Raccolta completa degli scritti di Cristoforo Colombo Dalle Lettere

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Raccolta completa degli scritti di Cristoforo Colombo Dalle Lettere
Testi su Scoperte geografiche Raccolta completa degli scritti di Cristoforo Colombo Dalle Lettere (trascritte da Bartolomé de las Casas) Venerdì 12 ottobre Approdai ad una piccola isola, detta nella lingua degli Indiani Guanahani. Tosto vedemmo gente affatto nuda. Scesi a terra […] Io presi in mano lo stendardo reale, e i due capitani [che lo accompagnavano] le bandiere della Croce Verde, che faccio alzare in ogni nave per segnale, sulel quali trovasi una F. ed una I sormontatid a un corona, ed in mezzo la croce. […] E loro dissi: fate fede e testimonianza, siccome in presenza di tutti voi piglio, come di fatto presi, possesso di quest’isola in nome del re e della regina miei padroni, e feci le proteste dovute […] Onde conciliarci l’amicizia loro, e perché m’avvidi essere tal gente che meglio con dolci maniere e colla persuasione che per la violenza alla fede nostra si convertirebbero, diedi ad alcuni di loro de’ berretti di colore e perle di vetro, che si appendevano al collo, e altre siffatte cosuccie, che loro tornarono sommamente gradite, e a noi li strinsero d’una maravigliosa amicizia. […] In una parola pigliavano quanto si offriva loro, e assai volentieri donavano quanto si avessero […]. Sabato 13 ottobre […] Portarono gomitoli di cotone filato, pappagalli, zagaglie ed altre coserelle, che recherebbe fastidio noverare per minuto, e tutto donavano per ogni bagatella data lor in iscambio. Attento li esaminai e vidi di scoprire se possedessero oro. Scorsi alcuni di essi portarne un picciolo pezzo appiccato tra’ fori del naso e venni ad apprendere […] siccome volgendo intorno all’isola […] troverei una terra il cui re possiede grandi vasi d’oro e quantità di siffatto metallo. Bernal Díaz del Castillo Historia verdadera de la conquista de la Nueva España (Storia veritiera...) in A.Albònico – G. Bellini (eds.), Nuovo Mondo. Gli spagnoli, Torino, Einaudi, 1992, pp. 137-­‐
141) Come giungemmo nella grande piazza, chiamata Tatelulco, siccome non avevamo mai visto nulla di simile, rimanemmo stupefatti nel vedere la massa di gente e di mercanzie che c’erano e del grande ordine che regnava dappertutto. E i notabili che ci scortavano via via di indicavano il tutto:ogni tipo di mercanzia era separata dalle altre ed erano indicati i posti prestabiliti. Cominciamo con i mercanti d’oro, argento, pietre preziose, piume, indumenti e oggetti lavorati e schiave e schiavi da vendere. E ce n’erano tanti in quella grande piazza come quanto i portoghesi portano a vendere i negri della Guinea e li tenevano legati a lunghe sbarre con un collare al collo in modo che non potessero fuggire. Poi c’erano mercanti che vendevano indumenti più correnti, e cotone e altre cose di filo ritorto e venditori di cacao e in questo modo era in mostra ogni genere di merci che si trovava nella Nuova Spagna, messe in bell’ordine come si fa nella mia terra che è Medina del CAmpo [...] Ci recammo dunque al grande CU (tempio); mentre ci avviavamo verso i grandi cortili e prima di uscire dalla piazza, notammo molti altri mercanti che, a quanto dicevano, erano quelli che andavano a vendre l’oro in grani [...]. Lasciammo così la grande piazza senza soffermarci oltre a guardarla e giungemmo ai grandi cortili e recinti in cui si trova il gran cu. Prima di giungere a esso c’era una serie concentrica di cortili che, a mio parere, erano più grandi della piazza che si trova a Salamanca, e con due recinzioni intorno fatte di muri di pietra e lo stesso cortile era tutto lastricato con grandi pietre bianche e molto lisce e dove non c’erano pietre era coperto di calce e lucidato e tutto [era] talmente publito che non si sarebbe potuto trovare una pagliuzza o un granello di polvere. E come arrivammo dinanzi al grande Cu, prima ancora che mettessimo piede su un solo gradino, il grande Montezuma, dalla cima in cui stava facendo sacrifici, ci mandò incontro sei sacerdoti e due nobili, affinchè accompagnassero il nostro capitano Cortés, [ma lui volle salire da solo i 114 scalini]... Quindi raggiungemmo la cima del gran cu, che era una piazzola dove c’era uno spazio come per una tribuna, e su di esso erano collocate delle grandi pietre, dove mettevano i poveri Indi per sacrificarli. Lì c’era una grande statua simile a un drago, e altre brutte statue e molto sangue sparso quel giorno stesso. ... Poi [Montezuma] lo prese per mano [Cortés] e gli disse di guardare la sua grande città e tutte le altre città che c’erano dentro la laguna e molti altri paesi sparsi intorno alla laguna sulla terraferma, e che, se non aveva visto bene la sua grande piazza, da lì psopra la poteva vedere meglio. E così rimanemmo a guardare, poiché quel grande e maledetto tempio era talmente alto che dominava tutto....” Michel de Montaigne Saggi Prima ed. 1580 Capitolo XXXI, Dei cannibali […] Ho avuto a lungo presso di me un uomo che aveva vissuto dieci o didici anni in quell’altro mondo che è stato scoperto nel nostro secolo […] Questa scoperta di un paese infinito sembra sia di molta importanza. Non so se posso affermare che non se ne farà in avvenite qualche altra, tanti essendo i personaggi più grandi di noi che si sono ingannati a proposito di questa. Ho paura che abbiamo […] più curiosità che capacità. Abbracciamo tutto, ma non stringiamo che vento. […]. Quell’uomo che era con me era un uomo semplice e rozzo, condizione adatta a rendere una testimonianza veritiera; poiché le persone d’ingegno fino osservano, sì, con molta maggior cura, e più cose, ma le commentano; e per far valere la loro interpretazione e persuaderne altri, non possono trattenersi dall’alterare un po’ la storia; non vi raccontano mai le cose come sono, le modificano e le mascherano secondo l’aspetto che ne hanno veduto; e per dar credito alla loro opinione e convincercene, aggiungono volentieri qualcosa in tal senso alla materia originale, l’allungano e la ampliano. Ci vuole un uomo o molto veritiero o tanto semplice da non avere di che costruire false invenzioni e dar loro verosimiglianza, e che non vi abbia alcun interesse. Così era il mio; e, oltre a questo, mi ha mostrato in diverse occasioni parecchi marinai e mercanti che aveva conosciuto in quel viaggio. Mi accontento, quindi, di queste informazioni, senza occuparmi di quel che ne dicono i cosmografi. […] Ora mi sembra, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religoine, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo; laddove, in vernità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. […] Essi fanno la guerra contro i popoli chesono al di lù delle loro montagne, più addentro nella terraferma, e vanno in guerra tutti nudi, senza altre armi che arhi o spade di legno, appuntite da un capo, come le punte dei nostri spiedi. Straordinaria è la loro tenaca nei combattimenti, che non finiscono altro che con strage e spargimento di sangue; poiché fughe e panico non sanno che siano. Ognuno riporta come proprio trofeo la testa del nemico che ha ucciso, e l’appende all’ingresso della propria casa. Per molto tempo trattano bene i loro prigionieri, e con tutte le comodità che possono immaginare, poi quello che ne è il capo riunisce in una grande assemblea i suoi conoscenti; attacca una corda a un braccio del prigioniero e lo tiene per un capo si essa, lontano di qualche passo per paura di esserne colpito, e dà da tenere alla stessa maniera l’altro braccio al suo più caro amico; e tutti e due, alla presenza di tutta l’assemblea, l’ammazzano a colpi di spada. Fatto ciò, lo arrostiscono e lo mangiano tutti insieme, e ne mandano dei pezzi ai loro amici assenti. Non lo fanno, come si puù pensare, per nutrirsene […], ma per esprimere una suprema vendetta. […] Non mi rammarico che noi rileviamo il barbarico orrore che c’è in tale modo di fare, ma piuttosto del fatto che, pur giudicando le loro colpe, siamo tanto ciechi riguardo alle nostro. Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martìri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa), che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto. […]