Pinchas con tono di sfida. - Io non digiunerò. - Ti capisco. Hai ragione. Non bisogna digiunare. Non ad Auschwitz. Qui viviamo fuori dal tempo, fuori dal peccato. Yom Kippur non si addice ad Auschwitz. Da Rosh Hashanà, la festa del nuovo anno, la questione era del resto aspramente dibattuta in tutto il campo. Digiunare significava una morte più rapida. Qui digiunavamo tutto l'anno. Tutto 75 l'anno era Yom Kippur. E il libro della vita e della morte non si trovava più nelle mani di Dio ma in quelle del carnefice. Le parole Mi yichye umi yamut, chi vivrà e chi morrà, avevano qui un senso terribilmente reale, una portata immediata. E tutte le preghiere del mondo non potevano modificare il gzar-din, la marcia inesorabile del destino. Qui, per vivere, bisognava mangiare e non pregare. - Hai ragione, Pinchas - dissi sforzandomi di sostenere il suo sguardo. - Tu devi mangiare domani. Tu sei qui da molto più tempo di me, della maggior parte di noi. Hai bisogno delle tue forze. Devi risparmiarti. Sorvegliarti. Proteggerti. Non bisogna superare il limite. Né tentare la malasorte. Sarebbe un peccato. Suo allievo, io? Gli facevo la predica, gli davo 76 dei consigli, come se fossi stato suo fratello maggiore, la sua guida. - Non si tratta di questo - disse Pinchas innervosendosi. - Potrei resistere un giorno senza mangiare nulla. Non sarebbe la prima volta. - E allora di cosa si tratta? - Di una decisione. Finora ho accettato tutto. Senza amarezza, senza riserve mentali. Mi dicevo: «Dio sa ciò che fa». Mi sottomettevo alla sua volontà. Adesso ne ho abbastanza, ho raggiunto il limite. Se lui sa ciò che fa, è grave; se non lo sa, non è meno grave. Cosi ho deciso di dirgli: «Non ci sto più». Io tacqui. Che argomento potevo opporgli? Attraversavo la stessa crisi. Ogni giorno mi allontanavo un po' di più dal Dio della mia infanzia. Mi diventava estraneo; a volte lo 77 credevo mio nemico. La comparsa di Edek mise fine alla conversazione. Era il nostro signore, il nostro re. Il kapò. Questo giovane polacco dalle guance rosse, dai gesti da animale selvaggio, amava sorprendere i suoi schiavi e farli urlare di paura. Ancora adolescente, possedere un tale potere su tanti adulti lo divertiva. Temevamo i suoi cambiamenti d'umore, le sue collere improvvise: senza aprir bocca, gli occhi semichiusi, batteva a lungo le sue vittime anche dopo che avevano perduto conoscenza e cessato di gemere. - Ebbene? - disse piazzandosi davanti a noi a braccia incrociate. - Si fa la siesta? Ci raccontiamo i ricordi? Vi credete in villeggiatura? O in sinagoga? Una fiamma crudele si accese nei suoi occhi 78 azzurri, ma per fortuna si spense subito. Noi ci mettemmo a maneggiare la pala con foga, non pensando a nient'altro che alla terra che, davanti a noi, si apriva minacciosa. Edek ci lanciò ancora qualche insulto e si allontanò. Pinchas non aveva più voglia di parlare, e neanch'io. Per lui il dado era tratto. La rottura con Dio sembrava consumata. Nel frattempo, la fossa sotto i nostri piedi era diventata più larga e più profonda. Presto le nostre teste superarono appena il livello del suolo. Io ebbi la strana sensazione di scavare una tomba. Per chi? Per Pinchas? Per me? Forse per i nostri ricordi. Ritornato al campo, lo trovai immerso in un'attesa febbrile: ci si preparava ad accogliere il giorno più santo e più lungo dell'anno. I miei 79 vicini di letto, un padre e suo figlio, chiacchieravano sottovoce. L'uno diceva: «Purché l'appello non duri troppo». L'altro aggiungeva: «Purché la zuppa sia distribuita prima del tramonto, altrimenti non potremo più toccarla». Le loro speranze si avverarono. L'appello si svolse senza incidenti, senza ritardi, senza impiccagioni pubbliche. Rapidamente il capoblocco distribuì la zuppa; rapidamente io la inghiottii. Poi corsi a lavarmi, a purificarmi. Quando il sole cominciò a tramontare io ero pronto. Dieci giorni prima, la vigilia di Rosh Hashanà, tutti gli ebrei del campo, kapò compresi, si erano riuniti sul piazzale dell'appello, e insieme avevamo implorato il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe di metter fine alla nostra umiliazione, 80 di schierarsi dalla nostra parte, di rompere il suo patto con il nemico. Avevamo recitato all'unisono il Kaddìsh per i morti e anche per i vivi. Ufficiali e soldati, spettatori divertiti, stavano, mitra in mano, dall'altra parte dei reticolati. Non ci siamo ritornati per la preghiera del Kol Nidré. Temevamo una selezione: negli anni precedenti essa aveva trasformato il giorno del perdono in giorno di lutto. Yom Kippur era diventato Tishà beAv, il giorno della distruzione del Tempio. Così ogni baracca ospitava la propria sinagoga. Era più prudente. Ma a me dispiaceva perché Pinchas era in un blocco diverso dal mio. Un rabbino ungherese fu il nostro cantore. La sua voce smosse i miei ricordi e vi risvegliò quella leggenda secondo la quale, la sera di Yom Kippur, 81 i morti si levano dalle loro tombe e vengono a pregare con i vivi. Pensai: «Ma allora è vero, allora è così che avviene. Ecco confermata questa leggenda ad Auschwitz». Per settimane, diversi ebrei eruditi si erano riuniti la sera nel nostro blocco per trascrivere a mano, su carta igienica, le preghiere per le grandi feste. Ogni cantore ne ricevette una copia. Il nostro leggeva ad alta voce e noi ripetevamo dopo di lui ogni versetto. Il canto del Kol Nidré, che ci liberava da tutti i nostri voti formulati sotto costrizione, adesso mi sembrava anacronistico, assurdo, benché fosse stato composto secoli prima in circostanze simili, in Spagna, vicino ai roghi. Una volta all'anno i convertiti si riunivano e proclamavano davanti a Dio: «Sappi che tutto ciò che abbiamo detto è come non detto, che tutto ciò 82 che abbiamo fatto è come non fatto». Kol Nidré? Triste scherzo. Qui e ora, non avevamo più voti segreti da formulare né da rinnegare: tutto era chiaro, irrevocabile. Poi fu la volta del Vidui, la grande confessione. Anche qui tutto suonava falso, nulla di tutto ciò ci riguardava più. Ashamnu, noi abbiamo peccato. Bagadnu, noi abbiamo tradito. Gazalnu, poi abbiamo rubato. Che cosa? Noi? Noi abbiamo peccato? Contro chi? Facendo cosa? Noi abbiamo tradito? Chi? Senza dubbio era la prima volta da quando Dio giudicava la sua creazione che le vittime si battevano il petto accusandosi dei crimini dei loro carnefici. Perché avevamo preso su di noi peccati e delitti che nessuno di noi avrebbe mai avuto il desiderio né la possibilità di commettere? Forse ci 83 sentivamo colpevoli malgrado tutto. Era più semplice. Era meglio credere che il castigo da noi subito avesse un senso, e che quindi l'avevamo meritato; credere in un Dio crudele ma giusto era meglio che non credere affatto. Era per non provocare una guerra aperta fra Dio e il suo popolo che noi avevamo scelto di risparmiarlo gridando: «Tu sei il nostro Signore, benedetto tu sia! Tu ci colpisci senza pietà, tu versi il nostro sangue, e noi ti benediciamo, o Eterno, perché vuoi mostrarci che sei giusto e che il tuo nome è giustizia!». Confesso di aver aggiunto la mia voce a quella degli altri e implorato il cielo di concedermi grazia e perdono. In disaccordo con tutto ciò che le mie labbra pronunciavano, io mi incolpavo soltanto per meglio volgere le cose in beffa, in 84 farsa. A ogni istante mi aspettavo che il Signore dell'Universo mi ammutolisse dicendomi: «Ora basta, esageri». E amo pensare che allora gli avrei risposto: «Anche tu, benedetto tu sia, anche tu». Fu la campana del campo a disperdere le nostre riunioni. I capiblocco si misero a urlare: «Va bene, andate a dormire! Se Dio non vi ha sentiti è perché è incapace di ascoltare!». Il giorno dopo, al lavoro, Pinchas si unì a un altro gruppo. Io pensai: «È per poter mangiare senza che la mia presenza lo disturbi». Il giorno dopo ritornò. Il volto ancora più pallido, ancora più scavato di prima. La morte lo consumava. Io mi sorpresi a pensare: «Morirà perché non ha osservato le regole di Yom Kippur». Per qualche ora scavammo senza guardarci. Di lontano ci arrivavano le grida del kapò che andava 85 in giro colpendo alla cieca, senza tregua. Verso la fine del pomeriggio Pinchas mi rivolse la parola: - Devo farti una confessione. Io trasalii, ma continuai a scavare. Uno strano sorriso, quasi infantile, apparve sulle sue labbra quando riprese a parlare: - Sai, ho digiunato. Io rimasi attonito. Il mio stupore lo divertì. - Sì, ho digiunato. Come gli altri. Ma non per le stesse ragioni. Non per sottomissione, ma per sfida. Vedi, prima della guerra, alcuni ebrei si ribellavano alla volontà divina andando al ristorante nel giorno dell'Espiazione; qui, è coll'osservare il digiuno che possiamo far sentire la nostra sdegnata protesta. Sì, mio allievo e maestro, sappi che ho digiunato. Non per amor di Dio, ma contro Dio. 86 Qualche settimana dopo mi lasciò, vittima della prima selezione. Mi strinse la mano: - Avrei voluto morire in altro modo e altrove. Avevo sempre sperato di fare della mia morte, come della mia vita, un atto di fede. Peccato. Dio mi impedisce di realizzare il mio sogno; non ama più i sogni. Mi pregò ugualmente di recitare il Kaddìsh dopo la sua morte che, secondo i suoi calcoli, sarebbe avvenuta tre giorni dopo la sua partenza dal campo. - Ma perché dovrei farlo, - esclamai - visto che non ci credi più? Assunse il tono che aveva quando mi spiegava un passo del Talmud: - Oh, non afferri il nocciolo del problema. Qui e ora, il solo modo di accusarlo è lodarlo. E se ne 87 andò a morire ridendo. 88 Una vecchia conoscenza Su un autobus, una sera d'estate, a Tel Aviv. La canicola, invece di attenuarsi, diffonde un calore pesante che si insinua nel corpo, appesantisce i movimenti e il respiro, annebbia tutte le immagini. Si dorme in piedi, si sta per cadere nel vuoto. Respirare, guardare, esigono uno sforzo che si compie solo controvoglia. Si avanza lentamente. Man mano che si risale l'arteria principale, il viale Allenby, verso il centro, la circolazione si fa sempre più lenta e presto si bloccherà. Abituati a questo genere di 89 calamità, i passeggeri danno prova di saggezza. Alcuni leggono il giornale, altri chiacchierano o scrutano i manifesti pubblicitari: vini, creme da barba, sigarette. L'autista fischietta l'ultima canzone di successo. Pazienza, scenderò alla prossima fermata. Ho un appuntamento: a piedi arriverò prima. Ma è lunga fino alla prossima fermata. Non sembra che ci muoviamo. Imbottigliamenti in serie. Come se ci fossero tre colonne di veicoli in panne. Io vorrei scendere: vietato aprire le porte prima dell'arresto completo della vettura. Inutile protestare: i nervi dell'autista sono a prova di bomba. Non i miei. Irritato, mi maledico per non aver previsto tutto ciò. Ho sbagliato a prendere l'autobus. E dire che siamo nel paese dei profeti! Per ingannare il tempo mi dedico al mio gioco 90 preferito. Scelgo a caso una persona e, a sua insaputa, stabilisco con lei uno scambio silenzioso. Seduto sul sedile opposto al mio c'è un uomo di mezza età, lo sguardo perduto. L'osservo minuziosamente dalla testa ai piedi. Facile da classificare. Impiegato, funzionario del governo, caporeparto. Il tipo anonimo. Che fugge gli estremi, le responsabilità. Riceve ordini solo per trasmetterli. Pulito, puntuale, efficiente. Non è né in cima alla scala né in fondo. Né ricco né povero, né felice né infelice. Si guadagna la vita. Si difende. Contro tutti. Finisco per sostituirmi a lui: penso e sogno al suo posto. È me che sua moglie accoglierà con amore o rancore, sono io che affogherò il mio risentimento nel sonno o nell'alcool; sono io che i miei colleghi tradiscono e che i miei sottoposti 91 detestano; sono io che ho sciupato la mia vita e adesso è troppo tardi per ricominciare. Preso dal gioco, il passeggero mi sembra improvvisamente familiare. Ho già visto questa testa calva, questo mento duro, questo naso sottile. Ho già visto questa fronte rugosa, queste orecchie spioventi. Mentre lui si volta per dare un'occhiata fuori osservo la sua nuca: rossa, nuda, enorme. Ho già visto questa nuca. Un brivido mi percorre. Non si tratta più di curiosità né di un gioco. Il tempo cambia ritmo, paese. È il presente alle prese con gli anni sepolti, tenebrosi. Adesso sono contento d'aver accettato l'appuntamento per stasera, e anche di aver rinunciato all'idea di andarci in taxi. Il mio uomo non sospetta nulla. Ha appena perso il suo anonimato, è appena rientrato nella 92 sua prigione, ma non lo sa ancora. Adesso che l'ho in mano, non lo lascio più. A cosa pensa? Probabilmente a niente. Pensare gli fa paura. Parlare gli fa paura. I ricordi, le parole gli fanno paura: lo si può leggere sul suo volto spento. Questo passeggero riesco a individuarlo, lo conosco; anch'io, un tempo, mi sono difeso così. Il miglior modo per non attirare l'attenzione del carnefice era quello di non vederlo. Per non farsi notare bisogna uccidere l'immaginazione. Dissolversi, fondersi nella massa impaurita, ridursi allo stato di cosa. Lasciarsi andare a fondo per sopravvivere. Ma il mio uomo continua a non rendersi conto dell'interesse che provo per lui; se fossimo in cento a sorvegliarlo, non se ne accorgerebbe lo stesso. Io lascio il mio posto e vado a piazzarmi davanti 93 a lui. Lo sfioro, i miei ginocchi toccano i suoi, ma il suo sguardo mantiene la sua fissità. Dico a voce molto bassa: - Credo di conoscervi. Non ha sentito. Fa il sordo, il cieco, il morto. Come io un tempo. Si rifugia nell'assenza, ma, tenace, io lo bracco. Ripeto la mia frase. Lentamente, con precauzione, egli dà segno di vita. Alza i suoi occhi stanchi verso di me: - È a me che parlavate? - A voi. - Dicevate? - Credo di avervi già incontrato da qualche parte. Lui alza le spalle: - Vi sbagliate, io non vi conosco. L'autobus si muove per rifermarsi subito. Io mi chino sopra al passeggero che finge di ignorarmi, 94 come se per lui la questione fosse chiusa. L'ammiro: recita bene, non ha battuto ciglio. Siamo così vicini l'uno all'altro che i nostri respiri si confondono, una goccia del mio sudore cade sulla sua camicia. Lui continua a non reagire. Se lo prendessi a schiaffi non direbbe niente. Questione d'abitudine, di disciplina. Prima lezione: nascondere il dolore perché esso eccita il carnefice più di quanto non lo plachi. Con me non funzionerà: sono del mestiere. - Voi non siete di qui - gli dico. - Lasciatemi in pace. - Voi venite da un altro paese. Dall'Europa. - Mi state seccando. Vi sarei grato se smetteste d'importunarmi. - Il fatto è che mi interessate. - Tanto peggio per voi, perché voi non mi 95 interessate affatto. Non ho voglia né di parlarvi né di ascoltarvi. Tornate al vostro posto o mi arrabbio davvero. Mi avete sentito? Forza, sloggiate! Il tono della sua voce mi fa sussultare. Per un attimo i nostri sguardi si incrociano. Non mi occorre altro perché mi riveda, vent'anni fa, con una gamella in mano davanti a questo signore onnipotente che distribuisce la zuppa della sera a un branco di cadaveri affamati. La mia umiliazione cede il posto a una gioia cupa che contengo a fatica. Secondo il Talmud, solo le montagne non si incontrano mai; per gli uomini che le scalano nessun cerchio è chiuso, nessuna esperienza è unica, nessun oblio è definitivo. - Ho qualche domanda da farvi - gli dico. - Me ne infischio di voi e delle vostre domande. 96 - Dov'eravate durante la guerra? - Questo non vi riguarda. - In Europa, non è vero? - Lasciatemi in pace. - In un paese occupato, non è vero? - Mi state scocciando. - In Germania, forse? L'autobus arriva finalmente a una fermata; il mio uomo approfitta dell'occasione: si alza di scatto e si precipita verso l'uscita; io lo seguo. - Strano, scendiamo nello stesso posto. Lui indietreggia rapidamente per lasciarmi passare: - Mi sono sbagliato, è più lontano. Anch'io faccio finta di scendere e poi risalgo subito: - Strano, anche per me è più lontano. Restiamo 97 in piedi vicino alla porta; due donne hanno già preso i nostri posti. - Mi permettete di continuare la nostra conversazione? - Non so chi siete né cosa potete volere da me mi dice quasi senza aprire la bocca. - Non capisco le vostre domande fuori luogo né i vostri modi sgradevoli. Ignoro a che gioco giochiate, ma mi rifiuto di parteciparvi. Non mi divertite. - Che voi non vi ricordiate di me è normale. Sono cambiato, sono cresciuto, sono ingrassato, sono meglio vestito, sto bene, cammino senza paura di cadere, non manco né di pane né d'amicizie. Ma voi? Voi state bene? Rispondete, questo mi interessa. Niente insonnia la notte, niente crisi d'angoscia la mattina? Di nuovo si rifugia dietro una maschera 98 d'indifferenza, come se non esistesse. Così si crede al sicuro, inattaccabile. Ma io lo incalzo, instancabile: - Ricominciamo, volete? Abbiamo stabilito il vostro luogo di residenza durante la guerra: da qualche parte della Germania. Dove esattamente? In un campo. Naturalmente. Con altri ebrei. Perché voi siete ebreo, non è vero? Mi risponde a fior di labbra, con un tono che non ha ancora perso nulla della sua sicurezza: - Andate al diavolo, vi dico, e tacete. La mia pazienza ha un limite. Non vorrei provocare uno scandalo, ma se mi obbligate... Io non presto attenzione alla sua minaccia, so che non farà niente, che non mi querelerà, che non si servirà dei suoi pugni, non lui, non qui, non in pubblico: teme più di me l'intervento della polizia. 99 Cosi continuo: - In che campo eravate? Su, aiutatemi, è importante. Vediamo un po': Buchenwald? No. Majdanek? Neanche. Bergen Belsen? Treblinka? Ponar? No, no. Auschwitz? Sì? Sì. Auschwitz. Più esattamente in un campo annesso ad Auschwitz. Jacischowitz? Gleiwitz? Monowitz? Ecco, ci sono: Monowitz-Buna. Mi sbaglio forse? Recita bene, conosce perfettamente la sua parte. Non un tremore, neanche la minima reazione. Come se non parlassi a lui, come se le mie domande fossero rivolte a qualcun altro, morto da tempo. Tuttavia i suoi sforzi per non tradirsi si fanno visibili; controlla male le mani che intreccia e disintreccia; le dita gli si contraggono, e allora le nasconde dietro la schiena. - Veniamo a domande più specifiche. Che 100 facevate laggiù? Non eravate un semplice deportato, non voi. Voi siete di quelli che non hanno conosciuto la fame, né la fatica, né la malattia. Voi non siete di quelli che hanno vissuto nell'attesa della morte sperando che non tardasse troppo per potere andarsene da uomini e non da bestie che nessuno vuole, che anche la morte non vuole più. Voi, voi eravate capobaracca, avevate diritto di vita e di morte su centinaia di esseri umani che non osavano guardarvi mentre assaporavate i piatti preparati specialmente per voi; era un peccato, un crimine di lesa maestà sorprendervi durante i vostri pasti. E oggi? Ditemi, mangiate bene? Con appetito? Si inumidisce le labbra con la lingua. Impercettibile, gli sfugge un sospiro. Deve raddoppiare gli sforzi per non rispondere, per non 101 raccogliere la sfida. I muscoli gli si gonfiano, non resisterà a lungo. La trappola si richiude su di lui; comincia a capirlo. - Il numero della baracca? La sede del vostro regno? Lo ricordate? 57. Baracca 57. Si trovava al centro del campo, a due passi dalla forca. Ho una buona memoria, non è vero? E voi? È viva la vostra memoria? Oppure ci ha sepolti una seconda volta? L'autista annuncia una fermata, il capobaracca non si muove: tutto gli sembra indifferente. La porta si apre, una coppia scende, una giovane mamma sale spingendo avanti il suo bambino. L'autista esclama: «Ehi, signora, mi dovete un grush o un sorriso!». Lei gli dà tutte e due le cose. Si riparte. Il mio prigioniero non si rende più conto di nulla: ha perso contatto con la realtà. 102 Fuori è la città, così vicina e così irreale, la città con le sue luci e i suoi rumori, le sue gioie, le sue risate, i suoi odi, i suoi furori, le sue futili avventure; fuori è la libertà, l'oblio se non il perdono. Alla prossima fermata il prigioniero potrebbe fuggire. Ma non lo farà, ne sono convinto. Preferisce lasciare a me l'iniziativa: che decida io per lui. So ciò che prova: un misto di paura, di rassegnazione e anche di sollievo. Anche lui è ritornato nel mondo dei reticolati: come allora, preferisce qualunque cosa all'ignoto. Qui, nell'autobus, sa ciò che lo minaccia e questo lo rassicura: conosce il mio volto, la mia voce. Provocare una rottura equivarrebbe a scegliere un pericolo la cui natura gli sfugge. In campo, ci si irrigidiva così in una situazione e si faceva di tutto perché durasse più a lungo possibile. Temevamo 103 le novità, le sorprese. Perciò, con me, l'accusato sa come regolarsi: gli parlo senza odio, quasi senza ira. Per la strada, la folla si mostrerebbe meno comprensiva. Il paese trabocca di ex deportati che si rifiutano di ragionare. - Guardatemi: vi ricordate di me? Non mi risponde. Impassibile, rigido, continua a guardare nel vuoto sopra le teste dei passeggeri, ma io so che i suoi occhi e i miei vedono gli stessi corpi smagriti, sfiniti, lo stesso cortile illuminato, la stessa forca. - Ero nella vostra baracca. Davanti a voi tremavo. Eravate l'alleato del male, della fame, della crudeltà. Vi maledicevo. Continua a non batter ciglio. La legge del campo: farsi invisibile dietro la propria maschera mortuaria. Io mormoro: 104 - Anche mio padre era nella vostra baracca. Ma lui non vi malediceva. Fuori il traffico diminuisce, l'autista accelera. Presto griderà: «Capolinea, scendere!». Io ho superato la mia fermata, pazienza. L'importante appuntamento non mi sembrava più tale. Cosa avrei fatto del mio prigioniero? Metterlo nelle mani della polizia? La «collaborazione» è un crimine punito dalla legge. Che altri finiscano l'interrogatorio. Io andrò a testimoniare. Ho già assistito a diversi processi di questo tipo: un ex kapò, un ex membro dello Judenrat, un ex poliziotto del ghetto, accusati di essere sopravvissuti scegliendo la vigliaccheria. Il procuratore: «Avete rinnegato il vostro popolo, tradito i vostri fratelli, aiutato il nemico». La difesa: «Non sapevamo, non potevamo 105 prevedere. Credevamo di far bene, soprattutto all'inizio; speravamo di poter alleggerire le sofferenze della comunità, soprattutto nelle prime settimane. Poi era troppo tardi, non avevamo più scelta, non potevamo tornare indietro e dichiararci vittime fra le vittime». Il procuratore: «Nel ghetto di Krilov, i tedeschi nominarono un certo Ephraim presidente del consiglio ebraico. Un giorno pretesero da lui una lista di trenta persone da sottomettere ai lavori forzati. Lui la consegnò scrivendoci trenta volte lo stesso nome: il suo. Ma voi, per salvarvi la pelle, vi siete venduti l'anima». La difesa: «Non valevano molto né l'una né l'altra. Al limite, la sofferenza le riduce e le annienta, non insieme ma separatamente: c'è una frattura a tutti i livelli. Il corpo e la ragione, il 106 cuore e l'anima prendono direzioni diverse, così si muore decine di volte anche prima di rassegnarsi o di accettare il patto col diavolo, che è anch'esso un modo di morire. Perciò vi supplico: non giudicate i morti!». Il procuratore: «Voi dimenticate gli altri, gli innocenti, chi ha rifiutato di vendersi. Non condannare i vigliacchi significa dar torto a coloro che essi hanno abbandonato e a volte sacrificato». La difesa: «Giudicare senza capire è un potere, non una virtù. Dovete invece capire che gli accusati, più soli e quindi più infelici degli altri, sono anch'essi da annoverare fra le vittime; più degli altri, essi hanno bisogno della vostra indulgenza, della vostra generosità». Spesso lasciavo il tribunale depresso, scoraggiato, incerto fra la pietà e la vergogna. Il 107 procuratore diceva la verità, la difesa anche; i testimoni avevano tutti ragione, sia che fossero a carico o a discarico. La sentenza suonava giusta e tuttavia una flagrante ingiustizia scaturiva da questi processi confusi e penosi: si aveva l'impressione che nessuno avesse detto la verità, perché la verità era altrove, con i morti; e chissà se la verità non è morta con loro? Spesso mi dicevo: «È ancora una fortuna che sia testimone e non giudice: io condannerei me stesso». Ora lo sono diventato. Senza volerlo, senza che me lo aspettassi. Ecco la trappola: al punto in cui sono non è possibile tornare indietro. Devo pronunciare la sentenza. Ormai, qualunque sia il mio atteggiamento, esso avrà il peso di un verdetto. Percepisco l'odore del mare, sento il mormorio delle onde mentre lasciamo il centro e le luci. Ci 108 avviciniamo al capolinea. Devo affrettarmi a prendere una decisione, a processare il mio ex capobaracca. Assumerò tutti i ruoli: prima quello dei testimoni, poi quelli del giudice e del difensore. Il prigioniero non ne avrà che uno, quello dell'imputato; quello della vittima? Avrò pieni poteri, la mia sentenza sarà senza appello. Di fronte all'imputato sarò Dio. Cominciamo dall'inizio. Con le domande di prammatica. Nome, cognome, professione, età, domicilio. L'imputato non riconosce la legittimità della procedura né quella del tribunale, si rifiuta di partecipare al dibattimento. Preso atto di ciò, la corte farà a meno delle sue risposte. Sono i suoi crimini che ci interessano, non la sua identità. Apriamo il dossier, esaminiamo le accuse mosse nei suoi confronti. Rivedo il luogo del crimine, il 109 volto uniforme del dolore, sento lo schiocco della frusta sui corpi emaciati. La sera, circondato dai suoi vigorosi protetti, l'imputato dimostra la sua abilità nel fare due cose contemporaneamente: con una mano distribuisce la zuppa, con l'altra dà colpi alla cieca per imporre il silenzio. Che le lacrime e i gemiti lo turbino o lo irritino non importa: colpisce più forte per farli smettere. La vista dei malati lo rende furioso: vi coglie un cattivo presagio per se stesso. È particolarmente crudele con i vecchi: «Perché vi attaccate a questa sporca vita? Spicciatevi a farla finita, non soffrirete più! Date il vostro pane ai più giovani, fate almeno una buona azione prima di crepare! ». Un giorno scorse me e mio padre vicino alla baracca. Mio padre, come d'abitudine, mi stava dando la sua gamella mezza piena ordinandomi di 110 mangiare. «Non ho più fame», mi spiegò, e io sapevo che mentiva. La rifiutai: «Neanch'io, papà; veramente, non ho più fame». Mentivo, e anche lui lo sapeva. Al che il capoblocco si avvicinò e si rivolse a mio padre: «È tuo figlio?». «Sì». «E non ti vergogni di prendergli la zuppa?». «Ma...». «Stai zitto! Rendigli la gamella o ti do una lezione che non dimenticherai così presto!». Per evitare che mettesse in atto la sua minaccia io afferrai la gamella e cominciai a mangiare. Dapprima ebbi voglia di vomitare ma subito dopo sentii un immenso benessere spandersi in tutto il mio corpo. Mangiai lentamente per far durare quel piacere più grande della mia vergogna. Finalmente il capoblocco si allontanò. Io lo odiavo e, tuttavia, in fondo ero contento del suo intervento. Mio padre sussurrò: «È un brav'uomo, 111 caritatevole». Mentiva, e anch'io mentii: «Sì, papà, caritatevole». Come vi dichiarate: colpevole o innocente? Mio padre non nascondeva il suo orgoglio: suo figlio gli ubbidiva. Come prima. Meglio di prima. C'era dunque nel campo, in mezzo a questa follia organizzata, un essere che dipendeva da lui e ai cui occhi egli non era uno straccio d'uomo. Non si rendeva conto che io non ubbidivo a lui, ma a voi. Io ne ero cosciente, e anche voi, ma io mi rifiutavo di pensarci; voi no. Sapevo anche che ubbidendo a voi, nello stesso tempo vostro schiavo e vostro complice, io accorciavo l'esistenza di mio padre di un respiro, di un risveglio. Affogai questo rimorso nella zuppa giallastra. Ma più saggio e soprattutto più perspicace di mio padre, voi non vi siete illuso; 112 allontanandovi avete sorriso come per dire: «È la vita, il ragazzo l'imparerà, farà la sua strada e chissà, forse un giorno mi succederà». E io, io non ho restituito la zuppa a mio padre, non mi sono gettato su di voi per strapparvi gli occhi e la lingua e la vostra vittoria. Sì, avevo paura, ero vigliacco. E poi la fame mi attanagliava; è su questo che avevate puntato. E avete vinto. Allora, imputato, avete da dire qualcosa in vostra difesa? Voi vincevate sempre, e a volte, la notte, mi capitava di pensare che forse eravate voi ad avere ragione. Per noi non eravate soltanto la frusta o l'ascia nelle mani dell'assassino. Eravate il principe che fa il gioco della morte, il suo profeta, il suo portavoce. Solo voi sapevate interpretare le ire del carnefice, i silenzi della terra: eravate la 113 guida da seguire; chi vi imitava, viveva; gli altri marcivano. La vostra verità era l'unica valida, l'unica possibile, l'unica conforme ai desideri e ai disegni degli dei. Colpevole o innocente? Invece di unirvi alle vittime, di soffrire come noi e con noi, invece di piangere senza lacrime e di tremare davanti alle nuvole incandescenti, invece di morire come noi e con noi, e forse anche per noi, voi avete scelto di regnare sul mondo delle tenebre, proclamando a chi voleva ascoltarvi che la pietà era criminale, la generosità sterile, insensata, inumana. Un giorno, dopo l'appello, ci avete tenuto un lungo discorso sulla filosofia concentrazionaria: ciascuno per sé, ognuno è il nemico del suo prossimo perché vive a sue spese. E avete concluso: «Ciò che vi dico è vero e 114 immutabile. Perché sappiate che il Signore è sceso dal cielo e ha deciso di rendersi visibile: sono io». Come vi dichiarate? Il giudice ode i gemiti soffocati dei testimoni viventi e scomparsi, vede l'imputato picchiare un vecchio che si era tolto il berretto troppo lentamente, e un altro perché la sua faccia non gli piaceva. «Te mi sembri in salute», dice l'imputato, e gli dà un pugno nello stomaco. «E te mi sembri malato, sei pallido», e lo prende a schiaffi. Itzik possiede una camicia pesante: l'imputato gliela prende. Itzik protesta, e già si torce dal dolore. Izso aveva ancora le sue vecchie scarpe: l'imputato le afferra con un sorriso sprezzante: guardate quest'imbecille, non reagisce neanche, non merita di vivere. Allora? Colpevole o innocente? 115 E se tornaste indietro? Cosa siete oggi paragonato a ciò che eravate ieri? Parliamo del vostro pentimento, della vostra espiazione. Cosa dite a vostra moglie quando vi offre il suo orgoglio, quando vi parla del futuro dei vostri figli? Cosa vedete negli occhi del passante che vi dice buongiorno, buonasera e shalom, che significa «che la pace sia con voi»? - Allora!? - grida l'autista. - Quante volte vi devo ripetere che siamo arrivati? Ci osserva nello specchietto retrovisivo e grida ancora più forte. La nostra inerzia lo esaspera. Si volta e ci urla: «Ma siete sordi!? Non capite l'ebraico?». Il mio prigioniero finge di non capire nessuna lingua. Dorme, sogna, trasportato altrove, in un tempo diverso, a un altro capolinea. Aspetta che 116 io faccia il primo passo, che rompa il cerchio maledetto che ci separa dal resto degli uomini. Come un tempo con i suoi padroni, seguirà, ubbidirà. L'autista s'arrabbia. Questi due fantasmi muti e immobili vogliono apparentemente passare la notte nel suo autobus. Si credono all'albergo? Si alza brontolando: «Ora vi faccio vedere io». Si dirige verso di noi, l'occhio cattivo. Il mio prigioniero lo attende senza batter ciglio, indifferente a ciò che potrebbe accadergli. Io gli tocco il braccio: - Venite, andiamocene. Lui ubbidisce macchinalmente. Una volta sceso, non si muove e mi aspetta saggiamente sul marciapiede. Potrebbe scappare nei vicoli oscuri che portano al mare, ma non lo fa. Gli manca la 117 volontà. Non vuole turbare l'ordine delle cose, speculare su un avvenire incerto. Soprattutto nessuna iniziativa, la regola d'oro in campo. L'autobus riparte. Eccoci soli. Non ho più nulla da dirgli. Una vaga sensazione di imbarazzo mi invade, come se avessi appena commesso una stupidaggine. Di colpo ridivento timido. Ed è con voce fievole che gli domando: - Veramente non vi ricordate di me? Nel buio non distinguo più il suo volto. Non lo riconosco più. Un dubbio mi afferra: e se non fosse lui? - No, - dice dopo un lungo silenzio - non mi ricordo di voi. Non riconosco più il suono della sua voce. La sua, un tempo, era rauca, tagliente. Adesso è diventata chiara, umana. 118 - E voi? Vi ricordate chi eravate? - Questo non riguarda che me. - No. Questo riguarda anche me. A un tratto mi dico che bisogna finirla, ma come? Penso che se si metterà a piagnucolare, a giustificarsi, a implorare il mio perdono, lo farò arrestare. Lo stesso se continuerà a negare. Cosa dovrebbe fare perché lo lasci andare? Non lo so. Tocca a lui saperlo. Improvvisamente si irrigidisce. So che i suoi occhi hanno ritrovato la loro freddezza, la loro durezza. Sta per parlare. Finalmente. Difendendosi, sta per far luce su questo mistero a cui noi resteremo legati per sempre. So che parlerà senza muovere la linea sottile delle sue labbra. Finalmente parla. No, grida. No, urla. Senza preparazione, senza avvertimento. Mi 119 insulta, mi ingiuria. Non in ebraico ma in tedesco. Non siamo più in Israele, ma da qualche parte nell'universo dell'odio, in Germania. È il capoblocco che, le mani dietro la schiena, «consiglia» a uno dei suoi schiavi di sloggiare al più presto se non vuole pentirsi di essere nato. Mi picchierà, mi romperà le ossa, mi farà mordere la polvere, come minaccia di fare? Nessuno verrà in mio aiuto: in campo è il più forte e il più brutale che ha ragione. Mi schiaccerà sotto i suoi piedi, mi ucciderà? Se lo farà, porterò con me il suo segreto. Si può dunque morire ad Auschwitz dopo Auschwitz? Il capoblocco mi fa un discorso come allora, e io non sento ciò che mi dice. La sua voce mi inghiottisce, io mi lascio andare a fondo. Non ho più paura. Non ho paura di morire e neanche di 120 uccidere. È un'altra cosa, è peggio: improvvisamente mi rendo conto della mia impotenza, della mia sconfitta. So che lo lascerò libero; ma non saprò mai se per coraggio o per vigliaccheria. Non saprò mai se, di fronte al carnefice, mi sono comportato da giudice o da vittima. Ma avrò la certezza che l'uomo che si misura con la realtà del male ne esce sempre battuto e umiliato. Se un giorno incontrerò sulla mia strada l'Angelo della Morte in persona, non lo ucciderò, non lo torturerò; al contrario, gli parlerò educatamente, il più umanamente possibile, cercherò di capirlo, di indovinare il suo male, a rischio di contrario. Il capoblocco urla oscenità e minacce, ma io non l'ascolto. Lo fìsso un'ultima volta senza riuscire a distinguerlo nella notte. Le mani in tasca, mi volto 121 e mi metto a camminare, prima lentamente, poi sempre più velocemente, fino a correre. Mi sta seguendo? Mi lasciò andare. Mi concesse la libertà. 122 Barbara Avrei voluto raccontarvi la storia di una donna chiamata Barbara, ma non la so. Lei non volle dirmela; temeva meno il mio giudizio del ricordo che ne avrei conservato. Anche lei la respingeva, cercava di cancellarla dalle memorie a rischio di perdere la sua. Diceva: «Gli uomini, questi imbecilli, credono di comprare il mio corpo; ma è la mia memoria che gli vendo». Come per tutti, il suo passato era fatto di parole e il suo futuro di immagini. Come tutti, aveva una storia che non amava, una storia che divideva con 123 innumerevoli sconosciuti, le cui tristi figure e i cui gesti volgari si susseguivano senza mai scomparire del tutto, come in un gioco di specchi in cui la stessa immagine estranea si ripete all'infinito. Le piaceva mutilarla, truccarla. La trascinava nel fango, l'ornava di menzogne da quattro soldi: una storia di similoro. Ma sfigurarla, non era per lei l'unico modo per non riconoscerla più? E poi? Poi farà in modo di procurarsi una sua propria storia, interamente sua, una storia senza porcherie che cominci e finisca con lei, una storia che nessuno ha vissuto e che il Signore ancora non conosce. Una storia che gli uomini, questi imbecilli, non conosceranno mai. Ero ancora molto giovane, così giovane che d'istinto acceleravo il passo quando, nei miei giri, 124 mi capitava di passare per i vicoli senz'aria e male illuminati dove, in piedi contro il muro, inquiete, alcune creature notturne sembravano attendere eternamente un amico o un nemico, mai lo stesso. Come se fossero sempre pronte a parare un attacco alle spalle. Io mi allontanavo dalla loro strada, le fuggivo. Mi ispiravano un oscuro timore. Ogni volta che una di loro mi abbordava a bassa voce, immergendo il suo sguardo lascivo nei miei occhi, io abbassavo la testa e arrossivo. Balbettavo: «No, grazie», conscio del peccato che commettevo, perché era «Grazie, sì» che avrei dovuto dire. Nella Bibbia, kedoshà significa santa e kedeshà prostituta; le due parole hanno la stessa radice. Io vedevo in questa affinità un mistero che non 125 poteva che incuriosirmi. Ma generalmente mancavo di coraggio; e anche di denaro. Resistevo alla tentazione pur rimproverandomelo. Ma quella notte era differente. Non potendo dormire, mi alzai e scesi a fare un giro sulle rive della Senna. Ero depresso. Erano settimane che vivevo in disparte e affondavo in una tristezza paralizzante. Le mie letture mi annoiavano, i miei amici mi irritavano. Inoperoso, camminavo per giornate intere, affascinato da quella solitudine di cui non riuscivo a individuare l'origine. Qualcosa si frapponeva fra la vita e me; la vedevo allontanarsi e non alzavo il braccio per ricondurla a me: la lasciavo fuggire. Anche l'abisso che sfioravo mi sembrava estraneo. L'assurdo era una parola di moda. Dopo una lunga camminata arrivai in un 126 giardinetto di me Saint-Denis, vicino alle Halles. Doveva essere mezzanotte passata. Un vento caldo soffiava sugli alberi. Sull'angolo quattro ragazze passeggiavano. Ogni tanto si riunivano per scambiarsi una battuta o per consultarsi, poi si separavano di nuovo, in stato di allerta, gli occhi in agguato. Avevano, per attirare il cliente, un piano strategico altamente efficace e collaudato. Sembravano una pattuglia notturna, al fronte, che cerchi di stabilire un contatto col nemico. A un tratto apparve un uomo, si piantò davanti a una di loro, le disse qualche parola; poi scosse la testa e se ne andò con disinvoltura per scomparire all'angolo della strada. Era l'ultimo cliente. La notte avanzava, la città si addormentava. «Ah, che vita!», sospirò una di loro. Gli ci volle più di un'ora per accorgersi della 127 mia presenza. Con una manovra di accerchiamento si avvicinarono venendo da quattro diverse direzioni. - Vieni, caro? - mi domandò la rossa. Io la fissai a lungo prima di sentirmi rispondere, la mente altrove: - No. Non stasera. - Perché no? - esclamò la sua compagna, piccola e grassottella. - Desidero restare qui. - Ah, capisco, il birbante preferisce guardare fece la terza. Tutte scoppiarono a ridere; io non reagii. Avevano un riso osceno. A vedere aprirsi le loro bocche, sembrava di veder nascere e allargarsi una crepa in uno di quei muri del quartiere che non stanno più in piedi. Fuggire? Non ora. Le loro 128 battute non mi toccavano: io non ero lì, non ero da nessuna parte. - Forse aspetti qualcuno? - disse la rossa per stuzzicarmi. - Sì. Qualcuno. - Ti fa aspettare, non è gentile da parte sua. - Non è gentile - dissi. - E gli piace farsi attendere. E inoltre a me piace aspettarlo. - Potremmo tenerti compagnia - propose la rossa, portavoce del gruppo. - Siamo qui per questo. Ti faremo uno sconto. - No. Grazie. Solo, l'aspetto meglio. - Forse sarebbe contento di trovarci con te, non credi? - No, non credo. - Di' un po', parli per te o anche per lui? - Per tutti e due. So che ama la solitudine. E il 129 silenzio. - Allora dicci il suo nome. Forse lo conosciamo. Sai, ne conosciamo di gente noi, non è vero, ragazze? Dicci che aspetto ha, se è ricco, se gli piace divertirsi, quali sono i suoi vizi, le sue abitudini. Questo ce lo renderà un cliente interessante. Io alzai le spalle e tacqui. Non avevo più voglia di continuare un gioco che non aveva senso. 130 - Ma - continuò la rossa - è proprio maleducato! Noi non vogliamo che il suo bene e lui non si degna neanche di rispondere! Potresti dirci chi aspetti: non te lo mangeremo mica. - Qualcuno - dissi a fior di labbra. Le fissavo con aria di sfida. Si rimisero a sghignazzare. Altre volte avrei cercato un posto dove rintanarmi, purificarmi, punirmi. Non questa. Mi sentivo calmo, indifferente: non era con me che se la prendevano. Improvvisamente la quarta ragazza, quella che non aveva detto ancora nulla, mi si accostò. - E se ti dicessi che è me che aspetti? - mi sussurrò perché le altre non la sentissero. I capelli le scendevano sulla schiena mezza scoperta. Mi osservava freddamente, con un'aria seria e pensosa. Sentivo il suo respiro pesante e 131 amaro. Aveva bevuto. Io scoppiai a ridere. L'idea si impadronì di me come una fiamma. Ecco ciò che cercavo da così tanto tempo: una donna. Una donna spudorata che si venda invece di concedersi, una donna per la quale essere e avere siano la stessa cosa, una donna che vada con chi disprezza. E dire che, nella mia infanzia, intravedevo questo essere sulle cime delle montagne e nelle profondità del raccoglimento! Le ragazze mi esaminavano senza capire. Io ridevo e non riconoscevo il mio riso più della mia voce. - Allora? - mormorò la ragazza dai capelli lunghi. - Vieni, Barbara, lascia perdere - dissero le altre tirandola per un braccio. Per loro lo spettacolo era finito. - Lasciatemi - fece Barbara con voce dura. 132 - Ma sei matta! Non vedi che il piccolo è in bolletta? - Lasciatemi. - Hai battuto la testa! Le compagne si allontanarono, i loro commenti si persero nella notte. - Le vostre amiche hanno ragione - dissi dopo un momento. - Non ho un soldo. - Me ne frego - rispose, gelida. - Mi piaci. 133 Mi toccò la spalla e aggiunse con un tono che voleva essere più dolce, affettuoso: - Mi piaci ed è ciò che conta. Dimentichiamo il resto. Vieni con me. - Dove? - Da me. Non abito lontano. Staremo meglio. Vieni. - No, grazie. - Hai paura? Sei timido? Allora andiamo a casa tua. - Non ho paura e non ho voglia di tornare a casa. Mi fissò attentamente e aggrottò le sopracciglia: - Sei ebreo, non è vero? - Sì - risposi per niente stupito. - Come l'avete indovinato? - Il tuo accento, la tua voce, il tuo modo di dire no. 134 - Sono ebreo e ciò significa che non ho più paura di niente. La paura non m'interessa più. Si sedette accanto a me senza smettere di guardarmi. Nel buio, il suo volto eccessivamente truccato sembrava terribile. Tutte le umiliazioni del suo corpo e della sua anima vi si accumulavano. - Ti piace fare all'amore? - mi domandò con tono deciso. - Dipende. - E con me? Ti piacerebbe fare all'amore con me? - Non so. - Vuoi provare per saperlo? - No, grazie. - Perché no? Io tacqui: non era me che lei interrogava, non 135 spettava a me rispondere. Mi prese la mano, io mi svincolai. - Ti disgusto? È così? - No, niente affatto. Ho semplicemente caldo. - Anch'io. E a volte mi disgusto. Io cercavo qualcosa da dire, ma avevo la testa vuota. - Parliamo - dissi. - Di che cosa? - Di voi. - Dammi del tu. Tutti gli uomini lo fanno. 136 Era la prima volta che venivo messo fra gli uomini. - Va bene, parliamo di te. - Cosa vuoi sentirmi dire? - fece con una punta di rabbia nella voce. - Non mi piace parlare di me. Gli uomini, quando si spogliano, vogliono sempre sapere chi sono per potermi meglio insozzare dopo, con cognizione di causa. Ci tengono a sapere su chi hanno l'onore e il piacere di sputare. Io non rispondo. Non la verità. È già abbastanza sporca cosi la mia verità. Allora invento. Ci ricamo su. Abbiamo abbastanza immaginazione. Capisci? - Capisco - dissi. Non capivo, non ascoltavo neanche, ma non bisognava ferirla. Avevo troppo caldo. Tirai fuori il fazzoletto e mi asciugai la fronte. Lei fece 137 altrettanto. - Ti secco? - Per niente. - Se ti secco, dimmelo. - Ma no. È il caldo. - Dov'ero rimasta? - Mi parlavi della verità. - Ah si, cosa stavo dicendo? Gli uomini esigono che gli racconti tutto, assolutamente tutto. Allora invento una storia incredibile, fatta su misura: da spezzarti il cuore. Questi imbecilli adorano le storie, le confessioni. In ciascuno di loro c'è un prete che vede in ogni donna una puttana infelice, un'anima da salvare, da consolare, da ricondurre all'ovile. Ciò permette loro di comportarsi da generosi, da protettori della vedova e dell'orfano. È per questo che vengono: non per fare all'amore 138 anche per questo, naturalmente - ma per portarci la loro compassione e il loro affetto a buon mercato. «Ah, piccola, hai proprio sofferto nella tua infanzia, ecco cento franchi in più. È un regalo, vedi, sono generoso. Ma in cambio, bambina mia, sarai gentile con me, promesso? Non ti sbrigherai troppo, promesso?». Allora io intasco la mancia, dico grazie, signore, tante grazie, padre, siete buono e dolce, avete un cuore d'oro, un'anima santa, venite dunque, venite, sdraiatevi su di me, mi concedo, vi lascio fare, traete da me tutto il piacere che volete, che potete, sono una macchina da piacere, non fate complimenti, ne resterà per tutti, per tutti i preti e i santi che vi seguiranno. Ecco ciò che dico loro ridendo, piangendo o percuotendoli, secondo i loro gusti: alcuni amano le mie lacrime, altri 139 prendono fuoco solo se divento furiosa. Vedi? Non valgo più di cento franchi. Si interruppe, si inumidì le labbra e disse: - E tu? Cosa vuoi? - Non so. - Vuoi che ti racconti la verità? - Se ci tieni. Ma ti avverto, non ho nulla da offrirti. Mi prese di nuovo la mano con violenza e questa volta la lasciai fare. Al suo contatto, per la prima volta in quella serata, non potei fare a meno di rabbrividire. Avevo ritrovato il mio corpo. - Mi piaci - proseguì lasciandomi la mano. - Mi piaci perché sei giovane e perché non hai nulla da offrire; perché sei ebreo e perché non hai paura. E anche perché non ti capisco. Si scostò leggermente come per potermi vedere meglio: 140 - So cosa pensi. Che sono ubriaca. - Ti sbagli: non penso a niente. - Non mi interrompere, ti prego. Non pensi a niente, ma pensi che sono ubriaca, le due cose non si escludono a vicenda. Ebbene, è vero. Ho bevuto. Non molto. Con tre clienti. Tariffa di lusso. Gli ho proposto di invitare le mie compagne alla festa, ma loro non hanno voluto: te la caverai benissimo da sola. Abbiamo bevuto, ci siamo divertiti. Erano contenti e me l'hanno detto. Se ne sono andati lasciandomi una bottiglia. Non l'ho toccata, te lo giuro, insomma, non molto. Non mi piace bere, non da sola, non così. Mi gira la testa. Toccala: senti come gira? Si mise a muovere la testa sempre più in fretta, da farmi venire le vertigini. Le dissi: - Effettivamente gira. 141 - Vedi? So ciò che dico. Ho l'aria svagata, ma so ciò che voglio dire. Se tu non capisci, è perché sei ebreo: ascolti bene, ma capisci male. 142 Si mise la mano davanti alla bocca come per scusarsi di aver fatto una gaffe: - Ti ho offeso? No? Tanto meglio. Comunque ti chiedo scusa. So che capisci. Mi rimangio tutto: sei ebreo, quindi devi capire. È te che io non capisco. Sai, vedendoti seduto su quella panca, seduto sulla notte - sì, non mi guardare così, ho detto sulla notte: ci si può sedere, ci si può sdraiare, ci si può perfino abitare - vedendoti là, ho subito saputo che eri di quelli che capiscono, di quelli che io non capirò. Ti piace sentirti dire questo, non è vero? Sei giovane e i giovani adorano che gli si dica queste cose. Ebbene, ti farò piacere e ti dichiarerò solennemente che io non ti capisco. Allora, sei contento? Del resto è bene che sia così. Vorrei tanto non capire mai. Mi capita così raramente. La maggior parte delle volte 143 capisco troppo bene, troppo rapidamente. Che vuoi, sono pagata per questo. Gli uomini li conosco, prevedo le loro mosse: «Su, vecchio mio, fai la tua piccola scena, io so prima di te e meglio di te dove vuoi arrivare». Bah, credono di possedermi passandomi sul corpo, riempiendomi del loro disgusto; in realtà sono io che li possiedo, perché io non mi lascio imbrogliare, io sono infallibile, li attraverso con lo sguardo e gli sputo addosso. Barbara mi raccontava la sua vita, mentre io pensavo alla mia, alla nostra esistenza comune, che un solo gesto, un solo avvenimento rischia di deformare, di degradare per sempre. Una parola che si dice o che si dice male, oppure che non si dice, un treno che si perde, una mano che si prende o che si respinge, e la vita non è più quella 144 che avrebbe potuto essere. La libertà? Una burla. Il futuro non è che il prodotto del passato, il quale è ormai fuori della nostra portata; non siamo più liberi di modificarlo, diventa una divinità creata da noi e contro di noi. Ciò che è fatto è fatto, non si torna indietro, non ci si sceglie di nuovo. Così un sì o un no, ogni si e ogni no impegnano l'essere oltre il presente. Ecco il malinteso, ecco l'ingiustizia fondamentale: accettiamo e rifiutiamo situazioni che si presenteranno solo in seguito, quando sarà troppo tardi. Barbara aveva smesso di parlare già da un po' di tempo. 145 Io avrei dovuto dire qualcosa. Lei interpretò male il mio silenzio: - Tu non dici niente. Mi hai soltanto ascoltato? - Sì e no. - Non hai niente da dire? - No. - Eppure ti ho appena raccontato la stupida storia che chiamo la mia vita. Niente domande? Nessun commento? - No. - Bene. Tanto meglio. Adesso ti chiedo un favore. - Quale? - Dimentica la mia storia. Subito. Anch'io la dimenticherò. Promesso? - Certo, promesso. Cercò di baciarmi; io la respinsi dolcemente. 146 - Fa troppo caldo. Tirò fuori il suo fazzoletto e me lo passò sulla fronte: - Adesso vuoi parlare te? Noi sappiamo anche ascoltare, sai, fa parte del mestiere. - No, grazie. - Hai paura che non capisca? È così? Ma è proprio ciò che desidero! Dimmi qualunque cosa, purché non capisca! Vorrei tanto non capire una volta in questa vita di puttana! Una grande tristezza mi invase. Barbara avvicinò la sua faccia alla mia, io non indietreggiai. Posò le labbra sulla mia guancia, io la lasciai fare. Sapeva di vino. Pensai: «La prima donna con la quale parlo d'amore è una puttana, una puttana che ha bevuto e che ama gli ebrei perché non li capisce». Non mi capivo. 147 - Sei triste. Io so quando un uomo è triste. Vieni a fare all'amore. È ancora il miglior rimedio contro la malinconia, te lo dico io. Sai perché è stata data agli uomini la tristezza? Perché le donne come me non crepino di fame. Mi vedevo con gli occhi della mia infanzia e mi dicevo: «No, non te ne andrai, non te la caverai». - Vieni? Non dovrai parlare né ascoltare. Sarai libero. Mi alzai precipitosamente: - No, grazie. Non ne ho voglia. 148 Era falso e vero allo stesso tempo. Avevo voglia di lei e temevo che se ne accorgesse. - Non vuoi proprio? Non sai quel che perdi. Una luce grigia lacerava lentamente il cielo. La città combatteva la sua ultima battaglia contro un volo di corvi o di avvoltoi che essa spingeva oltre l'orizzonte. Fra poco avrebbe fatto giorno. Guardai la donna e le tesi la mano. - Devo andare - dissi nascondendo il mio turbamento. - Buona fortuna. Lei mi prese la mano con esitazione e la richiuse dentro la sua: - Arrivederci, mio piccolo ebreo. Dove vai? A ritrovare la tua donna? La tua amica? - Non ne ho. - I tuoi genitori? - Forse. 149 Dopo un attimo aggiunsi: - Sono morti. Lei sorrise: - Decisamente non ti capisco. Ti ringrazio. Ciascuno se ne andò dalla sua parte, io a testa bassa, lei guardando in alto. Dopo pochi passi la sentii ancora che mi urlava un ultimo messaggio: - Ho dimenticato una cosa importante. Non avrò bambini, mi senti? Mai, mai! Questo è importante come il resto della mia storia! - La tua storia? Che storia? Alzai le spalle e ripresi la mia strada nella foschia del mattino. Una puttana ubriaca, ecco ciò che è Barbara. Barbara? È questo il suo nome? Probabilmente no. Marie, Suzanne, Blanche, Elisabeth, Emma, Marcelle. Ma non Barbara. Ha preso questo nome per potersi dire: non sono io 150 che batto il marciapiede, è Barbara. A chi ho parlato dunque? Durante i mesi seguenti feci in modo di evitare quel quartiere. Poi una notte sentii il desiderio di rivederla. Seduto su una panchina, nel piccolo giardinetto vicino alle Halles, aspettai per ore che arrivasse. Non c'era più: era stata senza dubbio ripresa dalla notte, forse dalla propria storia che nessuno mai conoscerà. Un'altra ragazza occupava il suo posto. Mi si avvicinò e mi chiese: - Cerchi qualcuno? - Sì, qualcuno. - Chi? Aspettai un istante prima di rispondere: - Un profeta. - Continua a cercare, caro; è lassù, a fare all'amore! 151 Il testamento di un ebreo di Saragozza II grande Rebbe Israel Baal Shem Tov ordinò un giorno al suo fedele cocchiere di attaccare al più presto i cavalli e di condurlo dall'altra parte della montagna: - Sbrigati, mio buon Alexei, ho un appuntamento. Si fermarono in una foresta. Il sant'uomo scese, si appoggiò a una quercia, si raccolse per un istante e risalì in carrozza. - Andiamo, Alexei, - disse sorridendo possiamo rientrare. Abituato a non comprendere il comportamento 152 del suo padrone, operatore di miracoli, il cocchiere ebbe tuttavia l'ardire di stupirsi: - Ma il vostro appuntamento? L'avete mancato? Voi che siete sempre puntuale, voi che non deludete mai nessuno? Siamo venuti per niente? - Ma no, mio bravo Alexei, non siamo venuti per niente da cosi lontano. Ho rispettato il mio appuntamento. E, come sempre dopo aver tolto un po' di miseria dal mondo, il volto del Rebbe risplendeva di felicità. Secondo la tradizione chassidica non è dato all'uomo di misurare l'effetto dei suoi atti né il valore delle sue preghiere, così come non è dato al viaggiatore di prevedere la meta precisa dei suoi viaggi: è questo uno dei segreti del concetto di Tikkùn - restaurazione - che domina l'azione 153 cabbalistica. Il vagabondo che, per purificare il suo amore o per disfarsene, percorre la terra, non sa che è atteso dappertutto. 154 Ciascuno dei suoi incontri, ciascuna delle sue soste è iscritta, a sua insaputa, da qualche parte ed egli non è libero di scegliere le strade che vi conducono. Le anime morte e dimenticate ritornano quaggiù a mendicare la loro parte di grazia, di eternità; hanno bisogno dei vivi per staccarsi dal nulla. Basterebbe un gesto, una lacrima, una scintilla. Perché ogni essere partecipa al mistero rinnovato della creazione; ogni uomo possiede, almeno una volta nella propria esistenza, il potere assoluto dello Zaddik, il privilegio irrevocabile del Giusto di ristabilire l'equilibrio, di riparare la colpa, di agire sugli assenti. Condannato a superarsi continuamente, l'uomo giunge a possedere questo potere senza rendersene conto e capisce il suo ruolo solo a cose fatte. 155 E ora vi racconterò una storia. Si svolge in Spagna. Attraversandola per la prima volta, ebbi la strana sensazione di trovarmi in un paese conosciuto. Il cielo assolato, la luminosità tormentata degli sguardi: paesaggi e volti familiari, già visti. I fannulloni sulle ramblas a Barcellona, i passanti e i loro figli nei vicoli di Toledo: come indovinare chi fra di loro aveva sangue ebraico nelle vene, chi discendeva dai famosi marranos? A ogni istante mi aspettavo di vedere uscire da un portico variopinto uno Shmuel Hanagid, un Ibn Ezra, un Don Itzchak Abrabanel, un Yehuda Halevi, questi principi e poeti della leggenda che avevano costituito e cantato l'età d'oro del pensiero del mio popolo. Essi visitavano le mie letture e si introducevano nei miei sogni. 156 Il periodo dell'Inquisizione aveva esercitato un'attrazione particolare sulla mia immaginazione. Trovavo affascinanti quei sacerdoti enigmatici che, in nome dell'Amore e per la santa gloria di un giovane ebreo di Galilea, avevano torturato e sottoposto a morte lenta coloro che preferivano il Padre al Figlio. Le loro vittime le invidiavo. Per loro la scelta si era posta in termini così semplici: Dio o il rogo, il rinnegamento o l'esilio. 157 Molti hanno scelto l'esilio, ma non ho mai condannato i marranos, quegli infelici convertiti che, clandestinamente e sfidando il pericolo, restavano fedeli alla fede dei loro padri. Li ammiravo. Per la loro debolezza, per la loro sfida. Partire con la comunità sarebbe stato più facile; rompere i legami più comodo. Decidendo di mantenersi contemporaneamente su due piani, vivevano sul filo del rasoio, nell'abnegazione di ogni istante. Io non lo sapevo recandomi in Spagna, ma ero atteso. Mi trovavo a Saragozza. Da buon turista coscienzioso esploravo attentamente la cattedrale, quando un abitante del luogo mi abbordò e si offrì di farmi da guida. Perché? Perché no? Amava gli stranieri. Il 158 prezzo? Niente. Non faceva quel lavoro per denaro. Ma solo per il piacere di far ammirare la sua città. Me ne parlò con entusiasmo. E con eloquenza. Passò in rassegna tutto: storia, architettura, usanze. Poi, davanti a un bicchiere di vino, spinse la sua amabilità fino a interessarsi della mia persona: da dove venivo, dove andavo, se ero sposato e se credevo in Dio. Io risposi: vengo da lontano, la strada davanti a me sarà lunga. Elusi le altre domande. Lui non insistè. - Così viaggiate molto - disse educatamente. - Sì, molto. - Troppo, forse? - Forse. - Questo cosa vi dà? - Dei ricordi, degli amici. - È tutto? Perché non li cercate a casa vostra? 159 - Per il piacere del ritorno, senza dubbio. E come bagaglio alcune parole che prima non conoscevo. - Quali? - Non saprei rispondervi. Non ancora. Non ho ancora il bagaglio. Brindammo. Speravo che cambiasse argomento, ma tornò alla carica: 160 - A proposito di parole: voi dovete parlare parecchie lingue, non è vero? - Troppe - dissi. Gliele enumerai: jiddish, tedesco, ungherese, francese, inglese ed ebraico. - Ebraico? - fece rizzando le orecchie. Hebreo?Esiste? - Esiste - dissi ridendo. - Lingua difficile, eh? - Non per gli ebrei. - Ah, capisco, scusatemi. Voi siete ebreo. - Esiste - dissi ridendo. Convinto di aver fatto una gaffe, cercò il modo di rimediare. Rifletté un momento prima di proseguire, imbarazzato: - L'ebraico come si scrive? Come l'arabo? - Come l'arabo. Da destra a sinistra. 161 Un'idea gli attraversò la mente, ma esitò a farmene partecipe. Io lo incoraggiai: - Ancora domande? Non abbiate scrupoli. Lui arrossì, ma si decise: - Posso chiedervi un favore? Un grande favore? - Certamente - dissi. - Venite... Venite con me. Non me l'aspettavo. - Con voi? - esclamai. - Dove? E a far cosa? - Venite. Ce la sbrigheremo in pochi minuti. Forse è importante per me. Vi prego, venite. C'era una tale insistenza nella sua voce che non potevo rifiutare. Del resto la curiosità stava prendendo il sopravvento. Mi ricordai all'improvviso che anche Saragozza occupa un posto nella storia ebraica. È qui che nacque e crebbe il mistico Abraham Abulafia, che aveva 162 pensato di convertire all'ebraismo lo stesso papa Nicola III. In questa città tutto poteva dunque capitare. Seguii la mia guida fino a casa sua. Il suo appartamento, situato al secondo piano, comprendeva solo due minuscole stanze arredate poveramente, ma con gusto. Una lampada a petrolio illuminava da sotto un ritratto della Vergine. Un crocifisso le stava di fronte. Lo spagnolo mi invitò a sedermi: - Perdonatemi, ne ho per poco. Scomparve nell'altra stanza e ritornò dopo qualche minuto. Teneva in mano un pezzo di pergamena ingiallita che mi porse: - È ebraico? Guardate. Io presi la pergamena e l'aprii. Di colpo l'emozione mi soggiogò, gli occhi mi si 163 annebbiarono. Le mie dita toccavano una reliquia sacra, il frammento di un testamento redatto alcuni secoli prima. - Sì - dissi con voce strozzata. - È ebraico. Non riuscivo a impedire alla mia mano di tremare. Lui se ne accorse. - Leggete - mi ordinò con un tono che non ammetteva repliche. Con un considerevole sforzo riuscii a decifrare quei caratteri che quattrocento anni di tempo avevano ormai reso indistinti: «Io, Moshé, figlio di Abraham, costretto a rompere i legami col mio popolo e con la mia fede, lascio queste righe ai figli dei miei figli e ai loro figli perché il giorno in cui Israele potrà nuovamente camminare sotto il sole a testa alta, senza timore e senza rimorsi, sappiano dove affondano le loro radici. Fatto a 164 Saragozza, questo nono giorno del mese di Av, nell'anno del castigo e dell'esilio». - A voce alta - si spazientì lo spagnolo. Leggete a voce alta. Io dovetti schiarirmi la voce: - Sì, è un documento. Un documento molto antico. Ve lo compro. - No - fece con tono reciso. - Ve lo pago bene. - Non insistete, ho detto di no. - Mi dispiace. - Questo oggetto non è in vendita, vi dico! Io non capivo il suo comportamento: - Non vi arrabbiate, non avevo l'intenzione di offendervi. Semplicemente, questa pergamena ha per me un valore storico e religioso; per me è più di un souvenir, è un segno, un... 165 - Anche per me! - gridò. Continuavo a non capire. Perché si era improvvisamente indurito? - Anche per voi? In che modo? Mi spiegò brevemente: era tradizione nella sua famiglia di trasmettersi questo oggetto di padre in figlio. Lo consideravano come un amuleto la cui scomparsa avrebbe portato male. - Capisco, - mormorai - capisco. Un cerchio che la storia aveva appena chiuso. C'erano voluti quattro secoli perché il messaggio di Moshé figlio di Abraham giungesse a destinazione. Io dovevo avere una strana espressione sul volto perché lo spagnolo me ne domandò la ragione. - Che succede? - volle sapere. - Voi non dite niente, mi nascondete i vostri pensieri, mi 166 offendete. Avanti, dite qualcosa! Se non vi vendo l'amuleto, non per questo avete il diritto di volermene, non vi pare? Rosso di indignazione, di inquietudine forse, assunse improvvisamente un'aria cattiva, infida. Due pieghe apparvero sul suo volto. Era dunque lui che mi attendeva qui. Io ero portatore del suo Tikkùn, della sua restaurazione, e lui non lo sospettava neanche. Mi domandai come rivelarglielo. Infine, non trovando niente di meglio, lo fissai dritto negli occhi e gli dissi: - Non succede niente, niente di niente. Non ve ne voglio affatto. Sappiate soltanto questo: voi siete ebreo. E ripetei subito le ultime parole: - Sì, siete ebreo. Judio. Voi. Lui impallidì. La parola gli venne meno. Stava soffocando, dovette trattenersi per non saltarmi 167 alla gola e buttarmi fuori. Judio è un insulto, questa parola evoca il diavolo. Offeso, lo spagnolo stava per infliggermi una punizione per averlo colpito nel suo onore. Poi alla collera subentrò lo stupore. Mi guardò come se mi vedesse per la prima volta, come se appartenessi a un altro secolo, a una tribù dalla lingua sconosciuta. Aspettava che gli dicessi che non era vero, che mi burlavo di lui, ma io rimasi zitto. Tutto era stato detto. Da tempo. Ciò che sarebbe seguito sarebbe stato solo commento. Con difficoltà, il mio ospite riprese il controllo di se stesso e mi si avvicinò ancora di più. - Parlate - mi disse. Lentamente, accentuando ogni sillaba, ogni parola, io mi misi a leggergli il documento in ebraico, poi a tradurglielo. Il suo volto si 168 contraeva a ogni frase, come se fossero tante bruciature. - È tutto? - mi chiese quando ebbi finito. - È tutto. Strizzò gli occhi, aprì la bocca come per azzannare avidamente l'aria. Per un attimo temetti che svenisse. Ma si riprese, gettò la testa indietro come per vedere, sul muro alle mie spalle, il dolore immobile della Vergine, poi diresse di nuovo la sua attenzione verso di me. - No - disse risoluto. - Non è tutto. Continuate. - Vi ho fatto una traduzione completa della pergamena. Non ho omesso nessuna parola. - Continuate, continuate, vi dico. Non fermatevi a metà, andate avanti, vi ascolto. Gli ubbidii. Mi rifeci dal passato e gli abbozzai un quadro della Spagna alla fine del quindicesimo 169 secolo, quando Tomàs de Torquemada, nativo di Valladolid, grande inquisitore della graziosa regina Isabella la Cattolica, trasformò il paese in un gigantesco rogo allo scopo di salvare gli ebrei bruciandoli, perché la parola di Gesù Cristo fosse ascoltata e divulgata, amata e accettata. Amen. Lo spagnolo non tardò ad avere le lacrime agli occhi. Non conosceva questo capitolo della sua storia. Non sapeva che gli ebrei erano stati così intimamente legati alla grandezza del suo paese prima di esserne cacciati. Per lui gli ebrei facevano parte della mitologia, ignorava che esistessero veramente. - Continuate - mi supplicò. - Continuate, non fermatevi. 170 Dovetti risalire fino alle origini: il regno di Giudea, i profeti, le guerre offensive e difensive, il primo Tempio, la diaspora babilonese, il secondo Tempio, gli assedi di Gerusalemme e di Massada, la resistenza armata all'occupazione romana, l'esilio, e poi la lunga attesa attraverso i secoli, l'attesa del Messia dolorosamente presente e dolorosamente assente. Gli raccontai di Auschwitz, cosi come della rinascita di Israele. Gli narrai tutto ciò che conteneva la mia memoria. E lui mi ascoltava senza interrompermi, se non per dire: «Ancora, ancora». Poi mi fermai. Non avevo nient'altro da aggiungere. Come sempre quando parlo troppo, mi sentii a disagio, improvvisamente importuno. Mi alzai: - Adesso devo andare, sono in ritardo. La macchina doveva aspettarmi sulla piazza 171 della cattedrale. Lo spagnolo mi ci accompagnò, a testa bassa, attento ai propri passi. La piazza era deserta: nessuna macchina in vista. Io rassicurai la mia guida: non c'era ragione di preoccuparsi, non sarebbe partita senza di me. Facemmo il giro dell'edificio una volta, due volte, e la mia guida, ritornato alle sue funzioni, mi fornì spiegazioni supplementari sulla cattedrale di Nuestra Senora del Pilar. Poi, sotto l'effetto della fatica, ci ritrovammo dentro, seduti su una panca, e lì, in quella tranquilla penombra in cui niente sembrava più esistere, mi pregò di leggergli un'ultima volta il testamento che un ebreo di Saragozza aveva scritto tanto tempo fa pensando a lui. Qualche anno dopo, di passaggio a Gerusalemme, stavo andando alla Knesset dove si 172 svolgeva una seduta parlamentare particolarmente tempestosa dedicata alla politica di Israele nei confronti della Germania. All'angolo di via King George un passante mi abbordò: - Aspettate un attimo. Il suo modo di fare non mi piacque. Non lo conoscevo. E non avevo né il tempo né la voglia di fare la sua conoscenza. - Scusatemi, - dissi - ma vado di fretta. Lui mi si attaccò al braccio. 173 - Non andatevene - disse con tono imperioso. Non ancora. Vi devo parlare. Parlava un ebraico incerto. Doveva trattarsi senza dubbio di un turista o di un immigrato recentemente arrivato. Un pazzo forse, un visionario o un mendicante: non ne mancano nella città eterna. Io cercai di liberarmi, ma lui non mollò la presa: - Devo domandarvi una cosa. - Domandate, ma fate presto. - Vi ricordate di me? Non volendo arrivare in ritardo, mi affrettai a rispondere che si stava sicuramente sbagliando e che mi confondeva con qualcun altro. Mi spinse indietro con un gesto violento: - Non vi vergognate? - Per niente. Che volete, la mia memoria non è 174 infallibile. E a quanto pare, neanche la vostra. Stavo per andarmene, quando l'uomo mi sussurrò una sola parola: «Saragozza». Rimasi inchiodato al suolo, incredulo, incapace di pensare, incapace di muovermi. Lui qui? Di fronte a me, con me? Mi trovavo improvvisamente in un mondo in cui l'allucinazione sembrava la regola. Assistevo, come dall'esterno, all'incontro di due città, di due epoche fuori dal tempo e, per convincermi che non stessi sognando, ripetei per dieci volte la stessa parola: «Saragozza, Saragozza». - Venite - mi disse l'uomo. - Ho qualcosa da farvi vedere. Quel pomeriggio non pensai più alla Knesset né al dibattito che per molto tempo sarebbe pesato sulla coscienza politica del paese. Seguii lo 175 spagnolo a casa sua. Anche qui occupava un modesto appartamento di due stanze. Ma non c'era nulla sui muri. - Aspettate - mi disse. Mi lasciai cadere in una poltrona mentre lui andava nell'altra stanza. Riapparve subito dopo con in mano una cornice contenente un pezzo di pergamena ingiallita. - Vedete, - mi disse - ho imparato a leggere. 176 Restammo insieme per tutto il pomeriggio. Bevemmo del vino, chiacchierammo. Lui mi parlò dei suoi amici, del suo lavoro, delle sue prime impressioni del paese. Io gli parlai dei miei viaggi, delle mie scoperte. Gli dissi: - Mi vergogno di aver dimenticato. Un sorriso indulgente gli illuminò la faccia: - Forse avete bisogno anche voi di un amuleto come il mio; vi impedirà di dimenticare. - Ve lo compro. - Impossibile, perché siete voi che me l'avete dato. Mi alzai per prender congedo. Fu soltanto al momento di lasciarci che il mio ospite, stringendomi la mano, mi disse con aria divertita: - A proposito, non vi ho ancora detto il mio nome. Aspettò qualche secondo per accentuare 177 l'effetto, mentre una luce calda e vivace animava il suo sguardo: - Mi chiamo Moshé ben Abraham, Moshé figlio di Abraham. 178 Moshé il pazzo Di tutti i volti che ossessionarono la mia infanzia quello di Moshé il pazzo resta il più vivo nella mia memoria. Come se io fossi per lui l'unico legame con la realtà ed egli lo fosse per me. Con gli anni avrò dimenticato certi miei compagni di giochi e la maggior parte degli amici conosciuti prima e durante la guerra. Non lui. Come se fossimo prigionieri l'uno dell'altro. Dovunque vada, lui mi precede. A volte non so più quale dei due segua l'altro. 179 Eppure so che è morto da tanto tempo; in realtà, la sua morte coincise con quella della mia infanzia. Ma lui si rifiuta di ammetterlo. Sembra abusare dei suoi privilegi di fuoco e di morte per negare i fatti. I fatti sono irrefutabili: condannato doppiamente in quanto ebreo e malato mentale senza mezzi di sussistenza, faceva parte del primo convoglio che lasciò il ghetto. Prima sosta: la vecchia sinagoga. Moshé ne approfitta per officiare il servizio. Rideva. Era il più grande giorno della sua vita: mai avrebbe potuto immaginare che avrebbe pregato in quel luogo illustre, davanti a un'assemblea di tremila persone. Seconda sosta: la stazione. Moshé cantava e ballava, forse per ridare coraggio agli altri, forse semplicemente perché era la prima volta che prendeva il treno. Terza e 180 ultima sosta: il marciapiede di un'altra piccola stazione sperduta, da dove non si ripartiva più. Marciando in testa al corteo silenzioso, Moshé continuava a cantare, sempre più forte, fino alla fine, come per farsi beffe di un nemico che solo lui conosceva. Quel nemico non è riuscito a far tacere quella sua voce grave e inquietante. Essa percorre il mondo, è pericoloso ascoltarla quanto non ascoltarla. Spesso, la notte, mi strappa dal sonno. Allora ritrovo la paura del bambino che ha paura di dormire solo. Sento la sua presenza nella camera, nell'angolo accanto allo specchio o davanti alla finestra che dà sul fiume. Rannicchiato nel letto, rimango sveglio fino al mattino; aspetto per osare di muovermi che mi giungano i primi rumori della città. 181 Un tempo mi avvicinavo a lui senza timore. Veniva spesso a casa mia. Mio padre era suo amico, suo confidente. Mi avevano avvertito: «Sii gentile con lui, è pazzo!». Io ignoravo il significato di questa parola. Lui stesso mi diceva: «Guardami bene in faccia, sono pazzo». Io lo guardavo senza capire. Alla gente che incontrava dieci volte nella stessa giornata si presentava sempre nello stesso modo: «Voi non mi conoscete, sono Moshé il pazzo». «Lo sappiamo, lo sappiamo», gli rispondevano scansandolo. «No, non abbastanza, non lo saprete mai abbastanza». Mi affascinava. La gente lo considerava con pietà, ma lui la dominava. Era dappertutto il centro, l'oracolo; si muoveva in un universo a parte, in un tempo a parte, e non dipendeva che da lui che noi vi fossimo inseriti. Indovinavamo in 182 lui una forza capace di distruggerci. La torbida fissità del suo sguardo gli dava un'aria beffarda, cattiva; con me, tuttavia, si mostrava buono, affettuoso. Io interrompevo volentieri le mie letture per andare ad ascoltare i suoi canti strazianti. Mi raccontava anche delle strane storie senza rivelarmene la conclusione. Diceva: «Solo l'inizio mi interessa; della fine me ne infischio, la conosco già». «E l'inizio?», gli domandai. «Conosco anche quello, ma cerco di cambiarlo». Interrompere lo studio del Talmud non era più un peccato se era per passare un'ora con lui. Ne sapeva più lui dei saggi e dei loro discepoli di duemila anni fa. Vedeva più lontano; i suoi silenzi racchiudevano una verità più segreta. Forse vi intravedeva il primo pazzo creato da Dio e al 183 quale doveva assomigliare. Ne derivava una visione più che delle conoscenze, un'ispirazione più che delle affermazioni. Fu lui il primo a farmi capire che potevo - che dovevo - pensare a me come a un estraneo; e che questo estraneo io dovevo - potevo - ucciderlo, a costo di lasciarmi annientare da lui. Piuttosto che rifiutare la sua follia, egli la invocava. Gli serviva da rifugio, da patria, e quando mi capita di visitare un manicomio ritrovo davanti a ogni malato quel terrore pieno di ammirazione che Moshé il pazzo mi ispirava. È lui il profeta che mi strizza l'occhio. È ancora lui il perseguitato che mi respinge. La giovane donna che culla beatamente un bambino invisibile: è lui che essa cerca di calmare. Hanno tutti il suo sguardo. 184 Mi capita anche di incontrarlo per la strada. E di sfiorarlo al ristorante, a teatro, di averlo come vicino in aeroplano. A volte mi dico che l'universo non è abitato che da un solo essere, che tutti i volti si fondono in un uno solo. Allora la ragazza con la quale passeggio mi sembra stupida; le parole di cui mi riempio suonano a vuoto; le amicizie si fanno ingombranti. Ho voglia di fuggire, ma Moshé il pazzo controlla le uscite. Armato di non so quale potere, egli ordina e io ubbidisco: la mia vita contro la sua. Per sfuggirgli dovrei eliminarlo. Ma come assassinare un angelo diventato pazzo? Un giorno credetti di aver trovato la soluzione: lo imprigionai in un romanzo. Con un tetto sopra la testa, un indirizzo, una casa, circondato da persone che gli dimostravano affetto, speravo che 185 mi avrebbe finalmente lasciato in pace. Fu solo dopo, finito il lavoro, che mi resi conto dello scherzo che mi aveva fatto: a mia insaputa, si era introdotto, come un ladro, negli altri personaggi, senza distinzione d'età, sesso o religione. Di volta in volta diceva io, tu, egli. Due esseri si parlavano: lui era entrambi contemporaneamente. Essi si tormentavano: lui era la causa e l'espressione della loro sofferenza. Sconvolto, rilessi i miei racconti precedenti: vi regnava da padrone. Anche qui mi aveva preceduto. E, cosa ancora più grave, si era concesso lo stato di residente temporaneo, entrando e uscendo a suo piacimento. Appena scoperto, già filava, più selvaggio che mai, verso nuove avventure dove mi trascinava di forza. A volte penso che io stesso non sia che un 186 errore, un malinteso: credo di vivere la mia vita mentre in realtà non faccio che tradurre la sua. Una mattina un lettore mi telefonò per chiedermi un colloquio. Parlava jiddish, e il suo accento strascicato e melodioso tradiva le sue origini ungheresi. Fui colpito da quella voce che mi sembrava familiare. - Con chi ho il piacere di parlare? - mi informai educatamente. Se si vergognava del suo nome, non si dette la pena di inventarsene uno. In compenso conosceva l'arte di perdersi in banalità: - Il mio nome? Perché me lo chiedete? Non lo conoscete. Inoltre, non ha importanza. Un nome cosa significa? Una convenzione, un'illusione. Cosa c'è di più menzognero di un nome? Vedete, il Signore non ne ha. 187 - Lui se lo può permettere - dissi fra il divertito e l'irritato. - Non si rischia di confonderlo con un altro. - Voi non ne sapete niente. Del resto, chi vi dice che questo non si potrebbe applicare anche a me? Dopo tutto, sono fatto a sua immagine, no? Ho già sentito questa voce aspra, inquieta, inquietante: dove? Quando? In quali circostanze? Forse è quella di un compagno dimenticato? Di un amico risuscitato? Di un vecchio vicino che aveva qualche debito nei miei confronti? - Ma io vi conosco? - Mi stupite: si può mai conoscere veramente qualcuno? Persi la pazienza. La stupidità, generalmente la sopporto; non i luoghi comuni. - Non perdiamo tempo, signore. Cosa desiderate 188 esattamente? - Ve l'ho detto: incontrarvi. - A che scopo? - Oh, niente di particolare. Vorrei vedervi, parlarvi, capirvi. - Mi stupite - replicai. - Si può mai capire veramente qualcuno? - Vi rifiutate? Non ne avete il diritto. Si degnò di spiegarsi: era ciò che si chiama un ammiratore. Sosteneva di aver letto alcune opere da me firmate. Voleva discuterne alcuni aspetti che lo toccavano personalmente. Non mi piace giocare al saggio in comunicazione diretta con l'aldilà. Non abito al castello, il principe non mi fa le sue confidenze. Non capisco mai perché certi uomini arrivino fino a sacrificare il loro prossimo per conquistare 189 gloria o felicità, quando alla fine è la notte che li attende. Come non capisco coloro che godono della propria disperazione, quando ogni istante nasconde la sua gioia, la sua scintilla di eternità. Ammiro il credente che osa proclamare che la vita è bella o atroce, e il non credente che pretende di governare l'uomo e la storia, da destra, da sinistra, verso il futuro, come se sapesse ciò che bisogna fare e quale lotta intraprendere: io non lo so. Ecco un essere che guarda la gente passare per la strada, i bambini che dormicchiano, troppo timido per avvicinarsi o per voltarsi; ecco un uomo che si cerca, e mi dico che le parole non sono che parole, che hanno l'impronta della nostra inettitudine più che della nostra sincerità. Non c'è alcun nesso? In realtà è proprio qui il problema. Secondo il Rebbe di Kotzk, fra le cose da dire ci sono quelle che si 190 possono dire e quelle che è meglio tacere; ma esse non valgono quelle che non si possono dire. - Allora vi rifiutate? - insistè il mio lettore. Non volete incontrarmi, solo perché il mio nome non vi direbbe niente? Ho già sentito questa voce, questo accento. - Concedetemi un'ora. Devo assolutamente vedervi. Si tratta della vostra città. Credo di riconoscerla. Non mi ero sbagliato. Veniva da un villaggio della mia regione. Si ricordava della mia città natale che aveva visitato parecchie volte all'anno. Si ricordava anche di Moshé il pazzo che in due occasioni funse da cantore per le grandi feste nell'unica sinagoga del suo villaggio. Io trasalii: Moshé il pazzo? Ma allora tutto cambiava. - Davvero? - esclamai eccitato. - L'avete 191 conosciuto? Quando? Com'era, di che umore era? Gli avete parlato? Cosa vi ha detto? Quando l'avete visto per l'ultima volta? - Mi fate troppe domande. Non sono cose di cui parlare al telefono. È su di lui che volevo interrogarvi. Ma il vostro tempo è prezioso. Peccato. Mi dispiace. - Aspettate! Non ho detto questo! - Mi è sembrato di capire che... - Dimenticate ciò che vi ho detto. Adesso ero io a insistere per fissare un appuntamento. Quando? Prima possibile. Subito? Non poteva liberarsi. Nel pomeriggio? Troppo occupato. La sera? Già impegnato. Faceva il difficile: non poteva vedermi che la settimana seguente. Io protestai, lui si lasciò convincere: per farmi piacere si sarebbe reso libero per il giorno 192 dopo. Dopo il suo lavoro, alle sette. Lo invitai a venire a casa mia. Troppo lontano: abitava a Brooklyn. In mancanza di meglio ci demmo appuntamento alla grande biblioteca comunale della 42a Strada. All'entrata. Saremmo andati a cena e avremmo passato la serata insieme. D'accordo? D'accordo. Per ogni evenienza, volevo dirgli com'ero fatto. Rispose che era inutile. Riattaccò ridendo, e il suo riso, ancora più della sua voce, mi sembrò familiare. Così, in questa città di pietra, un'altra persona aveva mantenuto viva l'immagine di questo cantore che faceva il pazzo sovrano, poi il pazzo decaduto, per provocare il cielo e divertire i bambini. Chi poteva essere? Un vecchio che ritornava sui propri passi un'ultima volta prima di maledirsi? 193 Suo figlio in cerca di passato, di ferite? Un orfano che voleva capire? Domani lo avrei saputo. Per il momento mi sarebbe bastata l'attesa. Mi sentivo già meno solo: la mia memoria stava per smettere di servirmi da prigione racchiudente altre prigioni sempre più anguste, sempre più soffocanti. Le porte stavano per aprirsi dal di fuori. Avrei finalmente avuto conferma che Moshé il pazzo era veramente esistito, che aveva avuto una sua propria vita, che non aveva fatto che forzare la mia immaginazione. Di questa prova tangibile, di questa testimonianza, ne avevo grandemente bisogno. Perché a forza di seguire il suo richiamo, di sentire il suo respiro, ero arrivato a dubitare della sua esistenza: la credevo il riflesso se non il prolungamento della mia. Mi accompagnava così 194 spesso e così lontano che finivo per confondere i nostri destini, i nostri slanci; cantavo come lui, pregavo come lui, come lui amavo scandagliare i silenzi degli altri, opporgli i miei. Ero lui. Pertanto, era con un sentimento prossimo alla gratitudine che pensavo al mio amico sconosciuto di Brooklyn: grazie a lui sarei tornato me stesso. Purché non gli capitasse nulla, non morisse prima, non perdesse la memoria... D'umore allegro mi recai nel mio ufficio alle Nazioni Unite. Convocato d'urgenza, il Consiglio di Sicurezza, incaricato di assicurare la pace e la stabilità nel mondo, esaminava la situazione esplosiva nel Congo. Scenario grandioso, pieno di colore, ma la rappresentazione lasciava a desiderare: azione lenta, testo debole, personaggi anemici. Niente suspense, niente tensione, niente 195 d'avvincente. Parlavano del destino dei popoli come se facessero quattro chiacchiere. Come impiegati che si raccontino gli ultimi pettegolezzi. Gli attori recitavano senza convinzione. Ognuno aveva già recitato più di una volta sia la propria parte che quella del vicino: conoscevano già le battute. Tutto ciò che potevano dire era già stato detto in una delle numerose crisi precedenti: Cuba, Cipro, Suez. I monologhi non variavano. Sembrava di sentire lo stesso discorso in tutte le lingue. Gli onorevoli delegati si lanciavano le stesse accuse, le respingevano nello stesso modo e invocavano gli stessi dei della pace, della libertà e del sacro diritto dei popoli a disporre di se stessi. I giornalisti scrivevano, gli osservatori di ogni tipo osservavano e i bravi turisti, nella galleria riservata al pubblico, non avendo capito nulla, se 196 ne sarebbero andati ancora più convinti di aver visto la Storia all'opera. Un collega mi domandò: 197 - Che ne pensi? - Vietato pensare in questo luogo, se non altro per pura educazione... - Credi che gli altri reagiranno? Abbassò la voce: - Credi che gli americani abbiano esagerato? Che, presi nell'ingranaggio, abbiano superato il livello di guardia? Capivo la sua angoscia, la condividevo. Avrei voluto poterlo rassicurare, dirgli: «Ma no, non ci sarà la guerra, non ci sarà più la guerra; non sono tutti pazzi i grandi di questo mondo». Ma il ricordo del mio pazzo mi attraversò la mente e non ebbi più voglia di parlare. Moshé il pazzo, Moshé il cantore. Morto ad Auschwitz. È ad Auschwitz che era nata la prossima guerra, è là che era stato ucciso l'avvenire dell'uomo. 198 - Cosa scriverai nel tuo telex di stasera? Dovevo preparare un lungo articolo sul dibattito in corso, ma non riuscivo a interessarmene. Non c'era nulla in comune fra l'indignazione dei diplomatici e i gemiti di agonia degli uomini che, nell'odio, per degli slogan, si uccidevano in Asia, in Africa, in Medio Oriente. - Oh, - dissi - il mio telex partirà in tempo. Troverò pure qualcosa. Una preghiera forse. - E domani? - Non ci sarà un domani: sarò messo alla porta. Il dibattito continuò fino alla fine del pomeriggio. Poi, per mancanza di oratori, la seduta fu aggiornata: gli illustri rappresentanti delle grandi e piccole potenze avevano fame. La pace del mondo poteva aspettare. A prezzo di uno sforzo considerevole scrissi il 199 mio resoconto. E siccome non ci tenevo a perdere il posto, omisi la preghiera. Fu mentre ritornavo a casa che, improvvisamente, un certo malessere mi invase: e se l'ebreo ungherese di Broo-klyn non fosse stato uno sconosciuto? Dovetti fermarmi in mezzo di strada e appoggiarmi al muro di un grattacielo. Ripensai al nostro colloquio che mi sembrò più strano di quanto mi fosse sembrato la mattina: perché si era rifiutato di dirmi il suo nome e di venire a casa mia? Perché aveva aspettato l'ultimo momento per fare il nome del cantore? E che cosa lo aveva fatto ridere? Ebbi coscienza di un oscuro pericolo. Se non era uno sconosciuto, chi era? Cosa voleva da me? Mi scrollai e mi rimisi a camminare. Si faceva tardi ed ero sfinito. Costeggiai il fiume: non c'era 200 anima viva. Eppure mi fermavo a ogni angolo per voltarmi: mi stavano seguendo? Trattenni il respiro: niente. I nervi, senza dubbio. Arriva una macchina, i suoi fari mi accecano, indietreggio. È passata. Chi la guidava? Non pensare a niente. Finalmente a casa. Il portiere mi apre la porta e mi guarda di traverso. Mi crede ubriaco, mi crede accompagnato. Salgo al ventiquattresimo piano. La mia camera. Ho paura ad accendere la luce. A tentoni vado verso il letto, mi spoglio al buio. Mi sento osservato. Dormire. Rifugiarsi nel sonno. Mille mani si tendono verso di me e mi invitano: io ho paura, ma lascio che mi prendano, voglio arrendermi a quella voce, capire perché mi suonava così familiare; ho paura, ma voglio capire perché ho paura fino nel sonno. Un'ora prima dell'appuntamento mi appostai 201 davanti all'entrata della biblioteca. I grandi magazzini riversavano i loro clienti nella strada. Pedoni e automobilisti ingaggiavano la loro battaglia quotidiana per la disperazione dei vigili urbani. Ingorghi a non finire. Il caldo dava ai passanti un'aria rassegnata, spenta. Uomini e donne, giovani e vecchi si tenevano per mano. Gli uni per abitudine, gli altri per non perdersi. La folla cresceva a vista d'occhio. Appena fatto un passo, si doveva subito fermare. Si aveva l'impressione che mai quella massa amorfa si sarebbe allontanata da quel posto. Immobile, in disparte, scrutavo quei volti sudati: avrei riconosciuto colui che aspettavo? Nello stesso tempo, speravo di non incontrare nessun altro. Ovviamente, accadde subito. O quasi. Una ragazza apparve in cima alle scale dell'immenso 202 edificio. Studentessa, mi veniva a trovare tutte le volte che attraversava una «crisi». Cosa che le capitava spesso. Mi piaceva, ma non mi offriva l'occasione di dirglielo: solo i cosiddetti problemi spirituali le interessavano. Io la invitavo a cena o al concerto: lei preferiva parlare, parlare. Io lodavo la sua bellezza, lei rispondeva «Grazie!». E già cambiava argomento, voleva sapere che spazio restasse all'azione individuale nella storia del nostro tempo, o come un ebreo potesse, in un secolo sanguinario, vivere da ebreo, pienamente, senza ferire gli altri né umiliare se stesso, o ancora se fosse possibile per un creatore assumere la propria condizione in un ambiente che non gli fosse ostile. Io la stuzzicavo: «E all'amore non ci pensate mai?». No, non ci pensava mai. La trovavo piena di attrattive quanto di complessi: 203 tanto affascinante quanto nevrastenica. Ma mi piaceva. Ed eccola lì che, con passo leggero, si mise a scendere le scale, dritta su di me, nel momento meno opportuno. Fuggire? La folla mi avrebbe respinto. E poi avrei rischiato di mancare all'appuntamento. Decisi dunque di restare. Pregai che avvenisse un miracolo. Contro ogni previsione, la mia preghiera venne esaudita. La ragazza, fingendo di non avermi visto, corse incontro a un ragazzo che si trovava a qualche passo da me. Dal modo in cui si baciarono capii che con lui non si limitava a discutere dell'immortalità dell'anima. Alle sette in punto un uomo mi si avvicinò e mi fissò. Non mi aveva riconosciuto: sono cambiato da quando ho lasciato la mia città. Ma io l'ho 204 riconosciuto. Gli occhi ardenti, le labbra gonfie, le spalle curve. Il resto importava poco. L'apparenza non contava. Un tempo andava vestito solo di stracci. Adesso sembrava elegante nel suo vestito grigio chiaro, con la sua cravatta intonata. Un tempo giocava al mendicante; adesso giocava al ricco. - Moshé - mormorai con voce strozzata. Mi tese la mano: - Buongiorno. Piacere di fare la vostra conoscenza. State bene? La sua voce grave e melodiosa. I movimenti esitanti. Lo 205 sguardo fosco, supplichevole e beffardo allo stesso tempo. - Non tanto bene, Moshé, non tanto bene. Non credevo ai miei occhi. La testa mi scoppiava. Lui teneva la mia mano nella sua e io non avevo la forza di ritirarla. Mi dissi: «Bisogna riflettere, e alla svelta». Ma non osai riflettere. Chissà dove mi avrebbe portato il mio pensiero. Se Moshé il pazzo era vivo, allora tutti gli scomparsi, perduti nella nebbia, erano vivi; nel regno della notte era accaduto qualcosa che noi ancora ignoravamo, qualcosa di ben diverso da ciò che credevamo. Mi lasciò la mano e mi fissò curiosamente, come per mettermi alla prova: - Mi avete chiamato Moshé: perché? - Oh, non lo so. Per inavvertenza, per abitudine. È un nome che amo, contiene la storia del nostro 206 popolo. Il primo ebreo a chiamarsi così fu il primo sopravvissuto alla morte organizzata: MosèMoshé. Noi abbiamo ricevuto in eredità non soltanto la sua Legge ma anche il suo nome. E ciò che ne consegue. Era lui, il mio amico, il cantore pazzo, che mi fissava, non c'era dubbio. L'ho visto andarsene verso la morte ed è ancora la migliore prova che sia rimasto vivo: tutti coloro che sono entrati, di notte, nel crogiolo della morte, ne sono emersi, di giorno, più sani e più puri degli altri che non li avevano seguiti. Improvvisamente capii perché mi aveva ossessionato dopo la liberazione: lo vedevo dappertutto perché si trovava dappertutto, in ogni occhio, in ogni specchio. I morti sono tornati sulla terra, tutti simili a lui; lui era il primo anello di 207 questa dinastia di pazzi, era il destino fatto persona. Non aveva più la sua grande pancia né la sua barba selvatica. Non portava più il suo scialle rituale, il suo tallèth katàn, sotto la giacca rattoppata. Ma era lo stesso Moshé che gridava nella strada, davanti alla sinagoga, all'ora della preghiera: «Brucio, ragazzi, brucio come il fuoco! Guardate, ragazzi, guardate, e sappiate che tutti possono bruciare senza consumarsi!». Lo credevano ubriaco. Gli piaceva bere. Durante le feste, si recava dai vari gruppi chassidici interrompendo le loro riunioni, saltava sulla tavola e vuotava d'un colpo le bottiglie che gli porgevano. Era il re buffone, il profeta folle che si poteva permettere tutto. Più beveva e più le sue parole diventavano chiaroveggenti. Gridava: «Eh 208 sì, brucio, ragazzi, guardate e capite finalmente che è col fuoco che si accende il fuoco, ed è col fuoco che lo si spenge: guai a chi lo spenge, guai a chi se ne allontana! Guardate, ragazzi, guardate e vedete come mi ci precipito a testa bassa!». - Andiamo a prendere qualcosa - suggerì il miocom-pagno. - Perfetto. Andiamo a mangiare. E a bere. Dobbiamo. Come una volta. Trovammo un ristorante cashèr nella 46° Strada. Il cameriere mise una bottiglia di slivovitz sul tavolo. Brindammo. Io dissi: - Moshé il pazzo beveva da solo. Io avrei dovuto tenergli compagnia, ma ero troppo giovane. Mi domando se adesso è troppo tardi.. Riempii i bicchieri una seconda volta. Una terza. Vuotavo i miei d'un colpo; lui beveva lentamente. 209 Pensai: «È comunque cambiato. Un tempo si mostrava impaziente, avrebbe voluto precedere il tempo. Era forse già arrivato alla fine della corsa?». - Ho letto ciò che avete scritto su Moshé il pazzo - mi disse abbozzando una smorfia. Sembra che lo conosciate meglio di me. - Meglio di voi? Forse in modo diverso da voi. - No. Meglio di me. La prova: voi ne parlate, anima i vostri racconti. È per questo che ci tenevo a conoscervi. Cosa sapete di lui, delle sue radici, delle sue ambizioni, dei suoi progetti segreti? Siete sicuro che era come lo descrivete? Che non si serviva della sua follia per raggiungere uno scopo che lui solo conosceva? E poi, siete certo che fu ucciso ad Auschwitz? Io avrei voluto interromperlo, dirgli: «Mi avete 210 capito male, mi sono espresso male, ho scritto male e voi mi avete letto male. Adesso so la verità, e la verità è che Moshé il pazzo non è morto e non morirà mai, così come la sua immaginazione non si spengerà mai». Ma non dissi nulla e lasciai che le sue frasi mi piovessero addosso come un castigo giusto e meritato. Alla fine, non potendone più, esclamai: - Cosa volete da me? Che vi ho fatto? Chi vi dà il diritto di giudicarmi, di incriminarmi? Moshé il pazzo? Lui non condannava nessuno; voi sì. In nome di che cosa? In nome di chi? Mise il braccio sul mio per calmarmi: - Ve la state prendendo, ma non vogliatemene. Vi ho irritato, vi chiedo scusa. Pensai: «Eh sì, è cambiato. Moshé il pazzo non ha mai chiesto scusa a nessuno, neanche a Dio, 211 soprattutto non a Dio». Bevve un sorso e continuò su un tono un po' più basso: - Ero così curioso che mi sono approfittato della vostra gentilezza, capite? - Non ne parliamo più. Beviamo. Il modo migliore di ricordare il cantore è bevendo. Per farsi perdonare mandò giù il contenuto del suo bicchiere e poi, dopo una esitazione, continuò: - Un'ultima domanda. Forse vi ferirà. Voi parlate di lui con amore. Sempre. Voi parlate di lui come io di mio padre. Questo perché? Volle raccontarmi la sua vita, le sue esperienze di prima, durante e dopo la guerra. Io non ci tenevo per niente a saperle. Mi imbrogliavo, mi arrabbiavo, i pensieri mi si aggrovigliavano, mi ci perdevo. 212 - Torniamo piuttosto alla vostra domanda. Perché lo ricordo con amore? Perché nessuno lo fa. Perché non era né padre né figlio di nessuno. Senza famiglia, senza legami, senza lavoro: un uomo libero. Nulla lo tentava o lo spaventava. Volubile, solitario, faceva della sua follia una gioia contagiosa e della sua solitudine un bene pubblico. Guida, mostrava la via. Visionario, non beveva mai due volte nello stesso bicchiere e non iniziava mai due volte la stessa esperienza. Come avrei potuto ricreare la sua immagine senza amore, il suo destino senza invidia? Avrei potuto continuare così fino al mattino, ma tacqui. Improvvisamente mi venne in mente che in fondo noi non sapevamo nulla di lui, tranne ciò che lui ci costringeva a vedere. Forse aveva avuto una famiglia in un villaggio vicino, forse aveva 213 amato una donna, nutrito dei bambini. Cosa potevamo dire esattamente? Che si dichiarava pazzo, che confondeva felicità e povertà, lucidità e allucinazione. Ma il resto? Ma la faccia che non mostrava mai? Fui assalito dai dubbi. Gettai un altro sguardo all'ebreo di Brooklyn - La verità - gli dissi sottovoce. - Esigo che mi diciate la verità. Voi possedete delle informazioni di cui ho bisogno. Datemele. Chi siete? Perché il cantore vi interessa? Siete forse suo fratello? Suo amico? Il suo vendicatore? Siete forse... suo figlio? La mia domanda sembrò sorprenderlo. Diventò rosso, cominciò a sbattere le palpebre, preso da un tic nervoso che non cercava neanche di controllare. Dopo un attimo di silenzio si riprese e scoppiò a ridere: 214 - Ma state scherzando! State sragionando! Ah, che immaginazione che avete! Io, il suo vendicatore! Io, suo figlio! - Voi ridete, ma questo non prova niente. Ridete per nascondere il vostro gioco, ma io vedo attraverso di esso. Ditemi chi siete e spiegatemi cosa fate qui, davanti a me. Devo sapere tutto, vi dico. Ridiventò serio e si mise a guardarsi le unghie. Gli occhi mi si annebbiarono: - Allora? Non avete più nulla da dire? Peccato. Se Moshé il pazzo fosse qui saprebbe vincervi. Ma non è più di questo mondo. Ciò non toglie che io l'abbia conosciuto e seguito dappertutto e fin qui. Questo deve provare pure qualcosa, ma morirò senza sapere cosa. Si mangiava le unghie, il sudore gli imperlava la 215 fronte. Gli facevo paura, era evidente. Per il fatto che l'avrei smascherato? O perché egli aveva appena intravisto l'altra faccia del cantore? Oppure perché mi prendeva per Moshé il pazzo in persona? Tristemente, scosse la testa più volte, poi si alzò di colpo per annunciarmi con voce balbettante e inebetita che doveva andarsene. Come attraverso una nebbia, lo vidi dirigersi verso l'uscita; si fermò alla cassa, pagò il conto, dette una mancia al cameriere, si voltò per lanciarmi un'ultima occhiata e sparì. Avrei dovuto trattenerlo, corrergli dietro, costringerlo a confessare tutto. Il cantore lo avrebbe fatto, ma io ne ero incapace: avevo bevuto troppo. Mi misi a osservare distrattamente i clienti che, per fortuna, non si curavano di me. Giovani coppie si sorridevano e dimenticavano di 216 mangiare; gente anziana degustava i piatti in silenzio, come per dispetto. A poco a poco il locale si vuotò. Mi alzai anch'io e uscii barcollando. Mi ritrovai presto in Times Square, questa fiera dove le anime disperate vengono a liberarsi delle loro ombre angosciate. Immersi nelle luci al neon, storditi dalla musica dei jukebox, alcuni passanti solitari si trascinavano da un bar all'altro. Per tutta la notte camminai senza una meta. Poi ripresi la strada di casa, lungo il fiume, rinvigorito dal fresco vento del mattino. Gli effetti dell'alcool scomparivano, riacquistavo il mio equilibrio, cominciavo a veder chiaro. Il mio comportamento al ristorante mi riempì di vergogna: avevo dato spettacolo di me. Tutto sommato, l'ebreo di Brooklyn, di cui ignoravo ancora il nome, non era altro che un lettore 217 curioso che desiderava incontrare qualcuno del suo paese. Il resto era opera della mia immaginazione malata. Lui, il poveretto, non c'entrava affatto. Benedetto Moshé, pensai sorridendo: mi hai giocato un altro tiro. Non cambierai mai. Tuttavia, da questo episodio ricavo una domanda che devo aggiungere a tutte quelle che riguardano il cantore della mia città. Forse, nella mia ubriachezza, avevo visto giusto dopo tutto. Forse Moshé il pazzo, non essendo figlio di nessuno, è padre di tutti noi. 218 L'ebreo errante Nessuno conosceva il suo nome né la sua età. Forse non ne aveva. Non voleva sentir parlare di ciò che generalmente definisce un uomo, o almeno lo individua. Col suo comportamento, il suo sapere, le sue prese di posizione molteplici e contraddittorie, pretendeva di incarnare l'ignoto, l'incerto: la testa nelle nuvole, si serviva della sua scienza per oscurare la chiarezza, qualunque essa fosse, da qualunque luogo venisse. Amava spostare i punti fissi, distruggere ciò che sembrava solido: rimproverava a Dio di aver inventato 219 l'universo. Da dove veniva? Quali erano state le sue gioie, i suoi timori? Cosa cercava di raggiungere, di dimenticare? Nessuno lo sapeva. Aveva mai conosciuto in vita sua la donna, la felicità, la delusione? Mistero sette volte sigillato. Parlava di se stesso solo per disorientare: sì e no si equivalevano, il bene e il male andavano nella stessa direzione. Le sue teorie le costruiva e le demoliva in un soffio, usando gli stessi mezzi. Più lo si ascoltava e meno si sapeva sulla sua vita, sul suo mondo. Possedeva il potere sovrumano di rifarsi un passato. Ispirava paura. Anche ammirazione, certamente. Dicevano di lui: «È una persona pericolosa, sa troppe cose». A lui piaceva che lo dicessero. Voleva essere solo, strano, inaccessibile. 220 Appariva un po' dappertutto, sempre all'improvviso, per scomparire una settimana dopo, un anno dopo, senza lasciare tracce. Sarebbe riapparso, sempre per caso, dall'altra parte di una frontiera, di una montagna: come rabbino miracoloso, uomo d'affari, inserviente di sinagoga. Aveva fatto più volte il giro del mondo, senza denaro, senza documenti; non si saprà mai come e a che scopo. Forse lo aveva fatto proprio perché nessuno sapesse mai il perché. Il suo luogo di nascita era di volta in volta Marrakech e Vilna, Kishinev e Safed, Calcutta e Firenze. Forniva tante prove, tanti particolari che ogni volta finiva col convincere tutti che era finalmente quella la verità. Poi il giorno dopo l'edificio crollava: descriveva, incidentalmente, l'atmosfera incantata della sua città natale da 221 qualche parte della Cina o del Tibet. L'enormità delle sue esagerazioni superava il livello della menzogna: era già una concezione del mondo. Risultato dei suoi viaggi reali o immaginari? Parlava molto e bene. Conosceva una trentina di lingue fra antiche e moderne, compreso lo hindi e l'ungherese. Il suo francese era puro, il suo inglese perfetto e il suo jiddish si armonizzava con l'accento dell'interlocutore. I Veda e lo Zohar li recitava a memoria. Ebreo errante, si sentiva a casa propria in tutte le culture. Sempre sporco, irsuto, aveva l'aria di un barbone divenuto pagliaccio, o di un pagliaccio che giocava a fare il barbone. Portava un cappello minuscolo, sempre lo stesso, su una testa immensa, rotonda, gonfia; i suoi occhiali, dalle lenti spesse e polverose, gli annebbiavano lo 222 sguardo. Chiunque lo incontrasse per strada senza conoscerlo lo scansava con disgusto. Con sua grande soddisfazione, del resto. Per tre anni, a Parigi, io fui suo allievo. Accanto a lui, imparai molte cose sui pericoli del linguaggio e della ragione, sui furori del saggio e del folle, sul misterioso progredire di un pensiero attraverso i secoli, di un dubbio attraverso i pensieri, ma niente sul segreto che lo insidiava o lo proteggeva da un'umanità malata. Il nostro primo incontro fu breve e tempestoso. Ebbe luogo in una piccola sinagoga, in rue Pavé, dove andavo spesso il venerdì sera ad assistere alla funzione nel corso della quale si accoglie il regno dello Shabbàt. 223 Dopo la preghiera, i fedeli circondarono un vecchio dal fisico ripugnante che, con grandi gesti, si mise a spiegar loro la parashà - il passo biblico - della settimana. La voce era rauca, sgradevole. Parlava rapidamente, le frasi si accavallavano, lo si seguiva difficilmente e lui lo faceva apposta: confondere il suo pubblico lo divertiva. Si capiva ogni parola, ogni idea, e tuttavia si aveva l'impressione di sbagliarsi, che il vecchio si burlasse di coloro che pretendessero di capire. Ma non si riusciva a resistere: lasciarsi afferrare diventava un piacere, malsano, dell'intelligenza. Improvvisamente, a metà di una frase, mi intravide. Si interruppe: - Chi sei? Gli dissi il mio nome. 224 - Straniero? - Sì. - Profugo? - Sì. - Da dove? - Oh, - dissi - da lontano, da laggiù. - Osservante? Non risposi. Lui ripetè: - Osservante? Io continuai a non rispondere. Lui fece: - Ah, capisco. E proseguì l'interrogatorio senza preoccuparsi del mio imbarazzo: - Studente? - Sì. - Di che cosa? - Mi piacerebbe studiare filosofia. 225 - Perché? Non risposi. Ma lui insistè: - Perché? - Cerco. - Cosa cerchi? Stavo per correggerlo: «chi» e non «cosa», ma lasciai perdere e risposi: 226 - Non so ancora. Lui non ne rimase convinto: - Cosa cerchi? - Una risposta. La sua voce si fece tagliente: - Una risposta a che cosa? Stavo per correggerlo: «a chi» e non «a che cosa», ma cercavo la strada più semplice: - Alle mie domande. Emise una risatina stizzosa: - Ma ne hai domande? - Sì, ne ho. Allungò la mano: - Dammele, te le renderò. Confuso, lo guardai senza capire. - Sì, - disse - te le renderò risolte. - Come! - esclamai. - Voi possedete le risposte 227 alle domande? E lo dichiarate pubblicamente? - Certamente - disse. - E se ne vuoi la prova, te la fornirò seduta stante. Tacqui per un secondo e poi dissi: - No, in questo caso preferisco credervi sulla parola. - Questo non mi piace - replicò innervosendosi. - Non ci posso far niente - dissi arrossendo. - Ma se voi potete rispondere alle mie domande, allora non ne ho più. Il vecchio - settant'anni? di più? - mi fissò per un lungo momento, come pure i fedeli. Improvvisamente ebbi paura; mi sentivo minacciato. Dove nascondermi? Il vecchio piegò in avanti la sua pesante testa. - Fammi lo stesso una domanda - disse con tono conciliante. 228 - Ve l'ho detto: non ne ho più. - Ma si. Una sola. Una qualunque. Vedrai, non te ne pentirai. Non hai nulla da temere. Io non ero così convinto. Al contrario, avevo tutto da temere. La prima sottomissione ne avrebbe portata un'altra. Non sarebbe più finita. 229 - Allora? - disse il vecchio, amichevolmente. Una sola domanda... La mia ostinazione gli fece corrugare la fronte; un nero bagliore gli attraversò lo sguardo: - È pura stupidità, ragazzo mio. Ti offro una scorciatoia e tu la rifiuti: sei sicuro di averne il diritto? Chi ti dice che la tua venuta in Francia avesse uno scopo diverso da quello d'incontrarmi? Il cuore mi batteva forte, mentre stringevo le labbra. Ascoltavo la voce interiore che mi metteva in guardia; mi trovavo a un crocevia, bisognava fare attenzione, aprire gli occhi, mantenere il silenzio, evitare di avventurarsi su un sentiero che non sarebbe stato il mio. - Allora? Scegli la testardaggine? Hai perso la lingua? La memoria? O ti credi abbastanza forte da disubbidirmi? 230 Stava perdendo la pazienza. La mia paura aumentava, soffocavo. Da bambino vedevo in ogni straniero un messaggero: non dipendeva che da me ricevere la sua promessa o la sua maledizione. I miei maestri mi avevano insegnato di non fidarmi mai delle apparenze, di subire mille umiliazioni piuttosto che infliggerne una sola. Secondo il Talmud, umiliare qualcuno in pubblico equivale a versare il suo sangue. Rifiutarsi di entrare nel gioco del vecchio significava colpirlo nel suo onore. - Ti decidi? - mi domandò con l'occhio cattivo. Aprirai finalmente la bocca? Con difficoltà, prudentemente, per farla finita, riuscii a interrogarlo su un passo qualunque della Bibbia. Domanda troppo facile per i suoi gusti. Ne pretese un'altra. Ancora troppo facile. Un'altra. 231 Con la faccia congestionata mi spinse a continuare: - Mi prendi in giro? Su, lanciati, corri fino in fondo, fino all'oscurità e riportami ciò che ti sfugge, ciò che ti sconcerta. Al decimo o dodicesimo tentativo si dichiarò più o meno soddisfatto. Chiuse gli occhi e si lanciò in una spiegazione la cui acutezza e il cui rigore mi sbalordirono. Già gli appartenevo, già gli affidavo la mia volontà. Lui parlava e io non potevo che ammirare l'ampiezza delle sue conoscenze, la ricchezza del suo pensiero. Le sue parole abolivano le distanze, gli ostacoli; non c'era più inizio né fine, non c'era che la voce rauca e sgradevole di un uomo che spiegava al Creatore i misteri e le sconfitte della sua creazione. - È bello - gli dissi quando ebbe finito. Ero 232 emozionato e avrei voluto stringergli la mano. E dirgli: «Voi mi turbate, io vi seguirò». Ma improvvisamente cambiò espressione e io non osai muovermi. Il suo volto gonfio si fece di porpora, indignato. Si avvicinò, mi afferrò per le spalle, mi scosse violentemente e si mise a urlare con disprezzo: - È questo tutto ciò che trovi da dire? Che è bello? Imbecille, della bellezza me ne infischio. Non è che apparenza, scena: le parole svaniscono nella notte senza arricchirla. Quand'è che capirai che una bella risposta non è nulla? Nient'altro che un'illusione. L'uomo si definisce per ciò che lo inquieta e non per ciò che lo rassicura. Quand'è che capirai che vivevi e cercavi nell'errore, perché Dio significa movimento e non spiegazione? Dopodiché si interruppe e uscì precipitosamente 233 lasciando dietro di sé la sua pesante e misteriosa collera. Qualcuno scoppiò a ridere e mi consolò: - Non te la prendere, giovanotto. È strano nei suoi rapporti con la gente che l'ammira o lo fugge. Non bisogna volergliene, cosa che del resto vorrebbe dire cadere nella sua trappola. Non bisogna prendere a cuore i suoi insulti. Gli piace provocare sofferenza, è il suo passatempo preferito, il suo stimolante. Ha già ridicolizzato persone più anziane di te, e anche più sapienti. Non potrebbe vivere senza la sua vittima quotidiana. Così, per la prima volta, mi imbattevo nella sua leggenda. Appresi diverse storie in cui si esaltavano i suoi poteri; sapeva tutto sugli altri mentre lui rimaneva nell'ombra. Aveva letto tutte 234 le opere importanti o singolari, penetrato ogni segreto, visitato ogni paese; si sentiva a casa dappertutto e in nessun luogo. Nessuno sapeva dove abitasse, di che vivesse. Chi erano i suoi amici, i suoi rivali? Lo chiamavano Rebbe e non sapevano neanche se era osservante. Non riconosceva nessuna legge, nessuna autorità, né quella della comunità né quella dell'individuo: si sottometteva alla volontà divina? Mistero anche su questo. Sembrava sempre arrivare all'improvviso da qualche lontano lido, da qualche contrada incantata. Gli anni non avevano effetto sul suo corpo, né sul suo cervello; non invecchiava. Restava uguale a se stesso, sfidando l'immaginazione, provocando il tempo. Fino a sera inoltrata gli ebrei mi parlarono di lui e io ascoltavo, teso fino al dolore, come un tempo 235 avevo ascoltato, bambino meravigliato, i racconti che i chassidim si narravano fra la preghiera di minchà e quella di arvìt sui miracoli compiuti dallo Zaddik, compagno e servitore del Signore. - Non te la prendere, giovanotto - mi ripetè l'uomo che cercava di consolarmi. - È un privilegio farsi insultare dal nostro visitatore. - Ma chi è? Cosa fa quando non ha vittime sotto mano? Dove si nasconde e perché? Come raggiungerlo? Gli ebrei alzarono le spalle. Gli uni lo credevano favolosamente ricco, gli altri totalmente povero. «È un pazzo che se la ride a nostre spese», dichiarò un vecchio barbuto. Il suo vicino protestò: «Ma no, è un santo, un Giusto, e la sua missione sulla terra è quella di scuoterci; abbiamo tutti bisogno di tanto in tanto di una scrollata, non 236 è vero?». Il barbuto assentì: «In effetti, hai ragione, ne abbiamo bisogno, sennò l'anima marcirebbe nel suo guscio; però vi dico che il nostro visitatore non mi piace, non mi fido di chi non si fida di me; credo che sia al servizio di Satana, è Satana che lo protegge e gli assicura le sue vittorie. A che fine, a che prezzo? Vorrei saperlo, ma ho paura di saperlo». Qualcuno si ricordò del seguente episodio. Durante la guerra, il nostro oratore ambulante fu arrestato dai tedeschi. Interrogato da un ufficiale della Gestapo, si dichiarò alsaziano, ariano e, per giunta, professore di matematica in una università tedesca. L'ufficiale scoppiò a ridere: - Tu insegni all'Università? Tu? E pensi che ci creda? - Certo - disse il barbone senza batter ciglio. 237 - Fammi vedere i tuoi documenti. - Li ho perduti. In un bombardamento. Allora l'ufficiale gli si accostò e gli disse: - Sei cascato male, ebreuccio. Anch'io sono professore di matematica. L'ebreo non si perse d'animo: - Che fortuna, caro collega! Piacere di fare la vostra conoscenza! Potrei naturalmente proporvi di interrogarmi, ma avrei una proposta migliore: sarò io che vi sottoporrò a un esame. Ecco un problema. Se ne trovate la soluzione, fucilatemi: vi prometto che non protesterò. Se non la trovate, lasciatemi partire senza volerne sapere di più. L'ufficiale accettò l'offerta. Il «professore» si ritrovò libero e poco dopo riuscì a passare in Svizzera, dove il rabbino capo diventò uno dei suoi devoti ammiratori. Come aveva fatto a 238 passare la frontiera? - Nulla di più logico - disse il vecchio diffidente. - È Satana che venne in suo aiuto. - Ma no - replicò il suo vicino. - Ti immagini Satana che aiuta un ebreo a salvarsi la pelle! Io sostengo che il nostro visitatore è un santo, cosa che spiegherebbe tutto. La morte non aveva potere su re David quando cantava i suoi salmi, e così non ha potere sul nostro visitatore quando disturba il nostro torpore. Come tutti noi, essa teme le sue collere. Quella notte non potei né volli dormire. Lasciata la sinagoga, camminai per le strade e i vicoli della città assopita, trascinato dall'inconfessata speranza di vederlo apparire davanti a me, dietro di me, improvvisamente, come un malfattore, come un saggio travestito da mendicante, per dirmi: 239 «Sta spuntando l'alba, seguimi». L'alba spuntò, io tornai a casa solo. Dovevo ritrovarlo a qualsiasi costo. Era lui che cercavo dalla fine della guerra, dalla morte dei miei maestri, da quando il loro fuoco si era consumato in un rogo, da qualche parte della Slesia. Lui solo avrebbe potuto prendere il loro posto e indicarmi la via da seguire, e forse rivelarmi anche dove portava. Ritrovarlo, affrontarlo, supplicarlo. Ma dove? Con l'aiuto di chi? A partire da quale indizio, da quali complicità? Ritornai spesso nella sinagoga di rue Pavé; i fedeli mi conoscevano già e sapevano il vero scopo delle mie visite: non era Dio che mi attirava. Si burlavano di me con indulgenza: «Ehi, giovanotto, desideri ancora farti insultare?». Io rispondevo: «Sì». Loro sorridevano: «Abbi 240 pazienza, giovanotto, vedrai che tornerà; torna sempre, ma è impossibile prevedere quando, con lui non si può prevedere niente». Sì, l'ebreo errante era lui. Era ancora in Francia? Lo si credeva qui, ed era già altrove, sempre altrove, in India, in Marocco, a Katmandu, nel cuore del deserto o in mezzo al mare: come saperlo? Con lui le certezze diventavano polvere. Alcuni mesi dopo. Gare du Nord. Prendevo il treno per Taverny. Mi ci recavo due volte alla settimana per tenere un corso sui profeti a un gruppo di giovani profughi polacchi e ungheresi, tutti reduci dai campi di concentramento; di passaggio in Francia, abitavano in un castello dell'OSE mentre aspettavano il visto per la Palestina. Immerso nei miei quaderni, riguardavo la 241 lezione, quando qualcuno mi rivolse la parola. Trasalii: quella voce rauca, sgradevole. Sì, era lui. Mal rasato, coperto di stracci, con in testa il suo eterno minuscolo cappello: un personaggio da circo. - Vieni! - mi gridò a pieni polmoni. - C'è un posto qui accanto a me! I passeggeri ci lanciarono occhiate di disapprovazione. Io mi sentivo allo stesso tempo imbarazzato e sollevato; imbarazzato di essere visto in compagnia di un essere così brutto, ma sollevato di averlo finalmente rincontrato quando ormai non credevo più di rivederlo. - Dove vai? 242 Gli spiegai lo scopo del mio viaggio. Lui dette libero sfogo alla sua ironia: - No, davvero? Straordinario! Mi aspettavo di tutto, tranne questo. Eccoti professore, tu! Non ci resta altro da vedere! Il cercatore diventato guida, è così? Be', parlamene. Dimmi cosa gli racconti ai tuoi allievi. Che ne approfitti anch'io, vuoi? Io non volevo, ma lui insistè. Preso da un senso di disagio, non potei fare a meno che ubbidire, balbettando alcune frasi incoerenti sul libro di Giobbe: era di moda, ogni sopravvissuto all'Olocausto avrebbe potuto scriverlo. Nelle mie lezioni parlavo della nascita del dialogo fra l'uomo e il suo simile. E fra Dio e Satana. Mettevo anche in risalto l'importanza attribuita al silenzio come paesaggio spirituale. Mi occupavo poi dell'idea d'amicizia e di giustizia, e in che misura 243 l'una diminuisce l'altra. E del concetto di vittoria nel pensiero profetico. L'uomo che cos'è? L'alleato di Dio o semplicemente il suo giocattolo? Il suo trionfo o la sua caduta? Fingendosi interessato, il mio compagno mi fissava con condiscendenza. Si divertiva, era evidente. Non mi interrompeva, ma emetteva bruschi brontolii che aumentavano il mio turbamento: non sapevo più cosa dicevo, né ciò che cercavo di provare. Nella mia mente tutto si confondeva, mi sentivo parlare ed era un altro che recitava una lezione sconclusionata; tutto suonava falso. Infine mi fermai, esausto, sull'orlo delle lacrime. - È tutto? - si informò il barbone, implacabile. - Sì, credo... - Ebbene, povero Giobbe, - ridacchiò - come se 244 non avesse sofferto abbastanza senza di te! Dopodiché mi sottomise a un interrogatorio serrato che doveva essere il colpo di grazia. Il mio sapere, acquisito durante lunghi anni a prezzo di tante notti insonni e di tante rinunce, si disperdeva adesso come sabbia. Credevo di conoscere il Talmud? Errore. Pensavo di capire i commenti di Rashì? Illusione. I salmi li recitavo a memoria? Pura presunzione, perché non ne afferravo neanche il primo verso. 245 Il sangue mi martellava le tempie, un vago dolore si diffondeva in tutto il mio corpo. Avevo dunque vissuto per niente, barando, mentendo a me stesso. Avevo dunque sprecato la mia infanzia, la mia giovinezza; le mie esperienze non erano che ostentazione. Come Giobbe, maledicevo il giorno della mia nascita, mi auguravo di morire, di scomparire, per cancellare la mia vergogna, per riscattarmi. Il barbone trovava tutto questo piuttosto buffo. Più parlavo e più affondavo nella mia ignoranza. Sfioravo la follia, stavo per perdere l'uso della parola, per ritornare bambino, muto, innocente. Mi misi a pregare: «Fa', o Signore, che si arrivi presto a Taverny, prima che sia troppo tardi, perché non ne posso più». Taverny significava la terra promessa; lì, torturatore e vittima si sarebbero detti arrivederci, o 246 meglio addio; il supplizio sarebbe terminato. La lentezza del treno locale mi esasperava. Di solito il viaggio durava un'ora, ma adesso mi sembrava di viaggiare da un'eternità. E il barbone non mi dava tregua, la sua voce rauca e sgradevole mi braccava. Pensavo: «Il barbuto della sinagoga aveva ragione, è Satana, vuole la mia rovina, non voglio più incontrarlo, che se ne vada, che mi lasci in pace, io non gioco più». Improvvisamente il treno si fermò. Il controllore gridò: «Taverny-y-y!». Io mi scrollai per tornare in me. Ironico, il barbone seguiva i miei gesti. Gli tesi la mano: «Io scendo qui». Lui si alzò e disse: «Anch'io». E fece finta di non capire il mio smarrimento. Poi, vicino all'uscita, gli chiesi dove andasse. - Che domanda! Con te, ovviamente! 247 - Con me? - esclamai, allibito. - Sì, ho deciso di accompagnarti. Per quale ragione? A che scopo? Ancora non lo sapeva. - Lo saprò là, sul posto. Ma santo cielo, chi lo aveva invitato? Nessuno, certamente. - Mi considero un uomo libero. Vado dove voglio, quando voglio, con chi voglio. - E io? Che posto ho nei vostri piani? - Troppo presto per saperlo; vedremo. 248 Dopo una marcia silenziosa di una ventina di minuti arrivammo al castello, dove alla vista del mio compagno si scatenò l'ilarità generale. Pensavo di ripartire per Parigi la sera stessa. Restai una settimana intera. Anche lui. Il mio corso doveva tenersi all'aperto, all'inizio del pomeriggio. Durante il pranzo il vecchio mi osservò in silenzio; io cominciavo a sentirmi male. Non toccai cibo. Neanche lui, del resto. Nervoso com'ero, scoraggiai la conversazione a tavola. Temevo un disastro: lui presente, la mia lezione sarebbe stata certamente un fallimento. Come allontanarlo? Dirgli: «Vi supplico, signore sconosciuto, andate, di grazia, a fare una passeggiata e tornate questa sera»? Piuttosto seppellirmi vivo. Del resto, la mia richiesta sarebbe stata inutile. Per lui l'occasione 249 era troppo bella, non l'avrebbe perduta. Il direttore mandò fuori i ragazzi per la conferenza. Io li seguii col cuore pesante. Sapevo di essere perduto, non c'era più niente da fare: il dado era tratto. Il mio compagno prese posto alla mia sinistra. Gli alunni, seduti a semicerchio sotto un enorme albero dai rami pericolanti, ci esaminavano con aria maliziosa. Il barbone mi intimoriva, era chiaro, e loro non capivano perché. Chiacchieravano fra di loro e si scambiavano su di lui, e senza dubbio anche su di me, sgarbate osservazioni. Io chiesi un po' di silenzio pur rendendomi conto che avevo dimenticato tutto: non sapevo neanche più quale capitolo fosse in programma. Per fortuna, all'ultimo momento, mentre stavo per cominciare, il vecchio mi toccò 250 il braccio e mi annunciò seccamente la sua decisione di parlare al mio posto. I ragazzi scoppiarono a ridere fragorosamente. Non ho mai provato un simile senso di sollievo. L'oratore si raschiò la gola: - So che studiate la tragedia di Giobbe. Propongo di lasciare che si medichi le sue ferite. Ho l'impressione che sia stato un po' troppo maltrattato qui in queste ultime settimane. 251 Mi lanciò un'occhiata di sbieco: avevo incassato il colpo? I miei fedeli allievi apprezzarono l'umorismo del mio sostituto; non ridevano più di lui, ma di me. - Ecco una proposta - proseguì l'oratore con serietà. - Che ciascuno di voi mi indichi l'argomento che gli sta a cuore: io li tratterò tutti in blocco. Ma a una condizione: fate in modo che i temi non si assomiglino. Ho orrore della ripetizione. Questo gioco retorico divenne un'esperienza indimenticabile. La Bibbia, il Midrash, lo Zohar: le domande piovevano da tutte le parti. Alcuni, per spingere la prova fino all'assurdo, lo interrogavano sulla politica internazionale, sulla bomba atomica e perfino sulla superstizione nel Medioevo. Il conferenziere non prendeva note; le 252 palpebre abbassate, aspettava che ciascuno ponesse la sua domanda. Poi, senza un movimento, senza osservazioni preliminari, affrontò di petto gli argomenti e parlò su ciascun tema in particolare e su tutti insieme. La sua voce era rauca e sgradevole, ma nessuno se ne accorgeva. Stregati, noi lo ascoltavamo, il cervello in fiamme, trattenendo il respiro, trasformati, trasportati in uno strano universo dove esseri e oggetti si svelavano, dove tutto era collegato e tendeva verso un assoluto, qualunque esso fosse, e dove, per la sola forza della parola e della sfumatura, l'uomo scopriva il potere e il dovere di dissipare il caos che precede e spesso segue ogni creazione, di imporgli un senso, un divenire. Improvvisamente, ciascuno di noi si rese conto che tutti quei temi, enunciati a caso, alla rinfusa, 253 come per divertimento, erano in realtà legati a un centro, alla stessa fonte di luce. Si, il gesto di Caino contiene quello di Tito. Si, il sacrificio di Isacco preannunzia l'Olocausto, il canto di David richiede quello di Geremia: hafoch ba vehafoch ba dekula ba, la Toràh è un tutto e tutto si trova nella Toràh. Perché la prima lettera di Bereshìt - il primo libro del Pentateuco - è una bet e non una aleph? Perché l'uomo è troppo debole per cominciare: qualcuno ha già cominciato per lui. Giacobbe aveva scelto l'esilio per permettere a Mosè di optare per la libertà. Chi si volta e guarda la cima della montagna sa che l'inizio prepara la fine e che l'uomo può agire sul suo creatore, che, a sua volta, studia la Toràh. Lontano, il campanile del villaggio aveva già da tempo suonato mezzanotte, ma l'oratore, 254 infaticabile, inesauribile, continuava a parlare, dando al suo pensiero mille luci e altrettante ombre, e la nostra comune preghiera era che non si fermasse mai, non prima della venuta del Messia. La pallida alba ci sorprese, pieni di una strana felicità. Avevamo percorso insieme una lunga strada e avevamo partecipato a un avvenimento raro, forse unico: la vittoria dell'uomo sulla notte. Nessuna traccia di fatica. I volti scintillavano d'orgoglio. Eppure i miei allievi, fanaticamente religiosi, avevano commesso un peccato: per la prima volta in vita loro si erano dimenticati di recitare la preghiera della sera. Il Maestro si lasciò convincere a prolungare il suo soggiorno al castello. Di un giorno, di una settimana. Quanto a me, lasciato in disparte, 255 nessuno mi invitò a ritardare il mio ritorno, ma io restai lo stesso. Da mattina a sera, spesso fino a mezzanotte e a volte oltre, il Maestro continuò ad affascinarci; eravamo alla sua mercé, prendeva possesso delle nostre esistenze, le plasmava, le rendeva irriconoscibili. Eravamo nel mese di Av e, rispettando la tradizione, ci parlò soprattutto della distruzione del Tempio. Io credevo di conoscere tutte le leggende riguardo a questo argomento, ma in bocca sua esse avevano acquistato un valore diverso: ci rendevano più fieri di appartenere a un popolo che sopravvive alla propria storia e la mantiere sempre così viva e intensa. Un giorno ci parlò della guerra clandestina che si svolgeva allora in Palestina: gli inglesi stavano 256 per uccidere un combattente dell'Irgun. Il Maestro ne parlò come di un santo, elevandolo al rango di un Rabbì Akivà che, al tempo dei Romani, era andato incontro alla morte da uomo libero e coraggioso per glorificare il nome di Dio. Se, in seguito, ho deciso di unirmi alla lotta che la gioventù ebraica sosteneva per l'indipendenza del mio popolo, è a lui, al mio Maestro, che lo devo. Poi venne il giorno della partenza. I miei allievi gli domandarono se pensava di ritornare. Lui rispose: - Forse. - Dove andate adesso? Verso quale avventura, quali scoperte? - Questo non vi riguarda - disse, infastidito. Allora si rivolsero a me: - E tu, tu tornerai? 257 - No - replicai. Il mio incontro col Maestro aveva messo fine alla mia carriera di conferenziere. Ridiventavo allievo. Lasciammo insieme il castello; i ragazzi ci accompagnarono alla stazione. Sul treno che ci riportava a Parigi gli comunicai la mia decisione di non lasciarlo più. Lui si oppose, io tenni duro: - Ho bisogno di voi. -- E chi ti dice che tu sia capace di seguirmi? O che lo meriti? - Io. - Tu? - ruggì. - Ti credi il tuo proprio maestro? Ascolti la tua voce? Da dove ti viene questo orgoglio? - Da voi. Furioso, mi coprì d'insulti, ma io non capitolai. 258 Finii per averla vinta. All'arrivo, uscendo dalla gare du Nord, lo seguii con passo deciso. - Dove vai? - Con voi. - E se dico di no? - Vi seguirò vostro malgrado. E mi affrettai ad aggiungere: - Voi mi avete insegnato il senso della libertà. Il suo brutto volto si fece scarlatto e credetti che stesse per sputarmi in faccia. Ma si calmò. - Sei testardo, - mi fece con disprezzo - ma mi piace che gli ebrei siano testardi. 259 Poi ebbe un gesto di scoraggiamento: - E sia, mi accompagnerai per un po'. Ma si riprese subito: - Però non ora. Un'altra volta. Verrò a trovarti. - Quando? - Non lo so. - Quando? - Presto. - Di mattina? Di sera? - Come vuoi che lo sappia già? Mi lasciò a una stazione del metrò e scomparve. Nella mia misera cameretta, a porta Saint-Cloud, lo aspettai nel dubbio: avrebbe mantenuto la sua promessa? Non osavo assentarmi, neanche per andare dal fornaio. Tre giorni dopo bussò alla porta. Ispezionò la stanza, gettò un'occhiata disgustata ai libri e mi ordinò di sedermi sul letto. Lui si mise a sedere 260 sull'unica sedia disponibile. - Guardami e ascolta senza interrompermi. Tornò per due volte alla settimana, mai lo stesso giorno, mai alla stessa ora. A volte arrivava la mattina presto, quando la città dormiva ancora; altre volte sembrava portare con sé il crepuscolo. Restava per tre ore, quattro, cinque, sei. Un giorno o un secolo per lui erano la stessa cosa: negava il tempo. Appena arrivato, si metteva subito a parlare dell'argomento che quel giorno lo preoccupava. E ogni volta io provavo lo stesso stupore. In seguito venni a sapere che in quello stesso periodo aveva avuto altri allievi, fra cui Emmanuel Levinas, e che dedicava loro un ugual numero di ore. Dove prendeva il tempo e la forza fisica necessaria? Non lo vidi mai mangiare, 261 dormire o leggere; tuttavia godeva ottima salute e sembrava perfettamente al corrente di tutto ciò che avveniva nei vari campi dell'attività umana. Parecchie volte scomparve per una settimana o più: ritornava immutato. Fui suo discepolo per tre anni e oggi non so di lui più - ma probabilmente meno - di quanto sapessi quella sera nella piccola sinagoga di rue Pavé dove andavo a celebrare lo splendore dello Shabbàt. 262 Un giorno, egli venne a sapere dell'arrivo a Parigi di un grande rabbino chassidico che stava andando negli Stati Uniti. I fedeli di Londra e di Zurigo, di Anversa e di Francoforte, convergevano sulla capitale; chi per salutarlo, chi per chiedergli consiglio e benedizione. - Tu lo conosci? - si informò il mio Maestro. - Si, viene dalla nostra regione, dalla Transilvania. Prima della guerra l'ho intravisto. Non è il mio rabbino; il mio è quello di Wizsnitz. - Cosa gli rimproveri? - Niente, solo di non aver sofferto - o non sofferto abbastanza - durante la guerra. - E tu? Avresti sofferto abbastanza? - No, non abbastanza. Ma io non sono il rabbino di nessuno. - Che ne sai? 263 Stava per lanciarmi una delle sue frecce avvelenate, ma si trattenne: - Tu dai troppa importanza alla sofferenza. Aspettai il seguito, ma non venne. Quel giorno, preoccupato dal rabbino, mi risparmiò. - Desidero conoscerlo - disse il mio Maestro. - Non sarà tanto facile. Il rabbino era sceso in un grande albergo della riva destra. C'era la ressa nei corridoi. Bisognava fare la fila per ore e il colloquio non superava i cinque minuti. Prima di entrare nella sala dove troneggiava il sant'uomo bisognava, nell'anticamera, consegnare al segretario un pidyon, una banconota. Era l'usanza: prima di vedere il rabbino bisognava compiere una buona azione, come dare un'elemosina, per meritare un tale onore. 264 - Vieni con me - mi ordinò il Maestro. Temevo il peggio. Il portiere avrebbe fatto entrare un barbone e il suo servitore? Ma all'entrata nessuno ci fermò. Un cameriere ci guardò e ci disse subito: «Al secondo piano». Trecento persone si accalcavano nel corridoio. Il mio Maestro si aprì un varco tra la folla e arrivò davanti al segretario: - Voglio vederlo. - Fate la coda come tutti gli altri. - Non sono come tutti gli altri. - Allora non lo vedrete. - Veramente? Strappò un foglio dal mio quaderno e ci scarabocchiò qualche parola. - Ti ordino di consegnare questo messaggio al rabbino, sennò ti maledico. Il segretario ubbidì. E, cosa ancora più strana, la 265 porta si aprì e il rabbino in persona venne a pregare il mio Maestro di entrare. Restarono alcune ore in intimo colloquio e mai ne fu divulgato il contenuto. Dopo averlo salutato, il rabbino si limitò a mormorare: - Concepisco che un essere umano possa conoscere tante cose, ma come fate a capirle? Dopo interrogai il mio Maestro: - Cosa avevate scritto nel vostro messaggio? - Ciò non ti riguarda. - È che mi piacerebbe sapere aprire certe porte. Si arrabbiò: - Questo non si impara. Vorresti imitarmi? Non è imitando qualcuno che aprirai le tue porte. Le chiavi non si comprano, ce le facciamo da noi. Ciò che costituisce la mia forza può in te generare soltanto infelicità. Il dovere dell'allievo è quello di 266 seguire il suo Maestro, non di copiarlo. Per fortuna le sue collere sbollivano rapidamente. Lo prendevano per un attimo e poi lo lasciavano uguale a se stesso, illuminato. Una sola volta se ne andò schiumando dalla rabbia e sbattendo la porta. Anche lì fu colpa mia. Avevo violato il suo santuario; gli avevo posto quella domanda che mi assaliva anche nei sogni: - Chi siete? Chi nascondete? Perché ne fate un tale mistero? Credete veramente che il dovere dell'uomo sia quello di ripiegarsi su se stesso piuttosto che di aprirsi agli altri? Si irrigidì. Il suo respiro si fece pesante, il suo volto prese un'aria crudele. Mi scrutò in silenzio, cercando il modo di ferirmi, di uccidermi forse. Preso dal panico, cercai di giustificarmi: - Non me ne vogliate. Non si tratta di curiosità 267 né di indiscrezione. Vorrei semplicemente sapere, per dopo, per i miei figli forse, chi era colui che esercitò una tale influenza sul loro padre. Si alzò di scatto e mi mostrò i pugni. Il suo furore si scatenò: - E chi ti dice che ci sarà un dopo? E chi ti permette di escludermi e di parlare di me al passato? Non riuscendo più a dominarsi, come un ossesso, si mise a correre da una parete all'altra lanciando alte grida. Scomparve per una decina di giorni. Credetti di non rivederlo più. Ma riapparve e riprese la sua lezione come se nulla fosse, nel punto preciso in cui l'avevamo interrotta. Ormai mi guardavo bene dall'affrontare le sue zone proibite. Pensavo: «Se vuole confidarsi, non aspetterà le mie domande». 268 Adesso mi capita di dirmi che ho avuto torto: avrei dovuto perseverare. Forse si aspettava che ritornassi alla carica. A volte mi dico che il suo furore era solo una commedia. Mi lasciò alla fine del 1948 senza dirmi né arrivederci né addio. La sua ultima lezione fu simile alle altre. Nulla nel suo comportamento avrebbe potuto tradire le sue intenzioni di rompere il nostro legame. Non era né più allegro né più triste del solito. Come sempre, lo accompagnai alla stazione del metrò e come sempre lui mi consigliò di tornare a casa: - Ripensa alla mia lezione e cerca di distruggerla. Non si voltò. Passò una settimana: non dette segno di vita. Un'altra settimana: nessuno bussò alla mia porta. 269 Mi misi alla sua ricerca in tutte le sinagoghe: senza risultato. Negli ospedali nessun malato corrispondeva ai suoi connotati. 270 Capii che non avevo speranza. Non bisognava agire contro la sua volontà, contro la sua libertà. I nostri rapporti non potevano essere che a senso unico. Disoccupato, senza appoggi, senza amici, decisi di lasciare la Francia. In Israele ci si batteva, e io bruciavo dalla voglia di andarci. Solo in seguito seppi che anche lui aveva risposto allo stesso appello, pressappoco nello stesso periodo, un po' prima di me. Non restai molto in Terra Santa, e neanche lui. I viaggi mi attiravano senza una ragione; inseguivo qualcuno senza sapere chi fosse. Adesso mi dico che era lui. Ma le nostre strade non si incrociarono più. Anche lui, tuttavia, aveva ripreso il bastone del pellegrino. Di tanto in tanto incontro un amico che l'ha 271 conosciuto negli anni trenta, quaranta, cinquanta, a Parigi o Gerusalemme, a New York o in Algeria. Passiamo una notte in bianco a evocare la sua immagine. A volte è uno sconosciuto che mi parla di lui; allora diventiamo amici. Recentemente, sull'aeroplano che mi riportava da Buenos Aires a New York, un passeggero mi raccontò che un personaggio bizzarro era comparso, agli inizi degli anni sessanta, a Montevideo. Il Maestro vi conduceva la stessa vita che aveva condotto in Francia. Il suo aspetto fisico era rimasto lo stesso, così come la sua influenza intellettuale. L'appassionante mistero che lo circondava e che lui albergava era rimasto intatto. Lo si credeva custode di non si sa quale segreto. Un giorno dimostrava la sua superiorità sugli studiosi e i rabbini, il giorno dopo fungeva 272 da inserviente di sinagoga ed esigeva di subire umiliazioni. Nessuno sapeva, lì come altrove, ciò che lo spingesse a sconvolgere tante anime e quali fossero le potenze che sfidava. Dovunque apparisse, la gente smetteva di parlare, si raccoglieva in se stessa, e i cuori angosciati si mettevano a battere violentemente, come davanti a qualcuno che sapesse perché viviamo e perché moriamo. Spesso ho una gran voglia di prendere il primo aereo in partenza per l'Uruguay per poterlo vedere un'ultima volta, per confrontarlo con l'immagine che ho conservato di lui. 273 Ho anche bisogno che egli mi scuota di nuovo, che mi sospenda fra cielo e terra e mi permetta così di vedere ciò che li avvicina e ciò che li separa. Ma ho paura. Lo ritroverei identico a colui che ha sconvolto la mia vita, nella piccola sinagoga di Parigi, nel giardino del castello di Taverny. Parigi è cambiata, Taverny anche, i nostri allievi sono cambiati: gli uni sono diventati rabbini, gli altri sono caduti sul campo di battaglia in Galilea, nel Neghev, a Gerusalemme. Anch'io sono cambiato. Lui no. Perfino l'Olocausto lo ha lasciato uguale a se stesso. Questo è ciò che mi turba e mi spaventa: gli avvenimenti che hanno sconvolto la mia vita senza scalfire la sua forse sono futili, privi di significato? Ho dunque vissuto sotto il segno 274 dell'errore? Se per lui il passato non è niente, il futuro non è niente, allora per lui anche la morte non è niente, e la morte di un milione di bambini ebrei non è niente? Dio forse è morto, ma lui non lo sa, e se lo sa, agisce come se questo non lo riguardasse affatto... Questo è ciò che mi fa tremare ogni volta che me lo immagino a Montevideo, dove mi aspetta, dove mi chiama: ho paura di ricascare nella sua leggenda, che ci condanna, me al dubbio, lui all'immortalità. 275 L'ultimo ritorno Da qualche parte nella lontana Transilvania, all'ombra dei Carpazi, presso la frontiera più capricciosa d'Europa, c'era una volta una piccola città polverosa: Sighet. Sembra portare il suo nome nascostamente, come se temesse che le venisse ripreso. È una città come tante altre, e tuttavia non come le altre. Tranquilla, rassegnata, la si crederebbe pietrificata nel suo proprio oblio; e nella vergogna che deriva da questo oblio. Ha rinnegato il suo passato ma ne subisce l'influenza. Condannata a 276 vivere fuori dal tempo, non respira che nella memoria di coloro che l'hanno lasciata. Questa città fu un tempo la mia, ora non lo è più. Eppure non è cambiata per niente. O quasi per niente. Ho ritrovato le sue case basse, grige. Il mormorio soffocato dei suoi fiumi. Il risuonare dei passi sul selciato, soprattutto di notte, poco prima dell'alba. La chiesa e la macelleria sono sempre una di fronte all'altra. All'angolo del piccolo mercato, la sinagoga, deserta, sembra attendere qualcuno che deve venire e che non verrà più. È perché è rimasta fedele alla sua immagine che la mia città mi sembra ormai straniera. A forza di assomigliarsi si è tradita. Non ha più diritto al suo nome, al suo volto. È una città senza destino. Sighet non è più Sighet. 277 Da molto tempo bruciavo dalla voglia di andarci. Per una settimana, un'ora, un istante: il tempo di uno sguardo. Rivederla un'ultima volta, ritornare bambino e poi andarmene. Per sempre. Senza rimpianti, senza rimorsi, senza legami. Ai nostri giorni, malgrado la cortina di ferro, le distanze non contano più. Chiunque può partire da qualunque posto e visitare la mia città, via Bucarest-Cluj-Baia Mare, in aeroplano, in treno, in macchina, in meno di settantadue ore. Per me il viaggio fu più lungo, più duro, di quelli che si fanno una volta sola nella vita. Doveva portarmi non al termine della notte, ma piuttosto alle sue origini. Là dove tutto è cominciato, dove il mondo ha perduto la sua innocenza e Dio la sua maschera. È da Sighet che sono partito per Sighet. 278 Vent'anni sono tanti. È la metà o il terzo di un'esistenza. Per tutto questo tempo non ho fatto che prepararmi al pellegrinaggio. Senza gioia, anzi con angoscia. Sapevo che avrebbe tagliato la mia vita in due. Ci sarebbe stato un prima e un dopo. Meglio: non ci sarebbe stato nessun prima. Cosa mi avrebbe aspettato al mio arrivo: il passato morto o il passato risuscitato? La desolazione delle rovine o la bestemmia di una città ricostruita? In entrambi i casi sarebbe stata la giustificazione della disperazione, la certezza del male. Non si rimuovono le tombe impunemente. Il segreto del Maasé-Bereshìt, del principio, è custodito dall'Angelo della Morte. Ci si avvicina ad esso solo a prezzo di un sacrificio: quello dell'ultimo legame, dell'ultima illusione. Ci si disfa della propria fede o della propria ragione. 279 Per niente. Il gioco è truccato, impossibile vincere. Non c'è più nulla da vincere. Dopo la liberazione, a Buchenwald, gli americani mi volevano rimpatriare. Io mi opposi. Non ci tenevo ad abitare solo in un posto abbandonato. Loro insistevano: - Come, ti rifiuti di tornare a casa? Non avevo più casa. - E non sei curioso di rivedere il luogo dove sei nato, dove hai passato la tua infanzia, dove, per la prima volta, hai scoperto la malinconia, la sensazione di pienezza che ti dà il sole quando si leva sulle cime dei monti? No, non avevo più quella curiosità. Questa città di cui mi parlavano non esisteva più. Aveva seguito gli ebrei in deportazione. 280 Preferii esiliarmi in Francia. Mi misi a vagare un po' dappertutto. In Israele, in America, in Estremo Oriente. Lontano, il più lontano possibile. Corsi da un paese all'altro, da un'esperienza all'altra, senza sapere se lo facevo per allontanarmi dalla mia città o per avvicinarmici. Mi ossessionava, la vedevo dappertutto, identica a se stessa. Invadeva i miei sogni e turbava lo sguardo che proiettava sul mondo, sulla gente, su me stesso. A forza di volermene liberare, ne diventavo prigioniero. Più gli anni passavano e più la città mi affascinava, mi spaventava. Avrei dato tutto per rivederla e, nello stesso tempo, sfuggirle. Le mie paure, le mie speranze erano molteplici, contraddittorie. A volte mi dicevo: la guerra, le nuvole di fumo, le grida nella notte, i bambini che 281 vanno al mattatoio mano nella mano non sono altro che un brutto sogno; al risveglio, nel momento del ritorno, ritroverò il luogo come l'ho conosciuto: con i suoi talmudisti, i suoi commercianti, le sue canaglie, i suoi ladri e i suoi poeti, i suoi mendicanti e i suoi pazzi. E mi sentivo colpevole di aver sognato la loro morte. Altre volte mi dicevo: sarò l'unico a ritornare, camminerò per le strade, solo e senza meta, senza incontrare un volto familiare, uno sguardo aperto. E impazzirò di solitudine. Fui a più riprese sul punto di intraprendere il viaggio. Sappi da dove vieni e dove vai, ci insegnano i saggi. Ma all'ultimo momento trovavo sempre un pretesto per rimandare tutto. Mancavo di coraggio. Mi capitava di pensare: «Chissà, forse non ho mai lasciato la mia città». Oppure: 282 «Essa non è mai esistita fuori della mia immaginazione». O ancora: «Forse l'universo tutto intero non è che una proiezione smisurata della mia città». Un giorno decisi che vent'anni erano abbastanza. Mi misi in viaggio: succeda quel che succeda. Vincitore o vinto, il cammino resta lo stesso. Ignoro se ho agito bene, senza dubbio non lo saprò mai. Coloro che avrebbero potuto consigliarmi li ho cercati nelle loro case senza trovarli. Non erano ritornati. 283 Circondata da una catena di alte montagne e da due fiumi, Sighet ha sopravvissuto a tutti gli sconvolgimenti politici e a tutte le occupazioni militari del secolo. Dapprima parte dell'Impero austriaco, fu ceduta all'Ungheria che la cedette a sua volta alla Romania per riprendersela all'inizio della seconda guerra mondiale. Poi fu la Germania che ebbe l'onore di regnarvi, cosa che permise all'URSS di togliergliela prima di restituirla alla Romania. Dovetti passare per Bucarest, da dove presi l'aeroplano fino a Baia Mare. Lì presi un taxi. Sessanta chilometri, sei ore, quindici dollari. Malgrado fosse contento di guadagnare tanto denaro in così poco tempo - è la paga settimanale di un operaio qualificato - l'autista sembrava imbronciato. Non gli piaceva guidare di notte su 284 strade male illuminate e in cattivo stato. - Conoscete Sighet? - Sì. - Come la trovate? - È una città, tutto qui. - Raccontatemi com'è? - Non c'è nulla da raccontare. - Ci sono ancora degli ebrei? - Ebrei? Non ne conosco. Non aveva voglia di chiacchierare, ma solo di imprecare. E io non sapevo ciò che maledicesse nella sua barba: me, la città o gli ebrei che non conosceva. Io, invece, ho molto da raccontare. A volte mi sembra che da quando l'ho lasciata passo il mio tempo a parlare di questa città che mi ha dato tutto e che tutto mi ha ripreso. La città delle prime 285 domande, dei primi timori, dei primi abbandoni. È là che ho imparato a camminare verso una meta, poi a preferire il cammino alla meta stessa; è là che ho presentito la forza della preghiera, poi quella del silenzio. Cresciuto in un ambiente profondamente credente, non domandavo altro che la passione, e che dominasse ogni istante della mia vita. Ero un devoto chassid del Wizsnitzer Rebbe, ma frequentavo anche gli altri rabbini, ascoltavo i loro racconti, imparavo i loro canti; avrei voluto non perdere nulla di tutto ciò che poteva essere imparato. Poi fui allievo di un cabbalista e vissi alla sua ombra. A mezzanotte si alzava per mettersi un po' di cenere sulla fronte, si lamentava per la distruzione del Tempio di Gerusalemme e per la sofferenza della Shechinà, anche lei in 286 esilio, come noi, con noi. Io ero troppo giovane e non potevo immaginare che il Tempio stava per essere distrutto sei milioni di volte, che la sofferenza di Dio non avrebbe mai potuto uguagliare né riscattare quella dei bambini ebrei che, già, venivano mandati al rogo, mentre il mondo taceva, così come taceva Colui che è chiamato il suo creatore. - Stiamo avicinandoci - disse l'autista. - Dove siamo? Ai piedi della montagna. Il pericolo è passato, la valle ci accoglie, ci avvolge. Sighet: 40 km. Sighet: 30 km. Sul ciglio della strada una moltitudine di capanne fanno siepe. I villaggi sorgono davanti ai fari. La notte subito li ringhiotte. In lontananza qualche luce intermittente. Sighet: 20 km. L'automobile, una 287 vecchia Volga, corre adesso a tutta velocità. Sighet: 15 km. Improvvisamente l'emozione mi afferra la gola; sento la realtà sfuggirmi. L'autista non è più un semplice autista di taxi. Di chi è l'inviato? Verso quale misterioso appuntamento mi conduce? Con la morte? Con me stesso? Sighet: 10 km. Sighet: 20 anni. - Stiamo avvicinandoci - ripete l'autista. Lo dice sordamente, come una maledizione. Io entro in città come si entra in un sogno, scivolando, senza rumore, senza resistenza, accettando in anticipo il meglio e il peggio: ormai tutto è possibile, è il luogo dove il noto diventa ignoto, dove le sorprese si susseguono e si annullano. Ci si aspetta a ogni momento di inciampare, di svegliarsi, ma la realtà non ne vuole più sapere di noi. 288 Esplodo nel tempo che si frantuma in mille volti, in mille frammenti di esistenza. I morti da una parte, io dall'altra. Primavera 1944, autunno 1964. La partenza in massa, il ritorno solitario. Prima sosta, ultima sosta. Partito in treno, ritorno in automobile. Quel giorno faceva caldo: adesso è l'inverno che si avvicina, ed è notte. L'inizio e la fine si congiungono, il loro cerchio di fuoco va restringendosi, e io resto impigliato. - Eccoci arrivati - dice l'autista. Lui non fa parte del paesaggio e per un attimo non lo riconosco. La mano aperta, reclama il dovuto; ha fretta, deve rientrare a Baia Mare. Io lo interrogo: - Siete sicuro che siamo a Sighet? L'antico capoluogo del Maramures? Lui dice di sì, ma io non mi fido. La città 289 assomiglia a Sighet, tutto qui. Questo non prova niente. Ecco la via principale, la grande piazza, il cinema, l'albergo, il liceo femminile. Di fronte, la via detta degli ebrei. A destra i magazzini; più lontano, a sinistra, il tribunale. Non è cambiato nulla? Nulla. Allora perché ho l'impressione di un malinteso, di una farsa? Qualcuno mi ha ingannato: per divertirsi, l'autista mi ha lasciato in una città straniera che non mi appartiene. O è qualcun altro che ride alle mie spalle. - Siete veramente sicuro? Me lo giura ridacchiando, ma io non gli credo, non credo neanche a me stesso. La sua voce mente, i miei occhi mentono. Questa città mente. Si chiama Sighet, e allora? Questo non vuol dir niente: nome falso, identità falsa. Sighet, quella vera, si trova oltre l'orizzonte, da qualche parte 290 dell'Alta Slesia, vicino a una piccola stazione, vicino a un grande fuoco che illumina il cielo, parte di un'immensa città di cenere. L'autista si spazientisce, le mie allucinazioni non lo interessano. Lo lascio ripartire. Lui mi ringrazia e mi augura un piacevole soggiorno. Ed eccomi solo nella città, solo nella notte. Sono ciò che le unisce. Mi dico ad alta voce: «La mia città, la mia notte». È tardi, la gente dorme. Non oso respirare. La valigia in mano, resto sul marciapiede con le spalle all'albergo, senza poter fare un passo. Cerco di sintonizzarmi con questo silenzio che nega il mio; e di unirmi alle innumerevoli ombre che si sprigionano dalle montagne, determinate a invadere, a calpestare tutto ciò che è aperto, tutto ciò che è chiuso, la città, la notte e me che sono il 291 loro punto d'incontro. E la memoria, soprattutto la memoria, non abbastanza aperta, non abbastanza chiusa. Mi scuoto: «Ricorda. Sei tornato per ricordare; ebbene, guarda e ascolta. La grande piazza non ti ricorda nulla?». Andando alla stazione, gli ebrei l'hanno scansata. I gendarmi che stabilirono l'itinerario avevano seguito le direttive di un certo Adolf Eichmann, venuto di persona a sorvegliare l'operazione; bisognava evitare il centro per non scioccare la popolazione, per non imbarazzare i cristiani dal cuore sensibile. Precauzioni inutili: i nostri cari vicini si erano già precipitati nelle case spalancate: c'era del bottino per tutti, per tutti i bisogni, per tutti i gusti. I saccheggiatori avevano il compito facile: i poliziotti erano occupati altrove. Per un tacito accordo, i ricchi rubavano 292 solo dai ricchi, i poveri solo dai poveri. Non bisognava comunque esagerare: l'ordine è l'ordine. Ed eccomi ora in pieno centro, nella grande piazza, solo come soltanto un conquistatore può esserlo. Non sospettavano che sarei ritornato. Vittoria sul carnefice, sul giudice. Ma perché questo vuoto in me, questa incapacità di provare un po' di fierezza? Troppo tardi per le conquiste. E per la fierezza. Non sono neanche triste, né deluso. Non è così che avevo immaginato il mio ritorno. Allora come? Non saprei dirlo. Non così. È come se non fossi ritornato. Scruto le facciate dai contorni incerti, le finestre finte, i tetti, i loro alti comignoli: cerco un punto d'appoggio, un punto di riferimento. Niente. La città si sottrae allo sguardo come alla luce; sfuma, 293 si cancella: l'incontro non avrà luogo, uno dei due manca all'appuntamento. La strada suggerisce l'assenza, la piazza l'abbandono. Non è più la stessa città. Non sono sicuro di nulla, mi rimetto in questione. Che cosa ho in comune con il ragazzino ingenuo e timido, romanticamente religioso, scacciato da qui più di vent'anni fa? Il silenzio. Era lo stesso silenzio il giorno della partenza, nel cortile della grande sinagoga che serviva da punto di concentramento. Folli di rabbia, i gendarmi, la piuma sul cappello, correvano in tutte le direzioni, urlavano e colpivano uomini, donne, bambini, non tanto per far loro del male ma per rompere il loro mutismo. Ma la folla taceva. Non un grido, non un gemito. Ferito alla testa, un vecchio si alzava, l'aria smarrita. Il 294 volto insanguinato, una donna marciava senza rallentare il passo. La città non aveva mai conosciuto un tale silenzio. Non un sospiro, non un lamento. Neanche i bambini piangevano. Il silenzio perfetto dell'ultimo atto. Gli ebrei uscivano di scena. Per sempre. Cosa avevo pensato dirigendomi con la folla verso la stazione, verso i vagoni piombati? Che il silenzio avrebbe vinto, che esso sarebbe stato più forte di noi, più forte di loro, che si sarebbe posto al di là del linguaggio, al di là della menzogna, che avrebbe tratto la propria forza da questa lotta ancestrale che oppone la vita a ciò che la nega, la brutalità alla preghiera? Non so a cosa pensavo. Non so neanche se ero proprio io quel ragazzino che voltava le spalle alla sua infanzia, alla sua casa, alla sua fede. Da qualche parte, lungo il 295 cammino, fra la sinagoga e la stazione, fra la stazione e l'ignoto, egli è stato ucciso. Forse proprio da me. Si fa tardi, quasi mezzanotte. Sensazione di urgenza. Sto perdendo la testa: dovrei sbrigarmi. Ho perduto troppo tempo, e non ho fatto ancora niente. Fare alla svelta adesso. Ma cosa esattamente? L'ignoro. Qualcosa. Qualcosa che devo fare, che sia all'altezza del ritorno se non della partenza. Risvegliare i morti, forse. Oppure incendiare la città, unirla agli assenti, e che trionfi l'esercito delle ombre. O semplicemente mettermi a cantare o a ridere, per la strada, nel freddo, fino all'alba, fino all'esaurimento. Per prima cosa prendere una camera in un albergo e lasciarvi la valigia. Ingresso misero, scalcinato, scale senza ringhiera, luce fioca: è 296 questo il famoso Hotel Corona? Con i miei occhi di bambino ebreo vi vedevo - dall'esterno, da lontano - un palazzo riservato ai principi provenienti da lontani paesi: alti funzionari in viaggio d'ispezione, ufficiali di stato maggiore in missione speciale, ricchissimi americani in visita alle loro famiglie. L'edificio simbolizzava il lusso inaccessibile, la gloria, la spensieratezza, la libertà, il vizio, il regno del frutto proibito. Oggi l'albergo porta un nome magniloquente, composto di parole-base in uso nei paesi comunisti: popolo, patria, classe operaia, pace, socialismo. Questo nome nasconde un luogo impersonale, sordido, deprimente. Senza fasto, senza comodità. Hanno mentito al bambino che ero. Nella sua gabbia di vetro, al primo piano, 297 imbacuccato in una spessa coperta, il portiere si annoia visibilmente. Volto distrutto, senza età, senza espressione. Chiedo una camera, una qualunque. «Prenotato?». «No». «Peccato: niente prenotazione, niente camera». «L'albergo sarebbe pieno?». «Niente affatto: è vuoto». «Non capisco». Il portiere mi spiega che è il regolamento; molto rigido. Gli allungo una mancia e questa mette a posto la questione del regolamento. Adesso bisogna riempire la scheda di polizia, è la legge; Sighet è città di frontiera (dall'altra parte del fiume c'è la Russia sovietica), proibito passarvi quattro ore senza avvertire la Milizia. Il portiere scrive in un grande quaderno cognome, nome, professione, stato di famiglia, luogo di residenza. Io dico: «New York». Lui lascia cadere la penna, mi fissa: «Venite da New 298 York? A Sighet?». Rispondo: «Sì, da New York, a Sighet». Il suo stupore aumenta quando gli dico il luogo di nascita. Non capisce nulla della mia storia, e neanch'io del resto. Cosa sono venuto a fare a Sighet, cosi tardi nella notte, così tardi nella vita? Finalmente, con aria rassegnata, mi dà una camera: «Se non vi piace ne sceglierete un'altra». Gli chiedo un asciugamano e lui mi fissa di nuovo senza capire. Decisamente il mio comportamento gli sembra sospetto. Gli dico: «Non vi disturbate, farò a meno dell'asciugamano; del resto, non ho il tempo di lavarmi, esco subito». Convinto che lo stia prendendo in giro, apre la bocca per domandarmi qualcosa, ma io non ci tengo ad ascoltarlo, e già mi precipito giù per le scale per ritrovare l'aria aperta, la grande piazza deserta, spenta. Il vento mi schiaffeggia il viso, e io glielo 299 offro. Respiro profondamente: e adesso? Domanda assurda. Un bagliore, una lacerazione: a casa, naturalmente, a casa mia. Finalmente a casa mia. Il ritorno del figliol prodigo. Preparate il grande banchetto, il vino e il pane; accendete le candele, apparecchiate la tavola, aprite le porte ai poveri, ai mendicanti, alle anime erranti, tradite e lasciate in disparte. Che regni la gioia, che il canto sollevi i petti, che la pace riconcili i vivi e i sopravvissuti: amatevi l'un l'altro, rallegratevi, è la fine del viaggio, è la festa del ritorno. Papà, vieni e alza il bicchiere: lavorerai dopo; mamma, lascia la tua cucina: mangeremo dopo; e tu, sorellina, invita i tuoi compagni morti a unirsi a noi: giocherete dopo. Tutti voi che mi sentite, aspettatemi fuori, sui gradini del magazzino, nell'atrio. Arrivo, mi sentite, arrivo! 300 Troverai la strada? Niente di più semplice, le mie gambe mi ci porteranno se i miei occhi non vedono più al buio, non vedono più del buio. Esse hanno una memoria migliore degli occhi; è vero che hanno meno sofferto, non hanno visto le nuvole di fumo che oscuravano il sole, le nuvole dove tutto un popolo, in ranghi compatti, saliva sempre più in alto. Avanzo lentamente, prudentemente. La caserma dei pompieri, dov'è la caserma dei pompieri? Dovrebbe apparire all'angolo della strada, ma non c'è. Rasa al suolo, inghiottita. E la baracca, all'angolo, all'entrata di via Degli Ebrei? Il vecchio Semel, d'inverno come d'estate, vi vendeva la sua frutta: niente più baracca, niente più frutta, niente più Semel. Più lontano, la chiesa; da bambino distoglievo lo sguardo quando ci passavo 301 davanti. Grazie a Dio c'è sempre. E la casa, la mia casa? Calma. Ancora qualche istante e saprai. La vedrai o non la vedrai. Ho paura. Ho voglia di tornare indietro, di rifugiarmi nel dubbio. Troppo tardi. Sono preso nell'ingranaggio, bisogna continuare. Non correre, né avanti né indietro: correre non serve più a niente. Ma le gambe si rifiutano di ubbidirmi: stanotte la terra gli è ostile, il cielo le attira. Ora non corro più, volo, sono l'angelo che si libra sopra i tetti. Fuggo la notte e la porto sulle mie spalle; la città mi fugge e finisco per portare anche lei sulle mie spalle: comignoli, alberi, case, nuvole, prigioni e caserme, voliamo tutti, verso una città svanita, verso un casa rubata, verso ciò che era e non sarà più. E all'improvviso sono afferrato da una voglia irresistibile di gridare, di urlare a pieni polmoni: 302 «Che la creazione crolli, che la notte si laceri, che la terra tremi una volta per tutte!». Ma non ho più potere sul mio corpo. Grido e non emetto alcun suono. Grido e non riesco a sentirmi. Grido e i bravi abitanti di questa città tranquilla continuano a dormire, come se nulla fosse. Non temono né il silenzio della notte né quello dell'alba. E tuttavia corro come un pazzo verso la pazzia, a denti stretti, con la morte nell'anima, sottraendomi alle leggi di gravità, a tutte le leggi. So che arriverò in ritardo - in ritardo sulla morte ma invece di rallentare corro sempre più velocemente. E mi sembra che correrò così fino alla fine dei tempi, pur sapendo che sto commettendo una sciocchezza irreparabile, che è troppo tardi, che nessuno né niente mi aspetta laggiù, nella casa grigia e bassa all'angolo di due 303 strade; se è ancora in piedi, che sia maledetta: degli estranei la abitano. Eccola. Arresto brusco, risveglio brutale; non ho che un desiderio: sdraiarmi sul marciapiede, riposarmi, riprender fiato, non correr più, non pensare più, non guardare più, non giocare più al fantasma fra gli uomini, all'uomo fra gli uomini. Ma non è né il luogo né il momento. Guardo e ascolto come non ho mai guardato e ascoltato. I rumori impercettibili, le vibrazioni segrete, le ombre, li capto, li contamino, li faccio miei, sarò la loro bara o la loro cassa di risonanza, non ha importanza, lo si saprà domani, se ci sarà un domani. In questo momento non c'è che la strada, la casa: eccole che mi appartengono di nuovo. Più e 304 meglio di prima. I miei muri, i miei alberi, i miei vicini, i miei testimoni, i miei assassini, i miei compagni di giochi, di classe, di lotta, d'agonia. È qui, su questo pezzetto di terra, che ho scoperto il senso dell'avventura, il fuoco del desiderio, il potere del possesso; è qui che li ho perduti. Mi aggiro a lungo come un ladro intorno alla casa con le tende tirate, mi domando se non dovrei semplicemente bussare alla finestra e svegliare gli inquilini: «Lasciatemi entrare, me ne andrò domani, se ci sarà un domani». So che non lo farò e questo mi umilia. Poi mi fermo vicino al portone e aspetto un miracolo, un miracolo qualunque. Sfioro con le dita la staccionata intorno al giardino, la facciata del magazzino, e aspetto che mi rendano gli oggetti smarriti, le immagini dissolte. Mi sento allo stesso tempo 305 vulnerabile e invincibile: posso fare tutto, ma i miei atti non troveranno posto né nel tempo né nella coscienza degli altri; posso evocare il passato, non posso risuscitarlo: il passato è morto e io sono solo. Avrei dato tutto perché un bambino si mettesse a piangere, perché una madre cantasse una ninnananna, una qualunque ninnananna, perché questa ninnananna raccontasse una storia, una qualunque storia. Ma non avevo nulla da dare e la notte si prolungava e soffocava ogni voce. Eppure, anche qui, niente è cambiato. La casa di fronte è intatta: vi abitava il Borsher Rebbe. A parte la luce che non illumina più le finestre. Anche la casa accanto alla nostra è intatta: vi abitava il Seloftener Rebbe. A parte le preghiere che non si sentono più dall'esterno. Partiti 306 entrambi. Ma la strada è rimasta la stessa, il mondo è rimasto lo stesso, e anche Dio è rimasto senza dubbio lo stesso: ma senza ebrei. Mi dico che dovrei aprire il portone, attraversare il cortile, salire le scale, entrare in cucina. Chissà, forse qualcuno mi aspetta accanto alla stufa, qualcuno che non mi farà domande, ma mi inviterà a sedermi, mi metterà davanti un bicchiere di latte, un pezzo di pane, e mi dirà: «Hai percorso un lungo cammino, sei allo stremo delle forze, il letto è pronto, vai a riposarti». E mi rispondo: «No, soprattutto non questo, non svegliare chi dorme nel tuo letto, non ti perdonerà di essere tornato vivo. Chissà? Forse non dorme, forse ti aspetta, sa che sei qui, ti sta spiando; sono vent'anni che spia il tuo ritorno. Vattene piuttosto, lascia la città, il paese; non c'è più nulla per te da 307 vedere, più nulla da cercare». La notte avanza e io attendo un segno. Bisogna che mi decida. Una volta di più. L'ultima. Sarà l'ultimo passo, ma non oso farlo. Sono venuto da lontano per rivedere la casa, il cortile, il giardino, il pozzo vicino alla cantina, e adesso che essi sono a portata di mano non riesco a varcare il portone. Il cortile non mi è mai parso così inaccessibile. Oscuramente, so che il mio prossimo passo, qualunque esso sia, sarà quello che mi condannerà. Con una delicatezza infinita la mia mano accarezza la maniglia di ferro prima di girarla lentamente, mentre con la spalla spingo il portone che emette il suo piccolo cigolio familiare. Attenzione. Niente. Mi irrigidisco prima di continuare ad aprire. Sto in ascolto: nessun rumore 308 sospetto. Avanti. Mi introduco all'interno, poi mi appoggio con tutto il mio peso al portone richiuso. Mi si piegano le gambe, tutto mi fa male, sto delirando; il cuore mi batte violentemente, il mio volto è in fiamme, vedo tutto e non vedo niente. Il cortile, il nostro cortile. Sette strati d'oscurità non ostacolano il mio sguardo. Gli oggetti hanno resistito alla tempeste, agli avvenimenti. Sono tutti al loro posto. La botte vuota all'entrata della cantina. Il secchio vuoto sospeso sopra il pozzo, l'albero dai rami secchi rivolto verso il giardino, dietro il muro divisorio. Una sedia sulle scale, davanti alla cucina. Vicino al pollaio un grande catino pieno d'acqua. Lascio che il mio sguardo frughi dovunque per poter portare via tutto con me: il riflesso della notte sulle finestre, il mormorio del vento sul tetto del granaio, il respiro 309 dello spettro immobile che mi spia e mi giudica, che capisce tutto e non capisce niente. Mi resta ancora da entrare in cucina, di là in salotto, e poi nella camera da letto. Non l'ho fatto, non ho spinto l'esplorazione fino in fondo. È un cane che mi ha salvato. Il suo abbaiare. Mi aspettavo di tutto tranne questo. Non c'erano mai stati cani in casa mia. I bambini ebrei erano stati abituati a temere questi amici feroci del nemico, tutti demoniaci, tutti antisemiti. Un'antica paura mi invase. Riaprii il portone e in meno di un secondo fui sul marciapiede: espulso di nuovo. Da un cane, il vero vincitore di questa guerra. Come già un tempo, fuggii. Corsi fino nella strada principale e nella grande piazza; in mancanza di un altro rifugio mi lasciai cadere su una panchina e mi presi la testa fra le mani. Il 310 dolore, la rabbia, la vergogna, soprattutto la vergogna, mi accecavano. Non c'era più nulla da capire. Presto la notte si dissipò. La città si aprì ai primi raggi del sole. Un nuovo giorno nasceva in cima alla montagna. Io ho vissuto il mio ritomo molto tempo prima. Ho cercato di descriverlo nel mio libro La Ville de la chance. A cose fatte, la realtà confermò la finzione. Senza superarla, senza sminuirla. Retrospettivamente, il romanzo si fa racconto. A parte le corse nella notte non ci manca nulla. Il mattino mi fece tornare in mente il libro: mi servì da guida. Vista di giorno, la città mi apparve esattamente come l'avevo sognata: nuda, incolore, senza mistero. Come nel romanzo, era un mattino d'autunno. 311 Era bel tempo. Un sole giallo brillava in cielo. Giallo il fogliame; gialle le facciate; gialle le foglie morte; gialli, tristi, scoraggiati, gli uomini e le donne andavano al lavoro, al mercato, in chiesa; i bambini andavano a scuola. Io fissavo la gente che incontravo: riconoscerò qualcuno? Un amico? Un nemico? Un vicino? Mai visti. Non li conoscevo, non mi conoscevano. Gli uni mi guardavano senza vedermi, con la mente altrove; gli altri mi vedevano senza guardarmi, di sfuggita. Nessuno si avvicinava, nessuno voltava la testa. Non un gesto di stupore, di complicità. Niente. Non manifestavano né contentezza né delusione: il mio ritorno non li toccava affatto. Ero sopravvissuto: questo riguardava me, non loro. Ai loro occhi, io non rappresentavo una persona, anche invisibile, né 312 un'ombra, anche fugace, ma una cosa senza peso, senza passato. Se gli avessi rivolto la parola, avrebbero continuato per la loro strada; se mi fossi messo a gridare allo scandalo, alla frode, non avrebbero neanche alzato le spalle. Come se non esistessi. Come se non fossi mai esistito. Sembravano partecipare a un gioco, a una cospirazione la cui regola fosse l'indifferenza. I loro volti non riflettevano né odio né cattiveria, e neanche curiosità. Lo straniero che io ero non occupava nessun posto né nel loro presente né nella loro memoria. E dire che c'era stato un tempo in cui avevano fatto intimamente parte del mio universo, come io del loro. Vecchi compagni di classe? Vecchi amici dei miei amici? Vecchi clienti di mio padre? A chi di loro avevamo affidato i nostri candelabri dello 313 Shabbàt, i nostri vestiti pesanti, i nostri titoli? Un'anziana massaia tornava dal mercato: non era la signora Stark che aveva così gentilmente acconsentito a tenere in casa sua la nostra macchina da cucire e il corredo della mia sorella maggiore? Un funzionario dall'aria energica usciva dal tribunale: non era il coraggioso avvocato a cui avevamo «venduto» una delle nostre proprietà? Davanti alla vecchia pasticceria che era appartenuta alla famiglia Stein, un uomo dalla faccia quadrata parlava al proprio figlio: non era Pishta il vanitoso, quello che, durante la settimana di Natale, travestito da diavolo e con la frusta in mano, aveva per santa abitudine quella di punire i suoi compagni ebrei per aver ucciso il suo Dio? Sempre in stato di allerta, mi mischiavo alla gente per la strada, nei magazzini, al mercato, la 314 sfioravo, la urtavo, ne ascoltavo le conversazioni, i pettegolezzi, le lamentele: non erano imbarazzati davanti a me, era come se non esistessi. Ho visto l'uomo che abita nella mia casa, un giovane ingegnere di origine ungherese, l'occhio vivo, ambizioso, lavoratore, eccellente padre di famiglia, membro entusiasta del Partito. Non gli ho detto chi ero. Avrebbe risposto: «Mi dispiace». Ma neanche; non avrebbe detto niente. Non si sarebbe ricordato del mio nome. Non più degli altri. Eppure non gliene volevo. Se fossi ritornato subito dopo la fine della guerra il mio comportamento sarebbe stato diverso. Avrei preteso che venisse fatta giustizia. Avrei fatto di tutto per punire i miei vicini, colpevoli di averci scacciato, e poi derubato e rinnegato. Adesso, in ogni modo, era troppo tardi. Per mancanza di giudici, per 315 mancanza di imputati, il processo non avrà luogo. I tempi sono cambiati, i ruoli sono stati ridistribuiti, impossibile riconoscercisi. Più che altrove, è a Sighet che ho capito che gli ebrei hanno perduto la guerra. E se ce l'avevo con gli altri era semplicemente perché ci avevano dimenticati. Così presto, così bene. Un tempo, in questo tipico shtetl, Israele era re. Nessuno metteva in discussione i suoi diritti. Non si poteva concepire Sighet senza i suoi diecimila ebrei che, pur essendo una minoranza, con la loro vitalità, e con la loro sfida, davano il tono in tutto e per tutto. Il resto della popolazione, circa quindicimila persone, chiudevano gli occhi. Come in tutta l'Europa centrale, gli ebrei ricchi erano più ricchi degli altri, i poveri più poveri. 316 Così il delatore ebreo - lo conoscevo bene: un rosso taciturno dallo sguardo pungente - era più ignobile e più detestato dei suoi colleghi cristiani. In santità e in avarizia, in scaltrezza e in ingenuità, in bene e in male, gli ebrei vivevano in uno stato di continuo superamento. Negli anni trenta mio padre aveva rifiutato un visto americano dicendo: «Perché dovrei andare a cercare l'America in America, visto che è qui?». Agli inizi degli anni quaranta ci giunsero alcune voci su ciò che stava accadendo in Polonia; ma non suscitarono molta inquietudine. I rabbini dicevano: «Non ci succederà nulla, perché Dio ha bisogno di noi». I commercianti dicevano: «Il paese ha bisogno di noi». I medici dicevano: «La città ha bisogno di noi». Tutti si credevano indispensabili, insostituibili. 317 Nel 1943 era ancora possibile procurarsi dei «certificati» per la Palestina: nessuno ne volle sapere. Sì, uno. Gli altri sorridevano: perché partire e ricominciare da zero? Qui si sta bene, la popolazione non ci è ostile, non potrebbe fare a meno di noi e lo sa. In Polonia, in Ucraina, in Germania, terra e cielo bruciavano giorno e notte, non c'erano quasi più ebrei nell'Europa occupata, ma per noi il mondo sembrava stabile. Il pericolo non era entrato nelle nostre coscienze né turbava i nostri sogni. Nelle yeshivòt i ragazzi studiavano il Talmud; al cheder i bambini studiavano la Bibbia; nei magazzini si comprava, si vendeva, ci si contendevano i clienti, le merci. In via Degli Ebrei, nelle ore calme, ci si riuniva in piccoli gruppi per discutere di affari, di politica, di finanza, di strategia e di chassidismo; e 318 se qualcuno avesse osato proferire che si stava avvicinando il giorno in cui la città si sarebbe disfatta dei suoi ebrei come di un branco di appestati, gli avrebbero riso in faccia. Due mesi prima del decreto che istituiva il ghetto, gli ebrei si sentivano ancora del tutto sicuri. La loro fede nel futuro sfiorava l'incoscienza. La guerra? Sopravviveremo. La morte? Sopravviveremo. I nemici? Sopravviveremo. Un maestro spiegava al proprio allievo: «Sai cos'è l'eternità di Dio? Siamo noi. Danzando sul rogo, sfidando la sofferenza, i castighi, l'uomo crea l'eternità del suo creatore, gliela offre e la giustifica». Poi, all'inizio del 1944, arrivò l'occupazione tedesca, poco prima di Pasqua. Una sorda angoscia invase le case, gli sguardi. I volti si 319 oscurarono. Di colpo gli antisemiti gettarono la maschera, il loro numero crebbe a vista d'occhio. Le misure antiebraiche si susseguivano incessantemente: confisca dei beni, la stella gialla, il ghetto. E gli ebrei che si rifiutavano di perdere la fiducia: «Passerà, basta aver pazienza, basta non disperare». La Festa della Libertà fu celebrata nell'attesa di un evento che nessuno poteva né voleva prevedere. L'eternità ebbe fine un mese dopo. E la vita continua. Come se nulla fosse accaduto. La città conta di nuovo venticinquemila abitanti, che conducono un'esistenza normale, più o meno tranquilla, più o meno gradevole. Senza medici ebrei, senza commercianti ebrei, senza ciabattini ebrei. Ne fanno a meno, non ne sentono 320 la mancanza. Il vuoto è stato riempito senza apparente difficoltà. Tutti gli appartamenti sono abitati, tutte le scuole piene, tutti i magazzini presi dallo stato. La comunità ebraica è costituita da una cinquantina di famiglie, originarie per la maggior parte di villaggi vicini. La gente parla di progresso, di speranza. Molti edifici recentemente costruiti sono l'orgoglio della città: una scuola elementare, una cooperativa, un'industria tessile. Una prova di più che non si ha certo bisogno degli ebrei per andare nel senso della Storia. Se fossi stato un semplice turista, avrei dovuto ammirare le realizzazioni del nuovo regime, le statistiche in mostra dappertutto. Ma non lo ero. Più della notte precedente, prendevo coscienza della mia condizione di straniero, di 321 indesiderabile, di intruso, in questa città sinistra, subdola, senza importanza, senza vita propria. Condannato all'esilio, ai margini, cercavo il mio passato e non lo trovavo. Perché questa calma davanti alla sinagoga del Talmud Toràh e a quella dei Machzikei Toràh, e davanti al Wizsnitzer shtibel? Visitai tutte le sinagoghe abbandonate, piene di libri santi ammucchiati alla rinfusa e coperti di polvere. La più antica, la più grande non c'era più: distrutta dai tedeschi in ritirata. Una lapide commemorativa era stata collocata al suo posto. Incredulo, in questi luoghi immutati, anonimi, cercai Kalman il cabbalista, Moshé il pazzo, Shmukler il principe, Leizer il grasso, i miei alleati, i miei idoli, i miei enigmi viventi: scomparsi senza lasciare traccia. Vagai a lungo 322 nei vicoli oscuri e nei campi vicini al fiume: il mio sguardo non afferrava nulla. Città stregata, inaridita. Vi era passato un «raggio della morte» e aveva risparmiato soltanto le pietre. Mi fermai davanti alla casa di mia nonna; aspettai che mi chiamasse per farmi un regalo, un sorriso. E davanti al magazzino di mio zio, talmudista erudito e misero commerciante, aspettai che uscisse e mi interrogasse su un passo della Bibbia. E davanti alla casa del mio maestro aspettai che mi facesse segno di avvicinarmi per parlarmi del favore che Dio nella sua misericordia infinita accorda ad alcuni eletti: muoiono per santificare il suo nome. Avrei voluto fare o dire qualcosa: non c'era nulla da fare, nulla da dire. Mille avventure, una sola fine. Deserta, via Degli Ebrei, una volta così animata, 323 così rumorosa. Ha cambiato nome. Si chiama via Dei Deportati. Chi ha deportato chi? Dove e perché? Nessuno si pone la domanda. Sepolto, il passato. Si tratta di vivere. E soprattutto di dimenticare. Ho incontrato il mio vecchio maestro delle elementari: il mio nome non gli diceva niente. Ho parlato con una vicina che veniva da noi tutti i giorni: non si ricordava di me. Un giorno un bravo cittadino getterà un'occhiata stupita al nome della via dei negozi e dirà con la massima innocenza: «Via Dei Deportati? Mi sembra che si trattasse di ebrei». Non ne sarà sicuro. Già oggi non lo è. Con lui l'oblio assume il valore di un'ossessione. Gli ebrei deportati da Sighet non erano di Sighet. Di un'altra località forse, di un altro pianeta. Se tornassero, sarebbero cacciati di nuovo. 324 Non era sempre stato così? Senza dubbio, ma io ero troppo giovane per capirlo. La popolazione aveva da sempre pensato che gli ebrei nascono stranieri, non lo diventano. Ma ci è voluta una guerra per averne la conferma. Adesso questi tranquilli cittadini vanno ancora più in là. Per loro non sono neanche uno straniero privato della sua infanzia, neanche un fantasma. Per loro io non esisto. Hanno dimenticato tutto? No. Danno piuttosto l'impressione di non aver nulla da dimenticare. Non ci sono mai stati ebrei a Sighet, l'antico capoluogo della celebre regione del Maramures. Così le vittime sono state espulse non soltanto dalla città ma anche dal tempo. L'unico luogo dove mi sentii a casa fu al cimitero. Non ci avevo mai messo piede prima: 325 ingresso vietato ai bambini. Perché? Così. Crescerai e capirai. Il male del trapasso, il mistero dell'aldilà. Il luogo mi affascinava. Immaginavo i morti a parlare con Dio o fra di loro, sfioravo i muri, tendevo l'orecchio; ma c'era sempre qualcuno per rimandarmi a scuola o a casa. Adesso potevo entrare liberamente. Non c'era più nessuno per dirmi ciò che è permesso e ciò che non lo è. La porta è aperta, niente più cancello, niente più custode, sono cresciuto. È l'unico luogo di Sighet che mi ricorda Sighet, l'unico luogo che resta di Sighet. Fuori mi trovavo in una terra ostile. Sarei potuto cadere in mezzo alla folla e nessuno mi avrebbe aiutato. Qui mi sentivo al sicuro, in seno a una grande famiglia pronta ad accogliermi, a proteggermi. Forse perché i morti hanno avuto più fortuna 326 degli altri. Rimasti dov'erano, non hanno dovuto subire nessuna umiliazione. Li hanno lasciati tranquilli. In pace. A casa loro. Perciò sono andato da loro non per dirgli addio ma per affidargli la città, il passato ebraico della città. Vagai fra le tombe. Avevo comprato delle candele che accesi e misi dovunque incontrassi un nome che mi faceva vibrare. Il vento le spengeva subito. Da lontano e da vicino, un tempo la gente veniva qui soprattutto fra Rosh Hashanà e Yom Kippur. Si prostravano sulle tombe degli Zaddikim, li imploravano di pregare Dio che cessasse di accanirsi sul popolo troppe volte eletto per troppe sofferenze. Preghiere e lacrime inutili. Le intercessioni, le suppliche non sono servite a nulla. Dio si era tappato le orecchie. 327 Alla fine mi fermai davanti al monumento eretto alla memoria di una generazione morta senza sepoltura. Un blocco di pietra inclinato, con qualche parola sopra. Tomba senza cadaveri. Pietra tombale al posto di molte tombe, di molti cadaveri. Accesi l'ultima candela. Con mia grande sorpresa prese subito fuoco. La fiamma guizzò verso l'alto, sempre più in alto, come se dovesse salire così fino al settimo cielo, e ancora più lontano, fino alla decima sfera, e ancora più lontano, fino al trono celeste, sempre più lontano, sempre più in alto. Un vecchio ebreo, sorto da non so dove, mi venne vicino. Senza salutarmi, senza rivolgermi la parola, tirò fuori di tasca un siddùr e si mise a recitare il canto funebre El malé rachamìm shochèn bamromìm. Chi era? Chi l'aveva man328 dato. Come aveva saputo che mi trovavo là? Eravamo soli e non so neanche se si accorse della mia presenza. A un certo punto la sua voce si ruppe. Io chiusi gli occhi. Mi vergognavo di guardare, di piangere, di non piangere. L'ultima candela bruciò a lungo. A volte mi dico che sta ancora bruciando. Ho incontrato un secondo ebreo davanti alla sinagoga sefardita, dove qualche decina di fedeli viene ancora ad assistere alle funzioni dello Shabbàt e delle feste. La sola vista di quest'uomo barbuto, vestito da chassid, bastò a commuovermi. Apparteneva a un altro mondo, a un'epoca lontana, passata. Volto rugoso che emanava bontà, sguardo pieno di calore, di nostalgia, labbra sciupate che si muovevano impercettibilmente. Finalmente un 329 ebreo di altri tempi: un ebreo che nessuno sconvolgimento aveva toccato. Lo abbordai in jiddish; sorpreso, mi strinse la mano e la tenne a lungo fra le sue. Gioia inesprimibile, inespressa. Shalom aleichem, aleichem shalom: la pace sia con voi, compagno. Avevamo le stesse idee. Risposte semplici a domande banali. No, non era originario di Sighet. No, non aveva conosciuto mio padre. Che faceva in questa città? Si occupava dei vivi. Rabbino? No. Inserviente della sinagoga? No. Insegnava ai bambini la lingua sacra? Neanche. Del resto, non c'erano più bambini interessati a impararla. «Sono lo shochèt», mi disse, il macellatore rituale. Incredibile ma vero: ci sono ancora a Sighet e nei villaggi della regione degli ebrei che mangiano cashèr. Non molti. Una decina qui, una decina lì. 330 Cinque a Borshe, un paese di montagna; tre a Stremtere, tre anche a Dragmerest. È per loro che aveva deciso di restare. Aveva mandato la moglie e i figli all'estero e sarebbe andato a raggiungerli soltanto quando nessuno avrebbe più avuto bisogno dei suoi servizi. Non si sentiva libero finché avrebbe potuto aiutare degli ebrei a restare ebrei. - Non potevo risolvermi ad andarmene - mi disse sorridendo. - Non potevo comunque abbandonare una comunità ebraica, così, senza shochèt. Non si rendeva conto quanto le sue parole mi facessero male. Cinquanta famiglie, una comunità! E dire che un tempo questa comunità era stata una fonte inesauribile di ricchezza, di gioventù... 331 Non so se la leggenda dei trentasei Giusti risponde a verità, non so se il nostro secolo conta ancora trentasei Giusti. Ma so che questo shochèt è uno di loro. Ventiquattr'ore dopo il mio arrivo in città, ebbi fretta di lasciarla. Un'aurora, un crepuscolo: era sufficiente. Già ero invaso dai rimorsi. Avevo sbagliato a tornare, a cercare una conclusione per una storia che non ne aveva. Dei quattro saggi che, secondo il Talmud, erano penetrati nel frutteto della conoscenza, uno solo riuscì a sortirne indenne, e anche lui non osò più ritornarci. L'automobile mi aspettava, l'autista fremeva. - Andiamo? Sì, andiamo. Gli feci segno che ero pronto. Era la fatica? Con uno sforzo doloroso sollevai la mia 332 piccola valigia, la misi sul sedile davanti e poi mi lasciai cadere su quello posteriore. Una parte di me voleva restare. - Andiamo? Sì, andiamo. Mise in moto e la macchina partì. - Non così velocemente - dissi a bassa voce. Volevo vedere ancora qualcosa. La bambina che si attaccava al braccio della mamma. La coppia che litigava davanti a una vetrina. Il poliziotto di guardia davanti al tribunale. I passanti che non mi avevano visto arrivare e che non mi vedevano ripartire. Sì, andiamo. Questa volta era per davvero. Nessuna possibilità di ritorno. Ecco la strada principale, il cinema, la pasticceria, l'albergo, il liceo femminile. Un ultimo rimprovero: sono venuto a fare qualcosa, ma continuo a non sapere 333 cosa. Un'ultima occhiata alla mia strada: il campanile della chiesa, il nuovo edificio scolastico e, più lontano, all'angolo di due strade, una casa, la mia casa. Improvvisamente, le lacrime. Una certezza terribile: non la rivedrò più. Sighet era ormai scomparsa dietro l'orizzonte, ma io continuavo a guardare verso di lei. Poi capii che in fondo non le dovevo più niente. La rottura era stata totale. Perché la città che un tempo era stata la mia non è mai esistita. 334 La nostra colpa comune Il processo Eichmann a Gerusalemme era «storico» nella misura in cui non si limitava a giudicare i crimini e la degradazione morale di un uomo e perfino di un sistema, ma cercava di definire, illuminandola brutalmente, tutta un'epoca che, con la sua cieca volontà e il suo esito, tende a sfuggire alla comprensione umana. Il fenomeno Eichmann, come è stato «possibile»? A vent'anni dalla guerra si brancola ancora nel buio. Come ammettere una vittoria così totale 335 della bestia sull'uomo, e ciò al livello di una nazione? Come capire la doppia metamorfosi di due popoli, l'uno in assassino e l'altro in vittima docile e silenziosa? A un certo punto, il perché e il come diventano la stessa cosa, si confondono. Si sperava che dal processo sarebbe uscita una risposta. Ci si sbagliava. Ho domandato un giorno allo scrittore americano Alfred Kazin se, a suo avviso, la morte di sei milioni di ebrei aveva un senso, e lui mi ha risposto: «Spero di no». Nessuna risposta potrebbe essere più semplice e più vera. Il processo, invece, avrebbe dovuto almeno formulare la domanda, dare una dimensione non temporale al grido in essa contenuto. Perché condannare Eichmann non era né sufficiente né possibile. L'enormità, se non 336 l'assurdità dei suoi atti, lo trascendeva, lo collocava fuori dal tempo, lo sottraeva alle leggi degli uomini: l'unico dialogo possibile era fra lui e i morti. Se il processo presentava a volte un lato irreale, è perché i personaggi principali, a cominciare dall'imputato, sembravano a loro agio, troppo a loro agio, nei rispettivi ruoli: come se si trattasse di un processo normale in cui un essere umano è giudicato dai propri simili. Eichmann parlava eloquentemente, senza timore, senza reticenza, citando documenti e cifre, difendendo la sua testa con accanimento; cosi riusciva spesso a conferire a queste udienze solenni un tono falso: non era di questo che si trattava, non era lui - non soltanto lui - che si giudicava, ma la Storia. A un tempo individuo e simbolo, Eichmann rientrava tanto nel campo della psichiatria e della metafisica 337 che in quello della legge giudiziaria. Chi critica il modo in cui il processo si è svolto gli rimprovera precisamente la sua modesta portata. Il fascio di luce non conduceva abbastanza lontano, non apriva un orizzonte sufficientemente ampio. Si restava troppo nel gioco della legalità. Invece di servire da punto di partenza, l'imputato diventava l'unico obiettivo. Su questo piano l'equazione era necessariamente sbagliata. Giuridicamente, se gli Eichmann sono colpevoli, vuol dire che gli altri sono innocenti. Ma la conclusione avrebbe dovuto essere diversa: se gli Eichmann sono colpevoli, vuol dire che anche gli altri lo sono. D'accordo con Curzio Malaparte e anche con Karl Jaspers, noi sosteniamo che a livelli diversi tutti noi abbiamo una parte di responsabilità per 338 ciò che è accaduto in Europa. Facciamo parte di una generazione perduta e colpevole allo stesso tempo. Tutte le coscienze sono umiliate. Dare la colpa, tutta la colpa, a un Eichmann è troppo comodo. Vuol dire eludere il problema. Che sia colpevole nessuno ne dubita, ne eravamo convinti fin dall'inizio. Non era necessario istruire un processo per averne la prova. Se il processo era importante - e io dico che lo era - è perché facendo rivivere il passato ci dimostrava che un crimine può superare i suoi limiti e fare in modo che la colpa ricada anche su chi si tiene a distanza di sicurezza. Senza questa lezione, il processo può essere spettacolare, ma è, se non inutile, almeno incompleto. I futuri storici troveranno senza dubbio parecchie lacune nel processo Eichmann per 339 giustificare ricerche più approfondite. Contrariamente alle nostre attese, l'accusa si è rifiutata di abbandonare il terreno limitato del «caso Eichmann». La parte che l'umanità, nazificata o meno, ha avuto nel programma di sterminio è stata menzionata soltanto incidentalmente. Eppure, senza l'aiuto e la tacita approvazione degli ucraini, degli slovacchi, dei polacchi, degli ungheresi, i tedeschi non avrebbero mai potuto risolvere la «questione ebraica» così completamente e così rapidamente. Gli slovacchi pagavano una certa cifra per ogni ebreo che i tedeschi deportavano dal loro paese; gli ungheresi esercitarono pressioni su Eichmann, che non mancava certo di zelo, perché accelerasse i trasporti; gli ucraini e i lettoni superarono i tedeschi in crudeltà. Quanto ai polacchi... Non è 340 un caso che i campi peggiori siano stati costruiti in Polonia e non altrove. Dovunque la popolazione locale si opponesse alla deportazione dei propri concittadini ebrei - è un fatto stabilito, indiscutibile - il «rendimento» era basso, insoddisfacente. Lo stesso Eichmann lo ha riconosciuto e sottolineato nelle confessioni che ha dettato a Buenos Aires al giornalista olandese Wilhelm Sassen. In Danimarca, quasi tutta la popolazione ebraica venne salvata. In Francia, in Belgio, in Olanda, paesi in cui le misure antiebraiche erano male accolte, i rappresentanti di Eichmann non potevano assolvere il loro compito se non in modo assai mediocre, provocando un'indignata amarezza a Berlino. Ma là dove la popolazione stessa aspirava a di ventare judenrein, i carri bestiame con il loro carico uma341 no correvano senza ostacoli verso la notte. Queste verità non hanno trovato a Gerusalemme l'eco che meritavano. Ugualmente, l'accusa non ha insistito abbastanza sull'atteggiamento del mondo libero, che, colpito da una sorprendente passività, guardava e lasciava fare. Se uomini come Roosevelt, Churchill o il papa avessero fatto sentire la loro voce, la cifra delle vittime avrebbe raggiunto i sei milioni? (* Vedi su questo argomento il prossimo libro di questa collana: Walter Laqueur, Il terribile segreto. (N.d.T.) Il fatto che i tedeschi prendessero tante precauzioni allo scopo di nascondere i loro misfatti prova che essi tenevano conto dell'opinione mondiale. Nelle confessioni citate prima, Eichmann nota con ironia che se fosse 342 anche riuscito a vendere, tramite Joel Brand, un milione di ebrei, nessun paese li avrebbe comprati. L'indifferenza del mondo cosiddetto civile lasciò ai tedeschi campo libero. Ciascuno chiudeva pudicamente gli occhi. A Washington e a Londra, e anche a Gerusalemme, erano al corrente di ciò che stava accadendo fin dal 1942. Hitler e Goebbels non lo ignoravano. Si aspettavano una valanga di proteste e di minacce. Poi capirono che l'Occidente lasciava loro ogni libertà d'azione. Nelle corrispondenza fra il professor Chaim Weizmann e il Foreign Office, presentata in tribunale a Gerusalemme, c'è una richiesta commovente nella sua semplicità: il leader sionista implorava il governo di Sua Maestà di dare ordine alla RAF di bombardare le linee 343 ferroviarie che conducevano ad Auschwitz. La risposta fu negativa. Si sa che una simile richiesta venne rivolta da un leader ebreo americano al presidente Roosevelt. Ma anche Roosevelt non dette alcun seguito alla cosa. È comunque curioso - per non usare un altro termine - che il mondo libero non si sia indignato che dopo, quando era troppo tardi, quando non c'erano più ebrei da salvare. Infine, per non togliere nulla alla verità storica, il procuratore generale avrebbe dovuto spingere fino in fondo la sua requisitoria e rivelare un fatto che, per amaro e triste che possa essere, non è meno vero: gli ebrei stessi non fecero tutto ciò che avrebbero dovuto fare: dovevano, potevano fare molto di più. L'ebraismo americano non si è quasi mosso, non ha usato la sua influenza politica e 344 finanziaria, non ha smosso cielo e terra come avrebbe dovuto fare. Si, lo so: aveva le sue ragioni, le sue giustificazioni, ma non sono valide. Nulla giustifica né spiega la passività quando si tratta di fermare l'assassinio quotidiano di migliaia di persone. Quante manifestazioni hanno avuto luogo al Madison Square Garden? Quante dimostrazioni davanti alla Casa Bianca? Ben Hecht ne parla, e con quale amarezza, nel suo Child of the Century. A leggerlo si gela il sangue. In Palestina, cuore e coscienza del popolo ebraico, la situazione non era molto diversa. Fino alla fine del 1944 non hanno trovato il modo di andare ad avvertire ed eventualmente ad aiutare le grandi comunità ebraiche che la morte aspettava già al varco. Quando quei pochi paracadutisti sono arrivati a Budapest (e dal processo Kastner 345 sappiamo con quale risultato), non restava loro più niente da fare: metà Europa era già priva di ebrei. Perché non è stato mandato prima qualcuno? Certo, sappiamo che c'era la guerra in Palestina. E allora? I giovani membri del Palmach si sarebbero presentati tutti volontari. Fra cento scelti, dieci o cinque sarebbero arrivati a destinazione; avrebbero organizzato la resistenza, evasioni, salvataggi. Uno degli episodi più sconvolgenti della guerra riguarda gli ebrei di Ungheria e in particolar modo quelli della Transilvania. La loro deportazione in massa ebbe luogo fra il maggio e il giugno del 1944, qualche giorno prima dello sbarco in Normandia. Alla stazione di Auschwitz non sospettavano ancora la sorte che li attendeva. Lo stesso nome sinistro di Auschwitz era loro 346 sconosciuto. Non sapevano cosa significasse per loro. Se lo avessero saputo, quanti avrebbero potuto essere salvati? Non tutti, senza dubbio, ma la maggior parte si. L'Armata Rossa si trovava a una distanza di circa quaranta chilometri: di notte si sentiva chiaramente il rimbombo dei cannoni. C'erano delle montagne nei dintorni, dove ci si poteva facilmente rifugiare, aspettarvi qualche giorno; l'arrivo dei liberatori non era che una questione d'ore. Ma a quei pii ebrei di Transilvania veniva detto che non avevano nulla da temere, che li trasferivano da qualche parte all'interno del paese. E loro ci hanno creduto. Ripeto: questo è accaduto nella primavera dell'anno di grazia 1944, quando ogni bambino di Brooklyn, di Whitechapel e di Tel Aviv già sapeva che Treblinka e Birkenau erano tutt'altro 347 che piccole stazioni di provincia. Tuttavia, a Joel Brand, che sollecitava un colloquio urgente per informarlo della sua missione doppiamente tragica, il professor Chaim Weizmann fa rispondere che è troppo occupato e rimanda il colloquio di qualche settimana. Eppure Brand aveva precisato in una lettera che ogni ora era importante, che ogni giorno che passava significava diecimila ebrei in meno. Come Brand sia riuscito a non perdere la ragione resterà per me uno degli enigmi della volontà capace di sopravvivere alla propria dannazione. L'atteggiamento di Weizmann non faceva che mettere in evidenza lo stato d'animo diffuso fra gli ebrei in Palestina, e da qui la sua gravità. La gente si comportava come se ciò che accadeva «lassù» non la riguardasse. Con un distacco stupefacente, 348 incomprensibile. Inconsciamente dicevano a se stessi: di chi è la colpa? Avrebbero potuto venir qui da noi; avrebbero dovuto seguire il nostro esempio; hanno mancato di coraggio, d'idealismo: tanto peggio per loro. Yitzchak Gruenbaum, già capo di una commissione di salvataggio, ce lo dice nelle sue memorie: si interrogava, e i suoi colleghi con lui, per sapere se si aveva il diritto di prelevare, per salvare degli ebrei in Europa, del denaro destinato alla costruzione della Palestina. La sua posizione era nettamente contraria. Prima veniva Eretz Israel e soltanto dopo la Diaspora. Costruire una casa, una fabbrica, una scuola aveva la priorità. Il giovane poeta israeliano Haim Gouri ebbe un giorno la curiosità di esaminare negli archivi dei giornali di Tel Aviv le annate 1943-44. Fu 349 un'esperienza sconvolgente. «Non capisco», mi disse. «Se tu sapessi quali erano i problemi che allora ci occupavano, mentre in Europa... Elezioni comunali a Hedera o altrove: titoli in prima pagina. In un angolo sperduto della pagina un piccolo trafiletto di poche righe: I tedeschi hanno cominciato a sterminare gli ebrei del ghetto di Lublino, o di Lodz...». Non è colpa del popolo, ma dei suoi dirigenti. Non erano all'altezza. Davano prova di una sorprendente mancanza d'iniziativa, di maturità politica e di coraggio. Nahum Goldmann lo ha confessato recentemente, in occasione di una riunione a Ginevra del comitato esecutivo del Congresso mondiale ebraico. Le grandi organizzazioni ebraiche erano incapaci di superare le loro piccole questioni interne per realizzare 350 un'azione comune. Per tutto il tempo che esistè, il comitato di emergenza per salvare il popolo ebraico fu boicottato da tutti i leader ebrei americani. Anche in questo caso avevano le loro ragioni, i loro motivi: niente alleanze con personaggi non ortodossi come Ben Hecht o Peter Bergson, niente collaborazione con il tale o il talaltro. Ma allora avrebbero potuto creare il loro proprio comitato di salvataggio in seno al quale tutti i partiti, tutte le organizzazioni sarebbero state rappresentate. Questo non è stato fatto. È per questo che non possiamo fare a meno di esprimere questa riflessione: per collocare il processo al suo giusto livello morale, quello della verità assoluta, il procuratore generale Gideon Hausner (o lo stesso primo ministro David Ben Gurion in qualità di testimone) avrebbe dovuto 351 abbassare la testa e gridare a voce alta in modo da farsi udire da tre generazioni: «Prima di giudicare gli altri dobbiamo riconoscere i nostri errori, le nostre debolezze. Non abbiamo tentato l'impossibile, non abbiamo neanche esaurito il possibile». Con l'avvento del regime nazista in Germania l'umanità ha assistito a ciò che Martin Buber chiamerebbe un'eclissi di Dio. Come per effetto di una maledizione, gli uomini, forti e deboli, lucidi e vili, si scoprirono colpevoli, associati al Male, se non altro perché vivevano quello stesso momento storico. Tutti gli atti ne furono macchiati. I grandi spiriti si erano addormentati, le sensibilità più fini si attenuavano, voci potenti tacevano. L'apatia generale aveva creato un clima propizio ai criminali che potevano agire con calma, 352 efficacemente, senza fastidi né falsa vergogna. Poi arrivò la capitolazione tedesca. Il mondo libero emise un grido di orrore e questo grido soffocò ogni crisi di coscienza. «Non sono stato io», diventò il ritornello, soprattutto in quello che fu il Terzo Reich. Altrove, ci si accontentava di versare una lacrima e di proclamare che «noi non c'entravamo affatto». Karl Jaspers si interrogava sulla «colpevolezza tedesca» con la precisa intenzione di arrivare alla colpevolezza universale. Il suo saggio ebbe per effetto quello di placare molti timori e di rassicurare molti animi nella Germania occupata. In questo la filosofia dette prova di una curiosa mancanza di umiltà. Far condividere la colpevolezza al mondo non nazista era compito dei pensatori di New York o di Stoccolma, era 353 perfino un loro dovere. In effetti il mondo non aveva poche lezioni da ricevere, ma non dalla bocca di un professore tedesco. In Europa occidentale la reazione si fece sentire soprattutto nel campo della letteratura. Sartre, Camus e Gabriel Marcel, rifacendosi a Mairaux e al suo tema dell'azione, mettevano l'accento sull'impegno. L'idea di base era che tutto ciò che accade intorno a noi ci riguarda direttamente. Ma la questione non era esaminata fino in fondo. L'eroe del romanzo moderno, occupato a formulare la sua protesta, non si preoccupava troppo delle sfumature. Era buono o cattivo, «resistente» o «collaborazionista», o ancora «indifferente». Le linee erano tracciate, i campi ben delimitati. Chi aveva fatto saltare dei treni poteva dormire tranquillamente il sonno del 354 giusto, gli altri rientravano nella categoria dei salauds. Il senso di colpa non aveva un ruolo importante nel futuro che la gioventù europea giurò di costruire sulle rovine. Tranne che nella pittura, l'arte non aveva quasi nessun rapporto intrinseco con gli avvenimenti a cui avrebbe dovuto ispirarsi. Nessuna nuova filosofia è stata formulata, nessuna nuova religione è stata proclamata: la terra ha tremato e l'uomo è rimasto uguale a se stesso. Andre Gide raccontò un giorno una pungente barzelletta antisemita. Una dei suoi discepoli gli domandò arrossendo: «Allora, anche voi, Maestro?». Gide si mise a piangere: «Non sapevo di esserlo». Era prima della guerra. Dopo, Gide non piangeva più. Non si considerava 355 più colpevole, perché non faceva più dello spirito a spese degli ebrei. Per una strana ironia del destino, soltanto i reduci, i sopravvissuti erano, e sono, coscienti della loro parte di responsabilità. Non si tratta di un'idea giansenista e il peccato originale li lascia freddi. L'idea che li domina è più concreta, più straziante. Fa parte del loro essere. Perché non vi siete rivoltati? Perché non avete resistito? Eravate diecimila contro dieci, contro uno: perché vi siete lasciati condurre al mattatoio come bestiame? Durante le prime giornate del processo Eichmann, il procuratore generale Gideon Hausner, per illuminare, a beneficio della giovane generazione israeliana, le zone oscure del dramma, torturava i testimoni con questo genere 356 di domande. Essi gli rispondevano invariabilmente: «Voi non potete sapere; chi non è stato laggiù non può capire». Bruno Bettelheim e Victor Frankl, entrambi eminenti psichiatri, ci sono stati. Nei loro libri, che trattano di psicologia concentrazionaria, hanno cercato di trovare una spiegazione. Il consenso della vittima li interessava quanto la crudeltà del carnefice. Ma l'attribuirlo alla disintegrazione della personalità o al risveglio del «desiderio di morte» nell'io non offre che una spiegazione parziale. Vi manca il perché, l'aspetto metafisico. Vi manca il senso di colpa di cui i prigionieri erano impregnati. Questo sentimento era innanzitutto d'essenza religiosa. Se mi trovo qui è perché Dio mi ha punito; ho peccato e quindi pago; se subisco 357 questo castigo vuol dire che l'ho meritato. La rivolta contro Dio veniva dopo. Prima il prigioniero sacrificava la sua libertà a quella di Dio. Si riconosceva colpevole piuttosto che pensare che il suo Dio era quello di Giobbe, per cui l'uomo non è che un esempio, un mezzo per dimostrare una tesi in un duello verbale con Satana. Ogni giorno che lo allontanava dalla sua libertà rendeva il suo senso di colpa più acuto, più cosciente. In ciò non faceva altro che ubbidire a una linea di condotta tracciata per lui dai suoi carcerieri che, nei ghetti e nei campi, avevano scientemente e sapientemente spinto all'estremo limite il senso di vergogna e di umiliazione che l'essere vivente prova normalmente nei confronti dei morti. 358 Vivo, e quindi sono colpevole; se sono ancora qui è perché un amico, un compagno, uno sconosciuto è morto al mio posto. In un mondo chiuso, questa certezza possiede una potenza distruttrice dagli effetti facilmente intuibili. Se vivere vuol dire accettare o generare l'ingiustizia, morire diverrà ben presto una promessa, una liberazione. Il sistema del Lebensschein nei ghetti e della Selektion nei campi non mirava soltanto a decimare periodicamente la popolazione, ma anche a far sì che ogni prigioniero dicesse a se stesso: quello avrei potuto essere io; sono la causa, forse la condizione della morte altrui. Così il Lebensschein rappresentava una tortura morale, una prigione senza uscita. Una delle testimonianze più commoventi che abbia sentito 359 al processo Eichmann fu quella di un uomo che era stato medico a Vilna. Sposato da poco, era riuscito a procurarsi un «certificato di vita»; lavorava in una fabbrica tedesca. In grado di salvare un parente stretto della sua famiglia, andò a trovare sua madre per chiederle consiglio: «Che fare, chi proteggere? Te o mia moglie?». Obbligato a una scelta, l'uomo, divenuto strumento tangibile del destino, vivrà ormai in un cerchio infernale, soffocante; non potrà più pensare a se stesso senza rabbia, senza disgusto. Se Ernie Levy, lo straziante personaggio di Andre Schwarz-Bart, decide alla fine di prendere il treno per Auschwitz, non lo fa né per amore né per pietà, ma perché è convinto che l'umanità ha raggiunto un tale grado di abiezione che nessuno può continuare a vivere e rimanere un giusto. 360 Divenuto un semplice numero, l'uomo concentrazionario perdeva nello stesso tempo la sua identità, il suo destino individuale. La sua presenza nel campo era dovuta unicamente al fatto che egli apparteneva a una collettività dimenticata, condannata. Non è scritto che «io» vivrò o morirò, ma che oggi qualcuno scomparirà o continuerà a soffrire. Da un punto di vista collettivo non c'è nessuna differenza che sia io o un altro. È il numero che conta, la quota. Così, il prigioniero risparmiato, soprattutto in periodo di selezioni, non poteva reprimere uno spontaneo sentimento di gioia. Passato un momento, una settimana, un'eternità, questa gioia piena di ansia e di paura si trasforma in senso di colpa. Il sentimento di libertà, di essere stato risparmiato, equivale a confessare: sono contento che un altro 361 se ne sia andato al mio posto. È per non pensare a questo che i prigionieri, aiutati da un meccanismo di difesa, riuscivano a dimenticare così presto i loro compagni, i loro genitori selezionati. Per evitare gli sguardi, pieni di biasimo, che gli scomparsi avevano loro lanciato un'ultima volta. Perché gli ebrei nei campi non hanno scelto di morire con onore, il coltello in mano, l'odio sulle labbra? Il dottor Bruno Bettelheim se lo chiede a buon diritto. Senza invocare le ragioni tecniche e psicologiche che rendevano ogni tentativo di insurrezione impossibile (sapevano di essere stati sacrificati, cancellati dall'umanità, dimenticati), noi dobbiamo, per rispondere, considerare l'aspetto morale della questione. Coscienti della maledizione che pesava su di loro, gli ebrei arrivarono a pensare che non erano più degni né 362 capaci di un atto di onore. Cadere lottando sarebbe stato come tradire coloro che erano andati incontro alla morte docilmente e in silenzio. L'unico modo di riconciliarsi con loro era quello di seguire le loro orme, di morire come erano morti loro. Citiamo ancora un caso, anch'esso presentato in tribunale a Gerusalemme: quella donna che, nuda e ferita, riuscì a fuggire dalla fossa comune dove gli ebrei della sua città erano stati massacrati, e che poco dopo vi ritornò per unirsi a quella fantasmagorica comunità di cadaveri. Salvatasi miracolosamente, rifiutava la vita divenuta ai suoi occhi impura. Alcuni psichiatri hanno esaminato a lungo Adolf Eichmann, prima e dopo il processo. Non si sa ancora ciò che hanno scoperto. Si dovrebbero 363 comunque esaminare anche le sue vittime, quelle ancora vive. Ma i reduci oppongono un silenzio opprimente che hanno portato con sé da «laggiù». Si rifiutano di aprirsi. Ciò che non si sa è che essi hanno paura della propria voce. La loro tragedia è quella di Giobbe prima di sottomettersi: si credono colpevoli senza esserlo. Soltanto un giudice sarebbe in grado di sgravarli del loro fardello, ma per loro nessuno ne possiede l'autorità e la forza: né gli esseri umani, né i loro dei. Allora, in questo mondo condannato, invece di lanciare la loro sfida all'uomo, la loro ira in faccia alla Storia, preferiscono tacere e continuare il monologo che solo i morti meritano di sentire. La colpa non è stata inventata ad Auschwitz, vi è stata solamente sfigurata. 364 Difesa dei morti Avevo appena quindici anni quando, per la prima volta, affascinato, assistei a una strana discussione sulla dignità e la morte e sul rapporto che poteva esserci fra di loro. Gente che era morta e ancora non lo sapeva discuteva sulla necessità, piuttosto che sulla possibilità, di farsi uccidere con dignità. La realtà di certe parole mi sfuggiva e anche il peso di quella realtà. La gente, intorno a me, parlava, e io non capivo nulla. Oggi ho vent'anni di più e tutti i sentieri che 365 portano al cimitero mi sono conosciuti. La discussione dura ancora. Solo i partecipanti sono cambiati. Quelli di vent'anni fa sono morti e adesso lo sanno già. E io capisco ancora meno. Ero appena precipitato nell'irreale. Doveva essere verso mezzanotte. In seguito appresi che il carnefice, in generale, è un individuo romantico che ama le messe in scena perfette; trova nelle tenebre uno scenario e nella notte un alleato. Da qualche parte un cane si mise a latrare, un altro gli fece eco, poi un terzo. Eravamo dunque nel regno dei cani. Una donna finì per impazzire e lanciò un grido che non aveva più niente di umano; era piuttosto un latrato: senza dubbio anche lei voleva diventare un cane. Un colpo di rivoltella mise fine alla sua allucinazione; il silenzio si richiuse su di noi. In lontananza, i fasci 366 di fuoco rossi e gialli che uscivano da immense ciminiere salivano verso il cielo senza luna, come per incendiarlo. Un quarto d'ora prima, o meno, il nostro treno si era fermato a una piccola stazione di periferia. In piedi davanti alle grate, la gente leggeva a voce alta: Auschwitz. Qualcuno domandò: - Siamo arrivati? Un altro rispose: - Credo di si. - Auschwitz, lo conoscete? - No. Per niente. Quel nome non evocava nessun ricordo, non si collegava a nessuna angoscia. Ignoranti in materia di geografia, supponevamo che fosse una piccola e tranquilla località della Slesia. Non sapevamo ancora che era già entrata nella storia per la sua popolazione di diversi milioni di ebrei morti. Lo 367 abbiamo saputo un minuto dopo, quando le porte dei vagoni si sono aperte in un fracasso assordante e un esercito di detenuti si è messo a gridare: - Capolinea! Tutti giù! Da guide coscienziose, ci descrissero le sorprese che ci erano riservate: - Auschwitz, lo conoscete? No? Non importa, lo conoscerete, lo conoscerete presto. Sghignazzavano: - Auschwitz, non lo conoscete? Veramente? Non importa. C'è qualcuno che vi aspetta qui. Chi? La morte. Vi aspetta. Non aspetta che voi. Guardate e la vedrete. E ci indicavano il fuoco lontano. In seguito, molti anni dopo, ho domandato a un mio amico: - Quali furono le tue prime impressioni ad 368 Auschwitz? Cupamente, mi rispose: - Ho trovato lo spettacolo di una terrificante bellezza. Quanto a me, non l'ho trovato né bello né terrificante. Ero giovane e mi rifiutavo semplicemente di credere ai miei occhi e alle mie orecchie. Mi dicevo: le nostre guide si burlano di noi per farci paura, per divertirsi; viviamo in pieno secolo ventesimo, non si bruciano più gli ebrei, non siamo più nel Medioevo, il mondo civile non lo avrebbe permesso. Mio padre camminava accanto a me, la testa bassa. Gli domandai: - Il Medioevo è alle nostre spalle, non è vero, papà, che il Medioevo è alle nostre spalle? Non mi rispose. Allora gli domandai: - Sto sognando, papà, non è vero che sto 369 sognando? Non mi rispose. Nel frattempo avanzavamo verso l'ignoto. Fu allora che, come in un mormorio, nacque fra di noi una febbrile discussione. Qualche giovane gagliardo, dominando il proprio stupore, aggrappandosi alla propria rabbia, lanciò un appello alla rivolta. Senza armi? Sì, senza armi. Le unghie, i pugni e qualche coltellino nascosto nei vestiti sarebbero bastati. Ma non sarebbe stata una morte certa? Sì, e allora? Non c'era più nulla da perdere, bensì tutto da guadagnare, soprattutto l'onore; ecco cosa c'era ancora da guadagnare: l'onore. Morire da uomini liberi, ecco cosa volevano quei giovani. La sconfitta era solo nella rassegnazione. Ma i loro padri erano contrari. Continuavano a 370 sognare. E ad aspettare. Invocavano il Talmud: «Dio può intervenire, anche all'ultimo momento, quando tutto sembra ormai perduto. Non bisogna precipitare le cose, non bisogna perdere la fede né la speranza». La discussione si era estesa a tutte le file. Domandai a mio padre: - Che ne pensi? Questa volta mi rispose: - Pensare non serve più a molto. Il gregge umano continuava ad andare avanti, e noi non sapevamo dove i nostri passi ci avrebbero portato. No, mi sbaglio: lo sapevamo già, le nostre guide ce lo avevano detto. Ma facevamo finta di ignorarlo. E la discussione continuava. I giovani erano favorevoli, i meno giovani contrari. I primi finirono per cedere: bisognava ubbidire ai genitori, è scritto nella Bibbia, bisognava 371 rispettare i loro desideri. Ed è così che la rivolta non ebbe luogo. Negli ultimi tempi molte persone cominciano a interrogarsi sul problema posto dal comportamento incomprensibile, perfino enigmatico, degli ebrei in quella che fu l'Europa concentrazionaria. Perché sono entrati nella notte come il bestiame va al mattatoio? Importante, se non essenziale, perché riguarda la verità senza tempo dell'uomo, questa domanda tormenta le buone coscienze che, improvvisamente, sentono il bisogno di essere rassicurate, di conoscere il nome dei colpevoli e i loro crimini, e che sia loro spiegato il senso di quella storia che non hanno vissuto se non per interposta persona. Così, tutti quei milioni di ebrei, che la cosiddetta società civile aveva lasciato disperare e agonizzare nel 372 silenzio e poi nell'oblio, a un tratto vengono riportati in superficie per essere affogati in un diluvio verbale. E siccome viviamo in un tempo in cui regna il vaniloquio, i morti non si oppongono. Viene imposto loro il ruolo di reduci e si bombardano di domande: «Allora, com'era? Che cosa avete provato quando a Minsk e a Kiev e a Kolomea la terra, aprendosi davanti ai vostri occhi, inghiottiva i vostri figli e le vostre preghiere? Che cosa avete pensato quando avete visto il sangue, il vostro sangue, schizzare dalle viscere della terra e salire fino al sole? Raccontate, parlate, noi vogliamo sapere, vogliamo soffrire con voi, abbiamo alcune lacrime di riserva, ci fanno male, vorremmo disfarcene». Si arriva a rimpiangere i bei tempi andati quando questo argomento, ancora di dominio dei 373 sacri ricordi, era considerato un tabù, riservato agli iniziati, che, loro, ne parlavano con pudore e timore, e sempre abbassando lo sguardo, e sempre tremando d'umiltà, sapendosi poveri e riconoscendo i limiti del loro linguaggio parlato e taciuto. Adesso, in nome del pensiero obiettivo e della ricerca storica, tutti se ne occupano, senza il minimo imbarazzo. Accessibile a tutte le menti, a tutte le intelligenze in cerca di stimoli, questo argomento è diventato un argomento di conversazione alla moda. Perché no? Sostituisce Brecht, Kafka e il comunismo, già fritti e rifritti. Nei circoli intellettuali, o sedicenti tali, a New York e senza dubbio anche altrove, nessuna serata mondana può dirsi veramente riuscita se Auschwitz non figura in una discussione in cui si cerca la verosimiglianza piuttosto che la verità, la 374 quale si rifugia al di là delle parole. Eccellente rimedio per scacciare la noia e accendere le passioni. Menzionate i nomi di qualche opera pubblicata recentemente su questo argomento ed ecco le menti che si svegliano, una più brillante, più arrogante dell'altra. Psichiatri, attori e romanzieri hanno tutti una loro idea al riguardo, vedono tutti chiaro, ognuno di loro è pronto a darvi tutte le risposte, a spiegarvi tutti i misteri: la fredda crudeltà del carnefice e il grido strozzato della vittima, e perfino il destino che li ha uniti come per recitare sulla stessa scena, nello stesso cimitero. È semplicissimo. Come la fame, la sete e l'odio. Basta capire la storia, la sociologia, la politica, la psicologia, l'economia (fate la vostra scelta, signore e signori); basta saper contare. E ammettere l'assioma che dappertutto A+B=C. Se i 375 morti sono morti, se così tanti morti sono morti, vuol dire che essi desideravano la loro morte, vuol dire che erano attratti, spinti dai loro istinti. Al di là delle divergenze di tutte le teorie enunciate, il cui tono di certezza non può non suscitare rabbia, tutti sono unanimi nel concludere che le vittime, partecipando al gioco del carnefice, sono, a vari livelli, corresponsabili. Ciò dovrebbe colpire per la sua novità. Finora si consideravano gli ebrei responsabili di tutto ciò che accadeva sotto il sole, della morte di Gesù, delle guerre fratricide, delle carestie, della disoccupazione e delle rivoluzioni: incarnavano il male. Adesso li si considera responsabili della loro morte: incarnano questa morte. Così si vede come il problema ebraico continui a essere questa terra di nessuno dello spirito in cui chiunque può, 376 in tutta libertà, dire qualunque cosa in qualunque modo: un gioco in cui tutte le puntate sono vincenti. Solo i morti perdono, ma ciò sembra far parte delle regole del gioco. E in questo gioco - perché non si tratta d'altro - è assai facile prendersela con i morti, accusarli di vigliaccheria o di complicità, nel senso concreto o metafisico del termine. Ma, secondo me, questo gioco comporta un lato umiliante. Voler parlare in nome dei morti - e dire: ecco le loro motivazioni, ecco le ragioni che hanno indebolito la loro volontà - significa precisamente umiliarli. Io dico che i morti hanno meritato ben altro che questa umiliazione postuma. Non ho mai capito perché, nella religione ebraica, toccare i cadaveri renda impuri; adesso comincio a capire. Lasciateli dunque tranquilli. Non disseppellite 377 questi morti senza sepoltura. Lasciateli li dove dovrebbero essere per sempre e quali dovrebbero essere: delle ferite, dei dolori incommensurabili in fondo al vostro essere. Siate contenti che non si sveglino, che non scendano sulla terra per giudicare i vivi. Il giorno in cui si metteranno a raccontare ciò che hanno visto e sentito, e ciò che sta loro a cuore, non saprete dove fuggire, vi tapperete le orecchie, da quanto grande sarà la vostra paura e terribile la vostra vergogna. Capisco che si voglia sezionare la storia, che si provi il violento desiderio di delineare i contorni del passato e delle forze che lo hanno dominato; nulla è più naturale. Nessuna questione è più importante per l'uomo della nostra generazione che è quella di Auschwitz e di Hiroshima, parlo della Hiroshima di domani. Il futuro ci fa paura, il 378 passato ci riempie di vergogna, e questi due sentimenti, come questi due avvenimenti, sono strettamente legati, come in un rapporto di causa ed effetto. È Auschwitz che genererà Hiroshima, e se il genere umano scomparirà a causa della bomba atomica, questo sarà il castigo di Auschwitz, dove, nella cenere, si spensero le promesse dell'uomo. E aveva ragione l'inquieta moglie di Lot di voler guardare indietro e di non temere di portare con sé nello sguardo la bruciatura della speranza consumata. «Sappi da dove vieni», dicevano i saggi di Israele. Ma tutto dipende dall'atteggiamento interiore di chi si volta verso l'origine; se è per pura curiosità, la sua visione farà di lui una statua da salotto. Purtroppo le statue non ci mancano ai giorni nostri, e ciò che è peggio, esse 379 parlano, come dall'alto della montagna. Io leggo dunque e ascolto questi eminenti studiosi e professori che, avendo letto tutti i libri e confrontato tutte le teorie, proclamano la loro erudizione e la loro capacità di penetrare tutto, di spiegare tutto, compiendo semplicemente un lavoro di classificazione. A volte, soprattutto quando, all'alba, mi sveglia il primo grido udito quella prima notte dietro i reticolati, mi viene voglia di dire a tutti questi illustri scrittori che pretendono di andare fino in fondo: «Vi ammiro, perché io incespico quando affronto questo argomento; voi pretendete di saper tutto, e anche in questo vi ammiro, perché io non so nulla. Che volete, io so di essere ancora incapace di decifrare - perché sarebbe bestemmiare - il sorriso spaventato del bambino 380 strappato a sua madre per trasformarsi in torcia umana; né riesco ad afferrare, e non ci riuscirò mai, l'ombra che in quel momento invase gli occhi della mamma. Voi ci riuscite, senza dubbio. Avete fortuna, dovrei invidiarvi, ma non vi invidio. Preferisco pormi dalla parte del bambino e della mamma che, loro, morirono prima di imparare le formule e la fraseologia che sono alla base della vostra scienza». Così come preferisco pormi dalla parte di Giobbe che ha scelto le domande e non le risposte, i silenzi e non i discorsi. Giobbe non ha mai capito la sua tragedia che, dopo tutto, era soltanto quella di un individuo tradito da Dio; essere traditi dai propri simili è molto più grave. Tuttavia, il silenzio di quest'uomo solitario e sconfitto durò tre giorni e tre notti, e soltanto 381 dopo, identificandosi col suo male, pensò di aver acquisito il diritto di interrogare Dio. Di fronte a Giobbe, il nostro silenzio dovrebbe prolungarsi per secoli. E voi osate parlare in nome della vostra conoscenza? Osate dire: io so? Ecco come e perché le vittime erano vittime e i carnefici carnefici? Osate interpretare le agonie e le angosce, l'abnegazione davanti alla fede e la stessa fede di sei milioni di esseri umani, che si chiamano tutti Giobbe? Chi siete voi per giudicarli? Un mio amico, nel pieno vigore dell'età, passò una notte intera a studiare alcuni resoconti sull'Olocausto, in particolare sul ghetto di Varsavia. La mattina si guardò allo specchio e vide un estraneo: i suoi capelli erano diventati bianchi. Un altro non perse la giovinezza ma la 382 ragione. Si immerse nel passato e vi è ancora. Ogni tanto vado a trovarlo all'ospedale, ci guardiamo e taciamo. Un giorno si scosse e mi disse: - Forse bisognerebbe imparare a piangere. Dovrei invidiare questi studiosi che si vantano di comprendere questa tragedia di tutto un popolo; io, invece, non riesco neanche a spiegarmi quella di uno solo dei suoi figli. Non ho niente contro le loro domande: sono valide. Anzi, sono le uniche a esserlo. Scansarle è mancare al nostro dovere, è perdere la nostra unica possibilità di potere un giorno condurre una vita autentica. È contro le loro risposte che protesto, e poco m'importa su che cosa siano basate. Io dico che non ci sono risposte. Ciascuna di queste tesi contiene forse un briciolo di verità, 383 ma la loro somma resta al di sotto e al di fuori di ciò che fu, nel tempo della notte, la verità. La materia studiata è fatta di morte e di mistero, scivola dalle mani, corre più velocemente della nostra percezione: è dappertutto e in nessun luogo. Le risposte non fanno che aggravare la domanda: le idee e le parole devono alla fine cozzare contro un muro più alto del cielo, un muro di corpi umani che si estende all'infinito. Sono vent'anni che mi dibatto con queste stesse domande. Non c'è nulla di più facile che trovar loro questa o quella soluzione: il linguaggio aggiusta tutto. Ma quello che hanno in comune queste risposte è che non hanno nessuna relazione con le domande. Non posso credere che un'intera generazione di padri e di figli sia scomparsa nell'abisso senza creare, per questo stesso fatto, un 384 mistero che supera la nostra comprensione e ci soggioga. Io continuo a non capire ciò che è accaduto, né come, né perché. Tutte le parole in tutte le bocche dei filosofi e degli psicologi non valgono le lacrime del bambino e della madre che vivono la loro morte due volte. Che fare allora? Nei miei calcoli tutte le addizioni danno sempre la stessa cifra: sei milioni. Qualche mese fa, a Gerusalemme, ho incontrato per caso uno dei tre giudici del processo Eichmann. Per usare un'espressione cara a Camus, quest'uomo saggio e lucido e di un carattere intransigente è a un tempo persona e personaggio. E, in più, è una coscienza. Si rifiutava di discutere il lato tecnico o legale del processo. Dopo avergli detto che questo aspetto non mi interessava, gli ho posto la 385 seguente domanda: - Dato il vostro ruolo nel processo, voi dovete saperne sulla portata dell'Olocausto più di ogni altro essere vivente, anche più di coloro che l'hanno vissuto nella loro carne e nella loro memoria. Voi avete studiato tutti i documenti, letto tutti i rapporti segreti, interrogato tutti i testimoni. Rispondetemi: voi capite questo frammento di passato, queste poche pagine di Storia? Ebbe un fremito impercettibile, poi con voce dolce e infinitamente umile confessò: - No, per niente. Conosco i fatti e gli avvenimenti; conosco lo svolgimento della tragedia attimo per attimo, ma questa conoscenza, venendo dall'esterno, non ha nulla a che vedere con la comprensione. C'è in tutto ciò una parte che 386 resterà sempre misteriosa; una specie di zona proibita, inaccessibile alla ragione. Per fortuna, del resto. Senza questo... Si interruppe. Poi abbozzò un sorriso un po' timido, un po' triste, e aggiunse: - Chissà, forse è questo il dono che Dio, in un momento di grazia, fece all'uomo: gli impedisce di capire tutto; così lo salva dalla follia, o dal suicidio. È raro che persone che non abbiano conosciuto quelle notti infernali sappiano trovare il tono giusto quando ne parlano; questo giudice rappresenta un'eccezione. In realtà, Auschwitz non significa soltanto il fallimento di duemila anni di civiltà cristiana, ma anche la sconfitta dell'intelligenza che vuole trovare un Senso, con l'S maiuscola, alla storia. 387 Ma quella che Auschwitz incarnava non ne ha. Il carnefice uccideva per nulla, la vittima moriva per nulla. Nessun Dio aveva ordinato all'uno di innalzare i roghi né all'altro di salirci. Nel Medioevo, gli ebrei, scegliendo la morte, erano convinti che col loro sacrificio glorificavano e santificavano il Suo Nome. Ad Auschwitz i sacrifici erano privi di scopo, di fede, di afflato divino. Se la sofferenza di un essere umano ha un senso, quella di sei milioni non ne ha. I numeri hanno la loro importanza, la loro grandezza: essi provano, secondo Piotr Rawicz, che Dio è impazzito. Io ho assistito al processo Eichmann, ho sentito il procuratore generale che cercava di far parlare i testimoni, obbligandoli a esporsi e a frugare nelle pieghe più segrete del loro essere: perché non 388 avete resistito? Perché non avete attaccato i vostri assassini che erano comunque meno di voi? Pallidi, imbarazzati, a disagio, i sopravvissuti hanno risposto tutti nello stesso modo: - Voi non potete capire. Chi non è stato «laggiù» non se lo potrà mai immaginare. Ebbene, io ci sono stato. E continuo a non capire. Non capisco quel bambino che, nel ghetto di Varsavia, scrisse nel suo diario: «Ho fame, ho freddo; da grande vorrei essere un tedesco, e allora non avrò più fame, e allora non avrò più freddo». Continuo a non capire perché io stesso non mi sia buttato su quel kapò che picchiava mio padre davanti ai miei occhi. In Galizia, gli ebrei scavavano le proprie tombe e si allineavano, senza alcuna traccia di panico, sull'orlo delle fosse per 389 aspettare il crepitio delle mitragliatrici. Non capisco la loro calma. Così come non capisco quella donna, quella madre, nascosta in un bunker da qualche parte della Polonia; i suoi compagni le soffocarono il bambino appena nato per timore che il suo pianto li potesse tradire; e questa donna, questa madre, pur avendo vissuto questa scena di un'intensità biblica, non è impazzita. Non la capisco: perché, e con che diritto, e in nome di che cosa non è impazzita? Non so perché, ma vi proibisco di porle la domanda. Il mondo taceva mentre si massacravano gli ebrei, mentre li si riduceva allo stato di cosa buona per il fuoco; che abbia almeno la decenza di tacere anche adesso. Le sue domande vengono un po' in ritardo; è al carnefice che avrebbero dovuto essere rivolte. Esse vi 390 tormentano? Non vi lasciano dormire in pace? Tanto meglio. Voi volete sapere, capire, per voltar pagina, non è vero? Per potervi dire: il caso è chiuso e tutto è rientrato nell'ordine. Non aspettate che i morti vengano in vostro aiuto. Il loro silenzio gli sopravviverà. Avete delle domande? Benissimo. Non volete porle al carnefice, che vive nella felicità se non nella gloria a casa sua, in Germania; allora trasmettetele agli altri, a coloro che proclamano di non aver partecipato al gioco, a coloro che si erano resi complici con la loro passività. La loro «ignoranza» dei fatti non li scusa molto, era voluta. A Londra e a Washington, a Basilea e a Stoccolma, gli alti funzionari erano al corrente di ogni trasporto che portava il suo carico umano 391 verso il paesaggio di cenere, verso il regno della nebbia; nel 1942-43 avevano già fotografie che documentavano i rapporti; furono tutti dichiarati «riservati» e la loro pubblicazione venne proibita. Nessuna voce si è alzata per dire al carnefice che il giorno del castigo era prossimo e per consolare le vittime: ci sarebbe stato un castigo, il regno della notte era soltanto temporaneo. Forse Eichmann era dopo tutto un piccolo uomo. La Germania hitleriana era piena di piccoli uomini come lui, tutti preoccupati che la macchina dello sterminio funzionasse bene ed efficacemente. Grandi e piccoli, tutti sapevano che su un punto - quello della politica nazista verso gli ebrei - non ci sarebbero stati conti da pagare all'indomani della sconfitta: la sorte degli ebrei non interessava nessuno. 392 Un giorno avrebbero dovuto restituire i territori occupati ed eventualmente pagare ai vincitori i danni di guerra, com'è normale, ma la questione ebraica non sarebbe pesata. Gli Alleati se ne infischiavano altamente di ciò che le SS facevano con i loro ebrei. In questo gli Eichmann potevano agire impunemente. Soltanto così si può comprendere come Heinrich Himmler, il gran maestro dei campi della morte, abbia potuto concepire la possibilità di diventare, verso la fine della guerra, il migliore interlocutore degli Alleati occidentali in vista di una pace separata; non gli venne neanche in mente il fatto che aver diretto con successo l'annientamento di intere popolazioni ebraiche potesse squalificarlo nel suo ruolo di negoziatore. E quando, con falsa ironia, Eichmann dichiarava che nessun paese era 393 interessato a salvare gli ebrei, diceva la verità. Eichmann mentiva sul suo ruolo, ma non su quello del campo opposto o neutrale. In effetti, i tedeschi, conosciuti più per la loro prudenza maniacale che per la loro impulsività, svilupparono la loro politica antiebraica a poco a poco, gradualmente, riprendendo fiato dopo ogni misura, dopo ogni mossa, per vedere le reazioni. Ci fu sempre una tregua fra una tappa e l'altra, fra le leggi di Norimberga e la «notte dei cristalli», fra le espropriazioni e le deportazioni, fra i ghetti e la liquidazione in massa. Dopo ogni infamia, i tedeschi si aspettavano un'appassionata reazione da parte del mondo libero; si resero ben presto conto dell'errore: li lasciavano fare. Certo, qua e là c'era qualche discorso, qualche articolo di fondo indignato, ma la cosa si fermava lì. Allora, a 394 Berlino, sapevano come comportarsi. Dicevano a se stessi: visto che il semaforo segna verde, possiamo continuare tranquillamente. Anzi, erano convinti, in tutta sincerità, che un giorno gli altri popoli sarebbero stati loro riconoscenti di aver fatto il lavoro al loro posto. Quasi tutti i nazisti di una certa importanza esprimono questa idea nei loro scritti, così come essa figurava in tutti i loro discorsi. Uccidevano gli ebrei per il bene del mondo, non soltanto per il bene della Germania. Dopo tutto, non bisognerebbe accusare i tedeschi di non pensare che a se stessi. Io sostengo che con un'azione energica, con una presa di posizione senza ambiguità, senza scappatoie, il mondo libero avrebbe potuto costringere i tedeschi a ricredersi, o almeno ad avere mire meno grandiose. È comprensibile che 395 per Berlino l'assenza di questa azione non poteva che significare un tacito, inconfessato accordo da parte delle potenze alleate. Basta sfogliare i giornali dell'epoca per disgustarsi dell'avventura umana su questa terra: il fenomeno dei campi di concentramento, malgrado il suo orrore e le immense ramificazioni, occupava, nell'insieme, meno posto del più piccolo incidente stradale. Sarebbe un errore credere che i prigionieri ignorassero questo stato di cose. Sapendosi abbandonati, esclusi, rinnegati dal resto dell'umanità, la loro marcia verso la morte, fiera anche se docile, diventava un atto di lucidità, di protesta, e non di accettazione e di debolezza. Ho già detto prima perché il trasporto di cui facevo parte non si rivoltò la sera del nostro arrivo. Aggiungerò soltanto che quei giovani 396 coraggiosi parlavano anche della necessità di avvertire il mondo esterno: ingenui, credevano ancora che i tedeschi facessero il loro lavoro di nascosto, come ladri, che gli Alleati non ne fossero affatto al corrente, perché se l'avessero saputo, il massacro sarebbe cessato subito. «Lotteremo», dicevano. «Spezzeremo il silenzio e il mondo saprà che Auschwitz è una realtà». Non dimenticherò mai il vecchio che, con voce calma, terribilmente calma, rispose loro: «Voi siete giovani e coraggiosi, figli miei; avete ancora tante cose da imparare. Il mondo sa, non c'è bisogno di informarlo. Sapeva già prima di voi, ma se ne infischia, non perderà un minuto per pensare alla nostra sorte. La vostra rivolta non avrà nessun risultato, nessuna eco». Il vecchio aveva parlato senza amarezza, constatava dei fatti. Polacco, 397 aveva visto, due anni prima, massacrare la sua famiglia; non so come fosse riuscito a salvarsi e a passare clandestinamente due frontiere prima di arrivare da noi come profugo. «Mantenete le vostre forze per dopo», diceva ai nostri ragazzi. «Non sprecatele». Ma quelli insistevano: «Anche se avete ragione, anche se ciò che dite è vero, la nostra situazione non cambia. Diamo prova di coraggio e di dignità, mostriamo agli assassini e al mondo che gli ebrei sanno morire da uomini liberi, non da poveri disgraziati». «Come lezione mi piace», disse il vecchio. «Ma non la meritano». Allora alzammo tutti la testa e, mentre le nostre labbra mormoravano il Kaddìsh, continuavamo a marciare, quasi da conquistatori, verso le porte della morte, dove l'elegante dottor Josef Mengele - guanti bianchi, monocolo e il resto - compiva il 398 sacro rito della selezione. Non mi vergogno affatto a dire che era stato quel vecchio a veder giusto. Se gli ebrei avessero potuto pensare che fuori avevano degli alleati, uomini che non voltavano la testa, forse avrebbero potuto agire differentemente. Ma i soli a interessarsi degli ebrei erano i tedeschi. Gli altri preferivano non guardare, non sentire, non sapere. La solitudine degli ebrei, caduti negli artigli della bestia, non ha precedenti nella Storia. Era totale. La morte sorvegliava tutte le uscite. Peggio che nel Medioevo. Cacciati dalla Spagna, gli ebrei furono accolti in Olanda. Perseguitati in un paese, venivano invitati in un altro, il tempo di riprendere coraggio. Ma durante l'era hitleriana la cospirazione contro di loro sembrava universale. Gli inglesi gli hanno chiuso 399 le porte della Palestina, la Svizzera non ha accettato che i ricchi, e più tardi i bambini, mentre i poveri e gli adulti, negato loro il diritto alla vita, furono respinti verso le tenebre. «Anche se avessi potuto vendere un milione di ebrei, chi li avrebbe comprati?», domandava Eichmann, non senza sarcasmo, ricordando l'episodio ungherese. Anche qui diceva la verità. «Che volete che ce ne facessimo di un milione di ebrei?», gli fece eco l'onorevole Lord Moyne, ambasciatore britannico al Cairo. È come se tutti i paesi, e non soltanto la Germania, avessero deciso di vedere nell'ebreo una specie di sottouomo, un essere non come gli altri, un essere inutile: la sua scomparsa non contava, non pesava sulla coscienza. Un essere al quale il concetto di fraternità umana non si applicava, un essere la cui morte non avviliva 400 nessuno, un essere con il quale non ci si identificava. Si poteva dunque fargli qualunque cosa, senza per questo violare le leggi dello spirito, si poteva togliergli libertà e gioia, senza per questo tradire gli ideali dell'uomo. Spesso mi sono domandato quale sarebbe stata la reazione del mondo se la macchina nazista avesse stritolato e bruciato non ventimila ebrei al giorno, ma ventimila cristiani. Ma è meglio non pensarci troppo. Se mi soffermo tanto sulla colpevolezza del mondo, non è per diminuire quella dei tedeschi, né per «spiegare» il comportamento delle loro vittime. Mi ci soffermo perché si tende a dimenticare. Il fatto, per esempio, che, nella primavera dell'anno di grazia 1944, noi, in Transilvania, non 401 sapessimo nulla di ciò che accadeva in Germania è una prova della colpevolezza del mondo. Ascoltavamo le radio straniere, quella di Londra e quella di Mosca: nessuna trasmissione ci ha avvertito di non partire con i trasporti, nessuna trasmissione ci ha rivelato l'esistenza, il nome di Auschwitz. Mi ricordo che nel 1943, leggendo tre righe sull'insurrezione del ghetto di Varsavia, mia madre osservò: «Ma perché l'hanno fatto? Perché non hanno aspettato tranquillamente la fine delle ostilità?». Se avessimo saputo cosa stava succedendo, avremmo potuto fuggire, nasconderci: il fronte russo era a trenta chilometri. Ma ci tenevano nell'ignoranza. A rischio di urtare qualcuno, devo sottolineare che le vittime hanno sofferto più e più profondamente per l'indifferenza dei testimoni che 402 per le sevizie dei carnefici. La crudeltà del nemico sarebbe incapace di distruggere il prigioniero; è il silenzio di coloro che credeva suoi amici crudeltà più vile, più sottile - che gli spezza il cuore. Non c'è più nessuno su cui contare: anche nei campi questa constatazione diventava evidente. Da ora in avanti avremmo vissuto nel deserto, nel vuoto: cancellati dalla Storia. È questa convinzione che avvelenava il desiderio di vivere. Se è questo il mondo nel quale siamo nati, perché aggrapparcisi? Se è questa la società umana da dove veniamo, e che ci ha abbandonato, perché cercare di ritornarvi? Ad Auschwitz è morto non soltanto l'uomo, ma è morta anche l'idea dell'uomo. Molti non volevano più vivere in un mondo in cui non c'era 403 più nulla, in cui il carnefice agiva da Dio, da giustiziere. Perché è il proprio cuore che il mondo bruciava ad Auschwitz. Che non si interpretino male queste mie parole. Parlo senza odio, direi anche senza amarezza. Se, ogni tanto, non riesco a trattenere la mia rabbia, è perché trovo scandaloso se non indecente che si sia arrivati a dover perorare la causa dei morti. Perché è di questo che si tratta: vengono disseppelliti per essere messi alla gogna. Le domande che sono loro poste non sono che rimproveri. Viene rinfacciato a questi morti di essersi comportati in quel modo: avrebbero dovuto recitare la loro parte differentemente, se non altro per rassicurare i vivi che avrebbero così potuto continuare a credere nella grandezza dell'uomo. Esagero? Forse, ma non molto. Voi 404 non amate questi uomini e queste donne per i quali il cielo è diventato una fossa comune. Parlate di loro senza pietà, senza compassione, senza amore. Giocate con i loro mille modi di morire, come se si trattasse di fare delle acrobazie intellettuali: il vostro cuore è assente. Di più: li disprezzate. Per ragioni di comodità, e anche per soddisfare la vostra mania di classificare e di definire tutto, fate qualche distinzione: fra i tedeschi e gli Judenräte, fra i kapò e i poliziotti dei ghetti, fra le vittime anonime e quelle che ottenevano un rinvio di una settimana, di un mese. Li giudicate e distribuite loro dei certificati di buona o cattiva condotta. Detestate gli uni più degli altri, vi collocate dall'altra parte della barricata e, di colpo, sapete esattamente il grado di colpevolezza di ciascuno. Ma, nell'insieme, essi 405 suscitano in voi disgusto più che ira. È questo che vi rimprovero: il vostro smisurato orgoglio di credere di saper tutto. E di avere il diritto di giudicare un evento che, al contrario, dovrebbe costituire per voi la prova che siamo poveri e che i nostri sogni sono aridi, quando non sono insanguinati. Io difendo i morti e non dico che sono innocenti, non è mia intenzione né mio obiettivo. Dico semplicemente che non mi riconosco il diritto di giudicarli, mentre dichiararli innocenti significa già giudicarli. Li ho visti morire, e se sento il bisogno di parlare di colpa è sempre della mia che parlo. Li ho visti andarsene mentre io sono rimasto, e spesso non me lo perdono. Certo, ho visto nei campi uomini vinti, deboli, crudeli. Non esito a confessare che li odiavo, che 406 mi facevano paura, che per me rappresentavano un pericolo più grande dei tedeschi. Sì, ho conosciuto kapò sadici; sì, ho visto ebrei che picchiavano i loro fratelli e una luce selvaggia brillava nei loro occhi. Ma anche recitando la parte del carnefice sono morti da vittime. Spesso, quando ci penso, mi stupisco ancora del fatto che ci sono state così poche anime perdute, così pochi cuori avvelenati in quel regno della notte dove si respirava solo odio, disprezzo e disgusto di se stessi. Che cosa sarebbe avvenuto di me se fossi rimasto nei campi più a lungo, diciamo cinque anni, o sette, o dodici? Mi vergogno, ma non lo so. Sono circa vent'anni che cerco di rispondere e, a volte, dopo una notte d'insonnia, ho paura della risposta. Voi non avete paura. Queste domande, che voi affrontate come si affronta un teorema o 407 un problema scientifico, non vi fanno paura. Anche questo vi rimprovero. Dalla fine dell'incubo frugo nel passato di cui resterò, senza dubbio, per sempre prigioniero. Ho paura, ma proseguo la mia ricerca. Più vado avanti e meno capisco. Forse non c'è nulla da capire. Invece, più vado avanti e più apprendo sulla vastità del tradimento di cui il mondo dei vivi si è reso colpevole nei confronti di quello dei morti. Mi capita di prendermi la testa fra le mani e di dirmi: è follia, ecco la spiegazione, la sola concepibile. Quando un così grande numero di uomini spinge la propria indifferenza a un tale punto, essa diventa patologica, si avvicina alla follia. Come spiegare altrimenti i Roosevelt, i 408 Churchill, gli Eisenhower, che non hanno mai espresso la loro indignazione? Come spiegare il silenzio del papa? Come spiegare il fallimento di certi tentativi fatti a Londra o a Washington per ottenere dagli Alleati il bombardamento aereo delle fabbriche della morte o almeno delle linee ferroviarie che vi conducevano? Uno degli episodi più tristi di questa guerra, che non mancò certo di episodi tristi, ebbe per eroe un leader ebreo polacco in esilio a Londra: per protestare contro l'inerzia degli Alleati, e anche per scuotere l'opinione pubblica, Arthur Ziegelbaum, membro del «Comitato nazionale della Polonia libera», si tirò una rivoltellata alla testa, in pieno giorno, davanti all'entrata della Camera dei Comuni. Nel suo testamento esprimeva la speranza che la sua protesta sarebbe 409 stata ascoltata. Fu ben presto dimenticato; la sua morte si rivelò inutile. Se aveva creduto, col suo rifiuto di vivere fra uomini volutamente ciechi, di commuoverli, si era sbagliato. Ziegelbaum morto o Ziegelbaum vivo: per quei cuori di pietra la cosa era indifferente. Per loro non era altro che un ebreo polacco che parlava degli ebrei e viveva la loro agonia; per loro avrebbe potuto morire laggiù, con gli altri. Arthur Ziegelbaum è morto per niente. La vita continuava, la guerra pure: contro le potenze dell'Asse che, a loro volta, continuavano la loro guerra contro gli ebrei. E il mondo si tappava le orecchie e chiudeva gli occhi. A volte i giornali pubblicavano qualche riga: che il ghetto di Lodz era stato liquidato; o che il numero degli ebrei europei già massacrati superava i due milioni o i 410 tre milioni. Queste notizie venivano pubblicate come se si trattasse di avvenimenti normali, senza commenti, senza angoscia: sembrava normale che gli ebrei si facessero uccidere dai nazisti. Mai il popolo ebraico era stato così solo. Più frugo e più ragioni trovo per perdere la speranza. Spesso ho paura di riaprire questo vaso di Pandora: è sempre un nuovo colpevole che ne emerge. Non ha dunque fondo questo vaso malefico? No, non ha fondo. Le mie parole sono prive di odio, lo ripeto. L'odio non è una soluzione. Ci sarebbero troppi bersagli. Gli ungheresi ci mettevano più passione dei tedeschi nel perseguitare gli ebrei; i romeni davano prova di maggiore efferatezza dei tedeschi; gli slovacchi, i polacchi, gli ucraini braccavano gli ebrei subdolamente, quasi con 411 amore. Forse dovrei odiarli: mi guarirebbe. Ma cosa posso farci: ne sono incapace. Se l'odio fosse una soluzione, i sopravvissuti avrebbero dovuto incendiare il mondo appena usciti dai campi. Adesso mi vien detto un po' dappertutto: non voletecene, noi non sapevamo, non credevamo, non potevamo far nulla. Se queste giustificazioni bastano a calmare la loro coscienza, tanto peggio per loro. Potrei loro rispondere che non volevano sapere, che si rifiutavano di credere, che avrebbero potuto agire sui propri governi allo scopo di rompere la cospirazione del silenzio. Ma questo porterebbe a una discussione. E in ogni modo è troppo tardi: il tempo delle discussioni è finito. Dirò semplicemente questo: vi stupisce che gli ebrei non abbiano scelto la resistenza? E che non 412 siano morti da soldati lottando per la vittoria della loro causa? Ma quale vittoria e quale causa? Vi rivelerò un segreto, uno fra mille, sul perché gli ebrei non hanno resistito: per punirvi, per preparare una vendetta a scoppio ritardato. Voi non meritavate il loro sacrificio. Se, in ogni città e in ogni villaggio, in Ucraina e in Galizia, in Ungheria e in Cecoslovacchia, gli ebrei formavano interminabili processioni notturne e marciavano verso l'eternità come portando in se stessi una gioia pura, quella che annuncia l'avvicinarsi dell'estasi, è precisamente per farvi conoscere l'ultima verità su coloro che vengono sacrificati ai margini della Storia: «Voi non meritate, restando in vita a questo prezzo, né salvezza né riscatto; non meritate neppure questa lezione di grande dignità e coraggio che, a nostro 413 modo, noi vi diamo, malgrado tutto, dirigendoci verso la morte, guardandola in faccia, a fronte alta, con la gioia di possedere questa forza, questa fierezza». Prima di concludere, vi chiederei dunque non di fare uno sforzo per capire, ma piuttosto di abbassare lo guardo e di non capire. Ogni spiegazione razionale sarebbe più esoterica di quanto lo sarebbe una interpretazione dichiaratamente mistica. Non capire i morti è un modo di pagar loro un vecchio debito, è il solo modo di chieder loro perdono. Ho davanti ai miei occhi la fotografia, fatta da un ufficiale tedesco amante di souvenir, di un padre che, un istante prima della fucilazione, parlava ancora con calma a suo figlio, mentre con un dito indicava il cielo. A volte credo di sentire 414 la sua voce sognante: «Vedi, figlio mio, stiamo per morire e il cielo è bello; non dimenticare che c'è una relazione fra questi due fatti». Oppure: «Stiamo per morire, figlio mio, eppure il cielo, così sereno, non crolla in un fracasso da fine del mondo; senti il suo silenzio? Ascoltalo, non bisognerebbe dimenticarlo». Mi capita di pensare che se gli facessi una domanda, qualunque domanda, questo padre mi risponderebbe. Ma immergo lo sguardo in ciò che resta di lui e taccio. Così come taccio ogni volta che mi appare davanti agli occhi l'immagine di quel rabbino che, a Varsavia, stava dritto, inflessibile, invincibile, davanti a un gruppo di SS; si divertivano a farlo soffrire, a umiliarlo; lui soffriva ma non si lasciava umiliare. Una SS gli tagliò la barba ridendo, ma lui, il rabbino, lo fissò dritto negli 415 occhi senza batter ciglio; c'era dolore nel suo sguardo, ma anche sfida: lo sguardo di un uomo più forte del male, anche quando il male è vincitore, più forte della morte, anche quando la morte prende il volto di un attore che recita una farsa; lo sguardo di un uomo che non deve rendere conto di nulla a nessuno, neanche a Dio. Questo sguardo illumina l'indimenticabile documentario di Frédéric Rossif, Le Temps du Ghetto, e da quando l'ho visto lo porto in me, non posso più disfarmene, non voglio più lasciarlo, come per volermi sempre ricordare che ci sono ancora, che ci saranno sempre, nel mondo, sguardi che io non capirò mai. E quando un tale sguardo si posa su di me, a tavola, a un concerto o accanto a una donna felice, io mi apro ad esso in silenzio. Perché più procedo nella vita e più so che 416 possiamo far poco per i morti; il meno che possiamo fare per loro, se non per noi, è lasciarli tranquilli, non proiettare su di loro la nostra colpevolezza. A noi piace pensare che i morti abbiano trovato l'eterno riposo: non li disturbiamo. Anche loro hanno delle domande, e valgono le nostre. La mia difesa sta per finire, ma sarebbe incompleta se non dicessi nulla degli scontri armati che, malgrado ciò che ne possa pensare l'accusa, gli ebrei hanno avuto con i tedeschi. E se ho delle difficoltà a capire perché questa moltitudine di uomini è andata incontro alla morte senza difendersi,esse avventano insormontabili quando si tratta di capire quei loro compagni che hanno invece scelto la lotta. Come, nei ghetti e nei campi, essi abbiano 417 potuto trovare i mezzi per combattere, mentre il mondo intero era contro di loro, resterà per sempre un mistero. Perché chi sostiene che tutti gli ebrei si sottomisero agli assassini, al destino, con vigliaccheria o con rassegnazione, non sa ciò che dice o, ed è peggio, falsa volutamente i fatti al solo scopo di dimostrare una teoria sociologica che non sta in piedi, o di giustificare un odio morboso che è sempre un odio di sé. In realtà ci fu fra le vittime una élite attiva di combattenti, composta da uomini, donne e bambini che, con i loro miserabili mezzi, hanno tenuto testa ai tedeschi. Era una minoranza, lo ammetto, ma mostratemi una società in cui l'élite attiva non è una minoranza. E questa élite esisteva a Varsavia, a Bialystok, a Grodno e, Dio solo sa 418 come, perfino a Treblinka, a Sobibor e ad Auschwitz. Esistono documenti e testimonianze autentiche sugli atti di guerra compiuti da questi poveri disperati; leggendoli, non si sa se dobbiamo gioire di ammirazione o piangere di rabbia. Ci domandiamo: ma come hanno fatto questi bambini affamati, questi uomini braccati, queste donne picchiate, come hanno fatto ad affrontare con le armi in mano l'esercito nazista, che a quell'epoca sembrava invincibile? Dove hanno attinto la loro resistenza fisica, la loro forza morale. Qual era il loro segreto e qual è il suo nome. Ho detto: con le armi in mano. Ma quali armi? Non ne avevano molte. Una rivoltella costava un patrimonio. A Bialystok, il capo della resistenza del ghetto, il leggendario Mordechai Tenenbaum419 Tamaroff, descrive nel suo diario, miracolosamente ritrovato, il momento in cui ebbe il primo fucile, le prime munizioni: venticinque pallottole. «Avevo le lacrime agli occhi. Mi sentivo il cuore scoppiare di gioia». È dunque con un fucile e venticinque pallottole che lui e i suoi compagni andavano a contenere i furiosi attacchi dell'esercito tedesco. È facile immaginare cosa sarebbe successo se tutti i combattenti, in tutti i ghetti, avessero ottenuto ciascuno un fucile; non parlo di bombe a mano o di armi automatiche. Ma glieli hanno rifiutati. Tutte le organizzazioni clandestine nei paesi occupati ricevevano da Londra armi, denaro, apparecchi radio, e agenti segreti venivano regolarmente inviati a insegnar loro l'arte del sabotaggio: si sentivano organicamente collegati 420 con il mondo esterno. Un partigiano che, in Francia o in Norvegia, si faceva prendere poteva consolarsi pensando che da qualche parte, in quella città o anche altrove, c'era gente che tremava per lui, che viveva nell'inquietudine a causa sua e che avrebbe smosso cielo e terra per salvarlo: i suoi atti si iscrivevano da qualche parte, lasciavano una traccia, causavano sofferenza, producevano risultati. Gli ebrei erano soli: gli uomini più soli della guerra. Soltanto loro non ricevevano aiuti o incoraggiamenti: non venivano inviati loro né armi né messaggi; nessuno parlava con loro, nessuno si preoccupava di loro: non esistevano. Gridavano aiuto, ma gli appelli che lanciavano per radio o per mezzo della posta incontravano orecchie tappate. Tagliati fuori dal mondo, dalla 421 stessa guerra, i combattenti ebrei vi parteciparono pur sapendo che non erano desiderati, che erano già stati sacrificati; si erano gettati nella lotta pur sapendo che non avevano nessuno su cui contare, che gli aiuti non sarebbero mai arrivati, che non avrebbero avuto nessun punto d'appoggio, nessuna posizione di ripiegamento. E tuttavia, con le spalle al muro, sfidarono i tedeschi: ci sono battaglie che si vincono, anche se si perdono. Questa élite c'era anche a Sobibor, dove organizzò una evasione, a Treblinka, dove si sollevò, ad Auschwitz, dove fece saltare i crematori. Gli insorti di Auschwitz tentarono di evadere, ma nella lotta con le SS, che evidentemente erano superiori in armi e in uomini, trovarono tutti la morte. I tedeschi riuscirono in seguito a mettere le mani su quattro 422 ragazze ebree, originarie di Varsavia, che avevano procurato gli esplosivi agli insorti. Furono torturate, condannate a morte e impiccate pubblicamente. Morirono senza paura. La più grande aveva sedici anni, la più piccola dodici. Se fossimo capaci di sufficiente sincerità, di sufficiente umiltà, dovremmo provare per questi eroi un'ammirazione senza limiti; ma non ne siamo capaci. Possiamo soltanto abbassare la testa e tacere. E che cessi questo rivoltante processo postumo che, un po' dappertutto, gli acrobati dell'intelligenza fanno a coloro la cui morte sconcerta l'intelligenza. Voi volete capire? Non c'è più nulla da capire. Voi volete sapere? Non c'è più nulla da sapere. Non è giocando con le parole e con i morti che potrete capire e sapere. Al contrario. Gli 423 antichi dicevano: «Chi sa non parla; chi parla non sa». Ma voi preferite parlare e giudicare. Volete essere forti e invulnerabili, e io vi rimprovero anche questa vostra forza e questo desiderio di renderla invulnerabile. La lezione dell'Olocausto, se ce n'è una, è che la nostra forza non è che illusoria e che in ciascuno di noi c'è una vittima che ha paura, che ha freddo, che ha fame. E che si vergogna. Il Talmud insegna all'uomo di non giudicare mai un amico finché non si troverà al suo posto. Ma, per voi, gli ebrei non sono amici; non lo sono mai stati; è perché non avevano amici che sono morti. Allora, imparate a tacere. 424 Indice La morte di mio padre I miei maestri L'ospite di una sera L'orfano Yom Kippur, il giorno senza perdono Una vecchia conoscenza Barbara II testamento di un ebreo di Saragozza Moshé il pazzo L'ebreo errante 425 L'ultimo ritorno La nostra colpa comune Difesa dei morti 426 Finito di stampare nella tIpografia Giuntina Firenze, gennaio 1991 427 In questa collana 1. Elie Wiesel, La notte (4' edizione) 2. Claudine Vegh, Non gli ho detto arnvederci. I figli dei deportati parlano 3. Elie Wiesel, Il testamento di un poeta ebreo assassinato (2ª edizione) 4. Elie Wiesel, Il processo di Shamgorod (3ª edizione) 5. Helen Epstein, Figli dell'Olocausto 6. Elie Wiesel, L'ebreo errante (2ª edizione) 7. Walter Laqueur, Il terribile segreto 8. Elie Wiesel, Il quinto figlio (2ª edizione) 428 9. Memorie di Glückel Hameln 10. Else Lasker-Schüler, Ballate ebraiche e altre poesie 11. Franz Werfel, Cecilia o i vincitori 12. Lorenzo Cremonesi, Le origini del sionismo e la nascita del kibbutz (1881-1920) 13. Vladimir Jankélévitch, La coscienza ebraica 14. Liana Millu, // fumo di Birkenau 15. Elie Wiesel, Credere o non credere 16. Vladimir Jankélévitch, Perdonare? (2ª edizione) 17. Avraham B. Yehoshua, Il poeta continua a tacere 18. Giuliana Tedeschi, C'è un punto della 429 terra... 19. Elie Wiesel, Cinque figure bibliche 20. George L. Mosse, Il dialogo ebraicotedesco 21. Leslie A. Fiedler, L'ultimo ebreo in America 22. Jona Oberski, Anni d'infanzia 23. Elie Wiesel, La città della fortuna 24. Jakob Hessing, La maledizione del profeta 430