La crisi momento di consolidamento

Transcript

La crisi momento di consolidamento
1
Vita consacrata 31, 1995/3, 290-301
LEGGERE LE DIFFICOLTÀ "VOCAZIONALI" CON I CRITERI DELLA
PERSEVERANZA
La crisi momento di consolidamento
CARLO BRESCIANI
Spesso la domanda di direzione spirituale nasce da una crisi che la persona si trova ad
affrontare. È necessario comprendere esattamente le cause della crisi che sta affrontando e tener
conto che la richiesta di aiuto può essere inficiata da motivazioni spurie1, cioè più dal desiderio
della persona di essere sollevata dall'ansietà in cui si trova che non dalla volontà di affrontare le
vere cause per un incontro più profondo con il mistero di Dio. Stesso la persona si presenta con
attese un po' magiche di risultati più o meno immediati, piuttosto che con la disponibilità a guardare
più a fondo nell'insieme della propria vita e del modo nel quale essa è andata strutturandosi per le
scelte fatte, più o meno consciamente.
Non di rado la persona resiste, dopo averlo chiesto, ai tentativi di aiuto del direttore, il quale,
avendo compreso che l'unica possibilità di soccorrerla veramente è quella di portare alla luce aspetti
della personalità non adeguatamente considerati o sconosciuti, le dà l'impressione di approfondire la
crisi anziché di collaborare a risolverla. Il direttore spirituale spesso non deve tamponare
frettolosamente la crisi. Altre volte invece deve essere lui a provocarla dato che la persona non si
accorge di alcuni processi importanti e negativi per la vita spirituale.
Il direttore deve saper valutare adeguatamente le possibilità e le opportunità che il momento
di crisi può offrire per il cammino della persona: essa può fornire un'occasione unica per un
maggior equilibrio della vita di fede.
Procedendo in modo un po' schematico, per amore di chiarezza, cercherò prima di precisare
che cosa intendo per "crisi", per descrivere poi quali possono essere i suoi effetti sulla personalità.
Solo in seguito sarà possibile affrontare le opportunità positive che la crisi può offrire sia al
direttore spirituale che al discepolo.
Che cosa è una crisi
Vorrei partire da una chiarificazione, se non proprio da una definizione, di che cosa sia "crisi"
nella vita di una persona.
In modo sommario e di primo approccio si può dire che la crisi è un momento dello svolgersi
della vita della persona, in quanto ogni cambiamento evolutivo di rilievo è un po' una crisi da
superare.2 Essa è un'alterazione del modo usuale e normale di funzionare della persona, tale da
apparire non immediatamente risolvibile con i mezzi a sua disposizione: da qui nasce la domanda
sull'impostazione generale della vita. Richiede il ricorso o a mezzi "nuovi" o a una nuova
strutturazione della personalità.
Ogniqualvolta c'è crisi, è presente anche la domanda sul senso della vita, della speranza;
incombe la minaccia dell'assurdo e della disperazione; ci si trova di fronte all'inaspettato e
all'oscuro: la vita sembra aprirsi su un minaccioso ignoto.
Crisi è perdita, almeno temporanea, del senso della vita. A volte più che perdita reale è paura
di perdere l'oggetto (valori, ideali) sul quale si sono investite tutte le energie e le aspirazioni. Si
1
Il direttore spirituale dovrebbe avere una conoscenza approfondita delle principali dinamiche psicologiche della
persona che si manifestano nella vita spirituale e nel rapporto di direzione spirituale. Indispensabile è la conoscenza
dell'antropologia vocazionale. Cf L.M. RULLA, Antropologia della vocazione cristiana, I. Basi interdisciplinari,
Piemme, Casale Monferrato 1985. Dal punto di vista di una pedagogia vocazionale è invece utile F. IMODA, Sviluppo
umano. Psicologia e mistero, Piemme. Casale Monferrato 1993.
2
Cf I. BAUMGARTNER, Psicologia pastorale. Introduzione alla prassi di una pastorale risanatrice, Borla. Torino
1993, pp. 117-188.
2
tratta di una situazione drammatica nella quale viene messo in discussione, oppure addirittura
scompare, il senso ritenuto unico, fino a quel momento, per l'orientamento della propria vita.
Appunto per questo la crisi può trasformarsi alcune volte in occasione propizia per cambiare
un'impostazione sbagliata della vita o per una revisione delle motivazioni che l'hanno fino ad allora
guidata3; altre volte può trasformarsi in recupero a un livello più profondo e solido della vocazione
alle non si era mai oscurata completamente.
Non va mai dimenticato, d'altra patte, che c'è anche la possibilità che la crisi sia ad esito
negativo: il senso della vita si è perso e la persona non trova sostituzioni credibili e adeguate. A
questo punto essa si lascia andare nel godimento di surrogati, gratificanti forse a livello superficiale,
che hanno l'unico scopo di coprire il grande vuoto spirituale e psicologico sottostante.
Per certi aspetti la crisi si può paragonare alla malattia. Infatti se la salute è un «margine di
tolleranza delle infedeltà dell'ambiente»4, la malattia è l'incapacità di adeguarsi alle novità
dell'ambiente, a quei cambiamenti che le nuove situazioni o le nuove conoscenze portano alla luce.
Una persona entra in crisi quando non riesce più, con i mezzi disponibili, a integrare nel quadro
generale della propria vita quanto capita in sé o attorno a sé.
Il problema centrale di ogni crisi è allora quello della sua corretta interpretazione per una sua
integrazione nell'esperienza e nella vita del soggetto: la persona deve appropriarsene criticamente,
integrando i nuovi elementi emersi nella libera progettazione del suo io: del suo poter essere e del
suo dover essere. Solo allora essa diventa creativa e occasione propizia di crescita. È per questo che
la crisi è sempre anche un problema morale, in quanto è sfida per l'agire responsabile e libero di
colui che si scopre posto in una nuova situazione di decisione su di sé. Affermare che è problema
morale non significa sostenere che necessariamente il soggetto è responsabile moralmente di ciò
che ha provocato e preparato la crisi (può venire da dinamiche psicologiche inconsce o da azioni di
altri, per esempio), ma che egli è, e resta, responsabile delle posizioni che deve assumere verso la
situazione in cui, per i più diversi motivi, si è venuto a trovare.
Affermare che ogni crisi è anche una questione morale significa che, mettendoci accanto a
persone in crisi, non ci troviamo mai ad affrontare solo problemi di natura psicologica, ma anche
sempre questioni morali e religiose. Un direttore spirituale non dovrebbe mai dimenticarlo, senza,
per questo, cascare in forme di affrettata esortazione moralistica o spiritualistica tanto inaccettabili
quanto inconcludenti.
Gli effetti della crisi
La crisi fa scoprire all'uomo, puntualmente e in modo improvviso, la realtà della sua
contingenza e dei suoi limiti, la limitatezza dei suoi progetti e delle forze per realizzarli. Ciò in
qualche modo evoca la rottura finale dell'unità narrativa della vita - la morte - col suo significato di
sconfitta radicale di tutti quei progetti che non riescono a innalzarsi al di sopra delle prospettive
puramente mondane.
Ogni crisi è esperienza del limite personale. In radice è sempre un confronto con la propria
morte, non tanto e non immediatamente come morte fisica, ma come possibile fallimento delle
proprie scelte e delle proprie decisioni. È sempre evocazione del possibile fallimento finale e totale
della vita.
Essendo esperienza del limite della persona, la crisi coinvolge inevitabilmente l'identità
personale e la confronta in modo forte, perché manifesta la propria vulnerabilità, la propria
esposizione alla sofferenza e al rischio massimo: quello del fallimento della vita. L'effetto è più
devastante per quelle personalità rigide, che si sono costruite un'identità difensiva, incapace di
mettersi in discussione.
La crisi vocazionale, proprio perché la vocazione è impegno totale, è strettamente connessa
all'esperienza del fallimento della vita, quindi fortemente carica di ansietà.
3
«All'origine di ogni ricerca ci deve essere, in qualche modo, il vuoto, l’insoddisfazione, lo scontento, la delusione». (F
IMODA, Sviluppo umano..., cit., p. 359).
4
J. F. MALHERBE, Per un’etica della medicina. Paoline, Cinisello Balsamo 1989, p. 137.
3
Quando uno è in crisi profonda, non sa più chi è o chi vuol essere. Ha perso la sua identità,
nel senso che ha l'impressione che l'identità del passato non sia più così solida o addirittura che sia
falsa. Si trova di fronte a una scommessa vitale, la cui posta in gioco è la morte. Ogni cambiamento
radicale evoca la morte, ecco perché suscita molte resistenze. Può apparire più comodo continuare
con modelli stereotipi, mantenersi nella situazione attuale, anche se bloccata, con vari espedienti e
diversivi, senza integrare creativamente il nuovo che è emerso.
Gli psicologi parlano di creatività del lutto. Il lutto va affrontato, non si deve usare la tecnica
dello struzzo. Occorre abbandonare idee o immagini troppo idealizzate di sé, ristrutturare i propri
progetti di vita, non necessariamente cambiare le mete finali, e ciò implica affrontare una certa
separazione definitiva da una parte segreta di sé coltivata con molto attaccamento emotivo.
Nella crisi vocazionale, come in ogni altra crisi, è in gioco la percezione del valore di sé. È
coinvolta infatti in molti modi la stima di sé del soggetto dalla cui solidità proviene la volontà, più o
meno decisa, di affrontare gli elementi che hanno portato alla crisi stessa. Affrontando e risolvendo
la crisi, capita che il soggetto faccia esperienza di possedere delle energie delle quali non avrebbe
mai sospettato prima. La crisi si rivela così anche come un aiuto indiretto alla conoscenza di sé e
delle proprie capacità e, quindi, come occasione per l'approfondimento del senso del valore
personale. Il suo superamento si ripercuote in una migliore e più solida stima di sé.
La crisi non è solo momento di possibile, e a volte intensa, sofferenza, ma anche momento di
possibile conoscenza e valorizzazione di sé, momento attraverso cui si manifesta più profondamente
la vera vocazione dell'uomo, quindi occasione anche di crescita spirituale. Ognuno di noi partorisce
se stesso e la sua personalità nella sofferenza; la nascita di un nuovo modo di essere passa attraverso
le doglie del parto di un mondo spirituale nuovo dentro di noi.
Dato il coinvolgimento profondo della stima di sé, non possono non scattare molteplici
reazioni di fronte all'affacciarsi della crisi, non tutte costruttive: ribellione, rassegnazione,
depressione, oppure integrazione creativa dei nuovi elementi emersi che permette di mantenere una
continuità di impegno vocazionale della propria vita.
Di fatto, la crisi è sempre una presa di coscienza della problematicità radicale dell'esistenza
umana a causa della sua intrinseca fragilità, la cui accettazione permette il superamento di rigidezze
o di infondate illusioni romantiche circa la vita vocazionale. Essa può spingere verso un maggior
realismo, su cui si fonda il vero senso cristiano dell'umiltà su se stessi, sulla vita e sulla vocazione.
Non serve reprimere la crisi, fingere che non esista. Ne va della riuscita o meno di
un'esperienza vocazionale e della propria vita in quanto "giocata" su questa esperienza. Il rimandare
la decisione di affrontarla significa accumulare esperienze che non entrano nell'unità narrativa della
vita, accumulare pesi che possono poi diventare intollerabili e, quindi, molto meno facilmente
gestibili.
Crisi di vocazione
come opportunità di rivalutazione oggettiva della scelta fatta
Il soggetto in formazione, come, d'altra parte, ogni persona che vive la vita in dimensione
vocazionale, crede di aver trovato la strada della sua vita. Molti giovani hanno spesso, assieme a
molte qualità maturate attraverso un'attiva vita ecclesiale (oratori, gruppi ecclesiali, volontariato
cattolico...), dei grandi vuoti di formazione spirituale che devono essere colmati. Il giovane si sente
attratto e legato da una certa verità conosciuta, non astratta ma personale: Gesù Cristo, e sta
verificando il modo suo proprio di dare una risposta esistenziale all'appello assoluto che si sente
rivolto da lui. Deve verificare anche la sua capacità di comprendere il futuro della sua vita nel
quadro dei valori vocazionali, un futuro che almeno parzialmente gli è sconosciuto, impegnandosi a
orientarlo e a viverlo secondo la verità di Cristo e quella propria che in lui gli si è manifestata. Ciò
significa che nel cammino vocazionale è sempre implicata la dimensione della speranza cristiana.
Ogni decisione sarà, di fatto, una verifica delle capacità personali di porre la propria speranza per il
futuro in Dio.
4
Il periodo di formazione può anche essere visto come il periodo nel quale il formando cerca di
dare uno schema alla sua vita presente e futura: quello dei valori vocazionali. Tutte le singole e
parziali decisioni successive devono essere segnate dalla logica intrinseca della scelta vocazionale
fatta o che si vuole fare5.
All'inizio può esserci stata una chiarezza più o meno ampia circa la vita vocazionale e le forze
realmente possedute per viverla. Nel corso della formazione dovrebbe emergere una chiarezza
intellettuale ed esistenziale sempre più ampia della vita vocazionalmente vissuta nella profonda
imitazione di Cristo povero, casto e obbediente.
Questa comprensione avanza attraverso "istruzioni", ma anche attraverso quella miriade di
piccole scelte concrete che ogni giorno traducono nella realtà i valori vocazionali recepiti a livello
concettuale. I valori vocazionali noti possono restare a livello intellettuale, devono coinvolgere
l'emotività e attrarre quindi la volontà. Tra comprensione intellettuale, emotività e scelte concrete ci
dovrebbe essere una continua circolarità di influenze: solo così si giunge a una pratica ed efficace
identificazione con la vocazione nelle sue esigenze oggettive, in modo tale che i valori vocazionali
diventano gli unici capaci di esprimere la verità personale e di portarla a compimento. Ciò richiede
necessariamente un processo di continua modificazione di sé verso un'autenticità di vita sempre più
grande.
Per una formazione che procede normalmente, queste modificazioni continue avvengono
all'interno di un quadro generale costante, il che non significa che non siano accompagnate da sforzi
e tensioni, ma la stella polare dei valori vocazionali resta ferma ed effettivamente direttiva del
cammino I valori vocazionali restano parte determinante della propria identità vissuta.
Questo significa che il processo formativo ordinario è costituito da tante "micro-crisi" (se con
esse si intendono le difficoltà, le oscurità momentanee e le ansietà che l'accompagnano). Ogni
nuovo elemento che deve essere integrato o superato scompagina l'equilibrio precedentemente
raggiunto per un altro nuovo e migliore.
Può avvenire anche l'opposto: l'esigenza di quotidiane scelte concrete, in consonanza coi
valori scelti, rende sempre più consapevole il soggetto che le forze che presupponeva di avere di
fatto non ci sono. Oppure che quello che ha incontrato nei valori vocazionali non è quello che di
fatto cercava. I valori vocazionali erano stati capiti male o erano stati scelti per motivi impropri. Il
soggetto incomincia prima a dubitare e poi diventa sempre più sicuro che quella non è la sua strada.
È la crisi vocazionale vera e propria. È questo un momento di grande sofferenza. Significa infatti
trovarsi di fronte a un errore di vita e una notevole quantità di energie nel frattempo è stata spesa nel
tentativo di realizzare quel progetto. Il soggetto si trova inoltre di fronte alla paura di sbagliare di
nuovo; non si può sbagliare molte volte nella vita a questo livello, altrimenti si rischia di fare i
perenni itineranti e questo è proprio il temuto fallimento totale della vita. Anche questo contribuisce
ad aumentare notevolmente l'ansietà.
Può nascere uno stato di indecisione: difficoltà a fare il passo di lasciare, pur restando la
consapevolezza che l'attrazione dei valori vocazionali è venuta meno. L'impegno allora si trascina
con una progressiva tendenza al ribasso e allo sconto; l'entusiasmo della preghiera diventa sempre
più debole e l'insoddisfazione per i limiti degli altri (formatore, comunità, istituto; Chiesa...) sempre
più forte. Il senso della comune appartenenza e della condivisione comunitaria viene meno. Segno
chiaro di disagio profondo. Di fatto il soggetto si sente distante dai progetti che animano la
comunità, magari vi partecipa, ma in modo passivo, privo di entusiasmo. Il perdersi del senso di
appartenenza e di condivisione porta a sottolineare, spesso inconsapevolmente, più ciò che segna la
distanza che la vicinanza: è la fatica a sentirsi parte e quindi anche di sentire come proprio tutto ciò
che riguarda la comunità o l'Istituto.
5
Cf DEMMER, La decisione irrevocabile. Riflessioni sulla teologia della scelta di vita, in “Communio” (1974) 9-17.
5
Tanto più la crisi si manifesta esteriormente, tanto più il padre spirituale è facilitato a capire
cosa sta succedendo e come intervenire: dovrà aiutare la persona a decidersi a lasciare l'ambiente
vocazionale.6
Evidentemente non basta assumersi la responsabilità di orientare il soggetto a lasciare, occorre
anche aiutarlo a chiarirsi la propria vocazione. Appurato che non è chiamato a quel tipo di vita
consacrata, deve ancora scoprire a che cosa Dio lo chiama. Il momento di crisi si rivela importante
per rimettersi in cammino alla scoperta della propria vocazione. La vicinanza del padre spirituale,
che aiuta nella chiarificazione dei vari conflitti che il soggetto incontra, è spesso determinante per
una soluzione costruttiva della crisi. Il direttore spirituale deve essere aperto alle varie possibilità di
soluzione.
1. Può essere che debba aiutare a risolvere la crisi, guidando il soggetto a scoprire che, sì, è
chiamato a una vita consacrata, ma non in quel determinato istituto o seminario. Dovrà allora
aiutarlo a passare dal seminario diocesano a un ambiente di consacrazione religiosa, o viceversa; a
passare dalla vita attiva a quella contemplativa, o viceversa...
Altri tipi di vocazione, rispetto a quella ritenuta vera all'inizio, possono infatti manifestarsi e
chiarificarsi proprio durante il processo formativo. Il soggetto può sbagliare a identificare
correttamente il tipo di vocazione, ma aver capito bene che è chiamato alla consacrazione.
Il padre spirituale non deve porre al centro del suo agire la preoccupazione di aumentare il
numero di vocazioni del proprio istituto o seminario, ma quella di cercare la volontà di Dio per
quella persona concreta prendendo in considerazione anche le sue doti e inclinazioni. Non accettare
questo significherebbe non solo non aiutare la persona, ma neppure il proprio istituto. Porterebbe
infatti a spingere la persona in una direzione nella quale non potrebbe non trovarsi fuori posto,
quindi in future crisi ancora peggiori. Un corretto discernimento è sempre disinteressato. Meglio
sarebbe se un discernimento adeguato venisse fatto prima che la persona venga a trovarsi in
profonda crisi: le si risparmierebbe molta sofferenza.
Se il direttore spirituale si lascia prendere da uno spirito possessivo può provocare la perdita
di autentiche vocazioni al servizio della Chiesa e per la santificazione del popolo di Dio. Centrale
qui è la sua libertà di lasciare libero il formando.
2. La vocazione cristiana e alla vita consacrata è risposta all'amore di Dio, che porta a
vedere la propria realizzazione personale nell'amore donato, nel dono di sé all'amore di Dio e dei
fratelli. La risposta alla chiamata di Dio deve essere il più possibile realistica, attuata con occhio
disincantato su di sé e sul mondo, eppure non priva di idealità e di amore. Se è risposta, la direzione
spirituale, anche di fronte alla crisi vocazionale, non può non diventare una rilettura della propria
vita alla luce dell'amore ricevuto da Dio, che deve diventare la chiave con la quale vengono letti e
interpretati anche i propri sbagli, i peccati, le capacità personali desiderate e non possedute, le
proprie aspirazioni irrealizzabili nel presente e nel futuro.
Non deve mancare, se si vuole superare efficacemente la crisi, una rilettura della propria
storia personale e di quella della propria famiglia. Il formando è da sempre inserito nella storia
multigenerazionale della propria famiglia: non di rado i motivi della crisi trovano qui alcune loro
radici importanti. Per comprendere la propria storia occorre rileggere:
- la propria specifica cultura familiare
- i miti, più o meno espliciti, vissuti nella propria famiglia
- gli stili di vita familiare e di relazione acquisiti fin da bambino
- le attese della famiglia su di sé.
Si tenga presente che nessuna persona é senza radici. In certo modo ognuno di noi si sente
spinto a continuare la storia familiare, con le sue tradizioni e le sue attese. La tradizione tramandata
da padre in figlio «fino alla terza e alla quarta generazione» influenza spesso più di quanto non si
pensi i conflitti che la persona sta vivendo, sia rispetto ai loro contenuti che ai modi in cui sono
vissuti.
6
Parliamo della persona in formazione. Invece la definitività della decisione entra come criterio da considerare quando
essa è già stata ratificata.
6
Non deve mancare anche una rilettura dei vari condizionamenti sociali e di costume. Teniamo
presente che viviamo in una situazione di frammentarietà esperienziale anche a causa di una
deficienza di costume familiare e sociale che introduce una forte tendenza a una coscienza
frammentata, non unitaria.
Questi influssi non necessariamente vanno visti solo come ostacolo alla vocazione. Devono
essere integrati criticamente nel proprio progetto di vita vocazionale. Il direttore spirituale che
accompagna e stimola questa rilettura può essere colui che fa da "detonatore" di un apparente
approfondimento della crisi potando a livello di coscienza conflitti fino allora non mai affrontati.
3. Perché i due aiuti indicati nei punti precedenti possano avere esiti positivi, occorre una
rilettura completa della propria personalità onde giungere a una conoscenza più profonda di sé e a
una più decisa accettazione di sé e della propria storia, nel bene e nel male, lasciando che tutto sia
illuminato dall'amore di Dio. Può richiedere che il direttore spirituale tolga sensi di colpa impropri
per la scelta sbagliata fatta, timori circa la nuova decisione da prendere, dipendenze psicologiche
errate nei confronti di familiari o di altre persone, stimolando una diversa esperienza di Dio e di
Gesù Cristo e dell'impegno della propria vita per lui.
4. Lo sviluppo della crisi può portare esattamente nella direzione opposta alla consacrazione,
cioè nella direzione di un impegno cristiano nel mondo non da consacrati. La vocazione in questo
caso si è persa? Un certo tipo di impegno vocazionale sì, ma in realtà si è chiarita una vocazione.
Dovremmo in questo caso gioire e non soffrire, quasi si trattasse di un fallimento nella direzione
spirituale.
In questo caso il soggetto è motivato ora da altri ideali cristiani autentici. A una realizzazione
della vita nella consacrazione a Dio ne subentra un'altra che è pur sempre di donazione a Dio; a
un'identificazione progettuale cristiana ne segue un'altra.
Non dobbiamo pensare che questo passaggio significhi necessariamente mancanza di
generosità da parte della persona e che il lasciare l'ambiente vocazionale sia accettabile solo quando
si sono manifestati disturbi gravi o immaturità affettive forti e non controllabili. Adulti buoni,
umanamente e cristianamente maturi, sono chiamati da Dio a formare famiglie cristiane fedeli e
generose. È impegno del direttore spirituale sostenere nella speranza e nella fiducia.
Può essere che questo passaggio non sia del tutto indolore per la persona. La sofferenza può
essere molto forte per le ansietà, le tensioni, le indecisioni che manifesta, soprattutto nella fase di
rilettura della propria vita. Sono momenti di croce che devono essere vissuti, e la persona deve
essere aiutata a viverli, nella luce della speranza teologica. Può aiutare soprattutto la presentazione
dei valori cristiani come apertura alla libertà da conquistare con l'aiuto di Dio. Dio chiama persone a
seguirlo nella libertà. Se il soggetto non si esperimenta come libero in un orientamento di vita,
significa che Dio lo chiama altrove. Ciò va accettato con fiducia e coraggio.
Bisogna evitare di aggravare la situazione di difficoltà di decisione facendo sentire sensi di
colpa per presunti tradimenti o per debiti di riconoscenza verso l'istituto vocazionale, magari a
causa di un'istruzione ricevuta nel periodo formativo in essa trascorso.
5. A volte la crisi vocazionale può essere provocata dal tipo di presentazione e di recezione
dei valori della vita consacrata. Se la crisi é causata da ciò, il soggetto ha solo bisogno di
chiarificazione valoriale e del tempo necessario perché possa essere portata a buon fine. Si richiede
in tal caso una rilettura, fatta mantenendosi in stretto collegamento con il loro significato anche
umano, dell'oggettività dei valori della consacrazione. Dobbiamo stare attenti a non tenere troppo
nettamente staccati i valori della consacrazione dalla realizzazione umana del soggetto (sia pure
distinguendo chiaramente tra il senso cristiano e quello borghese di "autorealizzazione").
Una crisi di questo tipo può essere, per esempio, generata dal fatto che la castità appare in
opposizione alla realizzazione completa della persona umana, più una perdita che una pienezza, non
perché ci siano difficoltà particolari nel vivere la sessualità correttamente dal punto di vista morale.
Si tratta solo di difficoltà a capire il valore della castità nel suo significato anche umano, oltre che
religioso. Altre volte può sorgere con l'emergere di alcuni conflitti sessuali, precedentemente inibiti,
7
oppure causati dalla cultura sessuale imperante che dà forte rilievo alla genitalità come modo
prevalente o unico di realizzazione della sessualità umana.
La rilettura dell'oggettività del valore "castità consacrata", in relazione a un cammino di
autentica maturazione affettiva. dovrebbe portare lentamente alla vanificazione della crisi e a una
serenità intellettuale ed emotiva che permetta maggiore energia nell'affrontare i problemi legati alla
sessualità.
Si noti che a questo tipo di crisi possono contribuire gli esempi viventi nell'Istituto: persone
vocazionalmente fallite, ma che restano nell'Istituto, fanno nascere molte ansietà e dubbi nelle
giovani leve. Nasce infatti in loro la domanda: la vita in consacrazione mi fa diventare così? Da qui
nascono crisi, ansietà e paure. La direzione spirituale deve affrontare questo tema onde liberare
nuova energia per l'impegno vocazionale.
Il soggetto ha bisogno di scoprire il contenuto oggettivo dei valori vocazionali onde lasciarsi
rimotivare da essi. L'autentica motivazione deve venire solo dal contenuto oggettivo dei valori
vocazionali altrimenti, o è errata la scelta vocazionale fatta, o c'è qualche altro processo che sfugge
alla percezione immediata. Se nella direzione spirituale si è raggiunta una sufficiente certezza circa
l'incapacità di lasciarsi motivare dai valori vocazionali oggettivi, bisogna aiutare la persona a
cercare altrove la realizzazione della sua vita cristiana.
È assolutamente controproducente aiutare a risolvere la crisi cercando di rimotivare con
concessioni e deroghe a quanto deve essere invece richiesto: se c'è una possibilità di "recuperare"
una vocazione, in tal modo la si perde. Non si salva una vocazione con promesse, più o meno
esplicite, che hanno poco a che fare con la vocazione come donazione piena e disponibilità totale
alla volontà del Padre.
È importante ritornare sempre al principio unificatore della vita spirituale. I tre consigli
evangelici toccano dimensioni fondamentali dell'essere umano allo scopo di unificarle in Cristo.
Gesù Cristo deve diventare il centro di tutta la vita spirituale, la pietra angolare del religioso e del
cristiano su cui unificare la personalità e rielaborare sempre di nuovo il progetto di vita.
La vita spirituale del religioso non deve essere pensata come un complesso di pratiche esterne
fedelmente eseguite, né come un settore separato dalla vita e dalle scelte quotidiane. Tutta la vita
deve configurarsi come vita in Cristo; tutta deve essere orientata a Colui per il quale si vive e dal
quale ogni esperienza acquista senso e significato. Egli è e deve essere il Maestro unico interiore:
modello di piena realizzazione umana nella Chiesa per il mondo.
6. A volte la causa prossima della crisi sono le "lacune di formazione". Bisogna certo stare
attenti a dare tutta la responsabilità ai formatori. C'è sempre di mezzo la libertà. della persona e
delle sue scelte. Normalmente, una direzione spirituale permette di fare emergere le lacune,
soprattutto se legate a una percezione non oggettiva dei valori vocazionali, ma si è sempre esposti a
fatti imprevedibili, nonostante la preparazione, lo zelo posto e la santità personale del direttore
spirituale. Si ha sempre, infatti, a che fare con il mistero della libertà della persona.
I metodi e i contenuti della direzione spirituale possono avere responsabilità nel non corretto
superamento della crisi, soprattutto quando non portano a un personale confronto, libero e chiaro,
tra i valori oggettivi e la propria personalità. Lacune di formazione sono identificabili quando ci si
preoccupa più della funzione e del fare che dell'essere del religioso, della suora e del prete
(pastorale, servizi, attività...). Esse rendono più facile il sorgere, in tempi più o meno ristretti, di
crisi vocazionali tutt'altro che facili da risolvere.
Un metodo formativo che punta più al fare che all'essere può far entrare in crisi anche coloro
che, per sé, sono autenticamente alla ricerca dei valori vocazionali. La direzione spirituale deve
porre in questione un certo attivismo che non permette il previsto e doveroso tempo della preghiera,
della meditazione e dell'incontro, nel silenzio con se stessi.
8
È molto facile che chi si trova in crisi metta sotto accusa la formazione ricevuta, i suoi metodi
e i suoi contenuti. È finanche troppo evidente che non sempre è vero, ma è troppo facile dire che
sempre è falso.7
Il direttore spirituale deve mettere in crisi
Può essere che, nonostante l'esistenza di tutti i presupposti perché uno qualsiasi dei tipi di crisi
sopra ricordati abbia a manifestarsi, di fatto questo non avvenga. Spetterà allora al direttore
spirituale far emergere con decisione, senza aspettare troppo tempo, quegli elementi che il soggetto
o non vuol affrontare o gli sfuggono. Meglio un po' di disturbo momentaneo che una pace che
prepara battaglie che si manifesteranno poi difficilmente risolvibili. Meglio togliere subito, sia pur
con la dovuta gradualità, l'appoggio dei beni apparenti, perché il volto di Dio e la capacità di
abbandonarsi solo a Lui cresca nel soggetto.
Il direttore spirituale deve guardare avanti, se vuole fare un vero servizio a colui che aiuta.
Meglio rinunciare al comprensibile desiderio, di una direzione tranquilla e senza difficoltà che avere
gravi rimorsi poi. Meglio subire un'incomprensione momentanea che avere un rimprovero poi per
una vocazione (quindi una vita) sbagliata.
Come può il direttore indurre una crisi che si riveli proficua per la persona? Egli dovrebbe
essere un buon conoscitore della personalità umana e dei suoi dinamismi (anche psicologici), un
acuto osservatore degli stili di vita della persona che accompagna nella vocazione. Dovrebbe quindi
essere in grado di constatare quanto gli stili di vita rivelino delle dimensioni più profonde della
motivazione, oltre che del comportamento del soggetto. Quando constata elementi problematici ha a
sua disposizione il metodo del confronto: mettere cioè il soggetto davanti ai suoi stili di vita non
adeguati e indurlo a verificare la loro non consonanza con i valori vocazionali che dice di voler
vivere. Difficilmente basta un solo confronto; bisognerà che il direttore, con molta pazienza, guidi
gradualmente il soggetto a prendere coscienza delle contraddizioni che porta dentro di sé; occorre
portarle alla luce. perché possa dispiegarsi in pieno la libertà del soggetto di decidere della propria
vita.
Quest'opera del direttore spirituale non si attua senza provocare tensioni interiori: spesso darà
a colui che è diretto l'impressione che gli vengano demolite proprio quelle certezze sulle quali
pensava di costruire la propria consacrazione. Ma egli deve passare attraverso questa crisi perché
possa costruire poi in modo più radicale la sua fiducia nella presenza di Dio e sulla sua parola.
Il direttore non dovrà spaventarsi se, di fronte ai confronti di cui si è detto, la persona va in
crisi e incomincia a interrogarsi sulla sua vocazione e forse a metterla in dubbio. Bisogna che egli
ricuperi la libertà di interrogarsi: è il presupposto per una risposta veramente libera e capace di
introdurre nella personalità quei cambiamenti che sono richiesti dalla consacrazione stessa. Il
direttore dovrà essere in grado di discernere e assecondare nel discepolo, al di là delle lamentele per
lo stato di tensione in cui si trova, il sorgere dell'uomo nuovo, più libero di abbandonarsi a Colui
che solo é importante: Dio.
7
Mi pare utile ricordare qui quanto dice Cencini: «In primo luogo mi sembra indispensabile chiarire e ribadire il
rapporto tra identità personale e carisma religioso. Subito dopo il Concilio un po' tutti gli istituti si sono impegnati in
una salutare opera di riscoperta e approfondimento del carisma, ma non tutti gli istituti si sono preoccupati di chiarire e
spiegare ai loro membri quale fosse la funzione del carisma ai fini del senso d'identità della persona. Non basta - in altre
parole - approfondire i contenuti carismatici, bisogna anche evidenziare la funzionalità psicodinamica del carisma
stesso. Ossia, l'individuo dev'essere aiutato a riconoscere in esso il suo io ideale, ciò che è chiamato a essere, il mistero
del suo io "nascosto con Cristo in Dio", l'uomo nuovo. Permane invece ancora una concezione riduttiva del carisma,
come se esso fosse semplicemente un modo di fare apostolato o un evento mistico, un insieme di tradizioni storiche e di
pratiche ascetiche..., con conseguente senso di appartenenza generico-superficiale, quasi che appartenere a un istituto o
a un altro sia la stessa cosa... E così la mia identità e la mia realizzazione seguiranno altre piste, altri ideali stabiliti
soggettivamente, e senz'altro meno provocanti, molto più su misura d'uomo e molto meno su misura dell'appello che
viene da Dio che mi spinge continuamente a superarmi per essere me stesso, libero di realizzarmi» (in A. CENCINI, La
comunità religiosa apostolica oggi, Edizioni Presbyterium, Padova 1986, pp. 22-23).