Venezia e Venicity

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Venezia e Venicity
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Silvio Scanagatta
Venezia e Venicity
VenetoShire, Megacity
e Greencity di Terraferma
Prefazione di Francesco Jori
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Prefazione
Il volume è disponibile anche in rete.
Prima edizione: marzo 2014
ISBN 978 88 6787 191 9
“Coop. Libraria Editrice Università di Padova”
via G. Belzoni 118/3 – Padova (t. 049 8753496)
www.cleup.it
© 2014 Silvio Scanagatta
Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento,
totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese
le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.
Impaginazione e grafica di copertina: Patrizia Cecilian
Immagine di copertina: Leone Marciano situato nella Torre Civica di Valstagna
(per gentile concessione del Sindaco Angelo Moro)
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Indice
7 Prefazione
Francesco Jori
15 Introduzione
21 La questione veneta tra storia, ideologie e sviluppo
51 Costruzione di comunità locale e qualità della ricchezza
81 Competitività nella globalizzazione
1 11 La MegaCity possibile nella globalizzazione.
Il fenomeno Urban Sprawl
125 Agenda verde per una Green City che già esiste, il Veneto
131 Dalla Sprawl City alla MegaCittà
147 Guardando al futuro, punti di forza e debolezza
165 La possibilità di essere Green City
171 Bibliografia
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Francesco Jori
C’era una volta, ma non tanto tempo fa, in un paesino del Trevigiano, un’osteria
che si chiamava “Ai quattro cantoni”, perché si trovava al bordo di un incrocio
in piena campagna. La gestivano due anziani coniugi, che però facevano magri
affari: “Qua la zente la xé cussì poaréta, che ’i vien qua, ’i me ordina un quartin
de rosso, ma i se porta i bagigi da casa”, spiegava il titolare. Così un giorno
decisero di cedere l’attività ai figli, che diedero una bella rimodernata al locale
e lo ribattezzarono “Snack-bar All’Incrocio”. Non andò tanto bene neppure
a loro; perciò vendettero il locale a terzi, che a loro volta lo ristrutturarono
radicalmente, e sull’insegna scrissero “Corner’s Pub”. Di nuovo, fu un buco
nell’acqua: oggi, chi passa da quelle parti vede appese all’esterno le classiche
lanterne rosse cinesi.
Tutto questo è avvenuto nell’arco di una sola generazione, e serve a rendere conto del terremoto che ha sconvolto in tempi rapidissimi la geografia
umana e sociale del Veneto, e non soltanto: un autentico tsunami generazionale, etnico, di stili di vita, ha travolto il vecchio paesaggio che era
rimasto sostanzialmente immutato per secoli. Al punto che oggi, trovandosi
a fare una passeggiata nelle Dolomiti, perfino la tradizionale e tipica canzone Quel mazzolin di fiori che vien da la montagna rischia di dover essere
sostitui­ta da Quel mazzolin di fiori che viene da Taiwan: il quale, potrebbe
costare addirittura meno di quello autoctono; e per di più, essendo “finto
fresco”, ci esenterebbe perfino dal «bada ben che no’l se bagna». È uno dei
tanti effetti di quel fenomeno che abbiamo imparato a chiamare “globalizzazione”, e che ci ha messo tutti in rete capovolgendo il vecchio adagio: non
più «tutto il mondo è paese», ma «ogni paese è un mondo». Un processo
con molti punti positivi, ma anche con risvolti negativi: soprattutto quello
di omologarci, di appiattirci, di piallare le identità singole e collettive.
In questo frullatore planetario, il Veneto non ha scampo? È destinato a
subire la cancellazione di un’identità che viene da lontano, e che ha ruotato
soprattutto attorno a una vicenda millenaria come quella della Serenissima
Repubblica? La riflessione che Silvio Scanagatta propone in queste pagine
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non vede un simile scenario come ineluttabile. Al contrario: suggerisce la
possibilità dell’avvento di un Serenissimo Veneto del futuro. A condizione che riesca a recuperare dal suo passato le linee-guida che a suo tempo
l’hanno reso grande, e che lavori su di esse per attualizzarle e trasformarle
in nuove opportunità. Un’operazione di riciclaggio, si direbbe, condotta in
maniera intelligente: il che significa prima di tutto superare una serie di stereotipi e di contraddizioni che l’accompagnano da troppo tempo, e che ne
hanno limitato le possibilità di diventare protagonista per la sua sostanziale
incapacità di sedersi ai tavoli che contano, contrattando il proprio ruolo.
Qui si può cogliere un limite preciso che ha segnato soprattutto la stagione
di un Veneto auto-condannatosi a recitare semmai la parte dell’antagonista,
proponendosi a livello nazionale (ma anche più ampio) come il luogo della
separatezza, della contrapposizione, di una rivendicazione peraltro sterile
perché incapace di portare a casa il benché minimo risultato.
Dalla stagione degli ultimi veri leader nazionali tra gli anni Settanta e la
prima metà degli Ottanta (i Rumor e i Bisaglia, per capirsi), passando prima
per ciò che restava della Democrazia Cristiana e poi per le alterne fortune
del forzaleghismo, il Veneto è rimasto privo di una rappresentanza, non
solo politica, capace di garantirgli un ruolo nazionale. Si è auto-attribuito
il ruolo di primo della classe, e se l’è regolarmente presa perché questo
non gli veniva riconosciuto: anziché costruire alleanze esterne, si è ripiegato
in una rancorosa auto-promozione interna sfociata in ripetute minacce di
strappi mai davvero mantenute. Ed è rimasto costantemente assente dai posti che contavano a Roma: in politica, risultando marginale anche quando
nell’ultimo governo Berlusconi era arrivato ad avere tre ministri; ma anche
in economia, perdendo regolarmente le battaglie per scalare le posizioni
di vertice in Confindustria, o andando comunque ad occuparle senza riuscire ad incidere; nella Chiesa, dove pur contando sulla più elevata pratica
religiosa d’Italia i suoi vescovi sono stati ininfluenti nelle designazioni che
riguardavano il loro stesso territorio; nell’informazione, dove pur in presenza di un’articolazione diffusa di testate quotidiane, non è mai riuscito
ad avere una voce di peso a livello nazionale: con il risultato di non riuscire
mai a raccontarsi dal di dentro, e di venire raccontato invece da fuori quasi
sempre in chiave caricaturale.
C’è indubbiamente un concorso di cause che affondano nella storia remota, a determinare una simile situazione; e l’analisi di Scanagatta ne affronta alcune, specie legate al rapporto tra la Serenissima e la Terraferma, e
alla traumatica discontinuità che si è creata nel passaggio da quella che pur
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nella sua decadenza rimaneva una grande potenza mondiale come la Venezia dei dogi, al fragile e malconcio nuovo Stato italiano a impronta sabauda
e centralista, e con le pezze al culo, passando per i tumultuosi decenni della
breve stagione francese e di quella ben più lunga asburgica. Tra l’ingresso in
Italia e la fase del boom economico che ne avrebbe fatto un caso di scuola a
livello internazionale, dunque in poco più di un secolo, il Veneto è riuscito
a passare da “sud del nord”, come veniva definito per la sua abissale miseria, a locomotiva dello sviluppo. Non è semplice assorbire questi passaggi
nell’arco di poche generazioni, e in particolare passare dall’aratro a internet
in un paio di decenni: la crescita ha un costo, e i costi veneti si sono tradotti
soprattutto in una serie di contraddizioni e di squilibri, di cui Scanagatta
si occupa in modo analitico. Ma rifiutando la lettura negativa che ne viene
data in prevalenza, l’autore propone una suggestiva tesi capovolta: proprio
la straordinaria complessità del Veneto ne fa una realtà modernissima, in
grado di approdare alla natura di mega-città verde in cui il concetto di usare
i mezzi per vivere meglio prevalga su quello di servirsene per consumare
molto.
Certo, anche su questo piano il passaggio è tutt’altro che semplice, specie per la progressiva degenerazione, dovuta essenzialmente alla mancanza
di vera governance (parola così ostica in casa nostra da far sì che ne manchi
perfino l’equivalente in italiano...), che ha eroso gli aspetti positivi del tipico
policentrismo veneto, lasciando campo a un consumo dissennato e disordinato di territorio: al punto, per fare un esempio, che oggi nella regione ci
sono in media ben quattro aree tra industriali e artigianali per ciascuno dei
suoi 580 Comuni. «Una metropoli inconsapevole», è la suggestiva definizione cui ricorre Gigi Copiello nel suo Manifesto per la metropoli Nordest per
fotografare lo stato attuale della ormai ex locomotiva d’Italia. Una megacittà che non sa di esserlo, suggerisce Scanagatta. Verrebbe da usare, più
propriamente, il termine di sapore giudiziario “metropoli preterintenzionale”, considerando i guasti profondi arrecati al territorio (e alle relazioni
che in esso si sviluppano) da almeno tre decenni di espansione selvaggia
dell’edilizia industriale, commerciale e abitativa, che ha trasformato il tradizionale policentrismo di quest’area in un guazzabuglio informe e senza
soluzione di continuità, con le relative e micidiali ripercussioni sul sistema
della mobilità e sull’ambiente. In particolare, nei vent’anni tra il 1961 e il
1981, hanno cambiato destinazione d’uso più aree agricole di quanto non
fosse capitato nella storia dei due millenni precedenti. Così il policentrismo
si è fatto dispersione: dei 4 milioni e mezzo di persone che vivono oggi nei
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580 Comuni veneti, più della metà (2 milioni e mezzo) risiedono in 533 centri con meno di 15mila abitanti. Come uscirne? Come passare, per dirla con
Scanagatta, dal vecchio e deteriorato policentrismo alla moderna e funzionale mega-città? Come recuperare quella sostanziale continuità che corre
tra il Veneto che è stato e quello che sarà, e che il libro mette in luce, ricucendo il traumatico strappo tra Ottocento e prima metà del Novecento?
La risposta che viene da Scanagatta poggia sulla capacità di agganciarsi al treno del g-localismo, l’odierna sintesi tra globale e locale; che come ben spiega
l’autore, è possibile peraltro solo a condizione di mantenere anzi rafforzare la
propria identità. E qui si può proporre una sorta di gioco di ruolo: cosa sarebbe
successo se i fratelli Jakob e Wilhelm Grimm, anziché essere nati in Germania,
fossero stati figli dell’operoso Nordest? È probabile che, anziché dedicarsi a
una filologia che non dà pane e tanto meno companatico, sarebbero andati a
rimpolpare i già nutriti ranghi del “popolo delle partite Iva”, registrandosi regolarmente in Camera di Commercio. Così, tra il passante di Mestre e i budelli
d’asfalto della Pedemontana, nei convogli di mezzi di ogni genere si sarebbero mescolati anche i furgoni della ditta “Grimaldoni Giacomo & Memo f.lli
srl”, impegnati a trasportare i loro pregiati prodotti. Già, ma quali prodotti?
Continuiamo il gioco. L’uomo è figlio del territorio che lo ospita, ma anche
viceversa. Affidate ai fratelli Grimaldoni, le mitiche fiabe dei loro omologhi
tedeschi Grimm avrebbero necessariamente preso tutt’altro corso. Così Hansel
e Gretel, anziché gettare incoscientemente via dei preziosi sassolini, avrebbero
avviato una florida attività di scavo, raccolta e smistamento inerti, partendo da
un piccolo pugno di pietre per diventare leader nel campo dell’estrazione. E
Biancaneve, disponendo di una piccola ma efficiente squadra di sette aiutanti,
ancorché nani, avrebbe aperto, grazie anche a un finanziamento a tasso agevolato del Banco Popolare Principe Azzurro, una piccola impresa a conduzione
familiare, impegnata a produrre e commercializzare mele biologiche da contrapporre a quelle venefiche formato Ogm.
Il gioco finisce qui, anche perché richiama una realtà ben poco ludica.
Impegnati a discutere sulle trasformazioni del modello veneto (che peraltro,
come ben spiega Pietro Marzotto, non è mai esistito), sui percorsi per arrivarci, sulle equazioni per farlo quadrare, stiamo perdendo di vista l’aspet­
to più importante: a quali valori vogliamo ispirarlo, perché non sia solo
uno strumento per quanto efficiente ma abbia anche un’anima? Questo è il
punto. Il vecchio modello di cui stiamo cantando il salmo funebre mentre,
benché malandato, è ancora in vita, si distingueva proprio per questo: era
frutto di un sistema valoriale semplice ma solido, legato a doppio filo a
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una condizione diffusa di povertà, dove pochi ma chiari principi gestiti da
famiglie compatte e coese tracciavano rotte condivise e facevano da bussola
individuale e da collante sociale. In quel concetto, il lavoro aveva il ruolo
fondante descritto meglio di ogni altro da Luigi Meneghello: ispirato al
concetto inglese di “labour” anziché di “work”, quindi di creatività e libera
azione dell’individuo anziché di produzione di serie dettata dall’esterno,
garantiva al tempo stesso fonte di sostentamento e di identità sociale. E
contribuiva, prima lentamente poi sempre più impetuosamente, a costruire
e diffondere benessere.
Se questo è il quadro, sforziamoci (o rassegnamoci) una volta per tutte
di rinunciare al coccodrillesco esercizio di piangere sulla nostra pancia piena, e cestiniamo l’illusione di potere in qualche modo ricostruire il passato.
Non quel modello, ma le sue premesse, sono finite per sempre: e non tanto
per l’usura delle sue materie prime (territorio, manodopera, sistemi di produzione) di cui denunciamo ogni giorno le condizioni, ma per la consunzione dei valori che lo ispiravano. Perché la pancia piena trasforma la solidarietà, bene che vada, in elemosina, quando non degenera nell’egoismo.
Perché la Chiesa oggi non riesce neanche più a dettare i parametri della
fede, figuriamoci dell’etica o della politica. Perché la famiglia, demograficamente ma soprattutto morfologicamente, è tutt’altra realtà rispetto a quella
di un tempo. Perché, soprattutto, la società di oggi non si è limitata a seppellire il passato: incautamente quanto autolesionisticamente, ha rimosso il
futuro. E se non c’è prospettiva, non può esserci neppure la spinta. Ecco.
Se un valore di riferimento c’è da proporre per il Veneto in cerca di nuove
strade e di una sua moderna identità, questo sta proprio nella parola, nel
concetto, nel significato di futuro. Significa darsi un obiettivo che sia qualcosa di più e di diverso rispetto a un budget aziendale o ai decimali di Pil
da raggiungere a fine anno; significa impegnarsi in attività che arricchiscano
anche e soprattutto la relazione, non solo il portafoglio; significa capire che
il percorso conta quanto e più del traguardo. Significa metabolizzare che la
sconfitta aiuta a crescere molto più del successo.
Solo così i moderni fratelli Grimaldoni del Veneto potranno trasportare
e piazzare sul mercato nuove fiabe che siano espressione della vita vera, non
di quella artificiale mediatica. Altrimenti, un po’ alla volta finiranno per
perdere il loro “core business”: Biancaneve. E per ritrovarsi con quel che
resta: nani, tanti nani. Settanta volte sette nani.
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